Passo del Santa Donna Commemorazione Eccidio del 06-01-1945
Tratto da Obiettivo Libertà di Massimo Lodi

Volontari della Libertà 10 Febbraio 1945
1ˆBrigata Julia OGGETTO: Relazione sul fatto d’armi del giorno 6 gennaio 1945.
COMUNIICATO N. 15
Il 6 Gennaio 1945 – ore 11 –
Il Distaccamento <<Piscina >> è messo in allarme dall’inizio di una forte sparatoria, proveniente dalla direzione di Porcigatone-Casembola.
Dato l’allarme dei giorni precedenti in conseguenza di movimenti nella Valle del Taro, di truppe tedesche, il Comandante del Distaccamento, supponendo l’attacco il Distacccamento «Dallara» si portava con 40 patrioti verso il Passo del S. Donna.
Durante la marcia di avvicinamento al Passo, si univa ai nostri 10 patrioti della Brigata Beretta— ed altri 20-della Brigata Val Ceno.
Causa la nebbia ed il nevischio non si poteva discernere chiaramente il Passo verso il quale eravamo diretti; procedeva il Distaccamento una nostra pattuglia composta ai sette uomini Comandati dallo stesso Vice Comandante.
Ore 14.-
Prima di raggiungere il Passo, la pattuglia nostra veniva attaccata di sorpresa, il Vice Comandante immediatamente ordinava seccamente di piassare i mitragliatori e di reagire al nemico.
Causa il cattivo e quasi nullo funzionamento delle armi, dovuto al freddo intenso, non si poté reagire adeguatamente all’inaspettato attacco. Purtroppo la sorpresa ed il cattivo funzionamento delle nostre armi (in particolare quelle automatiche) provocarono nel reparto un certo sbanda¬mento che si tramutò in un vero sganciamento per sottrarsi all’intenso fuoco nemico che faceva supporre in forze preponderanti.
Perdite nostre: 6 morti – 2 dispersi
Perdite nemiche: non sono state potute accertare. La colonna nemica, composta da truppe Alpine ed appoggiata da pattuglioni sciatori, era forte di 500 uomini circa.
IL COMMISSARIO IL COMANDANTE
LINO LIBERO
Il 6 Gennaio sul S. Donna

Tratto dal libro L’alta Val Taro nella Resistenza Giacomo Vietti
Nonostante questo avvertimento, il 6 gennaio, un’altra tragedia si abbatte sulla I° Brigata Julia, avvenimento che lascerà uno strascico profondo e causerà lacerazioni all’interno del movimento resistente Borgotarese. È il grande rastrellamento che coinvolge tutta la zona ovest della Provincia a cui partecipa una grossa colonna di alpini della Monterosa, valutati in 500 uomini, perfettamente equipaggiati per i combattimenti invernali., con tute mimetiche dotate di pattuglie di sciatori. Le dislocazioni dei distaccamenti della I° Brigata Julia sono: a San Pietro lo Zanrè, a Caffaraccia sede del comando di Brigata l’Antolini, il Dallara a Casembola ed il Piscina a Tocaleto di Porcigatone.
Già da alcuni giorni i partigiani aspettavano l’attacco.
Prima di tutto la guarnigione tedesca di stanza a Borgotaro era stata cambiata; anzi sembra che il maggiore austriaco, comandante della piazza fosse stato fucilato sotto l’accusa di connivenza coi partigiani.
D’altro lato indicazioni erano giunte anche tramite l’interprete presso il comando tedesco Bozzia Antonio << Il Tirolo >>che aveva potuto notare una insolita animazione tra gli ufficiali. Ma la notizia precisa dell’arrivo del grosso contingente era pervenuta la sera prima al Capo della Polizia partigiana di Borgotaro Jack, il quale dal segretario comunale aveva avuto l’informazione che un grosso quantitativo di paglia era stato inviato dentro la galleria del Borgallo dove stazionavano le truppe nemiche in attesa dell’attacco. La sera del 5, le pattuglie della guarnigione di Borgotaro perlustravano il paese e le campagna circostante. Una di esse sale verso Brunelli, poi passando il torrente Varacola, si spinge fino a Monticelli da dove scende in paese passando per la Ghina.
