La Seconda Julia Nella Resistenza

Sergio Giliotti

PRESENTAZIONE

Ho letto l’ultimo libro di Galli della Loggia, la solita palinodia in polemica con la Resistenza e la cosiddetta storiografia “convenzionale “, incapace (a suo dire) di identificare nella data dell’8 settembre 1943 la morte della patria.

Ma a chi altro si dovrebbero attribuire se non al fascismo le responsabilità della disfatta? Che significa -si è chiesto Giu­liano Vassalli- dar colpa di tutto ai fatti dell’8 settembre. Ora chi ridusse l’Italia a quel punto? Indubbiamente la dittatura ventennale.

Galli della Loggia insiste con particolare durezza sul carat­tere “fittizio “, inautentico (militarmente parlando) della Re­sistenza. Sempre a suo dire non fu neppure una vera guerra civile, perché non si è conclusa con un vero vincitore, ricono­sciuto come tale dai vinti. Di conseguenza non ci si poteva attendere da essa neppure quell’effetto risolutore che carat­terizza ogni evento davvero fondativo.

Ma un dato sfugge a Galli della Loggia, che pure ha scritto pagine di grande rilievo sulla mondializzazione della politi­ca nel nostro secolo: in uno scontro di carattere mondiale, che si concluse per il nostro paese il 25 Aprile (e nel mondo pochi mesi dopo) erano impensabili vittorie o sconfitte di di­mensione solo nazionale,. necessariamente, secondo Pietro Scoppola, i vincitori all’interno di una nazione non potevano vincere da soli ma sempre in virtù del sostegno di forze omo­genee operanti in ambito mondiale; proprio perché il fasci­smo si era collocato con la adesione alla guerra tedesca e con il patto fra Roma, Tokyo e Berlino in una dimensione mon­diale; la vittoria contro il fascismo era sottratta, per cosi dire, alla disponibilità esclusiva degli italiani.

L’8 settembre del ’43, per la verità, il popolo delle nostre montagne e delle nostre pianure avverti il feroce rigurgito proprio nel momento in cui pareva finalmente ritrovata (con la caduta del fascismo) la strada della democrazia; lo avverti come una nuova drammatica realtà; si rese conto che l’armi­stizio imponeva un ultimo impegno di lotta e tentò di costru­irsi modelli di esistenza totalmente diversi da quelli quotidia­ni e istituzionali fino a diventare, esso stesso, istituzione.

È in questo spirito che va letto il meritevole saggio di Sergio Giliotti “La seconda Julia nella Resistenza Cronistoria di una brigata partigiana “: uno sforzo ricostruttivo, schematico, appassionato e per certi aspetti rigoroso, di un microcosmo, di un settore della nostra montagna che domina un triangolo

“strategico” dal Passo della Cisa a Berceto alle sponde del Manubiola ad Ostia Parmense.

Giliotti pone il tema dell’insorgenza partigiana in termini lie­vemente autobiografici e quindi non trascura un passaggio importante della sua vita: giovane liceale a Genova, può at­tingere alla cultura e alla saggezza del prof. Giulio Marchi, una guida spirituale e politica di eccezionale umanità.

E forse sta qui la ragione di una impostazione che Giliotti antepone e sviluppa nella prima parte di un libro dedicato all’essenziale cronistoria di una brigata partigiana in Val Taro:

la necessità di sottolineare, con forza, l’importanza del riferi­mento mondiale della seconda guerra mondiale (siamo nel 1943), della mondializzazione di una guerra che non ha pre­cedenti nella storia umana, per caratteri ideologici, estensio­ne geografica, numero di vittime, vastità di distruzioni. Alli­neare tragicamente gli errori internazionali del fascismo può sembrare una forzatura geopolitica: invece è la cornice en­tro la quale le vicende tragiche di piccoli territori prendono significato e dignità di memoria.

In questa cronistoria sono compresi in modo abbastanza net­to tutti gli aspetti di una vicenda partigiana ispirata da una congeniale idealità cristiano-cattolica. Qui non s’indulge nella mitologia, come ripetono certi storici disinformati e settario Tra questa gente il coraggio, la dedizione, la disponibilità al sacrificio s’innesta nella realtà ambientale,. in questo trian­golo di montagna le prime formazioni germogliano con un fervore ideale, con una coerenza che impressiona.

Via via, nel tempo, i momenti dei rastrellamenti e della lotta armata ricadranno sulle popolazioni inermi come passaggi di desolazione, a volte devastanti; ma pur tra inenarrabili difficoltà si ricerca di comporre il tessuto di rapporti tra par­tigiani e popolazione, in cui il compianto degli eccidi resta pur sempre più profondo che il calcolo interessato di cose perdute.

D’altra parte l’obiettivo popolare, all’indomani dell’8 settem­bre 1943, fu quello di cacciare i tedeschi. La Resistenza, nel­la sua accezione più istintiva, nacque come reazione ad una guerra che, mirando al violento dominio sui popoli, urtava angosciosamente la nativa disposizione ad una serena e civi­le tradizione di valori morali; s’accrebbe e si convinse come risposta alle deportazioni, operate in un clima di spaventose minacce e di terrorismo, quali la nostra gente non aveva co­nosciuto nella sua lunga storia.

Le prime formazioni partigiane (le prime bande) s’impegna­rono a chiarire, tra la gente, l’importanza della lotta e l’inevitabilità di un saldo collegamento.

Nell’area CISA BERCETO OSTIA PARMENSE la gente si misurò, infatti, con sacrifici crescenti. Al di là delle difficoltà obietti­ve (trecento tedeschi di stanza a Berceto, guidati dal tortura­tore Jost; la pericolosità della statale della Cisa come arteria di notevole rilievo militare; gli attacchi dalle valli laterali con insidie di tutti i generi) le popolazioni sopportarono in­sieme al movimento partigiano rischi e sofferenze.

Sotto il profilo della responsabilità politica e civile, via via nel tempo si formano i Comitati di Liberazione Nazionale ( a Berceto addirittura nell’agosto 1943 – alla presenza di Achille Pellizzari).

In condizioni più complesse, e diversi mesi dopo, si costitui­sce il CLN di Borgotaro. A Valmozzola il CLN si costruirà in due tempi, in sintonia con l’insorgenza partigiana, intorno al Monte Barigazzo. Nel libro sono indicati opportunamente i nomi di tutti coloro che parteciparono a queste forme di re­sponsabile collaborazione.

Quando in particolari circostanze, pur perdurando gli im­prevedibili pericoli della lotta armata in atto, una parte della popolazione senti il dovere di assumere ruoli amministrativi, nell’ambito di nuove realtà partigiane, è evidente che l’anima della Resistenza cercava il suo respiro nel clima di una parte­cipazione pubblica e di una corresponsabilità allargata, che aprisse la stagione di una diversa significazione politica di cui il popolo fosse autenticamente protagonista.

Tra le figure partigiane che operano per la nascita e la cre­scita della II Brigata Julia si rintracciano figure emergenti della Resistenza parmense: Don Guido Anelli, Severino Mo­linari, Vampa, Poppy e, in grande evidenza, Birra (Giuseppe Molinari).

In questo libro di Sergio Giliotti il lettore ritrova la documen­tazione (a volte inedita) della tessitura organizzativa e ideale della II Julia. E non solo. Attraverso scrupolose precisazioni riesce a capire (sempre lungo una linea documentale) le vi­cende di maggior rilievo che segnano la vita partigiana nell’Alta Val Taro.

Fuori dal mito, ma nella realtà, spiccano figure del valore impareggiabile di Achille Pellizzari (i suoi richiami paterni, fermi, inconfondibili; le sue mediazioni, il suo incitamento).

In quel tempo si sviluppano iniziative come quella del Col. Lucidi (tramontata con la morte dello stesso Col. Lucidi nel rastrellamento dello Zerasco); le fitte riunioni organizzative, i rapporti con la popolazione e le brigate limitrofe; l’esaltan­te esperienza del Territorio Libero Val Taro (che da sola me­riterebbe un lungo saggio di riflessioni per tutti i critici della Resistenza); il brutale rastrellamento di luglio (l’urto e l’ine­vitabile ricomposizione delle forze in campo); la lotta e il sacrificio delle piccole frazioni; la battaglia del Manubiola, con divergenti interpretazioni tattiche che non turbano, sostan­zialmente, un risultato di notevole rilievo militare.

La II Brigata Julia si costituisce ufficialmente il 10 agosto 1944, intorno a Don Guido Anelli che, insieme a Don Carlo Giussani, provvederà anche all’assistenza religiosa. Il co­mandante della Brigata sarà Birra; il vice, Poppy; il capo di stato maggiore, Vampa; il commissario di guerra, Severino Molinari.

Sullo sfondo emergono precisi rapporti della Il Julia con il Comando Unico Operativo, guidato da Pablo (Giacomo di Crollalanza) .

La II Julia mostra scopertamente le sue caratteristiche idea­li, la propria apartiticità (estranea ad ogni disciplina di par­tito), conferma e rispetta le indicazioni del Comando Unico, con l’esclusione di ogni forma di settarismo; dispone una li­nea di rigore e di severità, come risulta da una serie di pre­ziosi documenti.

Il 17 ottobre 1944 i tedeschi attaccano, complice un tradito­re, il Comando Unico a Bosco di Corniglio: una tragedia in­calcolabile. Muoiono trucidati Pablo e altri valorosi coman­danti partigiani. È un momento tra i più dolorosi della lotta di liberazione nel parmense.

Occorre reagire con forza. E proprio a Belforte, nella piccola casetta-canonica di Don Guido Anelli, si ricomporrà il nuo­vo Comando Unico, sotto la guida di’Arta (Giacomo Ferrari). I combattimenti riprendono nell’area della Il Julia, con gran­de sofferenza per la popolazione. Nello spirito ormai affer­mato di una particolare sensibilità, Birra avanza, nel territo­rio di sua competenza, il problema dello scambio dei prigio­nieri, iniziando i contatti con i tedeschi, di stanza a Pontre­moli (testimonianza di Aristide Angelini). Simultaneamente la Brigata svilupperà e completerà un delicato recupero di giovani fascisti della Divisione Italia e della Divisione Monterosa: uno strano fenomeno di diserzione.

Tutto questo avviene in uno spirito di grande serietà e di in­transigente coerenza, anche se non tarderà qualche fenome­no diffamatorio nei confronti della II Julia che innesca uno scambio violento di lettere con lo stesso Comando Unico. Di questo delicato periodo Giliotti mette in evidenza alcune cronache di efficace rilievo.

Don Guido Anelli (il prete volante) usa il paracadute per intessere rapporti con il governo di Roma, presieduto da Bonomi: queste pressioni dirette servono ad incrementare i mezzi economici per le forze partigiane. I problemi difficili del vestiario e dell’armamento trovano qualche favorevole soluzione attraverso un piano di lanci.

Il 1°febbraio 1945, Birra decide di lasciare il Comando del­la II Brigata Julia, testimoniando una volontà di intransigen­te rigore che non ritiene possibile ottenere senza provocare delicate fratture all’interno delle formazioni.

Tutto avviene nella chiarezza di un confronto di idee, nella reciproca comprensione, in una sorta di fair play.

Nuovo comandante della II Julia sarà il maggiore Umberto Pestarini (Umberto), maggiore dell’esercito italiano in forza al servizio segreto militare. Successivamente, con elementi pontremolesi, Birra formerà la III Brigata Beretta. Va da sé che occorre leggere il libro per capire, per intero, il senso di simili assestamenti.

Via via, nonostante la durezza della lotta, si profila la parte fìnale. Il rastrellamento invernale segnerà profondamente la capacità di resistenza. La strategia partigiana della zona con­tinua a predisporre nuovi assetti di comando: ad esempio Vampa assume il comando di un reparto speciale di sabotato­ri. Ormai si definiscono gli obiettivi dell’ultima ora.

Si costituisce la Divisione Valtaro con i seguenti reparti: Julia, 2ª Julia. Brigata Siligatto. Brigata Barbagatto, Grup­po Valtaro, la Centocroci e addetti al Comando. Il comando è assunto da Umberto Pestarini,. commissario di guerra è Severino Molinari.

11 30 marzo 1944, a Porcigatone, Achille Pellizzari lancia l’ul­timo messaggio: “Partigiani, preparatevi, la battaglia è vici­na, la più grande ma l’ultima. E la vittoria è certa. Scaccere­mo le belve tedesche e i malfattori nostrani “.

Nonostante l’imminenza della fine delle operazioni militari si sviluppa uno scontro all’interno della Divisione VaI Taro. Tra­spare, con durezza, un dissenso sulla leadership, su aspetti tattici ( e non solo tattici) della gestione. Si soffia sul fuoco e affiorano contrasti politici con minacce di fratture.

Il Comando della Divisione VaI Taro si dimette. L’intervento del Comando Unico favorisce la composizione di un nuovo vertice con Richetto (comandante), Corrado, Severino Moli­nari, Bruno e Tarass.

Alla testa della II Brigata Julia torna Umberto che affronta, a Berceto, i colpi di coda dell’armata tedesca ormai in rotta verso la sacca di Fornovo. Muoiono e rimangono feriti alcu­ni partigiani. Ma è proprio a Berceto (tappezzata ai muri di manifesti inneggianti ai partigiani) che il 28 Aprile la II Bri­gata Julia entra vittoriosa accolta da una folla finalmente travolta dall’entusiasmo.

La cronistoria di Sergio Giliotti non si esaurisce in una cu­riosità di informazioni o raccolta di dati, ma recupera l’ani­mo della gente di quei giorni, i sentimenti che accompagnano i piccoli fatti, il coraggio di continuare, l’affermazione di una nuova prospettiva per un tempo di pace.

Sergio Passera Presidente

dell’Istituto Storico della Resistenza

                                                              PREMESSA

NEL 1985, in occasione del quarantesimo anniversario della Liberazione, l’amico e comandante partigiano Giuseppe Molinari, da tutti conosciuto col nome di battaglia “Bir­ra”, nel consegnarmi l’archivio della brigata partigiana “2ª Julia”, mi invitò a scriverne la “storia”.

Ho messo tra virgolette la parola storia perché questo mio lavoro non ha pretese di essere un’ opera storica, ma vuo­le semplicemente rappresentare un contributo, un aiuto a chi, in un domani, si accingerà a scrivere la Storia, quella con la “S” maiuscola, della Resistenza parmense alla quale questa formazione, in cui ebbi l’onore di militare, diede il suo importante contributo.

Mi sentii profondamente onorato per la stima e la fiducia riposta in me dal Comandante Birra ed accolsi volentieri l’in­vito anche per rendere un postumo omaggio agli amici che nelle file della mia Brigata, combattendo per la libertà, col sacrificio delle loro vite, ne pagarono il prezzo più alto: alcu­ni di essi caddero al mio fianco.

Scrissi alcune pagine, ma i pressanti impegni di lavoro di allora non mi permisero di continuare e, passata la ricorrenza accennata, rinviai tutto al momento successivo al mio pen­sionamento, che avvenne nei primi mesi del 1989. Contavo molto sull’aiuto dell’amico Molinari, non solo per essere sta­to Egli uno degli artefici della creazione della Brigata, ma anche perché fu sempre ai vertici del movimento partigiano.

La sua improvvisa scomparsa nel novembre del 1989 mi ha privato della sua memoria storica che mi avrebbe favorito nella interpretazione di alcuni documenti e nell’ integrare i vuoti che ho trovato perché io, semplice partigiano, non po­tevo essere sempre a conoscenza di ciò che accadeva ai livel­li ove si assumevano le decisioni. Egli ricordava tutto ed in­tratteneva gli amici sugli avvenimenti passati, ma non lasciò nulla di scritto.

Su certi aspetti e su alcune vicende, non sempre o non sufficientemente documentate, ho dovuto così affidarmi ai miei ricordi ed a quelli di altri protagonisti degli eventi narra­ti, ma col passare degli anni la memoria si affievolisce e gli avvenimenti possono apparire sotto angoli visuali non sem­pre corrispondenti alla realtà di allora.

Nello scrivere queste pagine ho cercato di essere rigoro­samente obiettivo. Non ho perseguito secondi fini, come spes­so è accaduto in analoghe ricostruzioni che hanno mirato a mettere in evidenza personaggi che spesso erano gli stessi autori o nel parlare di eventi di cui direttamente od indiretta­mente erano stati protagonisti, veri o presunti, loro stessi. Per evitare questa scialba autocelebrazione parlerò di me solo per presentarmi. Altri giudicheranno noi e gli eventi dei quali siamo stati, a vari livelli, attori.

Sono nato nel 1926 a La Spezia da madre spezzina, ma­estra elementare, e da padre borgotarese, agricoltore. Essi mi impartirono una educazione severa, quasi spartana e, con le parole e con gli esempi, mi insegnarono ad essere ossequien­te alle leggi di Dio e della Patria, ad amare i piccoli e gli umili e a contrastare i superbi.

La mia prima giovinezza, come quella di quasi tutti i gio­vani di allora, subì l’influenza della propaganda pseudo – pa­triottica del fascismo, ma col procedere verso la maturità, so­prattutto sotto l’influsso di grandi maestri, sacerdoti e laici, primo fra tutti il professor Giulio Marchi, preside del Liceo scientifico da me frequentato nella città di Genova, acquisii nozioni e maturarono in me sentimenti che gradatamente avrebbero sostituito quelli precedenti. Anche gli avvenimenti che si sono succeduti dagli anni’ 40 in poi hanno contribuito non poco ad illuminare con luce diversa il volto del fascismo.

Il 25 luglio 1943 mi trovavo a Belforte (I), piccolo e sper­duto paese dell’ Appennino parmense ove mia madre inse­gnava e mio padre coltivava il suo podere. Esultai nell’ ap­prendere le notizie delle dimissioni di Mussolini e della no­mina del Maresciallo Badoglio a capo del Governo, mentre gli abitanti del paese continuavano senza apparenti emozioni nel lavoro quotidiano per strappare dalla dura e sassosa terra della montagna il pezzo di pane per la loro sopravvivenza.

L’unica, modesta manifestazione consistette nell’ anda­re, con un anziano agricoltore, a distruggere a martellate il solo ed indifeso simbolo esistente del Regime: il fascio litto­rio posto sopra la porta del bacino dell’ acquedotto, che gli abitanti del paese, con un modesto contributo del Comune, si erano da soli costruito nel 1934, anche se l’opera veniva fatta passare come una realizzazione del Regime.

(l) Belforte è una frazione del comune di Borgotaro sulla destra del Taro a circa lO km dal capoluogo. Venne spesso chiamato “capitale dei Ribelli”.