A Pradella viene uccisa una donna, Mantegari Anna, sorpresa dal coprifuoco mentre stava affrettandosi a tornare a casa. Dalla riva sinistra del Taro viene scorta dai tedeschi: una precisa fucilata la colpisce mortalmente. Alla sera del 5, le colonne nemiche si attestano a Monticelli nella Valle del Varacola ed alla Costella nella Val Vona. Queste notizie e questi movimenti fanno prevedere un imminente attacco nemico, ma a causa di disfunzioni e fraintendimenti nei collegamenti non tutti i distaccamenti sono avvisati del pericolo. La notte un’abbondante nevicata ricopre la vallata ed il mattino seguente le grosse colonne salgono la montagna dirigendosi verso Porcigatone, Caffaraccia e Casembola.
L’obbiettivo degli alpini è di sorprendere il comando di Brigata che sanno localizzato a Caffaraccia, mentre le altre colonne servono ad intercettare eventuali rinforzi partigiani o a bloccare lo sganciamento.
Scrive Dragotte nella sua relazione:
<< Al comando di Brigata si trova in quel momento il Vice Comandante Erok, io ero a Casembola al distaccamento di Gomel per un giro d’ ispezione. Tranquillo, ad un certo momento me ne vengo via accompagnato dal porta ordini di brigata e mi dirigo verso Brunelli. Mentre noi scendiamo, a duecento metri in linea d’aria sulla vecchia strada che porta a Porcigatone, una colonna tedesca sta salendo: la fitta nebbia mi nasconde questo movimento >>. I distaccamenti Antolini a Caffaraccia e Zanrè a San Pietro vengono investiti alle 11 del mattino del 6 gennaio. Il vice comandante di Brigata Erok, in assenza di Dragotte assume il comando e dà ordine di prendere posizione di difesa coinvolgendo anche un distaccamento di garibaldini della Val Ceno che si trovavano a << Cà Grilla >>.
Il combattimento infuria per tutto il giorno; al bivio della strada di Isola di Coriago per impedire una manovra di accerchiamento proveniente da San Pietro, alla << Barbuja >> dove si respingono gli alpini che dal Passo tentano di risalire attraverso il canalone ed aggirare il paese, lungo la strada che dalla Val Vona sale a Caffaraccia che viene incessantemente battuta dalle mitraglie e dai mortai nemici. I partigiani hanno un morto, Moroni Alessandreo <<Farinacci >> ed un ferito. Zazzi Antonio. Un altro partigiani è prigioniero. Alla sera la posizione non è più difendibile; lentamente gli alpini stringono il cerchio attorno al villaggio e alle 18 viene dato l’ordine di ritirata. Ordinatamente, passando per i sentieri dello spartiacque, i partigiani si portano a Brunelli che raggiungono di notte e quindi piccoli gruppi s’occultano. La situazione dopo il combattimento di Caffaraccia è descritto da Gino Delmaestro: << Durante la notte ci spostammo verso Brunelli dove abbiamo nascosto le armi. Quattro di noi pernottarono alla << Barzana>>. Il mattino del 7 gennaio io, Tartan, Cavallerizzo e Angiolo, ci mettemmo in marcia per raggiungere le nostre case. Appena attraversato il fiume Varacola, nella località << Vignole >> vedemmo un’altra colonna tedesca che proseguiva per Porcigatone. Ci fischiano, noi ed avevano le armi puntate su di noi.
Eravamo a 150 metri, avevamo una sola rivoltella e non potevamo certo difenderci,così abbiamo proseguito sotto i loro spari. Di intralcio c’era la neve che ci impediva di camminare. Nonostante tutto siamo riusciti a metterci in salvo. Passammo per Monticelli ed avvertiamo tutte le famiglie di cosa stava succedendo. Dopo ore di marcia arrivammo al << Laghetto >> dove passammo la giornata. Non appena fece buio, di nuovo in marcia e con l’aiuto della famiglia della << Chiusa >> che ci indicavano dove stavano i tedeschi, abbiamo attraversato il fiume Taro nelle vicinanze di Borgotaro, arrivando così alle nostre case verso mezzanotte.