L’ 8 settembre anche la gente di Belforte tirò un sospiro di sollievo nell’ apprendere la notizia dell’ armistizio, avendo, dalla proclamazione della fine delle ostilità, sperato nel ritor­no imminente dei familiari impegnati nei vari e lontani fronti della guerra (2).

Pochi giorni dopo, assieme ad un coetaneo, vagabonda­vo per i crinali dell’ Appennino Tosco Emiliano in cerca di armi che si diceva essere state abbandonate da un Reggimen­to degli Alpini, senza peraltro trovarne traccia. Forse altri le avevano già raccolte.

Lo scopo nostro era soltanto quello di utilizzarle per di­vertimento e non avevamo la minima idea che, in un non lon­tano domani, quelle armi sarebbero servite per combattere la nostra guerra contro la tirannide domestica e straniera.

Nei pressi del Passo della Cisa vedemmo due soldati te­deschi che, a torso nudo, stavano consumando il loro pasto presso una fonte. Fu il mio primo impatto con le forze di occupazione e dentro di me, per la prima volta, provai un sentimento di ostilità nei loro confronti.

Durante le vacanze estive lavoravo con mio padre nella coltivazione dei campi, dalla sfalciatura del fieno, alla mieti­tura del grano, alla aratura dei terreni fino all’ inizio della se­mina.

Ogni anno, in ottobre, riprendevo gli studi in collegio. Avvenne così anche in quell’autunno del 1943 e ritornai a Genova per frequentare il penultimo anno del liceo.

(2) Anch’io e la mia famiglia speravamo in un sollecito ritorno di mio fratello Alberto, in forza alla Marina Militare, le cui ultime notizie ci giunsero dalla Sicilia nell’estate del ’43. Lo riabbracciammo solo nel maggio del ’45, quando venne smobilitato.

 

Con me era mio fratello minore Ugo, che frequentava la scuola media inferiore (3).

A Genova trovai l’ambiente ben diverso da quello che avevo lasciato nel giugno del ’43. Nell’aria si sentiva la gra­vità del momento. Professori e studenti, ci sentivamo tutti uniti in un unico ideale. Solo una professoressa ed uno stu­dente aderirono al nuovo partito fascista repubblicano, ma non furono dei delatori. Più di una volta, il collegio ricevette le visite delle polizie fascista e tedesca che cercavano il Pre­side ed alcuni professori più esposti. Sapemmo poi che il Pre­side, oltre che un antifascista, in quei momenti era un autore­vole membro del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria e ne sarebbe diventato anche Vicepresidente (4).

A volte passavano per le nostre mani volantini ciclostila­ti invitanti alla ribellione che occultavamo sotto le maglie e che, nelle ore di libera uscita, furtivamente, abbandonavamo per le strade.

(3) Ugo Giliotti, classe 1929, era sempre tra i partigiani e veniva considera­to una “mascotte”. Nell’ultima fase della guerra, quando il Comando Partigia­no della Divisione Vai Taro si installò nella canonica di Belforte, venne utiliz­zato come portaordini.

Sposò la sorella di Don Guido Anelli. Nel 1957 emigrò in Venezuela ove, dieci anni dopo, assieme alla moglie ed alla figlia Paola, morì sotto le macerie del terremoto che sconvolse Caracas. Tutta la sventurata famiglia riposa ora nel piccolo cimitero di Belforte, tra i verdi pascoli dei loro monti.

(4) Giulio Marchi, di origini romagnole, insegnante di lettere e filosofia, prima dell’avvento del fascismo fu esponente del Partito Popolare.

Antifascista irriducibile, per poter continuare l’insegnamento, che sentiva come una missione, entrò come laico nell’ordine dei terziari francescani. Così, in base al concordato del 1929 tra lo stato italiano e la chiesa, non ebbe l’ob­bligo di iscriversi al Partito Nazionale Fascista per espletare la sua professio­ne. Fondò a Genova il Collegio San Nicola, di cui fu direttore fino alla morte.

Ricordo di aver letto su un giornale satirico fascista un articolo nel quale si auspicava che alcuni professori universi­tari venissero inviati in Germania a “coniugare tic e toc” an­ziché lasciarli in Italia ad insegnare i verbi latini, per via di un ordine del giorno da essi votato e divulgato dopo il 25 luglio del 1943, ordine del giorno che, come scrisse Franco Franchini, era “un inno alla libertà e palpito di speranza di un rinnovamento democratico in cui fossero rispettate la coscien­za e la dignità dei singoli, in un clima di giustizia e parità di doveri e diritti” (5).

Tra questi professori, lo apprenderò successivamente, vi era anche il prof. Achille Pellizzari, sulla cui figura mi intrat­terrò nelle prossime pagine.

Completato il penultimo anno del liceo ritornai a Belfor­te per le vacanze estive, che trascorsi lavorando i campi.

Ai primi di ottobre del 1944, e precisamente il 14, anziché ritornare a Genova per riprendere gli studi, entrai nelle for­mazioni partigiane, arruolandomi nella 2ª Brigata Julia, ar­ruolamento che venne formalizzato con l’ordine del giorno n. 2 del 14 ottobre: “ASSUNZIONE IN FORZA EFFETTIVA.­ Il Distaccamento ‘Lampo’ del Gruppo ‘Vampa’ assumerà in forza effettiva il Patriota GIGLIOTTI Sergio, nome di batta­glia ‘Sparviero ‘… “.

Militai in questo Distaccamento per poche settimane per passare poi al Distaccamento “China”, comandato da Giuseppe Mortali, nome di battaglia “Bartali”, e venni dotato del mitragliatore “Bren”, matricola 13. T 9111, che fu la mia efficiente e fedele arma per tutto il periodo partigiano.

(5) Franco Franchini in “Achille Pellizzari”,.

Appena smobilitato, nel maggio del 1945, e fatto ritorno a casa, mia madre e mio padre mi fecero trovare la valigia quasi pronta per ritornare a Genova in collegio. Dovevo ri­prendere gli studi interrotti per prepararmi, durante l’estate, a sostenere nella sezione autunnale l’esame di maturità e recu­perare così l’anno scolastico perduto.

Ritrovai il mio Preside e quasi tutti i miei Professori, compresa la professoressa fascista che cercai inutilmente di aiutare per farle avere notizie del marito, ufficiale della poli­zia ferroviaria fascista, scomparso nel nulla.

Ritrovai anche un amico che credevo chiamarsi Bonfanti, mentre il suo vero cognome era Levi. Era un ebreo che, per molti anni, senza mai tradirsi, si era nascosto dietro quel fal­so nome per sfuggire alle persecuzioni delle leggi razziali.

All’ esame di maturità svolsi il tema “Dante partigiano anche nella beatitudine del Paradiso”. A sostenere l’esame, assieme a me erano altri due compagni. Uno, Bevilacqua, che era miracolosamente sfuggito all’ eccidio del Turchino o della Benedicta, non ricordo bene, e l’altro, quello che aveva militato nelle formazioni militari della Repubblica fascista di Salò, al quale il Preside, esponente della Resistenza, permise di sostenere, quasi clandestinamente, l’esame di maturità. Se fosse stato scoperto sarebbe stato inviato nel campo di pri­gionia di Coltano, ove erano stati rinchiusi molti militari del­la Repubblica Sociale Italiana. Per chi, oggi, parla di pacifi­cazione, questo fu uno dei primi, generosi esempi.

Dopo questa premessa, ritorno all’ argomento del libro e riprendo il filo del discorso “storico”. Il 22 o il 23 dicembre ’43, erano già calate le ombre della sera, e assieme a mio fratello Ugo percorrevo a piedi la ripida scorciatoia che, per circa due chilometri, porta, senza dare respiro, dalla stazione ferroviaria di Ostia Parmense a Belfor­te. Provenivo da Genova e tornavo al “natio borgo selvaggio” per trascorrere in famiglia le tanto attese vacanze natalizie.

Vicino alla fine dell’ erta salita, ad un centinaio di metri dalla mia casa patema, improvvisa, stentorea ed imperiosa  udii una voce che intimava l’ «alt chi va là». Era una pattuglia della banda partigiana denominata “Vampa”, dal nome di battaglia di uno dei suoi fondatori e primo comandante, Giovanni Cattini.

Questo fu il primo contatto con la Resistenza armata, ancora allo stato primordiale, e con un gruppo al quale, ulti­mato l’anno scolastico in corso, avrei aderito, come ho già detto, appena diciottenne. Nello scrivere queste pagine sento il dovere di ricordare un episodio che mette in risalto il coraggio e la solidarietà della popolazione nei confronti dei partigiani, solidarietà che si manifestò anche nei miei confronti quando venni catturato.

Dopo un attacco ad una pattuglia tedesca sulla strada pro­vinciale che congiunge Borgotaro a Berceto, avvenuto il 29 gennaio 1945, con altri miei amici partigiani, anziché rag­giungere la sede del Distaccamento a Mariano di Valmozzo­la, mi fermai qualche giorno a Belforte a casa mia.

All’alba del 2 febbraio la mia casa venne circondata da russi e tedeschi: tutti i miei familiari furono costretti ad usci­re per strada in mezzo alla neve, scalzi e senza indumenti che li riparassero dal freddo. Picchiato perché confessassi dove erano le armi, venni fatto prigioniero assieme a mio padre, a mio fratello Ugo di appena sedici anni ed ad un mio anziano zio. La mia casa venne incendiata. Quei pochi abiti che ave­vo indosso erano borghesi, perché la divisa partigiana era stata messa a bollire per disinfestarla dai pidocchi che troppo di frequente erano la nostra pruriginosa compagnia. Questi suc­chiatori di sangue furono la mia salvezza o, per lo meno, mi evitarono la deportazione in Germania: deportazione sicura se non fosse intervenuto un eventuale scambio con prigionie­ri tedeschi.

Assieme ad un folto gruppo di partigiani e di civili, che erano stati catturati nella mattinata, venni tradotto a Berceto e rinchiuso, assieme ai civili, nell’ angusta prigione che si tro­vava nella piazzetta antistante il Duomo.

Durante i vari e “scomodi” interrogatori, cui venni sotto­posto dal sergente delle SS  Jost (6), riuscii a non tradirmi nonostante la lunghezza delle basette e dei capelli che inso­spettivano i miei inquisitori. Mentre, incolonnato con gli altri, venivo condotto ad uno dei tanti interrogatori, lungo la strada che portava al coman­do tedesco, a fianco della piazzetta retro stante il Duomo, lo spazzino di Berceto, Ernesto Zambernardi, che stava spalan­do la neve, mi si accostò e, approfittando della fitta nebbia, furtivo, mi offrì il badile, affinché continuassi il suo lavoro e mi sottraessi così al rischio di essere individuato come parti­giano, con tutte le conseguenze che ne sarebbero a me deri­vate.

Feci un cenno di diniego e proseguii.

L’iniziativa dello spazzino, in verità, era stata ispirata da

(6) Sul sergente Jost non si conosce molto. Nonostante rivestisse solo il grado di sergente era il responsabile locale della lotta contro i partigiani. Spo­sò o si accompagnò con una italiana di Fornovo, la quale, spesso, era presente quando torturava i partigiani.

don Angelo Pasquali (7), Cappellano del Santuario della Ma­donna delle Grazie, il cui padre, che veniva a portarci un po’ di cibo con cui sfamarci, mi chiese, bisbigliando per non far­si udire dai carcerieri, perché non avessi approfittato di quel­la occasione. Gli risposi che non volevo che mio padre e mio fratello corressero ulteriori rischi per me.

Tenni testa ai duri interrogatori, sostenendo che ero stu­dente e che non avevo potuto riprendere gli studi perché la mia scuola a Genova era stata bombardata. Come Dio volle, dopo molti indugi, venni rilasciato; la­vorai con i miei per rimediare alla meglio ai danni provocati dall’incendio della casa, poi, dopo qualche giorno, ripresi il mio posto nella Brigata.

L’ho già fatto pubblicamente a Berceto, ma anche in que­sta occasione sento il dovere di esprimere a Don Angelo e al coraggioso spazzino la mia profonda gratitudine per la loro solidarietà.

(7) Quando nel 1941 la mia scuola a Genova venne bombardata, nell’attesa di una sistemazione diversa, per non perdere l’anno, proseguii gli studi a Ber­ceto, seguito da Don Angelo Pasquali. Dai documenti della Brigata risulta che egli collaborò assiduamente col CLN di Berceto.

                                               CENNI INTRODUTTIVI

“…I resti di quello che fu il più potente esercito del mon­do risalgono in disordine le valli che avevano disceso con tanta baldanzosa sicurezza.”

Con queste alti sonanti parole del Bollettino della Vitto­ria diramato il 4 novembre 1918, annunciante la fine della prima guerra mondiale, si chiudeva il ciclo delle guerre di indipendenza che avevano portato la sovranità dell’ Italia ai suoi confini naturali. Con la sconfitta della Germania, princi­pale artefice della guerra, e dell’Austria, si instaurarono in Europa i nuovi equilibri sanciti dal trattato di pace di  Versailles  (28/6/1919) che, anziché essere la base di una pace dura­tura, conteneva i germi che avrebbero portato alla seconda guerra mondiale. I reduci dal fronte, dopo quattro anni di ine­narrabili disagi e sacrifici, trovarono un Paese economica­mente prostrato dall’immane sforzo bellico e con le industrie “di guerra” da riconvertire in industrie di “pace”.

La crisi economica che ne seguì, con la conseguente pia­ga della disoccupazione e con il pesante onere dei debiti con­tratti per finanziare la guerra, trovò nel Paese uno scenario politico non all’altezza per affrontare questa situazione. Disordini di piazza, atti di ostilità anche verso la Chiesa ed occupazioni di fabbriche che nulla potevano risolvere, ma strumentali per il conseguimento di certi fini politici, provo­carono le reazioni che portarono all’avvento del fascismo di Benito Mussolini, l’uomo che, non molti anni prima, si batte­va su opposte sponde, guidando, con le parole e coi fatti, anche le cosiddette “settimane rosse”. Il movimento fascista, nella tolleranza dei pubblici poteri e col favore di larghi ceti borghesi, prima con l’uso generalizzato della violenza fino alla eliminazione fisica degli avversari(8) e dopo la presa del

 

(8) Neppure i sacerdoti vennero risparmiati dalle persecuzioni fasciste. Per tutti va ricordata la figura di Don Giovanni Minzoni, arciprete di Argenta. Questo sacerdote aveva partecipato alla grande guerra come cappellano mili­tare ed era ritornato dal fronte con undici decorazioni al Y.M., di cui una d’argento. Ciò nonostante le squadracce fasciste di Italo Balbo lo massacraro­no a bastonate il 23 Agosto del 1923. Potere, con le leggi liberticide, riuscì ad imporre il proprio ordine. (9)

Esisteva ancora una parvenza di Parlamento ove era pos­sibile solo formalmente fare opposizione, ma a costo della vita. Giacomo Matteotti, socialista moderato, non rivoluzio­nario come quelli che avevano incendiate le piazze nell’im­mediato dopo guerra, venne assassinato il 30 maggio 1924 per aver formulato un implacabile atto di accusa contro le violenze e gli arbitri del fascismo. Stessa sorte toccò ad un altro oppositore, il liberale Giovanni Amendola, che morì in seguito alle gravi lesioni riportate nel corso di una vile aggres­sione fascista.

Ma neppure questo Parlamento poteva essere tollerato da Mussolini che nel corso di una seduta dichiarava di voler trasformare quella “aula sorda e grigia in un bivacco” per le sue camicie nere. Nel 1925 vennero emanate le leggi ecce­zionali che soppressero ogni forma di libertà democratica.

Iniziò così il consolidamento della dittatura che occupò tutti gli spazi della vita civile. Solo la Magistratura riuscì, per qualche tempo, a mantenere una certa autonomia ed il fasci­smo, per condannare gli oppositori al regime, fu costretto a creare una magistratura speciale, il cosiddetto Tribunale spe­ciale per la difesa dello Stato (I0).

Esiliati, inviati al confino, imprigionati gli oppositori, con (9) Inutili furono i tentativi di opporre resistenza allo strapotere delle squa­dre fasciste. Parma, nel] 922, eresse le barricate e respinse con le armi un primo attacco guidato da Italo Balbo, ma poi dovette cedere alla forza. (I0) Per un approfondimento della storia del Tribunale Speciale si rinvia a: “Il tribunale di Mussolini”, di Claudio Longhitano.

la stampa imbavagliata e costretta ad esaltare le iniziative e le “conquiste” del Regime, alla popolazione venne presentata una visione di storta della situazione che portò a quello che verrà definito il periodo del “consenso” e che troverà il suo apice, negli anni 1935-36 con la conquista dell’ Etiopia.

La crisi che investì l’economia mondiale negli anni 1929 – ­32 favorì l’affermazione ed il consolidamento del nazionalso­cialismo in Germania dove, nel 1933, col 43,9 % dei suffragi, andarono al potere i nazisti. La carica di Cancelliere del Reich fu assunta da Adolf Hitler, che iniziò subito una politica uni­laterale di revisione del Trattato di Versailles senza incontra­re resistenze significative da parte dei vecchi nemici, Francia, Inghilterra e Stati Uniti.

Con l’avvento di Hitler venne instaurato uno dei più fe­roci regimi che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Furono sciolti i partiti e gli avversari politici furono rinchiusi in campi di concentramento che, spesso, divennero campi di sterminio, e della cui esistenza si verrà a conoscenza solo alla fine della guerra (11) .

(11) Il primo campo di concentramento fu quello di Dachau, presso Mona­co, aperto nel 1933. Altri ne seguirono, e in essi vennero deportati ed elimina­ti milioni di esseri umani. In Italia, fino al settembre 1943, il regime fascista ricorse al confino e non ai campi di concentramento e sterminio, per isolare o neutralizzare gli oppositori. Solo dopo tale data, con la creazione della Repub­blica Sociale Italiana, vennero aperti campi di concentramento a Borgo San Dalmazzo (Cuneo), a Fossoli (Modena) ed a Bolzano, che non conobbero però i livelli di atrocità dei campi tedeschi, venendo utilizzati prevalentemente come campi di raccolta e smistamento per quelli nazisti. Il campo di Bolzano si trasformò in un lager vero e proprio solo nel gennaio del ’45, quando fu gesti­to direttamente dalle SS. Un altro lager sorse nella risiera di San Sabba, presso Trieste, anch’esso gestito dalle SS tedesche.

Ma i campi di concentramento e di sterminio non furono solo una preroga­tiva tedesca. Anche nella Russia di Stalin esistettero e vi vennero racchiusi ed eliminati i cosiddetti” nemici del popolo “. Ne abbiamo una drammatica testimonianza nel libro scritto da Margarete Buber-Neuman, compagna di un espo­nente del Partito Comunista Tedesco e comunista essa stessa, che, dopo l’av­vento del nazismo, si rifugiarono in Russia. Il marito scomparve, come accad­de a molti, senza lasciare traccia alcuna, a seguito delle purghe di Stalin. Lei stessa, poco dopo, venne arrestata e condannata alla “rieducazione” in un campo di lavoro in Siberia. Nel 1940, in base alle clausole segrete contenute nel patto Russo-Tedesco, la Buber venne estradata in Germania e rinchiusa in un cam­po di concentramento nazista.

Nel suo libro “Prigioniera di Hitler e di Stalin” racconta la propria odissea. Nella sua drammatica esperienza mette sullo stesso livello di crudeltà i lager dei due paesi, affermando che quelli staliniani erano i peggiori.

Iniziò, altresì, una inumana politica razziale (1935) di­retta, in un primo tempo, alla sola messa al bando degli ebrei, considerati nemici dello stato nazista. Successivamente, con la cosiddetta soluzione finale del problema ebraico, che pre­vedeva la loro totale eliminazione, ne vennero barbaramente sterminati oltre sei milioni.

La stipulazione del patto di alleanza con la Germania, l’Asse Roma-Berlino, e la successiva firma del patto d’ accia­io col Giappone, mise in tutta evidenza l’intento aggressivo di queste potenze che, con gli slogan “spazio vitale”, “vitto­ria mutilata” e “posto al sole”, cercarono di infiammare il fronte interno in vista di future guerre espansionistiche. Questi argomenti trovarono vasti consensi tra il popolo tedesco e quello giapponese. In Italia, invece, la stipula di quei patti e l’intervento nella guerra civile di Spagna (12) (1936­-39), cominciarono a far emergere la fase declinante del con­senso, sia pure in maniera altalenante. (12) Il popolo spagnolo conobbe gli orrori della guerra civile e quelli del primo bombardamento terroristico effettuato dalla aviazione di Hitler sulla piccola città di Guernica, che causò 2.000 morti tra la popolazione civile.

 

Nel marzo 1938 la Germania incorporò l’Austria e nel settembre dello stesso anno i territori Sudeti, strappandoli alla Cecoslovacchia. Nell’ aprile del 1939, l’Italia occupò l’Albania e, nel set­tembre, la Germania nazista, dopo aver siglato il vergognoso patto di non aggressione con la Russia di Stalin, aggredì la Polonia dall’ Ovest, mentre la Russia l’attaccò da Est. Il Pae­se di Chopin venne stritolato in questa morsa infernale: tutta­via la sua resa non segnò la fine della guerra, ma l’inizio di persecuzioni e morte ad opera dei due feroci aggressori.

Francia ed Inghilterra onorarono il patto che le legava alla Polonia e dichiararono guerra alla Germania. Ma i due eserciti più potenti del mondo, quello tedesco e quello anglo­francese, in un primo tempo si contrapposero senza iniziative di rilievo sulle loro linee difensive, la Maginot e la Sigfrido. Nel novembre del 1939, l’Unione Sovietica attaccò la piccola Finlandia che resistette eroicamente per due mesi. Nell’ aprile del 40 la Germania occupò la Danimarca e la Norvegia per procurarsi basi contro l’Inghilterra e per ri­fornirsi di ferro svedese.

Nel maggio ‘40 le armate corazzate tedesche, ruppero gli indugi e, violando la neutralità del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, dilagarono per la Francia i cui generali, incapaci di manovrare l’enorme potenziale bellico di cui di­sponevano, vennero battuti (13).  (13) A seguito del patto russo-tedesco, i comunisti francesi, nonostante che la Francia fosse in guerra con la Germania, assunsero una posizione contraria al conflitto e il 26 settembre 1939 il governo francese mise al bando il Partito Comunista. Solo quando la Germania attaccherà la Russia, i comunisti contri­buiranno fattivamente alla resistenza contro l’invasore, ma solo allora.

Mussolini, temendo di non poter sedere al tavolo della pace che sembrava imminente, il I0 giugno del 40, dichia­rava guerra all’Inghilterra ed alla Francia. Quest’ultima, già sconfitta dai tedeschi, si arrese il 22 giugno. Gran parte del suo territorio venne occupato e la restante parte venne lascia­ta in amministrazione ad un governo fantoccio, quello di Vichy, imposto dalla Germania. Ma la parte migliore del popolo francese, accogliendo il noto proclama che il generale Charles De Gaulle aveva lan­ciato da Londra, non si arrese ed ebbe inizio la Resistenza. Dopo la caduta della Francia, l’Inghilterra rimase sola, ma respinse ogni compromesso offertole da Hitler (19/7/1940) e le sue città, Londra in particolare, vennero sottoposte a bom­bardamenti terroristici ai quali Mussolini chiese l’onore di far partecipare l’Aviazione Italiana. Fu, soprattutto, la popo­lazione inerme a sopportarne le crudeli conseguenze. Ma, in un non troppo lontano futuro, le parti si invertiranno e saran­no le popolazioni dell’Italia e della Germania a pagarne il prezzo, e che prezzo (14).

Nell’agosto del 1940, l’Esercito Italiano occupò la Somalia Britannica e nel settembre entrò in Egitto lungo la co­sta del Mediterraneo. Il 28 ottobre del 1940 Mussolini dichiarò guerra alla Grecia che si difese accanitamente e, anzi, cont rattaccando, re­spinse l’aggressore, ma fu costretta alla resa per l’intervento della Germania che sferrò il proprio attacco attraverso la pe­nisola Balcanica. (14) Il 13 febbraio 1945, ad ondate successive, ben 753 bombardieri anglo­americani distrussero Dresda, priva di qualsiasi obiettivo militare; cinquanta­mila fu il numero dei morti, incalcolabile quello dei feriti.

Ma il popolo ellenico non si arrese e conti­nuò la guerra sui monti. Nella primavera del 1941 gli eserciti italiano e tedesco occuparono la Jugoslavia e anche qui, ca­duto il governo legittimo, si accese la guerra partigiana. Il 22 giugno 1941 la Germania invase l’Unione Sovieti­ca, riuscendo a spingersi fino alle porte di Mosca. Contem­poraneamente anche l’Italia dichiarò guerra alla Russia, in­viando un corpo di spedizione. Anche qui le truppe tedesche si resero responsabili di efferate crudeltà nei confronti della popolazione russa, crudeltà che saranno restituite con gli in­teressi quando le sorti del conflitto si invertiranno (15).

(15) “Da Stalingrado e da Leningrado e da tutte le città distrutte della Russia noi portiamo il nostro odio in Germania”. Sono le parole di uno stri­scione esposto dai soldati russi a Berlino. Ed il conto da pagare con l’odio fu atrocemente alto. Lo storico italiano Marco Picone Chiodo, nel libro edito da Mursia dal titolo:”… e malediranno l’ora in cui partorirono”, racconta gli or­rori commessi dalle due parti in conflitto. Agli eccessi si rispose con gli ecces­si. Nel libro citato viene riportato che Benes, ritornato da Londra per assumere la presidenza del governo cecoslovacco, vide la strada che portava al Palazzo del Governo illuminata dai corpi dei tedeschi che bruciavano vivi.

 

Gli Stati Uniti, con la legge “Affitti e prestiti” del marzo 1941, avevano sostenuto lo sforzo bellico britannico. Ma a seguito dell’ attacco giapponese del 7 dicembre 1941 al porto di Pearl Harbor, ove era concentrata la flotta statunitense, si trovarono in guerra col Giappone. Contemporaneamente si ebbe la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna al Giappone, e di Germania ed Italia, legate al Giappone dal noto patto di alleanza militare, agli Stati Uniti. A questo punto il conflitto assunse effettivamente dimen­sioni mondiali, coinvolgendo tutte le potenze dall’Atlantico al Pacifico. Verso la metà del 1941 le truppe italiane che combatte­vano nell’ Africa Orientale (Etiopia – Somalia – Eritrea) furo­no costrette alla resa.

Nei primi sei mesi dello stesso anno, notevoli furono i successi militari del Giappone, ma quando gli Stati Uniti fu­rono in grado di mettere a disposizione delle forze armate la loro immensa potenza industriale, a partire dal maggio 42, pur tra fasi alterne, le vicende della guerra cominciarono a modificarsi. Nell’ Africa Settentrionale, ove in un primo tempo le sor­ti delle battaglie si erano volte a favore delle truppe italo ­tedesche, in un secondo tempo, pure con alti e bassi, la situa­zione mostrò i primi sintomi di crisi ed il 23 ottobre 1942 l’esercito inglese ebbe la meglio su quello italo-tedesco agli ordini del Generale Rommel. Con lo sbarco anglo-americano in Marocco ed in Algeria, le truppe dell’ Asse, perduta la Libia, furono costrette ad asserragliarsi in Tunisia.

Il 2 febbraio del 43 l’armata tedesca che aveva occupato Stalingrado capitolò ed i Russi ripresero gran parte dei terri­tori perduti. Nei territori in mano ai nazisti era stato organizzato uno sfruttamento delle risorse materiali ed umane che non conob­be limiti. Anche nei Paesi invasi erano stati creati i campi di concentramento nei quali rinchiudere le masse dei deportati. La situazione interna italiana, intanto, stava gradatamen­te deteriorandosi. La fiducia nella vittoria era completamente scomparsa e la disaffezione verso il regime aumentava di gior­no in giorno. Nel marzo del 1943 si verificarono i primi scio­peri, i quali, oltre che motivazioni economiche, avevano an­che un sottofondo politico.

Il 15 maggio 43 si arresero le ultime forze italo – tede­sche in Tunisia. Il l0 luglio le truppe alleate sbarcarono in Sicilia ed in poche settimane occuparono l’intera Isola. Il 25 luglio cadde il fascismo ed il Re nominò Capo del Governo il Maresciallo Badoglio, che però non riuscì a mo­strarsi all’altezza della situazione. Il 3 settembre gli anglo-americani sbarcarono in Calabria e l’ 11 a Salerno. L’ 8 settembre l’Italia si arrese, ma forti contingenti tede­schi, che già avevano occupate vaste zone strategiche del suo territorio, riuscirono ad aver ragione della debole, disorga­nizzata ed episodica resistenza dell’Esercito italiano, vanifi­cando altresì il piano alleato di un intervento militare nei pressi di Roma.

                                                             INIZIA LA RESISTENZA

La Resistenza armata italiana ebbe inizio il 9 settembre 1943. L’esercito, lasciato senza istruzioni, si sbandò. Sporadici, anche se eroici, furono gli episodi di resistenza. Tra i tanti, riteniamo doveroso ricordare, in questa sede, quelli di Parma. Ma ve ne furono altri in diverse città, Roma inclusa. Il grosso della flotta, agli ordini dell’Ammiraglio Carlo Bergamini, nonostante qualche iniziale tentennamento del Co­mandante, seppe evitare la cattura e, secondo gli ordini rice­vuti, lasciati i porti italiani, fece rotta su Malta.

Lungo il tragitto subì diversi attacchi aerei da parte dei tedeschi, che riuscirono a colpire la nave ammiraglia, la co­razzata “Roma”, affondandola assieme al suo Comandante, Ammiraglio Bergamini, e a 1326 marinai. In Jugoslavia, Grecia ed Albania, molte unità dell’Eser­cito rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e quelle che non cad­dero nelle loro mani si schierarono coi vari movimenti di re­sistenza locali. A Cefalonia, la Divisione “Acqui”, dopo una impari lot­ta coi tedeschi, fu costretta alla resa. Novemila tra ufficiali e soldati vennero barbaramente trucidati. Analoga sorte toccò ai soldati del presidio di Corfù.

Eroica fu la resistenza anche nelle Isole Italiane dell’Egeo. Lero resistette per 57 giorni contro lo strapotere delle forze tedesche, ma poi dovette cedere (16). (16) L’ammiraglio Inigo Campioni, governatore delle isole italiane dell’Egeo, ed il contrammiraglio Luigi Mascherpa, comandante della piazzaforte marit­tima di Lero, dopo la loro cattura da parte dei tedeschi, vennero deportati in un campo di concentramento in Polonia e, successivamente, condotti in Italia. A Parma si celebrò contro di loro un processo farsa. Condannati a morte per non aver disatteso gli ordini dell’unico governo legittimo ed esistente, vennero fucilati all’alba del 24 maggio 1944. Chiesero essi stessi di comandare il plo­tone di esecuzione e caddero al grido di “Viva l’Italia”

La loro figura è stata mirabilmente tratteggiata nel libro: “Il calvario di due ammiragli”, scritto dal prof. Don Giuseppe Cavalli che con loro divise il car­cere. Oltre seicentomila tra ufficiali e soldati vennero catturati ed inviati nei campi di concentramento in Germania. Essi ri­fiutarono di aderire alla repubblica fascista e vennero trattati non come prigionieri di guerra, ma come internati ed utiliz­zati come manodopera in condizioni disumane. Napoli insorse il 27 di settembre, e spianò la strada all’ esercito alleato che, il I0 ottobre, entrò nella città evacuata dai tedeschi ed in mano al popolo.

L’ Italia era divisa in due. Il Centro Sud, ove si erano rifugiati il Re ed il Governo, era in mano agli Alleati. Al Centro-Nord comandavano i tedeschi, che liberarono Mussolini e lo posero a capo di un governo fantoccio di un stato repubblicano con sede a Salò sul lago di Garda, che di fatto dipendeva dalla Germania. In tutto il territorio dell’Italia occupata dai nazi- fascisti nacque spontanea la ribellione. Organizzati dai partiti antifascisti si crearono i Comitati di Liberazione locali (CLN) che, successivamente, aderiran­no al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), guidato, dalla sua costituzione (settembre 1943) fino alla li­berazione, dall’indipendente Alfredo Pizzoni (17).

(17) Alfredo Pizzoni era un “liberale” non iscritto ad alcun partito e, come scrive Rusconi in “Resistenza e Post-fascismo” alle pagg. 39-40, era guardato con insofferenza dai partiti di sinistra. A liberazione avvenuta, il 28 aprile, venne sostituito, “senza tanti compli­menti”, dal socialista Rodolfo Morandi. Pizzoni scrisse le proprie memorie, che vennero pubblicate nel 1993, a quasi quarant’anni dalla morte. Per 50 anni la sua figura venne volutamente dimen­ticata e ciò costituisce una brutta pagina non tanto della Resistenza, quanto dei partiti.

Nel 40° anniversario della Liberazione Lord Gibson, che durante la guerra aveva rivestito il grado di Maggiore della “Special Force Number One” ed ebbe molteplici rapporti con Pizzoni, scrisse una lettera al sinistrorso direttore del Corriere della Sera d’allora, volutamente mai pubblicata, per ricordare i meriti di questo grande Resistente. La lettera amaramente terminava così: “La sua indipendenza dai partiti po­litici è forse, triste a dirsi, la causa probabile del fatto che egli sia stato pratica­mente dimenticato.” Dalle memorie di Pizzoni l’immagine di Pertini, a differenza di altri espo­nenti della Resistenza, non ne esce molto bene.

                                              L’ALBA DELLA RESISTENZA

                       NELL’ ALTA VALLE DEL TARO E LA BANDA “VAMPA”

Da un documento ufficiale inviato il 18 luglio 1945 dal CLN di Berceto al Comando della 2ª Julia e per conoscenza al Comando Unico della Provincia di Parma si legge testual­mente:

“Il giorno 8 agosto 1943 alla presenza della persona Achille Pellizzari venne costituito a Berceto il CLN composto da: Francescon Aristodemo Consigli Luigi Giuseppe Zanzucchi Attilio Tocchi Lino Molinari Luigi Montali che in seguito venne sostituito dal dr. Prussia Guido. Tutti si misero al lavoro che venne affidato a ciascuno se non che all’ 8 settembre, divenuto il CLN cospiratorio, fu più difficile il lavoro. Ciò nonostante svolse la sua attività inten­sa; si prodigò per la formazione dei gruppi partigiani e nel tempo stesso raccolse fondi per sopperire alle spese che si andavano incontrando per l’acquisto di armi ed altro”.

Nella storiografia italiana e parmense in particolare, sal­vo errore, non si trova un Comitato costituitosi così precoce­mente. Indubbiamente la lungimiranza del prof. Pellizzari anticipò i tempi nel gettare le basi dell’ organismo che affian­cherà il movimento partigiano nella lotta armata, in un terri­torio che si rivelerà particolarmente nevralgico. In tempi successivi anche in tutti gli altri Comuni si or­ganizzarono Comitati antifascisti che vennero poi chiamati Comitati di Liberazione. Ove non si erano costituiti sponta­neamente, furono i Comandi partigiani a crearli. Bande, scar­samente organizzate e peggio armate, sorsero ovunque.

Nel Natale del 1943 si ebbe il primo scontro tra partigia­ni e fascisti ad Osacca, piccola frazione del Comune di Bar­di(l8), (18) Bardi è un importante comune montano della provincia di Parma, si­tuato a circa 50 km ad ovest del capoluogo. Ma le condizioni atmosferiche dell’ inverno ed i proble­mi organizzativi da risolvere, compresi quelli riguardanti l’ ar­mamento, differirono alla primavera del 1944 l’attività mili­tare delle Bande. Nel cenno storico sulla formazione del gruppi che costi­tuiranno la 2ª Brigata Julia, documento che reca la data del 10 marzo 1945, si legge:

“La storia dei gruppi della 2ª Brigata Julia è legata a quella dell’ attività di due persone che con opere e consigli contribuirono al sorgere delle prime forze armate della libe­razione. Attività precorritrice e preparatoria ed attività assi­dua poi. Esse sono: il MR. Don Guido Anelli, che è conside­rato il padre spirituale della nostra Brigata e l’egregio mae­stro Severino Molinari, molto apprezzato e conosciuto come saggio consigliere.

                                                                    GRUPPO VAMPA

Fra i gruppi che costituiscono la nostra Brigata è quello che sta all’avanguardia del movimento, poiché la sua prima costituzione risale alla metà novembre 1943. Pochi uomini invero, ma pur sempre un saldo gruppo: ‘Vampa’, ‘Poppy’, ‘Lampo’, ‘Topolino’, ‘Brillantina’ e ‘Orso’ (/9). (19) Sono, rispettivamente, Giovanni Cattini, Giovanni Iasoni, Luigi Bar­bieri, Arturo Croci, Nando Rosati ed Eliseo Zucconi. In quei giorni vi fu la prima riunione, nella quale si trac­ciò un programma e si gettarono le prime fondamenta. L’or­ganizzazione era ancora difettosa, soprattutto per la man­canza di armi e per la scarsità delle adesioni.