Restammo 6 giorni con i nostri genitori >>. Il distaccamento Dall’ara è a Casembola. Alla sera prima aveva avuto un’ispezione del Comandante di brigata quindi Gomel, come al solito aveva mandato pattuglie in ispezione. Alla mattina una colonna di alpini passa silenziosa per il villaggio percorrendo, senza fermarsi il sentiero principale e dirigendosi verso Caffaraccia. I partigiani, senza essere visti, riescono a risalire la costa ed a dirigersi verso il Ceredasco dove vengono sorpresi da una pattuglia di sciatori tedeschi. La reazione dei partigiani è inadeguata: il gelo a messo fuori uso le armi, tuttavia il distaccamento riesce, a sfuggire scendendo verso Osacca e rifugiandosi a Bardi dove viene avvertito il Comando Unico. L’unico ferito è il partigiano Pisa il quale, scendendo lungo il Noveglia scivola su un masso e si frattura una gamba. Nascosto in un canalone, aspetterà la notte, quindi reagisce al gelo e strisciando come un animale ferito riesce a raggiungere Casembola dove verrà nascosto da una famiglia di contadini. La terza colonna, arriva a Porcigatone, si era fermata presso l’osteria, i soldati si erano scaldati, avevano verificato le armi e quindi, passando per la strada del cimitero, erano saliti per prendere posizione sul passo del Santa Donna col compito di intercettare eventuali spostamenti dei partigiani.
Il distaccamento Piscina è a Tocaleto. Avendo sentito confusamente, in mezzo alla nebbia, gli spari prevenire da valle, e credendo che l’attacco fosse a Casembola, all’oscuro di informazioni, verso le 14, accorre per portare aiuto ai compagni poco prima che una staffetta inviata a Borgotaro porti informazioni sulla reale situazione. Precede la formazione di circa sessanta uomini, comprendente anche una ventina di partigiani della beretta, una pattuglia di una decina di uomini al comando di Gherry. Si trovava da pochi giorni a Tocaleto dove era stato inviato dal distaccamento Dallara per rafforzare il comando del Piscina. Era stato il primo ad uscire dal rifugio con l’intenzione di accorrere in aiuto del suo vecchio distaccamento trascinando con il suo esempio l’intero gruppo di partigiani. Il freddo è intenso, il monte coperto da una fitta nebbia, ed i partigiani avanzavano a fatica aprendosi un sentiero nell’alta neve, puntando verso il passo per poi discendere su Casembola.
Sul passo delle ombre filtrano attraverso la fitta nebbia, si fanno segnalazioni pensando si tratti di un gruppo di partigiani. Improvvisamente la pattuglia di alpini, appostati apre il fuoco. I partigiani tentano inutilmente di reagire, il gelo ha inceppato le armi. Le scariche falciano sette uomini della pattuglia avanzata e per la restante parte della formazione non rimane che la fuga lungo il canalone della Val Noveglia. I partigiani sbandati, dispersi in piccoli gruppi, con una marcia di parecchie ore, riescono a salvarsi mentre sulla neve rimangono i corpi di Castagnoli Nino << Michele >>, Ferrai Gaspare <Gaspà >>, Ferrai Guido << Guido >> Quotasti Gino << Manza >>, Tedaldi Armando << Bubba >>, Terroni Domenico << Gherry >> e Catinella Vittorio << Ratà >>.
Sono tutti Borgotaresi ad eccezione di Ratà, un seminarista napoletano che deportato in Germania, dopo l’8 settembre ed arruolatosi nella Monterosa, era arrivato in Italia nell’agosto del’44, aveva disertato e si era unito ai partigiani. La pattuglia nemica scende su luogo dove giacciono i corpi: alcuni sono morti, altri, feriti, vengono finiti con il calci dei fucili; i corpi verranno trovato alcuni gironi dopo dai contadini del luogo: portano i segni della violenza fascista. Il corpo di Gherry verrà trovato dopo qualche settimana sepolto sotto uno spesso strato di neve ammucchiata dalla tormenta. Pure feriti nello scontro Catozzi Umberto e Ruggeri Maurizio; aiutati dai compagni riescono a salvarsi. Quest’ultimo, portato sulle spalle di un robusto partigiano, viene lasciato in custodia presso una famiglia di contadini; nel corso del rastrellamento verrà sorpreso da una pattuglia tedesca ed arrestato. Curato in un ospedale militare, riuscirà successivamente a fuggire ed a raggiungere i suoi compagni. Anche il gruppo di partigiani di guardia ai prigionieri riesce a sfuggire al rastrellamento.
All’arrivo degli alpini a Porcigatone, il gruppo di stanza a Cà di Gandi, riesce a trasferirsi con i prigionieri a Ronco Desiderio nel comune di Compiano quindi incalzato dai rastrellatori, si sposta a Strela, quindi successivamente a Caboara, Sidolo, Drugara. Alla fine del rastrellamento dopo 6 giorni di continue marcie, ritorna a Tocaleto con un solo prigioniero perso: un alpino della Monterosa, che ormai si era affiatato coi partigiani e che durante i continui trasferimenti faceva servizio d’ispezione. Catturato dai tedeschi, era stato fucilato. Anche i distaccamento Gardelli di stanza a Pessola viene nuovamente investito dal rastrellamento del 6 gennaio. Avvistati da una staffetta che una grossa colonna di Bersaglieri della << Divisione Italia >> era partita da Solignano e si stava avvicinando, i partigiani si rifugiano alle pendici del Monte Dosso al riparo di una casa posta in posizione dominante.
Al pomeriggio del giorno 7, la colonna nazifascista attacca è costretta a retrocedere dopo aver lasciato sul terreno tre morti per la reazione dei partigiani. Rifugiatasi nell’abitato i Bersaglieri lanciano razzi luminosi chiedendo rinforzi. Ma alla notte i partigiani si eclissano.Il grosso del distaccamento riesce a passare nella Valle del Ceno ed a sfuggire al rastrellamento ma un gruppo,sbandatosi ed occultandosi nei cascinali di Ronco di Prelerna, Bottone, Bojo, viene scoperto e fatto prigioniero. I partigiani sono condotti a Fornovo insieme agli ostaggi civili rastrellati.
Dopo qualche tempo gli ostaggi verranno rilasciati, mentre i partigiani saranno inviati al campo di Mathausen e tredici di loro finiranno nelle camere a gas dei nazisti: Ferrari Ferruccio << Resistere >, Mussi Mario << Gemona >>, Malcotti Mario << Salto >>, Frigeri Eugenio << Tartan >>, Cabassa Bartolomeo << Alberto >>, Fochi Giuseppe << Lupo >>, Agnetti Antonio << Guido >>, Coprini Albino << Bino >>, Bertoncini Adelmo << Picco >>, Lusardi Luigi << Antonio >>, Borratti Giudo, Malcotti Artemio << Spiga >>, Ronco Eugenio << Savona >>. Grassi Oreste << Sillà >> verrà fucilato a Vigatto il 20 gennaio per rappresaglia contro un’azione dei partigiani.
Tutti i paesi e le frazioni investite dal rastrellamento verranno occupate dai tedeschi, che controlleranno per alcuni giorni tutte le case, e le cascine, alla caccia di qualche partigiano sbandato o ferito. A Caffaraccia viene uccisa una ragazza, Ruggeri Angela, mentre, mentre stava portando i viveri ai partigiani nascosti. I tedeschi avevano già notato i movimenti della donna ed il pomeriggio dell’8 gennaio la colpiscono mortalmente sparandole dal campanile della Chiesa dove si erano messi in osservazione La tragedia del Santa Donna ha largo eco tra la popolazione Borgotarese e coinvolge anche il comando della I Brigata Julia. Dragotte e Giorgione vengono sottoposti ad una rude inquisizione da parte dei comandanti dei distaccamenti che li accusano di non essere stati presenti, al loro posto di comando, al momento dell’attacco tedesco del 6 gennaio e di non aver organizzato un efficace servizio di informazioni a tutti i distaccamenti all’approssimarsi della grossa formazione nemica.
Per questi motivi vengono destituiti ed al loro posto vengono eletti Libero come Comandante e Benci Giovanni << Lino >> come Commissario. Mentre Giorgione accetterà l’incarico presso il Comando Unico. Dragotte reagirà con energia dando vita ad una nuova formazione partigiana: Il << Gruppo d’Azione Val Taro >> costituito da circa 150 partigiani, tutti comunisti con Jack quale Commissario Politico. La scissione della I Brigata Julia, conseguente ad una crisi militare, così come altre scissioni, è anche motivata da contrasti politici, tra democristiani e comunisti. Dragotte, infatti, già comandante del gruppo Penna, figura tra le più rappresentative della Resistenza Borgotarese,ed uno dei protagonisti dei combattimenti partigiani della nostra zona, veniva travolto da un infortunio, che, anche se carico di tragiche conseguenze, non poteva certo oscurare i suoi meriti di combattente.
Resta il fatto che durante tutto l’inverno a seguito degli accordi coi tedeschi, ma anche per la stanchezza di questa guerra che sembrava non dovesse mai finire, si era stabilito un clima di rilassatezza, che aveva fatto allentare la vigilanza e trascurare le possibilità del pericolo, e di questa situazione non era il solo Dragotte ad essere responsabile, ma più o meno tutti i capi partigiani della Val Taro. A questa situazione andava scritta la vera causa della tragedia anche se nell’imminenza del pericolo si erano verificate delle disfunzioni nei collegamenti e nei servizi di informazione di cui certamente i comandanti erano direttamente responsabili.