A una delle prime riunioni partecipò anche Giuseppe Mo­linari. Nella prima quindicina di gennaio del 1944, la consi­stenza della banda fu di ventisette unità, solo la metà armata. Ai primi di marzo, la forza arrivò a quaranta partigiani, tutti dotati di armi anche se non perfettamente efficienti. Lentamente, ma progressivamente, aumentarono le ade­sioni a tal punto che, soprattutto per ragioni tattiche, fu ne­cessario suddividere la banda in tre distaccamenti da colloca­re, geograficamente, in punti diversi.

Il primo, al comando di “Vampa”, si accampò alla Pietra di Belforte, il secondo, al comando del tenente inglese Robert Marschal, all’Olmo Grosso di Belforte, verso il passo della Cisa, ed il terzo, al comando di Alberto Zanrè, “Tarolli”, in località Pezze verso il paese di Baselica (20). (20) Baselica è una trazione del comune di Borgotaro, situata sulla destra del fiume Taro. Borgotaro è il più importante comune montano della provincia di Parma, posto a circa 60 km a sud-ovest del capoluogo.

I tre distaccamenti pattugliavano l’area compresa nel trian­golo Ostia Parmense – Passo della Cisa – Berceto (21). (21) Ostia, gruppo di case poste sul fondovalle del Taro, fa parte della fra­zione di Belforte. È sede di stazione ferroviaria sulla linea Parma-La Spezia. Il Passo della Cisa si trova sulla strada nazionale n° 62 ed è il valico che divide la provincia di Parma da quella di Massa-Carrara.

Berceto è un comune a 9 km dal Passo della Cisa e si trova a circa 50 km a sud di Parma. Nel marzo del 1944, la zona subì il primo attacco da par­te dei tedeschi, che costrinse i gruppi a spostarsi sulla riva sinistra del fiume Taro, occultandosi temporaneamente.

Esauritasi l’offensiva nemica, i distaccamenti si ricom­posero e quelli comandati da “Vampa” e da Marschal rioccu­parono le posizioni di partenza mentre il terzo, quello al co­mando di “Tarolli”, si trasferì nelle zone finitime a Borgo Val di Taro, dove, pochi mesi dopo, il suo comandante cadrà sot­to il piombo nemico. Il distaccamento “Vampa” fu quello che vide aumentare sempre più le proprie forze ed ai primi di maggio da esso si staccò un altro gruppo che diede vita ad un nuovo distacca­mento al comando di Giovanni Iasoni ,”Poppy”.

Nei primi giorni di aprile del 44, in località Groppo del Vescovo, a Est del Passo della Cisa, si era formata un’ altra unità, organizzata e comandata dal tenente degli Alpini Giuseppe Molinari che, come già riferito, assunse il nome di bat­taglia di “Birra”. Il gruppo, dagli iniziali 13 armati, raggiunse in poco tempo la forza di l 00 uomini, quasi tutti giovani pon­tremolesi.

Ai primi di luglio del 44, a Belforte si formò il distacca­mento denominato “Fra Diavolo”, dal nome di battaglia del suo Comandante, Luigi Fiore. Anche questo gruppo era com­posto prevalentemente da partigiani del gruppo “Vampa”, nel quale confluirono anche gli uomini del distaccamento coman­dato dal tenente Marschal. Il 19 ottobre “Fra Diavolo” lasciò il Comando del Di­staccamento per assumere quello del Gruppo “Fiamme Ver­di” e gli succedette il Vice Comandante “Bazan”, Marcello Gattai. Successivamente, a seguito dell’incremento degli or­ganici, il gruppo al comando di Bazan venne suddiviso in tre Distaccamenti formanti il Battaglione “Bazan”.

Tutti questi gruppi, che andranno a costituire la Brigata, ormai sufficientemente dotati di armi non solo raccogliticce o strappate al nemico, ma anche di quelle lanciate dagli Alle­ati, a partire dalla primavera del 1944, furono protagonisti delle più belle azioni militari che ebbero per teatro, in modo particolare, la Valle del Taro, il cui fondovalle era attraversa­to dalla ferrovia Parma-La Spezia e la cui dorsale appennini­ca era percorsa dalla strada statale n. 62 della Cisa.

                                           TERRITORIO LIBERO DELLE VALLI

                    DEL TARO E DEL CENO E BATTAGLIA DEL MANUBIOLA

Le formazioni partigiane, con l’aumentare dei propri or­ganici e delle dotazioni di armi, raggiunsero un livello di ag­gressività che, ai primi di giugno, le portò, gradatamente, a dare l’attacco ai vari presidii nemici dislocati nelle Valli del Taro e del Ceno che, ad uno ad uno, vennero eliminati. Il nemico, non senza opporre accanita resistenza, fu cos­tretto ad abbandonare tutte le posizioni che teneva e, con la caduta di Borgotaro e Bedonia, avvenuta il 15 giugno 1944, tutta l’Alta Valle del Taro, da Ghiare di Berceto ai Passi del Bocco e del Cento Croci, cadde nelle mani dei partigiani.

Nello stesso periodo anche la Valle del Ceno venne liberata (22). (22) Contribuirono alla liberazione delle valli del Taro e del Ceno, ognuna per il proprio territorio di operatività, le seguenti formazioni: le bande di Vam­pa, Poppy, Fra Diavolo e Beretta; i gruppi Molinatico, Penna e Centocroci; le Brigate 1ª Julia e 12ª Garibaldi. Sorse così il “Territorio Libero del Taro” che compren­deva in tutto od in parte i Comuni di: Berceto, Varese Ligure, Borgo Val di Taro, Albareto, Bedonia, Tornolo, Compiano, Valmozzola, Bardi, Varsi, Pellegrino, Bore e Solignano.

All’alba del 30 giugno, una colonna tedesca, forte di quasi centocinquanta soldati della “Feldgendarmeria”, perfettamente armati, a bordo di 12 autocarri, proveniente da Berceto, pun­tò su Borgotaro. In località Bastione di Ostia Parmense venne intercettata da una piccola pattuglia di partigiani di “Vampa”. Nella bre­ve scaramuccia che seguì vennero uccisi o feriti diversi tede­schi e messo fuori uso un camion ed una motocicletta. Ma la colonna tedesca riuscì a passare, raggiunse la periferia di Bor­gotaro e, in località Frascara, venne impegnata da un distac­camento della 1ªBrigata Julia. Visto come si stavano metten­do le cose, i tedeschi non osarono avvicinarsi al Paese, rite­nendolo fortemente presidiato da formazioni partigiane.

Il comandante tedesco, capitano Müller, perduta la sua iniziale baldanzosa sicurezza, in spregio delle più elementa­ri norme del diritto delle genti, ordinò di catturare ostaggi, comprese donne, vecchi e bambini. I tedeschi uccisero un vecchio di 85 anni che si era rifiutato o che non aveva capito di seguirli. Un altro vecchio venne massacrato a bastonate perché non riusciva a trattenere il cane che abbaiava contro di loro. Fatto ciò, il capitano Müller ordinò alla colonna di ritornare verso Berceto. Come nel viaggio di andata, fu costret­to a guadare il torrente Manubiola a Ghiare di Berceto (23),  La deviazione a Ghiare di Berceto si rese necessaria perché il 24 giugno le bande di Vampa e di Poppy fecero saltare il ponte sul torrente Manubiola, interrompendo così la strada provinciale tra Berceto e Borgotaro.

 Dove la colonna effettuò una sosta per consumare il rancio, senza rendersi conto che tutte le bande partigiane erano state allertato. Infatti sulle balze che sovrastano la strada che da Ghiare conduce a Berceto, nei pressi della località denominata Pon­te del Diavolo, sulle scoscese rive del torrente Manubiola, attendevano impavidi una trentina di uomini del gruppo “Pop­py” che attaccarono il nemico. I tedeschi, forti del loro nu­mero e della potenza delle loro armi, facendosi scudo con gli ostaggi, reagirono furiosamente. Incerto fu l’esito della bat­taglia. L’attacco era iniziato verso le ore quindici e dopo un’ ora di furioso combattimento, ai partigiani cominciarono a scar­seggiare le munizioni, ma verso le 16,30, con l’ausilio di un camion, giunsero dal Borgotarese i rinforzi che, guidati da Vampa, Beretta, Richetto, Libero, Tarolli e da Dragotte (24),

(24) Si trattava, nell’ordine, di: Giovanni Cattini, Gino Cacchioli, Federico Salvestri, Primo Brindani, Alberto Zanré e Giuseppe Delnevo.

Attaccarono il nemico sul fianco e da tergo: lo scontro si chiu­se con l’annientamento della colonna nemica, che fu costret­ta alla resa. Il bilancio del combattimento fu il seguente: 43 tedeschi fra morti e feriti; 74 prigionieri compreso il coman­dante Müller ed un consistente bottino di armi, tra cui due mitraglie da venti millimetri, materiale vario ed automezzi. Solo pochi tedeschi riuscirono a sfuggire alla cattura (25). Tutti i partigiani si batterono da prodi, ma tra gli uomini che poi diven­teranno partigiani della 2ª Julia e che per primi attaccarono la colonna tedesca sul Manubiola si distinse in modo encomiabile il partigiano “Tasso”, Guido Dellapina di Belforte, che aprì il fuoco con un fucile mitragliatore francese “Saint Étienne” con soli 180 colpi nei caricatori, strappato ai tedeschi in una azione avvenuta alcune settimane prima.

 

Purtroppo, all’esultanza di una vittoria così strepitosa, che ancora oggi è l’orgoglio dei partigiani della Vallata, si contrappose il prezzo di vite umane che venne pagato: due partigiani ed otto ostaggi uccisi, e cinque feriti. Agghiacciante fu lo spettacolo che si presentò agli occhi dei partigiani quando si avvicinarono ai camion: morti, feriti e moribondi e tra essi, terrei in volto, gli ostaggi sopravvissu­ti. Una madre sanguinante col suo bimbo stretto al seno, un padre con in braccio i suoi piccoli figli terrorizzati. Di fronte a questa tragica scena, solo l’energico inter­vento dei comandanti riuscì a contenere la giusta ira dei par­tigiani contro un nemico così vile e crudele. Ciò nonostante, salvo qualche pugno che è valso ad evitare il peggio, i prigio­nieri vennero convogliati in campi di prigionia provvisori. Il capitano Müller venne rinchiuso in un sotterraneo del Muni­cipio di Compiano e non fu certamente trattato “coi guanti”. I feriti furono sistemati e curati nei locali della casa di riposo dello stesso paese adibiti ad ospedale (26).

La battaglia del Manubiola, così come è stata raccontata, corrisponde alla pura e semplice verità. Purtroppo, nella relazione stilata il 25 febbraio 1945 dal comando della 1ª brigata Julia, agli atti dell’Istituto Storico della Resistenza, si minimizza il contributo della formazione guidata da Poppy, re­legando l’azione di questo gruppo ad un momento successivo (“..presi i dovuti accordi pure con un distaccamento della 2ª Brigata Julia, si decide di portar­si sotto ad aggirare il nemico al fine di intimargli la resa… “). In detto docu­mento vi è inoltre una nota scritta a mano, anch’essa interpretabile come una diminuzione del contributo dato da altri a quel fatto d’armi, che recita: “L’au­tocolonna è stata in precedenza attaccata sopra i bastioni di Ostia da una squadra di Vampa composta da I0 patrioti attualmente in forza alla lª Julia”.

 

Se la sacrosanta ira dei partigiani non fosse stata repres­sa dall’ intervento dei Comandanti, forse, poche settimane dopo, il Capitano Müller non avrebbe ordinato gli eccidi di Strela e di Cereseto (27). (27) Strela e Cereseto sono due frazioni del comune di Compiano ove il 19 e 20 luglio 1944 si abbatté l’odio delle orde di Hitler, forse inviate da Müller. Vennero incendiate le case ed assassinati molti dei loro abitanti. Per il martirio delle sue genti, Compiano, oltre che fregiarsi della Medaglia d’oro al Valor militare conferita al territorio al quale appartiene, avrebbe meritato anche un riconoscimento individuale.

 

Il torrente Manubiola, che dai monti che sovrastano il Passo della Cisa getta le sue limpide acque nel Fiume Taro nei pressi di Ghiare di Berceto, diventò il confine orientale del Territorio Libero. Sui costoni che lo sovrastano, da Loz­zola, Bergotto, San Bernardo, fino al Termine del Gatto (28), Il Termine del Gatto, che sovrasta il Passo della Cisa, rappresentava il confine tra il feudo di Belforte, dei Sanvitale, e quello di Berceto, dei Rossi. Vi è un termine di pietra su cui, nel lato rivolto a Berceto, sono scolpite le lettere “V B O N”, che possono significare” Versante Bercetese O Nord”. Sotto vi è scolpito il leone, caratteristico dello stemma dei Rossi, che assomiglia ad un gatto. Al di sotto ancora si legge “Trober”, forma arcaica che sembrerebbe significare “Territorio Bercetese”, e la data MDLXXXI, che è l’incrocio delle mulattiere di cui una conduce al vicino Passo della Cisa, passava la linea di un fronte vero e proprio, tenuto oltre che dai distaccamenti che di lì a poco si sarebbe­ro riuniti per formare la 2ª Brigata Julia, anche da reparti dei gruppi “Molinatico”, “Tarolli” e della 1ª Julia.

Contro questo fronte, per un mese, non solo si infransero, gli attacchi nemici, ma spesso questi furono costretti a subire l’iniziativa ed i contrattacchi dei partigiani. Sulla statale della Cisa, da Cassio fino ad Aulla, e sulla strada provinciale nel tratto Calestano- Berceto, i gruppi di “Birra”, “Vampa”, “Poppy” e “Fra Diavolo” non diedero tre­gua ai convogli in transito ed ai presidii posti a loro protezio­ne. Per un mese la ferrovia Parma-La Spezia e le strade che dalla Valle Padana conducono alla Liguria attraverso i passi del Bocco e del Centocroci furono completamente nelle mani dei Ribelli.

Sotto la guida di Achille Pellizzari, i Comuni liberati vennero amministrati, compatibilmente con la situazione che lo stato di guerra comportava, secondo principi democratici. Venne persino pubblicato, forse il primo nell’Italia occu­pata, un giornale, “La Nuova Italia”, nel quale, sempre Pel­lizzari, scriveva il seguente fondo dal titolo “Annunzio”: “Que­sto giornale non è fatto da rettori stipendiati, i quali, per lucro immondo, esortino i temerari e gli ingenui al rischio che essi fuggono, alle battaglie che essi temono. Questo giornale è fatto dai combattenti pei loro compagni di fede e di sacrificio; è fatto dal popolo in armi per il popolo che nelle case, nelle officine, nei campi, attende e spera, dopo tante sofferenze, dai fratelli e dai figli il dono luminoso della pace, della giu­stizia e della libertà. ” E concludeva: “Amici della Valle del Taro, attori e testimoni dell’epica lotta che restituisce alla Patria la sua coscienza e le ridona il diritto di cittadinanza fra i popoli civili, se la nostra passione s’ invermiglia di san­gue, la vostra vicenda già s’incorona d’alloro. Ringraziamo Dio, che ci permette di vivere, dopo tanta tenebra, un giorno sfolgorante di sole, che alla nostra fede e alla nostra costan­za già addita imminente il certo premio della vittoria”. Il pri­mo numero uscì il 13 luglio 1944, ma lungo e sanguinoso sarà il cammino prima dell’uscita del secondo che vedrà la luce solo il 9 aprile 1945, quando l’Alta Valle del Taro sarà definitivamente liberata ad opera dell’ esercito partigiano.

Nel mese di giugno giunse da Milano nel Territorio Li­bero del Taro il Colonnello Mario Laviani, “Lucidi”, inviato dal Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà con lo scopo di coordinare l’ operatività delle varie formazioni. Costituì a Compiano un Comando composto dagli Uffi­ciali britannici Col. Bear e Maggiore Clifford, da lui stesso e da Roberto Marchi, “China”. Ne facevano altresì parte, come Ufficiali addetti al Comando, Piero Pellizzari, Franco Franchini e Carlo Alberto Devoto. Il Prof. Pellizzari venne nomi­nato Prefetto di tutto il Territorio Libero. Vi furono diverse riunioni alle quali parteciparono Vampa, don Tito, Severino ed altri. Il Col. Lucidi godeva del pieno appoggio della lª Julia e dei gruppi che andranno a formare la 2ª Julia, ma l’ini­ziativa ebbe vita breve non solo perché diversi Comandanti, gelosi della propria autonomia, vi aderirono con freddezza, ma soprattutto a causa della sua tragica fine e di quella di “China” avvenuta i1 2 agosto 44 nello Zerasco durante il gran­de rastrellamento tedesco dell’ estate.

Le iniziative del Col. Lucidi erano appoggiate ed anche ispirate in modo particolare da Vampa, Don Guido, Severino e da vari alti esponenti della Resistenza parmense; resta per­tanto difficile giustificare le polemiche e le prese di posizio­ne del Comando Generale di Milano (29). Il comando generale emanò il seguente comunicato: “Siamo stati infor­mati che mentre era stato creato un comando unico per tutta la provincia, affidato ad un generale, nella regione dell’alta VaI Taro era stato costituito un altro comando, assunto da un colonnello. Precisiamo che quest’ultimo non ha avuto, a questo scopo, investitura dal comando scrivente, né sarebbe stato in suo potere di darglielo in quanto è norma generale per il nostro Corpo Volontari che i comandi sorgano col consenso delle formazioni interessate.

Il colonnello predetto era stato a suo tempo incaricato di una ispezione ur­gente alle formazioni dell’alta VaI Taro per controllare l’efficienza militare in vista delle operazioni alleate che allora sembravano imminenti. Data la straordinarietà ed urgenza della situazione, egli doveva assumere ivi la direzione delle operazioni militari. Non essendosi questa ipotesi verificata, detto uffi­ciale non può avere in zona nessun ‘altra autorità che non sia quella che pos­sono dargli le formazioni e gli organi locali”. Nel testo di questo comunica­to sono evidenti le contraddizioni e le imprecisioni. Nel luglio del 1944 non era ancora stato costituito un Comando Unico per la provincia di Parma, ma esisteva solo il Comando Regionale guidato dal Gen. Roveda. In data 6 settembre, il Comando Unico Parmense inviò alla 1ª e 2ª Julia ed alla Brigata Beretta, “perché mandino elementi” ( di valutazione), copia della comunicazione invia­ta ai Comandi Regionali in data 16/8/44 dal CLNAI – Corpo Volontari della Libertà (erroneamente scritto “Realtà”), ri­guardante il “caso Lucidi”. Essa recitava:

“Il Com. Gen. per l ‘Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà, presa visione delle accuse mosse contro il Co­lonnello Lucidi, sia per quanto riguarda il suo comportamen­to nelle recenti operazioni di guerra che per quanto riguarda l’abuso dei poteri di cui poteva essere investito decide:

1 °) di togliergli ogni mandato di Comando;

2°) di aprire un ‘inchiesta sul suo operato.