Ma questo si deve aggiungere anche il fatto che Dragotte, partito da posizioni monarchiche e Badogliani, si era gradualmente avvicinato a posizioni comuniste e questo certamente cambiava il quadro difficile di equilibri politici che volevano nella Val Taro una preminenza di formazioni non comuniste. Ed in effetti anche la costituzione della nuova formazione, il << Gruppo d’Azione della Val Taro >>, fortemente caratterizzata dai partigiani comunisti Borgotaresi, fedeli a Dragotte, era stato il motivo di contrasti al vertice del Comando Unico dove Pellizzari, nell’acconsentire al riconoscimento del nuovo gruppo , aveva imposto un limite massimo di 100 effettivi in modo che la formazione non potesse assumere il rango di Brigata.
Si ha insomma nella vicenda la manifestazione di problemi militari e locali acutizzati da contrasti politici, che riguardavano l’immediato ma che interessavano in prospettiva la geografia politica del dopo guerra. All’esigenza fondamentale di salvaguardare l’unità al vertice del movimento, necessario a condurre la lotta antifascista con la massima efficacia si soprapponevano tacite intese di spartizione territoriale in zone di influenza.
Tratto dal libro L’alta Val Taro nella Resistenza Giacomo Vietti
OSACCA – Battaglia di . . . . . . . . . . . (25 dicembre 1943)

Dalla « voce» OSACCA, redatta, per l’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, dal Seno Ing. Giacomo Ferrari (Arta, Comandante Unico delle formazioni partigiane della provincia di Parma), che si è valso, per la stesura della « voce », della collaborazione della popolazione della località e di alcuni casalaschi superstiti dello scontro.
Frazione di Gravago, in comune di Bardi (Parma), posta nell’estremo lembo della VaI Noveglia (trasversale del!’ alta VaI Ceno), presso lo spartiacque con la Valle del Taro, abitata, nel 1943, da una ventina di famiglie.
Qui un primissimo gruppo partigiano e la popolazione, congiuntamente, sono stati protagonisti della prima battaglia della Resistenza in provincia di Parma. Battaglia quasi incredibile, in rapporto all’ epoca così iniziale della Resistenza e alle circostanze, suscitatrice di stimolo politico e di lotta sulla intera popolazione del parmense; esemplare nei protagonisti, nelle premesse, nello svolgimento, nella conclusione, nelle conseguenze.
Protagonisti: Giovanni Favagrossa e Sergio Vida di Casalmaggiore (Cremona); Bertoli Alceste, inviato con incarichi organizzativi da Parma; montanari del luogo o già appartenenti a nuclei partigiani o spontaneamente armatisi e partecipi al combattimento (come Bergazzi Albino, Cristina Benia¬mino, Cristina Giovanni, Colombani Giuseppe, Fulgoni Antonio, Mortali Giovanni, Mortali Italo, Ralli Luigi, Zazzera Domenico); militari sbandati sardi e meridionali tra i quali Casula Luigi, Frigau Isidoro, Sau Luigi.
Quali le premesse di quel Natale di fuoco? Non vi era ancora una organizzazione partigiana maturata nell’esperienza come vi sarà mesi dopo; vi era e funzionava un meccanismo in grado di combattere, meraviglioso frutto dell’incontro fra lo spirito antifascista esistente nella popolazione con la sua iniziativa da un lato e l’organizzazione politica e militare clandestina dall’altro. In VaI Noveglia vi erano fissati punti di appoggio e di rifornimento come « casa Fulgoni » in località Noveglia, « casa Sbuttoni » in località Copelli, « casa Sidoli » in località Boé, nonché distribuite armi con munizioni, inviate da Parma, tramite Sidoli Giovanni (Boé) . . .
Non sembri strano se, per inquadrare convenientemente lo scontro di Osacca, mi sono servito, come in una specie di collage, della parte introduttiva di testimonianze scritte o narrazioni dell’episodio fatte da altri. Il fatto è che mi è subito parso evidente come da questi scritti risaltassero, efficacemente descritte e delineate, quelle che furono le componenti fondamentali e primarie di quel fenomeno composito e esaltante che fu il movimento partigiano; e ne furono poi il tessuto permanente: il lavoro organizzativo e la spinta ideale dell’antifascismo militante; lo slancio spontaneo dei giovani desiderosi di libertà e giustizia sociale; il rifiuto, da parte dei soldati, d’una guerra non loro e d’un alleato che s’era sempre comportato da sprezzante padrone; il desiderio di pace delle popolazioni, al quale, per quelle neglette della montagna, s’univa l’aspirazione d’uscire dalla dimenticanza e dall’immobilismo in cui per secoli erano state lasciate.
Il combattimento di Osacca e i suoi protagonisti, quindi, non solo come momento epico della Resistenza, ma soprattutto come momento emblematico di questa grande pagina della nostra storia.
La mattina del 25 dicembre 1943 la popolazione di Osacca e i partigiani si apprestavano a celebrare insieme, in decoro e povertà, il Santo Natale; quand’ecco giungere trafelata, da un gruppo di case più in basso, una donna che reca, sgomenta, la notizia: «Da Noveglia stanno salendo dei fascisti armati, sono molti, un centinaio e forse più ». «Che fare? ». La decisione in quel momento non è solo dei partigiani, ma di tutto il paese che ne resterà fatalmente coinvolto. C’è, se si vuole, tutto il tempo per allontanarsi fra i boschi e far perdere le proprie tracce, ma troppo vivo è in tutti il desiderio di dare una lezione a chi si è sempre mosso in nome della violenza e della tracotanza; i partigiani sono pronti e decisi, gli uomini di Osacca chiedono che siano date loro delle armi, daran man forte ai patrioti; le donne assentono e s’apprestano a dare, anch’esse, la loro collaborazione: segnaleranno agli uomini appostati l’arrivo e l’ubicazione del nemico.
Il contingente fascista, forte di 150 militi dell’80a Legione di stanza a Parma, era giunto, a bordo di tre corriere, alle prime luci dell’alba a Noveglia di Bardi; gli faceva da guida un giovane, una spia, che alcun tempo prima si era infiltrato fra le file dei partigiani e, dopo una breve permanenza fra loro, si era improvvisamente eclissato.
Come prima operazione i fascisti circondano il paese e arrestano alcuni civili segnalati come collaboratori dei partigiani, poi si dirigono verso Osacca dove contano di sorprendere e catturare l’intero distaccamento. Nella loro marcia d’avvicinamento circondano un altro piccolo gruppo di case, Roncazzuolo, e vi fanno altri prigionieri. Alle nove e mezza circa arrivano a Case Vecchie, il più basso dei gruppi di case che compongono il villaggio di Osacca; qui si attestano e da qui si muovono per tentare l’accerchiamento dei due agglomerati posti più in alto: «Costa» e « Pesche », dove sanno trovarsi i « ribelli ». Ma ogni loro mossa è ormai sotto il controllo dei difensori, a nulla valgono la superiorità di numero e d’armamento; partigiani e popolazione, il binomio su cui si fonderà tutta la Lotta di Liberazione, sino alla vittoriosa insurrezione finale, sono all’erta e ben appostati. Non appena i fascisti vengono allo scoperto sono accolti da una nutrita salva di colpi; un loro tentativo di aggirare dall’alto le posizioni dei patrioti è prontamente prevenuto e stroncato sul nascere dal gruppo guidato dai giovani casalaschi, che, tempestivamente spostatosi, attacca alle spalle il settore di sinistra del nemico e ne determina la rotta. La precipitosa fuga di questo nucleo di militi provoca ben presto lo sfaldamento di tutto lo schieramento fascista che, dopo due ore di combattimento, si ritrova pesto e scornato a « Case Vecchie ». Due camicie nere sono gravemente ferite (tanto che dovranno essere portate a valle su una slitta trainata da buoi) numerose altre hanno ferite di minor entità, mancano loro una mitragliatrice e diverse armi individuali abbandonate nella fuga. Fatto questo lusinghiero bilancio, il comandante decide di ordinare il rientro.
A Noveglia, prima di risalire sulle corriere, alla gente che li guarda non certo con ammirazione o paura, i militi diranno che, contrariamente al previsto, si erano trovati di fronte ad una formazione di ribelli numerosa e ben armata, ma che sarebbero tornati con forze maggiori per prendersi la rivincita.