Nello stesso tempo dà mandato al Comando del Nord

Emilia di raccogliere tutta la documentazione sul caso in que­stione” .

Il Comandante “Birra”, non condividendo questa ingiu­sta presa di posizione nei confronti di Lucidi, che sembrava e che sembra ancor oggi ispirata da certi ambienti di sinistra, rispose a tale richiesta il 12 settembre, facendo presente “che questo Comando si riserva di dare gli schiarimenti sul caso Col. Lucidi solo quando codesto Comando ci farà conoscere i promotori dell’inchiesta e le accuse mosse al suddetto Uffi­ciale”. Contemporaneamente, per dimostrare apertamente il proprio dissenso su tale iniziativa ed esprimere stima ed ap­prezzamento del Comando della Brigata sull’ operato del Col. Lucidi, dispose di intestare due Distaccamenti al nome del valoroso Ufficiale ed a quello di “China”.

                       IL GRANDE RASTRELLAMENTO DEL LUGLIO 1944

Per i fascisti ed i tedeschi, la situazione che si era venuta a creare nella Valle del Taro divenne politicamente e strategi­camente intollerabile. Politicamente, perché alla giurisdizione della cosiddetta Repubblica Sociale Italiana di Mussolini era stato sottratto un vasto territorio di oltre 2.500 chilometri quadrati. Strategicamente, perché i tedeschi avevano difficoltà a servirsi delle vie di comunicazione, ed in particolare della Nazionale della Cisa, necessarie ad alimentare il fronte sul quale premevano le armate alleate. Le strade provinciali del Bocco e del Centocroci e la ferrovia Parma-La Spezia erano completamente inutilizzabili nei tratti attraversanti l’Alta Valle del Taro.

Così, all’alba del 15 luglio, preceduto da un bombarda­mento di cannoni e mortai, iniziò l’attacco vero e proprio al territorio in mano ai partigiani. Il nemico impiegò tra i venti ed i venticinquemila uomini della divisione Goering e delle divisioni fasciste “Italia” e “Monterosa” contro formazioni partigiane che, complessivamente, raggiungevano poche mi­gliaia di unità. Utilizzando strade rotabili, mulattiere e sen­tieri, il nemico attaccò da ogni parte, da Berceto, dalla Tosca­na e dalla Liguria e strinse d’assedio quei paesi ribelli ove si respirava l’aria della libertà.

I primi attacchi vennero respinti, ma di fronte allo stra­potere del numero e dei mezzi, l’impari lotta non poté prose­guire ed alle formazioni partigiane non restò che sganciarsi dal nemico e ritirarsi nei boschi e negli anfratti ad attendere che l’onda del rastrellamento passasse. Furono giorni di martirio per la popolazione inerme che, quasi sempre stretta attorno ai suoi Parroci, subì coraggiosa­mente la rappresaglia nemica. A Bergotto, Belforte, Corchia, Lozzola, Baselica ed in tutti i paesi investiti dal rastrellamento passarono, come ca­valieri dell’ Apocalisse, le orde teutoniche e fasciste, lascian­do alle spalle distruzione, desolazione e morte. Ma la popo­lazione, stremata ma non doma, generosa e coraggiosa, non abbandonò né tradì i suoi partigiani, e li sostenne come poté anche in quella difficile emergenza.

“La Resistenza – scrisse don Cavalli (30) – non fu soltanto lotta armata; fu anche sollevazione generosa di cuori, fu moto di solidarietà umana, fu anelito incomprimibile di libertà, di fede, di amore che sfidava la ferocia della barbarie organiz­zata e sapeva scrivere col sangue delle vittime innocenti, nel dolore e nel pianto, nel martirio e nell’agonia, la propria in­domita volontà di resurrezione”. Il rastrellamento passò ed il nemico credette di aver “ri­pulita” la zona dai “banditi”, ma gli uomini dispersi e nasco­sti si ritrovarono subito attorno ai propri comandanti e si rior­ganizzarono in formazioni ancor più efficienti.

“Associazione Partigiani Cristiani, Contributo dei cattolici alla lotta di liberazione in Emilia-Romagna”. Atti del convegno di studi tenuto a Salso­maggiore (PR) nel 1964, a cura di don Giuseppe Cavalli, pag. 350.

                                        COSTITUZIONE DELLA BRIGATA

La 2ª Brigata Julia, ufficialmente, si costituì il l0 agosto dell944. Di fatto, a livello operativo, era già una realtà per la stretta collaborazione esistente fra i gruppi che andranno a comporla ed anche perché tutti, Comandanti e Gregari, face­vano capo alla persona di Don Guido Anelli. Concorsero a formarla i battaglioni “Vampa”, “Poppy” e “Fra Diavolo” per complessivi sei distaccamenti. “Vampa”, per qualche giorno ne fu il primo comandante. Poco dopo aderì alla Brigata il tenente degli Alpini Giuseppe Molinari, “Birra”, col suo battaglione pontremolese, composto da quattro distaccamenti. Con l’adesione di “Bir­ra”, l’organico del comando fu il seguente:

Comandante “Birra” (Giuseppe Molinari);

Vice Comandante “Poppy” (Giovanni Iasoni);

Capo di Stato Maggiore “Vampa” (Giovanni Cattini);

Commissario Politico “Severino” (Severino Molinari),

Cappellano e, come è stato sopra detto, indiscusso capo morale, “Don Tito” (Don Guido Anelli).

Alla carica di Comandante venne chiamato “Birra” in quanto Ufficiale degli Alpini ed apportatore di ben quattro Distaccamenti. La figura del Comandante fu sinteticamente ed obietti­vamente tratteggiata nella motivazione della medaglia d’oro consegnatagli a Pontremoli il 2 giugno 1985 dalle Associa­zioni Partigiane in occasione delle celebrazioni del quarante­simo anniversario della Liberazione. In tale solenne circostanza gli venne conferita anche la cittadinanza onoraria di quella città. Essa recitava: “Giuseppe Molinari (Birra), valo­roso ufficiale degli Alpini della Divisione Julia, al rientro dalla campagna di Russia, organizzò sulle nostre montagne, dopo l’ 8 settembre 43, i primi nuclei di ‘ribelli’ pontremolesi, com­piendo numerose operazioni belliche contro le forze nazi – fa­sciste in transito sull’importante valico della Cisa.

Il suo coraggio e l’attività militare non furono mai di­sgiunti da una profonda umanità, consona alla sua ispirazio­ne cristiana, sia verso i prigionieri nemici, sia a favore delle popolazioni inermi” (31) Aristide Angelini, “La Resistenza a Pontremoli – Le Brigate Beretta nelle retrovie della Linea Gotica”, pago 86.

          PERSONALITÀ CHE ADERIRONO ALLA BRIGATA

Fecero parte della Brigata personalità di grande prestigio che vennero quasi subito chiamate ad espletare compiti di altissima responsabilità presso il Comando Unico Parmense. Intendo riferirmi al professore Achille Pellizzari, al Conte Giuseppe Picedi Benettini e all’ Avvocato Franco Franchini.

Il professor Achille Pellizzari (nome di battaglia “Poe”), era nato a Maglie (Lecce) nel 1882. Giovanissimo, venne chia­mato a ricoprire la cattedra di letteratura italiana all’Univer­sità di Messina; successivamente, nel 1919, a quella di Catania ed infine a quella di Genova, della quale, dopo la Libera­zione, diverrà Rettore Magnifico. Nel 1921 venne eletto Deputato al Parlamento Italiano nelle liste del Partito popolare di Don Sturzo e contrastò con la parola e con gli scritti l’occupazione del potere da parte del fascismo.

Durante il “ventenni o” rifiutò di prestare il giuramento al regime fascista, sopportando così, per sé e per i suoi fami­liari, i danni e le privazioni che tale scelta comportò. Dopo la caduta del fascismo, il 14 agosto 1943, come già è stato accennato, 44 docenti dell’ Università di Genova, pro­motore egli stesso, approvarono il seguente ordine del gior­no: “I sottoscritti, Professori dell’Università di Genova, lieti che sia restituita al Paese la libertà, senza la quale non è possibile vita del pensiero, progresso della scienza, feconda attività dell’ insegnamento:

  1. a) salutano i colleghi che attestarono con l’opera e le sofferenze la loro devozione all’autonomia del pensiero;
  2. b) esprimono il desiderio che sia operata una giusta re­visione dei provvedimenti presi dal Regime fascista in mate­ria di cultura e di insegnamento per ragioni politiche e senza il giudizio dei competenti;
  3. c) fanno voti che ai Corpi accademici, alle Facoltà e ai Professori universitari siano restituiti i loro secolari diritti di elezione”.

Pochi giorni dopo, Pellizzari si recò a Berceto e dal già citato documento del CLN di Berceto, datato 18 luglio 1945, emerge che egli fu presente alla riunione quando l’ 8 agosto del 1943 si costituì il locale CLN che diventò clandestino subito dopo l’ 8 settembre. Sessantenne, prese la via dei monti e divenne l’apostolo della Resistenza parmense. Nonostante portasse con sé un male inesorabile, crudele e subdolo come il nemico che doveva combattere, affrontò assieme ai giovani i disagi ed i pericoli della guerra partigia­na per dare a tutti, come scrisse l’avvocato Franchini, “con calore di affetto paterno, slancio di entusiasmo e fascino di eloquio, forza, fermezza e fiducia” (33).

Il 17 aprile’ 45 scriveva al Comandante della 2a Julia che, ai fini del rilascio del tesserino di partigiano e dell’aggiornamento del molino della Bri­gata, gli aveva richiesto le generalità e la data precisa della sua adesione alla Brigata. Dopo aver elencate le generalità, dichiarava: “…quanto alla data, mi riesce un po’ difficile precisarla, perché io ho, come lei e come altri, comin­ciato ad occuparmi del movimento patriottico fin dal settembre-ottobre 1943.

La data tuttavia del giorno in cui entrai a servire regolarmente accanto al povero Colonnello Lucidi, fu il 29 giugno dell’anno scorso”.

Questo documento viene riportato soprattutto per documentare come “Poe” ricordava lo sfortunato Colonnello.

La figura del Conte Giuseppe Picedi Benettini di Sarza­na, “Penola”, appare in tutta la sua grandezza nell’ ordine del giorno n. 4 bis del 22 ottobre 1944, emesso dal Comando della 2ª Brigata Julia per comunicare la sua morte avvenuta a Bosco di Corniglio il giorno 17 dello stesso mese. Esso reci­ta: “In seguito all’azione nemica a Bosco di Corniglio del 17 corrente, è caduto eroicamente l’Ufficiale di collegamento PENOLA, matr. 11339, effettivo al Distaccamento Bosco del Gruppo Orsaro ed ora in servizio presso il Comando Unico Operativo.

Le formazioni partigiane hanno perduto con la sua mor­te uno dei migliori componenti, fulgido nell’abnegazione e nell’attaccamento al dovere. Di nobile famiglia, era giunto tra di noi spoglio di ogni ambizione al di fuori di quella di diventare un valoroso Pa­triota. E tale fu ben presto giudicato e dai compagni e dai superiori che, scorte le sue eccezionali doti, lo chiamavano ad un più alto e delicato incarico. Ad onorare la sua memo­ria, il suo nome è stato legato al Distaccamento d’origine. Volontari della Libertà siete esortati a calcare le sue orme e a non rendere vano il sacrificio ch’egli fece della sua esi­stenza” .

 Franco Franchini di Sarzana, “Franco”, è un altro parti­giano che la Brigata fu onorata di avere nelle proprie file. Ultimati gli studi liceali si iscrisse all’Università di Pisa, presso la quale conseguì la laurea in Filosofia il 28 luglio 1943. Ad un convegno organizzato a Sarzana nel 1939 dal Par­tito Nazionale Fascista sul tema “il G.U.F (Gruppo Univer­sitario Fascista), organo vitale della rivoluzione”, presenti le massime autorità di Sarzana ed il prof. Carlo Alberto Biggini che diverrà Ministro nel Governo della futura Repubbli­ca fascista di Salò, tra lo stupore dei partecipanti, Franchini dichiarò “che i giovani, massimamente quelli che studiano, non hanno apprezzato né sentito la rivoluzione fascista”, ag­giungendo che “al solo pensiero dei Martiri del Risorgimento Italiano, al sacrificio dei Fratelli Bandiera, dei Martiri di Belfiore, sento che un brivido mi pervade e rivivo la loro passio­ne; di fronte ai Martiri della Rivoluzione fascista resto com­pletamente indifferente” (34).

Franco Franchini: “Ettore Bonati – Uno dei tanti”. pag. 24.

Nel suo libro “Ettore Bonati – Uno dei tanti” scrive che l’ambiente universitario contribuì alla sua formazione politi­co- intellettuale e, ascoltando le lezioni dei suoi grandi mae­stri, ebbe “la consapevolezza di operare tutt’ altro che all’uni­sono con l’ortodossia del regime”, Con questi sentimenti e con questi principi, come pote­va, quando giunse l’ora, non battersi per gli ideali per i quali si era venuto formando? L’ 8 settembre, col suo reparto di Fanteria di stanza ad Ormea, combatté contro i Tedeschi.

Dopo varie esperienze di attività cospirative in Liguria con gli amici dell’ organizzazione “Tempesta” si recò nella Valle del Taro ed entrò a far parte della Banda “Vampa”; par­tecipò quindi agli avvenimenti che portarono nel maggio-giu­gno 1944 alla creazione del Territorio Libero del Taro e col­laborò con Achille Pellizzari alla pubblicazione del giornale “La Nuova Italia”.

Per la sua intelligenza e per le sue spiccate doti di orga­nizzatore venne chiamato a rivestire gradi ed incarichi sem­pre più importanti fino a far parte del Comando Unico Par­mense. Visse la tragedia di Bosco di Corniglio del 17 ottobre 1944. Catturato, riuscì fortunosamente ad eludere la sorveglianza tedesca ed a fuggire. Il 23 ottobre 1944 fu a Belforte quando venne eletto il nuovo Comando Unico e, in quella occasione, venne nominato Ispettore Militare del Comando stesso.

Nella mattinata del 26 novembre 1944, mentre attraver­sava la strada statale della Cisa, nei pressi di Berceto, diretto a Pieve di Gravago per riferire al nuovo Comandante “Arta” l’esito di una missione, venne intercettato da una pattuglia tedesca. Nello scontro che seguì, rimase ferito alla gamba destra, spezzata in due parti. I tedeschi, nell’intento di finir­lo, gli spararono una fucilata al viso che, miracolosamente, lo colpì lungo la fascia mandibolare destra, procurandogli una lunga, profonda ferita per fortuna non mortale. Venne portato a Berceto. Gravemente ferito nel corpo, ma non domo, entrò nel paese in barella cantando l’inno di Mameli come sfida di uomo libero agli oppressori nazi- fascisti.

Quel giorno si trovava a Berceto il Comandante “Birra” per un incontro con il Col. Fross, del Presidio tedesco di Pon­tremoli, avente per oggetto uno scambio di prigionieri. Gli passò davanti un’autoambulanza dalla quale si sentì chiama­re. Riconobbe nel ferito Franco Franchini. Senza frapporre indugi, “Birra” fece presente all’Ufficiale tedesco che avreb­be sospeso l’incontro se non gli fosse stato garantito “nel modo più assoluto che questo ragazzo: o lo scambiate o lo mandate all’ospedale per essere curato”. L’Ufficiale tedesco diede tale garanzia, che venne mantenuta (35). L’episodio è stato narrato anche dal Prof. Mario Bonardi in “Berceto nel fronte bellico della Cisa”, pubblicato sul volume “Per la Val Baganza”, pago 101. Iniziò così la sua lunga e dolorosa via crucis ospedaliera e di prigioniero e solo con l’aiuto di medici compiacenti evi­tò la deportazione in Germania.

                      PRIMO COMANDO UNICO OPERATIVO PARMENSE

Il ricordo di queste grandi personalità ha fatto fare alla narrazione un passo cronologico in avanti. Ai fini della espo­sizione, è pertanto necessario ritornare indietro e ripartire dall’agosto del 1944 quando, dopo il rastrellamento di luglio, le varie bande, come è stato scritto in precedenza, si raggruppa­rono in Brigate. Ma la necessità di avere una guida strategica di più ampio respiro che ne coordinasse l’attività e ne perfe­zionasse l’organizzazione portò, anche su sollecitazione del CLN di Parma, alla costituzione del primo Comando Unico che sarà riconosciuto da tutte le unità combattenti della Pro­vincia di Parma.

Questo comando venne creato, alla presenza dei rappre­sentanti del Comando Nord-Emilia Giovanni Vignali, “Belli­ni”, e Enzo Costa “Ferrarini”, a Pian del Monte, presso Tie­do1i (36), Tiedoli è una piccola trazione del comune di Borgo VaI di Taro, sulla sinistra del fiume Taro. Alla fine di agosto 1944 e risultò così composto:

Comandante Unico: Cap. Giacomo di Crollalanza -“Pablo”; Vice Comandante: Primo Brindani – “Libero”; Commissario di guerra: Avv. Primo Savani – “Mauri”;

Capo di Stato Maggiore: Col. Fernando Cipriani- “Ottavio”. Sulla mancata nomina di Achille Pellizzari a Commissa­rio di Guerra al pari dell’ avv. Primo Savani, in data 23 set­tembre ‘ 44, il Comando della Brigata inviò al Comando Uni­co la seguente lettera: “Vi trasmettiamo lo stralcio del foglio inviatoci dal nostro rappresentante in seno al Comitato (CLN ndr) di Parma (Giovanni Vignali, “Bellini”, ndr):

1) Il Commissario Politico presso il Comando Unico Ope­rativo deve considerarsi Commissario e non Vice Commissa­rio come pretendono i P C (Partiti Comunisti, ndr).

Ogni discussione al riguardo è fuori luogo”.