La sera stessa i partigiani, per evitare possibili rappresaglie, d’accordo anche con la popolazione, che ormai partecipa alle loro decisioni, abbandonano Osacca. Questo, sino ad allora oscuro, villaggio non finirà, però, qui di dare il suo contributo alla guerra partigiana; ospiterà infatti il comando della 12a Brigata Garibaldi prima della liberazione della Valle del Ceno, avvenuta il 10 giugno 1944; e anche quando le brigate, ormai padrone delle vallate, sposteranno più in basso i loro distaccamenti, per essere più vicine agli obiettivi da colpire, Osacca rimarrà sempre un punto di riferimento: una sicura sede d’emergenza durante i rastrellamenti nazifascisti.
La notizia dello scontro, taciuta, com’era ovvio, dalla stampa locale, venne portata a conoscenza della cittadinanza di Parma con un volantino ciclostilato preparato e diffuso clandestinamente a cura del Comitato d’azione del C.LN. La Gazzetta di Parma del 31 dicembre, pubblicò allora un articolo, non firmato, dal titolo « Prigionieri inglesi e sbandati catturati dai militi della Guardia Repubblicana », nel quale i fatti venivano minimizzati e svisati, e, dopo aver definito menzognero il volantino e inesistenti gruppi partigiani organizzati, si concludeva minacciando di punire severissimamente le famiglie che davano aiuti e ospitalità ai partigiani.
Prima di chiudere questo opuscolo è doveroso ricordare le vicende, anch’esse per tanti aspetti emblematiche, di quei protagonisti dello scontro di Osacca che fecero, purtroppo, olocausto della loro vita nel proseguimento della lotta. Frigau Isidoro cadeva il 15 marzo 1944 a Succisa di Pontremoli combattendo al fianco di Fermo Ognibene (Medaglia d’Oro al V. M. alla memoria) che, non presente ad Osacca, aveva immediatamente dopo preso il comando del distaccamento. Ralli Luigi, catturato in un rastrellamento nella zona di Pellegrino P .se veniva fucilato il 20 aprile 1944 a Castelfranco Emi¬lia. Casula Luigi, dopo essere stato anche fra i protagonisti dell’epica batta¬glia del Lago Santo, incontrava la morte nel giugno del 1944 in Vai Gotra. Favagrossa Giovanni (medaglia d’Argento al V. M. alla memoria), trasferitosi nelle formazioni partigiane che agivano lungo il Po e nella pianura casalasca, cadeva, combattendo contro i tedeschi in ritirata, a Casalbellotto, il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Un capitolo a sé merita Mortali Giovanni, di Osacca, caduto il 28 aprile 1945, le cui vicende sembrano simboleggiare la continuità e la crescita del movimento partigiano nel Parmense: presente il giorno di Natale del 1943 a Osacca, nel primo combattimento condotto da un esiguo nucleo partigiano contro 150 militi fascisti, è in prima fila, nel giugno 1944 nella liberazione della VaI Ceno, con la prima Brigata partigiana della provincia, ed è ancora fra i protagonisti della grande battaglia finale della « Sacca di Fornovo » nella quale, dal 24 al 29 aprile 1945, gli effettivi di sei Brigate partigiane, affiancati dal giorno 26 dal 6° Rgt. di fanteria del Corpo di Spedizione Brasiliano e da alcuni reparti corazzati statunitensi, erano impegnati a bloccare, nel triangolo Fornovo-Collecchio-Medesano, la 1483 Div. di fanteria tedesca, al completo e i resti della 903 Div. motorizzata e della Div. fascista « Italia ». In quest’ultima vittoriosa battaglia, mentre già quasi ovunque si festeggiava la riconquistata Libertà, si concludeva la vicenda, non solo di partigiano audace e generoso, ma anche di uomo tenace e laborioso, di Mortali Giovanni, che, lasciato il suo duro lavoro di contadino, per 16 mesi aveva combattuto e sopportato sacrifici per un avvenire migliore e più giusto per sé e la sua gente.
Dalla testimonianza scritta (depositata presso l’Istituto Storico della Resistenza della Provincia di Parma) di Luigi Sau, impiegato, nato a Sassari il 31-7-1919 e quivi residente; militare 1’8 settembre nella zona di Savona; Partigiano combattente; Com.te il Btg. Picelli della 12a Brg. Garibaldi.
. . . Giungendo ad Osacca il giorno 22-12-1943, io e i quattro sardi che mi accompagnavano, trovammo il Distaccamento « Picelli » ormai costituito: sarà forse stato questione di un solo giorno, di una settimana, di un mese, ma di fatto lo trovammo già forte di 10-12 uomini.