Ed il29 settembre, il Comandante “Pablo” indirizzava a tutte le Brigate il seguente comunicato:

“In seguito a deliberazione del C di L. di Parma, comu­nicataci il giorno 25 c.m., dal suo rappresentante, per tenere conto del voto espresso dalle varie Brigate e nel maggior in­teresse della rappresentanza di esse presso il C U, è stato deciso che presso lo stesso C U vi siano d’ora innanzi tre Commissari Politici con assoluta parità d’autorità e di re­sponsabilità. Sono essi i signori:

Prof Mauri; Prof Pellizzari; Sig. Schiavi”.(37)

 Mauri era l’avv. Primo Savani, esponente del Partito Comunista e rap­presentante delle Brigate Garibaldine; Achille Pellizzari, esponente della De­mocrazia Cristiana, rappresentava le Brigate 13 , 23 Julia e Beretta; Schiavi era Afro Ambanelli, esponente del Partito d’Azione e che rappresentava le forma­zioni “Giustizia e Libertà”. Il Comando stabilì la propria sede a Mariano di Valmoz­zola e come primo atto, in data 3 settembre, diramò ai Co­mandanti di Brigata le direttive generali alle quali dovevano sottostare tutte le formazioni. Tali direttive prescrivevano in modo tassativo la dipendenza delle Brigate dal Comando Uni­co, ferme restando le necessarie autonomie, per quanto ri­guardava le azioni militari di minor importanza ed i servizi di funzionamento. Contenevano disposizioni sulla organizzazio­ne delle formazioni e sulla loro dislocazione. Una particolare attenzione veniva altresì posta sulla necessità dello scambio di informazione tra il Comando Unico e le Brigate e tra le Brigate stesse.

Giovanni Cattini, figlio di emigrati, era nato in Inghilterra ove era vissuto per molto tempo ed aveva portato con sé, oltre che lo stile di quel popolo, anche il senso profondo del­la democrazia e della libertà. Don Aurelio Giussani, che nell’  ottobre del 1944 diverrà Cappellano della Brigata col nome di “Don Carlo”, così lo descrisse nel suo primo incontro: “una barba bionda ed una fluente capigliatura garibaldina mi si fa incontro con un sorriso aperto e leale e con una cavallere­sca stretta di mano: è “Vampa “, la fiamma della Valle del Taro, il cavaliere leggendario dei ribelli di Belforte” (32).

Don Aurelio Giussani: “Diario Clandestino”, pago 48.

 Severino Molinari, “Severino”, deve essere ricordato per la sua saggezza. Sempre pronto a portare la concordia quan­do le inevitabili controversie andavano oltre certi limiti. Ebbe giovanissimo il battesimo del fuoco sul Carso durante la pri­ma guerra mondiale. Anziano, divise la dura vita della guer­riglia coi giovani e spiritualmente rimase sempre giovane.

Don Guido Anelli, fu uno dei tanti Sacerdoti che alla causa della Resistenza hanno dato tutto, affrontando rischi gravissimi e sopportando non comuni sacrifici. Egli accomunò al cosciente coraggio un’attività febbrile, l’uno e l’altra sublimati da un profondo senso di carità cri­stiana che in lui non venne mai meno neppure nei momenti più duri della lotta.

                                                    NOTIZIE VARIE

La Brigata inizialmente, fu composta prevalentemente da alpini della Divisione Julia (38) reduci dai campi di  guerra. La presenza di tanti alpini fu determinante ai fini dell’intitolazione della Brigata al nome della gloriosa divisione alpina. Dai fronti della Grecia e della Russia, ma erano presenti, in misura minore, an­che militari di altri corpi che avevano combattuto su altri fronti. Gli organici vennero gradatamente incrementati soprattutto da giovani che, direttamente o tramite i CLN, entrarono nei ranghi della Brigata. Anche i coscritti della RSI, che avevano disertato i propri corpi appena rientrati dall’ addestramento in Germania, vennero ad ingrossare le file della formazione (39).

Si è trattato prevalentemente di bersaglieri della divisione “Italia” ap­partenenti a reparti di stanza a Berceto, dei quali il locale C.L.N. organizzò la diserzione e l’invio alle formazioni partigiane, in particolare alla 23 Julia. Il gentil sesso era poco rappresentato anche perché, con disposizione del Comando, diramata nel dicembre 44, era stata vietata la presenza di elementi femminili nei reparti e nei comandi.

Il vestiario era il più disparato. Gli uomini indossavano divise inglesi, americane, tedesche, della RSI e qualcuno por­tava ancora abiti civili. Le calzature erano quelle che creava­no i maggiori problemi. Solo nel febbraio del 45, tutti indosseranno divise e scar­pe o inglesi o americane provenienti dai “lanci” (40). Con le calzature le cose non andarono sempre lisce. In data 28/2/’ 45 il comando della Brigata indirizzò al Comando Unico la seguente lamentela: “Si comunica che nel materiale di vestiario del lancio di Porcigatone le scar­pe date in dotazione alla2ªl Brigata Julia erano tutte vecchie e un gran nume­ro di esse destre. Questo riteniamo sia opera di un atto di sabotaggio e chie­diamo siano presi i provvedimenti del caso”.

Anche l’armamento lasciava a desiderare. In un primo tempo le armi scarseggiavano e quelle poche consistevano prevalentemente in moschetti “91”, qualche mitra “Beretta”, fucili tedeschi “Mauser” (i cosiddetti “ta-pum”) e maschinpistole, sempre tedesche, in parte strappate al nemico nel corso dei vari attac­chi e in parte acquistate attraverso misteriosi canali, spesso con la collaborazione dei CLN. In un secondo tempo, con l’inizio dei “lanci” effettuati dagli aerei alleati, l’armamento diventò sufficiente e più, razionale. Si trattava comunque di armi leggere adatte alla guerriglia (mitragliette, fucili mitra­gliatori ed, in minore misura, mitraglie pesanti, bazooka, mortai da 60 americani e da 81 italiani oltre alle relative mu­nizioni).

I distaccamenti della Brigata erano accampati in casolari abbandonati e gli uomini dormivano su duri giacigli, “am­mortizzati” da strati di paglia o di foglie secche. I pidocchi, sia neri che bianchi, non davano tregua. L’alimentazione era spartana. I cuochi, eufemismo per indicare gli addetti alla cucina, facevano quello che potevano ed erano coadiuvati dai partigiani di “corvè” o da prigionieri tedeschi trattenuti presso i distaccamenti. La dura carne di vetuste mucche, ormai improduttive, che serviva per fare il brodo della minestra del “pranzo” di mezzogiorno, veniva riciclata in una specie di spezzatino da servire per la cena della sera o, quando andava male, doveva bastare per il rancio di mezzodì del giorno dopo. Ad onor del vero, la fame vera e propria non è mai stata sofferta, tranne che durante i rastrellamenti.

Nei bidoni utilizzati per i lanci non si trovavano generi alimentari, salvo qualche stecca di cioccolato, o scatole di carne e di granoturco, i cui chicchi erano resi teneri da una soluzione acquosa poco invitante. Il granoturco, alimento molto in voga negli Stati Uniti, ma per niente apprezzato in Italia, veniva dato in pasto alle galline dei paesi ove erano accampati i Distaccamenti. Per far fronte al sostentamento degli uomini si ricorreva alle requisizioni di grano e di bestiame che, quando si era in presenza di disponibilità di denaro, venivano risarcite in con­tanti o, quando questi mancavano, si rilasciavano dei buoni che furono tutti liquidati (41).

Le disposizioni erano di ricorrere il meno possibile alle requisizioni. Comunque, presso le popolazio­ni si trovava sempre un pezzo di pane, di polenta o di casta­gnaccio per lenire l’appetito sempre impellente. L’assistenza sanitaria lasciava spesso a desiderare ed era affidata ad un infermiere di professione che, in caso di neces­sità, si avvaleva dell’ opera dei medici condotti di Ostia Par­mense e di Valmozzola. Nei casi più gravi si ricorreva ad un piccolo ospedale creato ad Albareto, utilizzando le attrezza­ture di quello di Borgotaro, ivi trasferite dopo i bombarda­menti del giugno 1944 che lo avevano danneggiato.

Anche a Compiano, come già accennato, nei locali del castello adibiti a casa di riposo, venne creata, più che un ospe­dale, una infermeria. Ma quando la vallata era rioccupata dalle forze nazi-fasciste, gli ammalati ed i feriti venivano trasferiti in sicure case private o in rifugi ed anfratti, e lasciamo imma­ginare al lettore quale poteva essere l’assistenza. I rapporti con la popolazione, generalmente, erano buo­ni. Nelle pause della guerriglia, molti partigiani non manca­vano di aiutare i contadini nel lavoro dei campi. Tuttavia, ogni tanto, si verificava qualche caso di disturbo nei confron­ti dei civili, ma tempestiva era l’azione repressiva del Co­mando.

Soprattutto nei primi tempi, quando ancora esistevano le bande, alcune case di benestanti, con la debole scusa che du­rante il ventennio erano stati iscritti, come quasi tutti, al par­tito fascista, furono oggetto di rapine vere e proprie che pro­vocarono anche vivaci proteste da parte della popolazione. Ma qualche sporadico episodio si verificò anche successiva­mente, quando le bande erano già state incorporate nella Bri­gata, provocando la ferma presa di posizione del Comando che non esitò ad indirizzare ai Comandanti di due distacca­menti, alcuni componenti dei quali non avevano del tutto perso il vizio, il seguente foglio d’ordine, datato l0 febbraio 1945:

“Nel breve periodo di permanenza in questa zona avete provocato tra la popolazione una forte reazione per la vostra condotta ed a questo Comando da giorni molte persone afflu­iscono per presentare lamentele ed accuse nei vostri riguar­di. Pertanto abbiamo deciso di stroncare questi atti arbitrari e prima di prendere provvedimenti disciplinari a vostro cari­co vi preghiamo di voler desistere dal compiere tali atti che vi mettono maggiormente in urto con la popolazione. I comandanti di distaccamento sono ritenuti responsabili di tutti que­sti atti compiuti dai loro dipendenti”. E questa volta nessuno fiatò.

Da un documento anteriore, in data 5 febbraio 45, emerge che la Consulta, che si identificava nel CLN, posta a capo del Comune di Valmozzola, il cui territorio era quasi interamente occupato dalla 2ª Julia, faceva presente per iscritto al Co­mando della Brigata che “il Patriota   pretendeva che gli venissero consegnate le chiavi degli uffici comunali per po­ter scrivere a macchina i permessi-lascia passare, ma al ri­fiuto opposto, il Patriota     rispondeva che se avrà biso­gno della macchina e troverà la porta chiusa «la sfonderà lui» “. Nello stesso documento veniva segnalato che un altro Partigiano addetto alla requisizione del lardo aveva minac­ciato di “venire lui negli uffici comunali a scaricare due o tre raffiche di mitraglia sui nuovi Consultori”.

Copia di questa lettera venne inviata, per competenza, anche al Commissario Politico del Comando Unico, prof. Achille Pellizzari, il quale, il 6 febbraio 45, senza frapporre indugi, scriveva di suo pugno al Comando della 2ª Julia, con una calligrafia che lasciava trasparire un certo nervosismo, la lettera del seguente tenore:

“Mi consta che il Patriota     abbia con modi inurbani preteso di poter entrare a qualsiasi ora nei locali del Munici­pio di Valmozzola, adducendo come motivo il suo bisogno di valersi della macchina da scrivere del Comune per rilasciare non so quali lascia-passare.

Prego codesto Comando di richiamare il Patriota ……. ad una più modesta considerazione dei suoi poteri (che non so quali siano, né da chi rilasciatigli) ad un maggior rispetto per il Comitato di Liberazione di Va1mozzola, il quale rappre­senta nel Comune l’autorità del Governo Nazionale. Se è proprio necessario, il Patriota   chieda l’uso del­ la macchina da scrivere come un atto di cortesia e lo chieda nelle debite forme e nelle ore in cui il Municipio è aperto. Mi consta pure che un altro Patriota, incaricato della re­quisizione del lardo, avrebbe minacciato di scaricare colpi di mitraglia contro la nuova Consulta del Comune. Questi atti di prepotenza, queste minacce di pretta marca fascista, nuoc­ciono al nostro buon nome e contrastano con gli ideali per i quali combattiamo. Prego vivamente di richiamare le perso­ne addette a incarichi speciali al massimo rispetto verso tutti i cittadini e specialmente verso quelli che, nei Comitati di Li­berazione, combattono con noi per la causa nazionale”.

La disciplina, nel suo complesso, era soddisfacente. La­sciava a desiderare l’ottemperanza alla disposizione di non allontanarsi dai distaccamenti senza permesso e di non spa­rare per evitare allarmi inutili e per non consumare munizioni. Diversi sono stati i provvedimenti disciplinari, consistenti nell’ infliggere 5 giorni consecutivi di guardia e punizione, a coloro che avevano trasgredito le disposizioni che vietavano l’uso delle armi (spari) senza giustificata motivo.

Una punizione, consistente nei soliti 5 giorni di guardia e pattuglia, venne inflitta ad un partigiano che si era eclissato per evitare il servizio di guida ad esponenti del Comando Unico, mentre venne soltanto rimproverato per iscritto un al­tro partigiano che “adempiva lo stesso servizio con poco zelo”. Il patriota “Tasso”, Guido Dellapina, veniva incaricato di “procedere al disarmo ed al sequestro degli indumenti avuti in dotazione” di alcuni patrioti che, allontanatisi, non aveva­no fatto ritorno al distaccamento. “Sarà evitato quanto sopra se i detti patrioti provvederanno immediatamente a rientrare in distaccamento. Qualsiasi atto di insubordinazione alle suaccennate disposizioni verrà segnalato al Tribunale Supe­riore di Guerra”.

Al patriota  venne commutato in ammonizione scrit­ta il provvedimento di espulsione “per i cattivi precedenti già comunicati al C. U per infrazioni alle norme disciplinari. Ri­chiamato dal V Comandante di Brigata lo offendeva grave­mente di fronte a persone estranee alla nostra formazione e si rifiutava di eseguire un ordine impartitogli dal Capo di Stato Maggiore. A seguito dell’ “ammonizione” il patriota ……. viene destituito dalla carica di Commissario Politico del Di­staccamento… “.

Al Patriota       verranno inflitti “cinque giorni conse­cutivi di guardia e pattuglia perché si faceva prestare, col pretesto di usarle per servizio, un paio di scarpe e si recava invece ad un trattenimento danzante”.

Nonostante il divieto del Comando, ogni tanto si teneva infatti qualche festa danzante, più o meno clandestina, per­ché ad esse, a volte, non mancava di partecipare anche qual­che Comandante. Ma, indipendentemente dall’uso che ne faceva il non no­minato patriota, il fatto metteva in evidenza la dura realtà della carenza di calzature anche per il servizio. Provvedimenti più gravi vennero adottati, con l’obbligo della restituzione, nei confronti di partigiani che avevano sot­tratto viveri e vestiario alla Brigata o che avevano razziato oggetti nelle case di privati.

Il caso più grave venne comunicato al Comando della Brigata dal Comandante del Distaccamento di polizia della 12ª Brigata Garibaldi in data 21 marzo 45. Si trattava di un partigiano della 2ª Julia che il17 marzo, “in Marzolara, pro­cedeva all’arresto di   ….e ……di      , da Spezia, accusate di aver proferito frasi diffamatorie e di minaccia all’indirizzo di partigiani. Durante la traduzione delle predette al comando del battaglione “Barbieri” della 12ª B.A. G. (Brigata d’ Assal­to Garibaldi, ndr), il….abusava della……. congiun­gendosi carnalmente con lei in aperta campagna, consumando casi il delitto di violenza carnale e oltraggio al pudore.

Inoltre il          (sempre il suddetto individuo, ndr) che si spaccia come incaricato degli approvvigionamenti di code­sta brigata, esercita in effetti attività commerciale illecita a suo personale vantaggio, in VaI Baganza, dove è conosciuto come persona che esercita abitualmente il mercato nero.

Questo comando, per ora, ha soprasseduto alla regolare denuncia, in attesa dei provvedimenti che codesta brigata vorrà adottare nei confronti del patriota suddetto che si è di­mostrato elemento indegno di appartenere ulteriormente alle formazioni patriottiche”. Il responsabile di tali gravissimi fatti venne immediatamente deferito al Consiglio di Disciplina per ben altri provvedimenti. Le comunicazioni tra i distaccamenti ed il Comando di Brigata, fra questo e le altre Brigate ed il Comando Unico ed i CLN erano discrete. Oltre ad un efficiente servizio di staf­fette, svolto ottimamente anche da personale femminile, ve­nivano utilizzati i telefoni della società elettrica C.I.E.L.I., le cui gabine, dislocate lungo le linee dell’ alta tensione, erano collegate tra loro con autonome linee telefoniche.

Grazie all’opera degli uomini addetti a queste gabine, disponibili in ogni ora del giorno e della notte, in pochi mi­nuti si potevano trasmettere e ricevere messaggi anche dalle più lontane zone della Provincia. A questi uomini vanno i sentimenti di riconoscenza di tutto il movimento resistenziale. I mezzi di trasporto erano le “gambe”. Si era “motorizza­ti a piedi”, come recita la vecchia canzone degli Alpini. Pra­ticamente inesistenti i veicoli a motore che, tra l’altro, tenuto conto che le vie di comunicazioni erano quasi sempre le mu­lattiere, sarebbero stati di scarsa utilità. Per prevenire il rischio che il Comando Unico imponesse la consegna di qual­che quadrupede, a diverse richieste di informazioni da parte di questo Comando, nel marzo 45, veniva risposto che la Bri­gata aveva in dotazione “due cavalli, un mulo ed erano requi­sibili tre asini”.

Il Comando Unico, nel settembre del 44, trasmise le istru­zioni per confezionare le cosiddette bottiglie incendiare “Mo­lotov”, ma non risulta che siano mai state utilizzate dalla Bri­gata, preferendosi usare contro camion e carri armati le bom­be cosiddette “ballerine” (42). Trattavasi di bombe munite di una “veste” di tela (da qui il nome di ballerine) dentro la quale venivano inseriti tubetti di gelatina esplosiva che ne ingigantivano la potenza.

                                                         CANTI PARTIGIANI

Nelle lunghe veglie o durante le marce si udivano i cori dei partigiani che echeggiavano nelle vallate.

. Sconosciuta “Bella ciao”, oltre alle canzoni allora in voga, l canti preferiti erano quelli che qui di seguito vengono riportati.

Le strofe del primo, che non reca alcun titolo, sono state scritte da un partigiano della lª Brigata Julia, Cesare Bassani, “Sam”:

“Sugli aspri monti ci siam fatti lupi,

il nostro grido è ‘libertà o morte

al piano scenderem per la battaglia

per la vittoria.

Noi rivivrem in un fulgor di gloria,

sorriderem nel riveder la vita,

sul campo sorgerà la nuova Italia

con la guerriglia.

Per vendicar un mucchio di vergogne,

per risanar un mondo d’ingiustizie,

rimbomba col suo rombo redentore

la dinamite.

Per tutti i nostri morti invendicati,

per tutte quelle facce scheletrite,

compenseremo sulle barricate

piombo con piombo.

Fin dove possa spingersi lo sguardo,

lontano sino all’ultimo orizzonte,

farem che giunga a vendicar l’oltraggio

la nostra guerra.

Fra vette, boschi e valli ci battiamo

perché si possa ancora con orgoglio

gridare come il tuono e

ancor più forte viva l’Italia.

L’altro canto s’intitola “La canzone del partigiano”. Sem­bra sia stata adattata da un partigiano della 2ª Julia ed è il seguente:

“Spunta il mattino,

per la discesa lungo la montagna

i partigiani sono già in cammino.

L’ora è suonata,

il bacio della mamma li accompagna

            e un fiore rosso della donna amata.

La Patria chiama,

tutti corrono all’appello

lasciando il paesello,

lasciando il casolar.

Solo per vincere o morire

andiamo alla montagna,

mamma nascondi il tuo soffrire

            non piangere ma spera.

Guarda c’illumina il cammino

la più lucente stella,

la nostra Italia bella,

per lei si vincerà.

Notte stellata,

in ogni cuore c’è una nuova fiamma,

            comincerà tra poco l’imboscata.

Solo in vedetta

il partigiano pensa alla sua mamma,

 rivede i monti, pensa alla casetta,

ma d’improvviso lo scuote un grido

e corre alla riscossa,

ma una macchia rossa

sulla camicia appar.

Su Montagnana conquistata

sventola la bandiera.

Mamma nascondi il tuo soffrir,

non piangere ma spera.

Brucia sul petto una ferita, ferita di mitraglia.

c’è sopra una medaglia

ed io la mando a te.

La vecchia mamma

vestita in nero piange il suo tesoro,

ma stringe al cuor

una medaglia d’oro.

 

A questi canti, scritti od adattati da qualche “composito­re” partigiano, spesso si mescolavano i vecchi e tristi canti degli Alpini. Spesso faceva parte del repertorio la simpatica canzone tedesca “Lilì Marleen” (“Sotto quel fana!      “)

                             L’ASSISTENZA RELIGIOSA

L’assistenza religiosa alla Brigata fu curata prima da Don Guido Anelli e successivamente da Don Aurelio Giussani, “Don Carlo”, da tutti chiamato “Don Barbetta” per via dell’ impertinente pizzetto che onorava il suo mento. Assistette spiritualmente anche diversi Distaccamenti della lª Brigata Julia. Come egli scrisse nel già citato “Diario Clandestino”, assieme a Mons. Civardi organizzò presso il Comando Unico “L’Ufficio Centrale di assistenza religiosa alle formazioni della montagna”. Utilizzando “i nuovi Sacerdoti saliti alla montagna ultimamente”, Essi cercarono “di colmare tutti i vuoti e di dare a tutte le Brigate, o almeno Divisioni, un Cappellano”. Don Carlo venne “incaricato come ispettore della zona parmense e Cappellano della Divisione VaI Taro… “(43)(44).

(43) Aurelio Giussani, op. citata, pago 97.

Mons. Civardi, come si legge nel già citato libro “Nella Bufera della Resistenza”, pago 13,: “fu uno dei sacerdoti più impegnati nel Movimento di Liberazione Nazionale. Delegato vescovile per l’assistenza ai partigiani, ne organizzò la pastorale, nominando sacerdoti che prestarono la loro assisten­za nelle varie Formazioni…”.

                                RAPPORTI CON LE ALTRE BRIGATE

Fraterni erano i rapporti con le altre formazioni partigia­ne, anche se, ogni tanto, si creava qualche problema. Il 26 gennaio 1945, il Commissario Politico della Briga­ta “Beretta”, don Mario Casale (“Mario”), scriveva al Co­mandante della 2ª Julia, “Birra”, se gli poteva consegnare al­meno quindici prigionieri tedeschi da scambiare con parti­giani prigionieri, “ma se sono di più meglio perché ci sono dei civili (da scambiare, ndr) che ci sono stati fedeli”.

Il giorno successivo, pronta fu la risposta: “Questo Co­mando ha disposto di fornire a questa brigata i quindici pri­gionieri richiesti         “. Esistono altri documenti che testimoniano la stretta col­laborazione fra le Brigate, ma chissà quanti furono gli accor­di (e furono certamente i più) che si perfezionarono solo ver­balmente.

Un altro documento che reca la firma “Patriota 2ª Julia, Camoscio (45) ” Camoscio era il nome di battaglia di Francesco Calzi di Berceto, Co­mandante del distaccamento “Lucidi”,

così recita:

“Berceto, 19/12/44 ore 15, Onorevole Comando l a Brigata Julia

Una staffetta di Berceto c’ informa che a Berceto al Co­mando Tedesco Russo vi è 25 patrioti della Vostra Brigata. Tale Comando desidera entro domani sera di sapere se avete gli uomini da fare il cambio, inviando Vostra dichiara­zione e specificando il luogo dove deve venire lo scambio. I patrioti Vostri sono stati presi a Solignano e Rubiano e Boia. La staffetta Vostra con tale dichiarazione deve essere conse­gnata al Comando Russo a Berceto “.

Ma ai rapporti di collaborazione si contrapposero episo­di (pochi in realtà) che crearono qualche contrasto. Il 5 febbraio 1945, il Comando della Brigata scriveva alla Brigata Garibaldi Val Ceno (la 31ª Brigata Garibaldi, ndr), lamentando che il Comandante di un Distaccamento si era “abusivamente impossessato di ben n. 5 canne di ricambio per Bren e n. 2 mitra di proprietà di questa Brigata” e ne chiedeva l’immediata restituzione, minacciando: “ogni altra irregolarità sarà denunciata ai superiori Comandi”. In data 26 febbraio venne richiesto al Comando della Brigata Beretta la restituzione di un mitra e di sei sten che erano stati prelevati da un reparto di detta Brigata.

Il 21 aprile 1945, è la 32ª Brigata Garibaldi d’assalto Monte Penna a lamentarsi col Comando della 2ª Julia perché, nei pressi di Ghiare di Berceto i suoi uomini vennero” bersa­gliati da nutrito fuoco di fucileria”. Non solo, “nel passaggio del Taro sono esplosi vicino a noi ed a persone vari colpi di mortaio”. La lettera concludeva, logicamente, con l’invito ad avvisare i reparti “di desistere da tali esercitazioni…”.

                                         DISLOCAMENTO DELLA BRIGATA

Il dislocamento della Brigata, fino al dicembre 1944, ebbe sempre come base il triangolo Ostia Parmense –Berceto -Pas­so della Cisa, ove era accampato il grosso dei distaccamenti di “Vampa” e di “Poppy”. Quelli di “Birra” coprivano il terri­torio compreso tra il Passo della Cisa-Passo del Cirone – Gron­dola – Pontremoli, mentre quelli di “Fra Diavolo”, dopo una breve permanenza all’Olmo Grosso, località di Belforte vici­no al Passo della Cisa, vennero dislocati tra Cassio- Berceto­ Calestano. I confini non furono mai rigidi e si registravano continui spostamenti.

Nella prima metà di dicembre 1944, il Comando Unico dispose il trasferimento di tutta la brigata, escluso un distac­camento, nel Comune di Valmozzola, sulla sinistra del fiume Taro, per “garantire, per quanto possibile, questo C. U, nel periodo di sua permanenza qui (Monastero di Gravago del Comune di Bardi, ndr)…”. Ma alla fine di gennaio 1945 tale ordine era stato esegui­to solo parzialmente perché i partigiani della 2ª Julia non vo­levano allontanarsi dal territorio comprendente i paesi di Bel­forte, Baselica, Gorro, Lozzola, Bergotto e Corchia, alla de­stra del Taro, che conoscevano palmo a palmo.

Nel mese di gennaio pervenne un nuovo ordine del Co­mando Unico al quale il Comando della 2ª Julia rispose di riservarsi “di passare nella zona di Mariano (Comune di Val­mozzola, ndr) non appena avesse riconosciuto nella zona sud­detta le debite misure di sicurezza  “, facendo presente al detto Comando Unico che “dovrebbe ricercare la sua incolu­mità in seno ad una brigata in zona di sicurezza e non facen­do trasportare per la sua incolumità la Brigata in una zona assolutamente priva di ogni elemento di sicurezza ai fianchi ed alle spalle”. Piccole schermaglie. Tuttavia, verso la metà di febbraio 1945 tutta la Brigata, tranne un Distaccamento, si trasferì nella nuova zona, anche se il suo terreno operativo restò prevalen­temente  quello precedente.

                                    CONSISTENZA NUMERICA

La Brigata, alla data della sua costituzione aveva una forza complessiva di circa 250 unità ed era articolata su quattro Battaglioni per complessivi 10 Distaccamenti. Nonostante il passaggio di alcuni distaccamenti alla Brigata “Giustizia e Libertà” (ottobre 1944) ed alle Brigate “Beretta” (febbraio 1945), salvo momentanee flessioni, la consistenza andò sem­pre aumentando e, mediamente, oscillò tra le 300 e le 350 unità, mentre invariato rimase il numero dei Distaccamenti.

                                            APOLITICITÀ DELLA BRIGATA

Per quanto concerne l’ apoliticità della brigata, il Coman­do, in data 9 ottobre 1944, su sollecitazione del CLN della Provincia di Parma, indirizzò ai Comandanti di Distaccamento le seguenti disposizioni:

“Il Comitato di Liberazione Nazionale ha constatato che, contrariamente alle direttive emanate a suo tempo ed allo spi­rito di sano patriottismo che deve animare le formazioni par­tigiane, queste hanno assunto nella nostra Provincia uno spic­cato carattere di partito. Esso è caratterizzato dalla esibizione di emblemi, vessil­li e indumenti di colore, nonché dalla propaganda di partito svolta dai CP (Commissari Politici, ndr) in seno alle forma­zioni. Troppo spesso un giustificato spirito di corpo degrada meschinamente in un senso di settarismo che porta la disu­nione tra gli stessi Comandi di Brigata e di Distaccamento, minacciando di diventare un elemento disgregatore dell’effi­cienza militare delle formazioni stesse.

Preso atto di tale pericolosa situazione il detto Comitato dispone che nel modo più assoluto e categorico i Comandi intervengano tempestivamente perché venga immediatamen­te eliminato questo inconveniente. E specificatamente ammoniscono che nelle formazioni:

 I° – NON DEVE ESSERE SVOLTA NESSUNA PROPAGAN­DA DI PARTITO.

  I Patrioti devono essere animati esclusivamente da uno spirito di puro patriottismo e di leale emulazione nella realiz­zazione dei programmi di liberazione dal giogo nazista. La cittadinanza e la provincia tutta guarda ai giovani della montagna cercando in loro le caratteristiche dei pa­trioti e non dei settario

ESSI NON DEVONO TRADIRE LA FIDUCIA DEL POPOLO.

I Commissari Politici, nei loro contatti coi reparti, devono svol­gere immediata attiva propaganda tesa a questo unico scopo.

2° – NON SONO AMMESSI DISTINTIVI DI COLORE. Deve pertanto vietarsi immediatamente che i Patrioti si fregino camicia e berretti con emblemi di Partito, quali falce e martello, stelle rosse a sei punte e distintivi di qualsiasi al­tra corrente politica. Un solo ed unico segno può fregiare il petto e le armi dei Patrioti: la stelletta militare metallica (e non stelle di foggia diversa) a 5 punte ed il tricolore sotto (orma di coccarda, bracciali, fazzoletti (e non sotto forma di stelle facilmente equivocabili) (46).

Si intendevano le stelle rosse comuniste.

Per dovere di cronaca non si può non ricordare che i Com­missari Politici di certe Brigate si preoccuparono più di fare opera di indottrinamento politico che di servire la causa della libertà (47). Su questo tema si biforcano quelle che gli storici chiamano “le due Resistenze”. Una che aveva per obiettivo esclusivo la liberazione nazionale e, politicamente, faceva riferimento alle grandi democrazie occidentali. L’altra che si proponeva di andare oltre la liberazione e di prolungare la lotta con lo scopo di inserire l’Italia nel blocco comunista. In questo contesto, lª 2ª Julia si colloca senza esitazione alcuna in quella resistenza che mirava esclusivamen­te alla cacciata dell’invasore ed al ripristino delle libertà democratiche.

                                        RAPPORTI CON  CLN di BORGOTARO

Il CLN di Borgotaro venne costituito nel settembre del 1944 su iniziativa del Comando della lª Brigata Julia che provvide altresì alla nomina dei suoi membri.

Con lettera del 30 settembre 44, indirizzata ai Membri del Comitato, il Comando di detta Brigata impartì le seguenti disposizioni:

“Come già comunicato con circolare N 25 (che non si è riusciti a rintracciare, ndr) il Comitato di Liberazione Nazio­nale è formato dai seguenti cittadini.

Picelli Gino per il partito comunista, Marchini Cav. Francesco – per il partito democratico cristiano Prof. Pierangeli Lino per il partito liberale, Ferrari Luigi per i senza partito;

Facciamo presente, come da precisazioni pervenuteci dal Comando Unico, che al Comitato di Liberazione Nazionale deve essere demandata la risoluzione di ogni questione con­cernente la popolazione civile, l’amministrazione degli enti statali e comunali ed i patrioti, che il CLN rappresenterà in qualità di governo locale.

La lettera conteneva altresì il dettaglio dell’ attività spe­cifica che il Comitato doveva svolgere.

Sporadici furono i rapporti tra questo CLN e la 2ª Julia. Se ne trova una riprova in una comunicazione, datata 17 otto­bre 1944, indirizzata al Comando Unico, al Comando della

1ª Brigata Julia ed al Comando della Brigata Beretta, e non alla 2ª Julia, a mezzo della quale veniva inviata dal detto Co­mitato una relazione sulla situazione politica ed amministra­tiva del Comune e sugli indirizzi programmatici che il CLN intendeva svolgere.

Nonostante le funzioni demandategli con la citata lettera del 30 settembre, in pratica, al CLN venne lasciata poca auto­nomia e ciò si deduce da un documento del 26 ottobre 44 che recita:

“Questo territorio è posto sotto la giurisdizione della 1ª Brigata Julia a tutti gli effetti. Per la risoluzione di tutte le controversie, per i provvedimenti civili ed amministrativi è competente solo questo Comando di Brigata… omissis”.

Più chiari di così…!

Va precisato che, se i rapporti tra il CLN di Borgotaro e la 2ª Julia erano limitati, ciò era dovuto al fatto che questa Brigata occupava soltanto zone marginali del Comune, rap­presentate dalle frazioni di Baselica, Belforte, Tiedoli e Gorro. Comunque, qualche rapporto necessariamente esistette e se ne trova la conferma in un documento del 3 febbraio 1945

avente per oggetto l’accordo fra le brigate ed il CLN di Bor­gotaro che recitava:

“Oggi con l’intervento dei rappresentanti di questo Co­mitato (Lupo e Gianni) e dei rappresentanti della Brigata Julia (Libero e Lino), della 2ª Brigata Julia (Severino), della 1ª e 2ª Beretta (Gino e Mario) si è convenuto per quanto segue:

L’Amministrazione del Comune di Borgo VaI di Taro vie­ne esercitata fattivamente da questo Comitato, figurativamente nella persona del Commissario Prefettizio (48)

(48) La Prefettura di Parma nominò Commissario Prefettizio del Comune di Borgotaro Alarico Gasparini, un fascista moderato che, di fatto, non avrebbe potuto svolgere le sue funzioni senza il benestare del Comando della lªBriga­ta Julia, benestare che venne comunicato al CLN di Borgotaro a mezzo della seguente lettera datata 6 ottobre 1944: “Questo Comando ha ratificato la no­mina a Commissario Prefettizio per il Comune di B. Taro di Gasparini Alarico, il quale ha sottoscritto la seguente dichiarazione: «Il sottoscritto Gasparini Alarico, nella sua funzione di commissario civile per il comune di B. Taro, garantisce nella forma più netta che si terrà fuori d’ogni attività politica. ­B. Taro 2-10- ’44.»”.

 

 , perciò tutte le ordinanze in materia civile emesse da costui s’intendono come emesse da questo Comitato.

Pertanto si è addivenuti a quanto segue:

1) – I Comandanti delle suddette Brigate si impegnano di fare osservare tutte le disposizioni emanate dal Comune.

2) – L’Amministrazione dell’Ospedale Civile viene con­trollata direttamente dal Comitato.

3) – Costituzione di un Corpo di Polizia Comunale con elementi tecnici già accettati dal Comitato e dalle Brigate per quanto riguarda la repressione di reati annonari e civili:

  1. a) Le Brigate a loro volta s’impegnano di dare la loro completa cooperazione ed appoggio alla Polizia nell’ adem­pimento delle sue mansioni.
  2. b) Le Brigate organizzeranno speciali reparti per il con­trollo nelle periferie del Comune e renderanno edotto il loca­le Comando di Polizia di ogni operazione eseguita e delle eventuali quantità di merce sequestrata.

4) – Le Brigate saranno vettovagliate da questo locale Comitato, d’accordo con l’Intendenza, nel limite del possibi­le con i generi a disposizione del Comune, considerando i bisogni strettamente indispensabili alla popolazione civile:

  1. a) I generi alimentari saranno distribuiti da questo Co­mitato fra le varie Brigate, tenendo presente la forza effettiva delle Brigate stesse e la loro dislocazione.
  2. b) A tale distribuzione dovrà essere presente un rappre­sentante di ogni Brigata per controllare ogni distribuzione.

5) – Ogni requisizione tanto di generi alimentari che al­tro materiale fatto dalle Brigate deve venire immediatamente segnalata a questo Comitato.

6) – Le Brigate si impegnano nel modo più assoluto della parola di non intromettersi nelle questioni civili del Comu­ne.

Finalmente, nel febbraio 1945, si giunge a quella divi­sione dei compiti civili da quelli militari che era stata negata  con quel documento del 26 ottobre, precedentemente citato.

Albareto, allora, faceva parte del Comune di Borgotaro, ma vi era stato creato un Sotto Comitato di Liberazione Na­zionale, il quale, richiamandosi al problema dell’Ospedale, scriveva ai Comandi delle Brigate “Beretta”, lª e 2ª Julia, al Comando Unico, al CLN di Borgotaro ed alla Direzione dell’Ospedale di Albareto facendo presente la necessità di esse­re sovvenzionato “dato che esso ricovera essenzialmente Pa­trioti di tutte le Brigate”.