Raminghi senza meta, era in noi la speranza di poter trovare qualcuno che potesse accompagnarci in prossimità del fronte, per attraversare le linee e giungere così nell’Italia liberata. Da qui alla Sardegna il passo sarebbe stato breve. Eravamo partiti dalla zona di Novi Ligure (dove lavoravamo) sentendoci ormai scottare la terra sotto i piedi, paventando da un momento all’ altro una sorpresa dei nazifascisti, che in quel periodo reclutavano (?) giovani da destinare nei campi di concentramento in Germania.
Il pomeriggio di quel 22 dicembre, attraversavamo un paese d’alta montagna dell’Appennino Tosco-Emiliano, e precisamente (se ben ricordo), il paese di Caffaraccia, quando ci si fece incontro una giovane donna, che ci pregò di seguirla. Ci condusse in una casa, dove un gran fuoco ardeva nel camino ed una pentola di rispettabili dimensioni emanava un estasiante profumo di spezzatino. Un gruppetto di uomini ci accolse festosamente, ci offrirono sigarette e ci invitarono a prender parte al pasto. Figurarsi la nostra gioia! era per noi quasi un invito a nozze, lo accettammo quindi di buon grado. Subito ci accorgemmo che erano armati e ci fu quindi facile arguire che si era dinanzi a dei partigiani. Già la loro leggenda si era sparsa ed anche noi li considerammo con tanta ammirazione. Tutti ne parlavano, nessuno li aveva mai visti. Nel dopocena ci tennero il discorsetto d’occasione, invitandoci a unirei a loro. Andammo con loro. La marcia in montagna durò per oltre due ore (marcia che da Caffaraccia ci doveva condurre ad Osacca, quartier generale del distaccamento), finché deboli luci ci annunciarono di essere finalmente giunti a destinazione. .
. Testimonianza di Bertoli Alceste
Dalla testimonianza scritta (depositata presso l’Istituto Storico della Resistenza della Provincia di Parma) di Bertoli Alceste, operaio, nato a Parma il 13-9-1909; Antifascista; Perseguitato politico, condannato nel 1930 a 4 anni di carcere dal « Tribunale speciale fascista », inviato, quindi, per anni 5, al confino di polizia; Partigiano combattente.
. . . «A metà ottobre circa del 1943 la direzione provinciale del P.C.I. al quale appartenevo, mi fece abbandonare il lavoro (ero occupato presso l’officina Barbieri) perché mi dedicassi completamente all’organizzazione della Resistenza armata. Come primo incarico fui inviato nella zona di Calestano dove presi contatto con il barbiere « Tito» (Bertozzi). I n quella zona portammo un certo numero di armi dalla città, depositandole presso un certo Giuseppe, mezzadro, di cui non ricordo il cognome né l’indirizzo preciso. Mi ricordo soltanto che le armi furono nascoste sotto uno di quei caratteristici forni di campagna. Quelle armi servirono poi per il gruppo costitutivo del distaccamento Griffith.
Verso la fine di novembre, il compagno Gorreri mi fece sapere che dovevo trasferirmi nella zona di Bardi, nella quale passavano molti soldati sbandati, per cercare di raccoglierli ed organizzarli, o almeno recuperare le armi. Nel Bardigiano mi incontrai con « Piccoli» Giovanni Molinari di Fiorenzuola, il quale mi mise a contatto con la levatrice di Gravago Noveglia che, se non mi sbaglio, era una compagna di Parma, certa Raffi, che aveva sposato uno del posto. Mi mise anche in contatto con un’ altra famiglia di compagni, proprietari dell’osteria «Trento e Trieste» di Bardi davanti alla quale si fermavano le corriere. Dopo una breve sosta a Gravago mi portai a Osacca dove mi incontrai con una decina di giovani della zona. Assieme ad essi fermammo un certo numero di soldati sbandati che vagavano alla ventura. Parte di essi si accompagnarono a noi, parte invece ci lasciarono le armi, tanto che dopo non molti giorni eravamo già in una ventina. Tutti questi giovani bisognava mantenerli e alloggiarli; i soldi che avevo portato dalla città erano di gran lunga inferiori alle necessità, ma ci pensò la gente del luogo, che si dimostrò oltremodo ospitale e comprensiva: trovammo alloggio, vitto e anche indumenti per chi ne era sprovvisto. . .
Foto del 06-01-2024
















































