 

CLN di BERCETO

 

Più stretti, sistematici ed estremamente collaborativi furo­no i rapporti tra la 2ª Julia ed il CLN del Comune di Berceto nel cui territorio -attraversato dalla Strada Nazionale 62 della Cisa e da quella, allora, Provinciale, che collegava il Parmen­se con la Liguria attraverso i Passi del Centocroci e del Boc­co – si svolse prevalentemente l’attività militare della Brigata.

Berceto era diventata la piazzaforte più importante dello schieramento tedesco a protezione delle suddette vie di co­municazione ed in particolare di quella della Cisa.

Vi stazionava un presidio tedesco costituito, mediamen­te, da 300/350 unità. Anche le divisioni fasciste “Italia” e “Monterosa” vi mantennero i loro presidii, soprattutto duran­te i rastrellamenti. I locali del Seminario, in tempi diversi, furono utilizzati da queste due unità come ospedale.

Fu sede anche di un comando della “Feldgendarmeria” e di una squadra di SS alla quale era preposto un sergente di nome Jost, tristemente noto alle formazioni partigiane. No­nostante che egli rivestisse soltanto il grado di sergente, im­poneva la sua autorità anche agli ufficiali di grado a lui supe­riore. Si diceva che il suo grado effettivo fosse quello di Ca­pitano.

Non vi fu partigiano o civile, collaboratore dei partigia­ni, che, caduto prigioniero, non abbia subito negli interroga­tori le sue sevizie.

Il CLN di Berceto si costituì, come è già stato riferito, presente il prof. Achille Pellizzari (49),

(49) Il prof. Pellizzari, come ogni anno, si trovava a Berceto per trascorrervi un periodo di vacanza.

 l’ 8 agosto del 1943, appena due settimane dopo la caduta del Fascismo.

Indubbiamente la lungimiranza del prof. Pellizzari anti­cipò la creazione di questo organismo che si dimostrerà in­dispensabile alla lotta armata che si accenderà pochi mesi dopo anche sulle montagne bercetesi.

Nella già citata lettera del 18 luglio 1945, scritta subito dopo la Liberazione, inviata dal Presidente Zanzucchi al Co­mando della 2ª Julia e per conoscenza al Comando Unico per relazionare sull’attività svolta dal suo CLN, venne eviden­ziato che esso si adoprò per l’evasione di gruppi di soldati della divisione “Italia” con armamenti, cavalli, radio trasmit­tenti, viveri, automezzi e che da Berceto iniziò lo sgretola­mento dell’intera Divisione.

Il grande impegno di questo Comitato consistette anche nella raccolta e nell’ invio alla Brigata di denaro, armi, medi­cinali e viveri. Riuscì persino a far ricoverare clandestina­mente nell’ ospedale, gestito dal nemico, partigiani bisognosi di cure (50).

(50) Ne troviamo una prova anche in una lettera dell 6 marzo ’45 indirizza­ta a Bazan che recita: “Ieri sera è capitato qua in Buluara il partigiano Orsini Carlo, che era ricoverato all’Ospedale M (militare, ndr) di Berceto sin dal dicembre e che il Pro! Ferretti fece di tutto per non consegnarlo ai russi.”

 

Su iniziativa del CLN si costituì, nel marzo del 1945, un Centro di Contro Spionaggio (in sigla C.C.S.), avente lo sco­po, come si legge in un documento datato I0 marzo 1945, “di indagare, reprimere e combattere il pericoloso spionaggio che infesta la zona Bercetese” e di tenere informato il Comando della 2ª Julia di tutti i movimenti delle truppe nemiche transi­tanti per Berceto da o per il fronte.

All’ inizio fecero parte di questo Centro di Controspio­naggio: Ferdinando Zanzucchi (Z.20), Luigi Molinari (H.3), Adele Zanzucchi (Z.24), Ernestina Agnetti (Ombra) e Luigi Calzi (Farina).

Alla comunicazione del 12 marzo e ad una successiva del 16 in ordine alla costituzione ed alla integrazione di que­sto servizio di controspionaggio, dei nomi delle persone adi­bite a questa attività e delle relative sigle di copertura, il Co­mando di Brigata, con lettera del 19 marzo 1945, nell’esprimere il suo plauso all’iniziativa, dissentì all’inclusione di Zanzucchi nell’ organico di questi “007” perché “non è con­cepibile che il signor Zanzucchi Ferdinando, arrestato più volte per motivi politici, possa svolgere un ‘attività intensa a contatto con elementi nemici, mentre è già ricercato e non potrà quindi prendere contatto con gli elementi nemici che possono fornire notizie.

È notorio, infatti, a tutti che egli appartiene alle forma­zioni patriottiche e la sua nuova attività potrebbe essere dan­nosa anziché a vantaggio nostro”.

Venne altresì meglio organizzato il centro staffette ne­cessario ai collegamenti rapidi coi Comandi partigiani, ma spesso le funzioni di questo servizio e del centro di contro­spionaggio venivano indifferentemente svolte da entrambi i due organismi i cui componenti, oltre a quelli precedente­mente elencati, erano i seguenti: Consigli Luigi (Foglia 1), Consigli Bruno (Foglia 2), Consigli Silvio (Foglia 3), Franceschini Irene (Ciupi 1), Racasi Elsa (EIsa), Zanzucchi Giuseppe (22), Francescon Aristodemo (Trevisan).

I rapporti tra CLN e le formazioni partigiane ebbero an­che qualche increspatura, subito appianata.

La più aspra sorse con riferimento ad un episodio riguar­dante una squadra di bersaglieri della Divisione “Italia”, rien­trati dalla Germania dopo l’addestramento.

Il CLN ne aveva organizzata la diserzione ed il trasferi­mento a Valbona (51),

(51) Piccola frazione del comune di Berceto a sud del capoluogo.

presso una squadra di partigiani delega­ti a riceverli, ma, qui giunti, non trovarono i loro zaini, porta­ti ivi in precedenza.

Luigi Consigli, “Foglia”, appena ne venne a conoscenza, a nome del CLN indirizzò a “Manifesto” (52),

(52) Nome di battaglia di Pietro Campi, Comandante di un Distaccamento.

la seguente let­tera, datata 21 gennaio 1944:

“Mi rivolgo a te perché ho saputo che i bersaglieri sono di tua competenza. Saprai che il sergente Belletri (53)

(53) Era il Comandante della squadra di bersaglieri che avevano disertato.

e com­pagni non hanno ricevuto gli zaini che erano stati consegnati alle staffette a Valbona. Stamane è giunto un biglietto da Val­bona dove dicono che a Valbona sono stati consegnati gli zaini al completo.

Dunque, credo ci vorrà poco a sapere chi ha fatto spari­re la roba. Credo vorrete prendere provvedimenti in proposi­to e tengo anche a farvi sapere che il Comitato è fuori dalle grazie di Dio.

Se non riuscirete a rintracciare la roba e punire i colpe­voli nulla si farà per voi per l’avvenire    “.

Il 15 ottobre 1944, il Comando della Brigata, in base a notizie pervenutegli dal CLN di Berceto, informò il Coman­do Unico, che da poco si era trasferito a Bosco di Corniglio (54),

(54) Bosco è una trazione del comune di Corniglio ove si era trasferito Comando Unico a seguito del dispaccio del Comando Alleato, inviato il 2 ottobre ’44, contenente disposizioni per predisporre un piano operativo riguardante la discesa delle formazioni partigiane verso la pianura per l’attacco ( alle forze nemiche in concomitanza con l’avanzata delle truppe alleate, avanzata che invece si arrestò sulla Linea Gotica predisposta dai tedeschi. Bosco I Comiglio, distante solo 60 km da Parma, era stato scelto come base per dirigi re e seguire le operazioni militari delle formazioni partigiane.

 

che “ieri a Berceto un maresciallo della milizia chiariva ad una nostra informatrice che erano in arrivo circa duemila tedeschi per un probabile rastrellamento. Nor. sa di quale zona”.

Indubbiamente il Comando Unico non dette peso all’informazione. Non si trattava di duemila uomini, ma dei duecento che il mattino del 17 ottobre attaccarono di sorpresa Comando stesso. La riprova emerge da un documento senza data, ma che è certamente dell 7 ottobre, redatto da “22” (Giuseppe Zanzucchi) e che reca anche la firma di “Ciupi” (Irene Franceschini) indirizzato a “Peppino Birra” che così recita,

“Fin da stamattina fui avvertito che i tedeschi presero quali guide uomini di Berceto per recarsi al Passo del Cirone, non diedi molta importanza alla cosa, ma proprio in questo momento mi giunge una staffetta sempre da Berceto Ci mi informa che un gruppo di 200 tedeschi stanno combattendo al Passo del Cirone e anzi attendono rinforzi di milizia da Fornovo”.

Si trattava effettivamente dei tedeschi che dopo l’ eccidio di Bosco, sulla strada del ritorno, vennero impegnati sul Cirone da una formazione partigiana.

In una lettera senza data, ma che si può far risalire senza ombra di dubbio alla fine marzo o ai primi di aprile del 1945, indirizzata al Comando della Brigata, Trevisan (Aristodemo Francescon ) comunicava, tra altre cose, che, vista imminen­te la sconfitta dei nazi-fascisti, “molti ora vorrebbero lavora­re (col CLN, ndr), ma qualche mese addietro, oltre a non volersi interessare per la causa comune, denunciavano chi sapevano che per i patrioti faceva il suo dovere” e conclude­va invitando il Comando a chiedere il parere del CLN prima di accettare una loro eventuale collaborazione.

Sempre sullo stesso tema, il16 aprile, “Ombra” (Ernestina Agnetti) chiedeva al Comando come doveva comportarsi nei confronti di una persona che vorrebbe entrare nei ranghi del­la Brigata, praticamente a guerra finita. Nella stessa lettera, “Ombra” informava il Comando che “questa notte è stata uc­cisa dai russi ubriachi la madre di Francesco Casa,….            , mi pare che ormai sarebbe ora di iniziare le rappresaglie: per ogni civile dieci prigionieri diversamente non si finisce più”.

Ma di rappresaglie non ne vennero mai compiute dalla Seconda Julia.

Nei documenti della brigata vi è un messaggio urgente del CLN di Berceto a firma “Foglia”, pseudonimo di Luigi Consigli, che conosceva anche un po’ di tedesco, del seguen­te tenore:

“Berceto 27 – sera – 3 – 45 Urgente

L’altra notte furono trasportati dai Russi alle carceri di Berceto cinque partigiani della squadra 3ª Beretta, 2ª Julia e una quindicina di civili di tutte le età compreso un prete gio­vanissimo proveniente dalla Braia di………….

I partigiani vestivano la nuova divisa inglese il famigerato Jost spogliò un partigiano ed a indossato la giacca elegante che porta tuttora. Ieri mattina il boia Jost con sua moglie di Fornovo Taro sono entrati in prigione col nervo anno malmenato i partigiani, sono stati tutto questo periodo senza mangIare.

La notte scorsa i russi avvinazzati anno fatto uscire partigiani pel paese e li hanno malmenati che si sentivano lamenti ovunque.

Stasera poi all’imbrunire sono stati fatti uscire dalla prigione legati tutti assieme compreso il prete e condotti al Poggio al posto di blocco per essere trasportati a Parma. assisteva la partenza le mamme dei partigiani venute da lontano ad abbracciare i propri figli delle quali una mamma ne teneva due. Tutta la popolazione incoraggiava i partenti e piangeva.

Ho incaricato mia figlia a potuto introdursi nel corridoio della prigione e a potuto avere i nomi dei partigiani dove s sono raccomandati di pensare e provvedere per loro con urgenza perché non ne possono più.

I partigiani partenti sono stati spogliati della divisa che indossavano e sono partiti solo con calzoni e camicia Stasera alla volta di Filattiera sono partiti i russi di Roccaprebalza e qualcuno di Berceto”

                                              CLN di VALMOZZOLA

Il territorio del Comune di Valmozzola, tranne la parte limitrofa alla stazione ed alla linea ferroviaria Parma-La Spezia, è sempre stato sotto il controllo delle formazioni partigiane. Nel 1944 Mariano di Valmozzola fu sede del primo Comando Unico Parmense, che in seguito si trasferì a Bosco di Corniglio.

I primi gruppi di Resistenti si formarono sulle pendici del Monte Barigazzo che domina la vallata del torrente Mozzola. Qui stazionò il gruppo capeggiato da Betti (55). Non si è mai riusciti a sapere chi era e da dove provenisse Betti. Si chiamava Mario. Forse era di origine piacentina. Don Mario Terzoni, parroco di Mariano di Valmozzola, nel libro “Nella bufera della Resistenza”, a pag. 593, ne diede la seguente brevissima testimonianza: “il tenente carrista adde­strato alle fatiche ed ai ghibli dell ‘Africa sa ora coraggiosamente affrontare i sacrifici indispensabili della montagna”.

Negli annali della Resistenza resta famoso il suo attacco, compiuto nel marzo del 1944 nella stazione di Valmozzola, ad un con­voglio ferroviario al fine di liberare alcuni partigiani e reni­tenti alla leva fascista che venivano tradotti da La Spezia a Parma. Nello scontro, ove cadde lo stesso Betti, vennero cat­turati diversi soldati tedeschi e fascisti del Battaglione San Marco. I tedeschi vennero successivamente liberati per evita­re rappresaglie contro la popolazione, mentre i fascisti, dopo un sommario processo, vennero passati per le armi.

Dura e crudele fu la rappresaglia ordinata dal Coman­dante del San Marco, Principe Valerio Borghese. Pochi gior­ni dopo vennero uccisi a Valmozzola alcuni partigiani cattu­rati nella Lunigiana che nulla avevano a che vedere col fatto d’armi citato. Eroico fu il comportamento di questi martiri. Colui che moralmente ne era il capo, Cheirasco, in segno di ultima sfida, lanciò contro il plotone di esecuzione la sua sciar­pa e, assieme agli altri, cadde al grido di viva l’Italia.

Ricordata doverosamente questa pagina dolorosa ed eroi­ca della Resistenza, si deve ritornare a trattare il tema di que­sto capitolo, cioè i rapporti tra il CLN e la 2ª Julia. Non si conosce la data della costituzione di questo Co­mitato, ma anche a Valmozzola gli antifascisti non mancaro­no di riunirsi per discutere sul da farsi in quei momenti. Scarsa è la documentazione esistente, ma da quando la Brigata si trasferì nel Comune di Valmozzola, i rapporti con il locale CLN non poterono non essere che molto stretti.

Don Giuseppe Sbuttoni, Arciprete e Vicario Foraneo di Gusaliccio di Valmozzola, asserisce che fu lui a far costituire il Comitato di Liberazione allo scopo di far “sloggiare” il Commissario di una Brigata partigiana (non della 2ª Julia, ndr) che intendeva “fare il bello ed il cattivo tempo nel Comune” (56).

(56) “Nella bufera della resistenza”, pagg. 619-620.

Non si può certamente condividere questa tesi riduttiva delle funzioni del CLN di Valmozzola, anche se, come orga­no di Governo, era tenuto a contrastare e reprimere atteggia­menti e sistemi che contrastavano col corretto rapporto tra formazioni partigiane e popolazione. La questione, infatti, venne successivamente portata dal CLN alla valutazione del Comando Unico.

Presidente di questo CLN fu il dott. Aldo Sozzi. Furono membri del Comitato anche Giovanni Bertucci , Giovanni Sozzi, Andrea Ronconi e Giovanni Zassi che svolse anche le funzioni di Commissario del Comune.

Questo CLN si identificò spesso con l’Amministrazione Comunale. Infatti, su carta intestata del Comune, il 6 febbra­io 1945, il CLN scrisse al Comando della Brigata la seguente missiva, a firma del Segretario del CLN “Virio” (57), Virio, il maestro Aristeo Ferrante, era anche Segretario Comunale.

Avente per oggetto il prelevamento di generi razionati da parte dei Patrioti. Essa recitava:

“Allo scopo preciso di avere sempre aggiornati gli atti relativi giacenti presso questo Comune, il C di L. (CLN, ndr) per incarico del quale scrivo, prego vivamente codesto spetti le Comando di informare preventivamente questo Ufficio de­gli eventuali prelevamenti di grano e di altri generi razionati presso i singoli produttori, ad uso alimentare dei Patrioti.”

Il 14 febbraio 1945, il CLN scrisse al Comando Unico e per conoscenza al Comando della 2ª Brigata Julia la seguente lettera avente per oggetto la costituzione del Corpo di Polizia Municipale:

“Allegato alla presente, prego vivamente trasmettere copia del verbale di cui all’oggetto, con preghiera di voler disporre pres­so il Comando della 2ª Brigata Julia, per l’armamento dei chia­mati a far parte del predetto Corpo di Polizia Municipale.

Ringraziando, prego gradire saluti patriottici. Il Segretario del CL.N (Virio)”.

                               ATTIVITÀ OPERATIVA DELLA BRIGATA

Con la costituzione della brigata (agosto 44) si raggiun­se un più razionale coordinamento tattico. Pur restando ai battaglioni in cui era suddivisa ed ai di­staccamenti che li componevano una discreta autonomia, le azioni belliche venivano disposte dal Comando di Brigata e quelle di più ampio respiro dal Comando Unico. Si abbandonò la strategia di occupare vaste zone, come si verificò quando venne creato il “Territorio Libero della Valle del Taro”, perché le formazioni non avevano né la forza né l’armamento adatti a guerre di posizione. Si ritornò pertanto alla più efficace tattica della guerriglia, sia pure vista in un più ampio disegno strategico.

Le colonne tedesche da e per il fronte continuarono ad essere attaccate sulla strada statale della Cisa. Il nemico, da Berceto, reagì spesso con puntate a caratte­re limitato, incendiando casolari, fienili ed uccidendo ostag­gi. Ma il Comando della brigata che, ormai si sentiva militar­mente forte, reagì contro queste barbare azioni nemiche, per­petrate ai danni di civili inermi, inviando in data 9 ottobre 1944, al Comando tedesco di Berceto ed al Comando della 35ª Brigata Nera “L Barattini” di Apuania il seguente avver­timento:

“Ad ogni azione di rappresaglia perpetrata ai danni del­la popolazione civile, come l’uccisione di ostaggi ed incen­dio di case e fienili, risponderemo con l’uccisione di due pri­gionieri tedeschi”. Firmato il Vice Commissario Politico “Carlo” ed il Comandante “Birra”. Era la cruda legge della guerra, ma non venne mai messa in atto. Il nemico, conoscendo che numerosi erano i prigio­nieri nelle mani della brigata, diventò più cauto e cercò la via delle trattative.

                               LO SCAMBIO DEI PRIGIONIERI E LE TREGUE

La prima trattativa per lo scambio dei prigionieri ebbe luogo il 7 ottobre 44 a Pontremoli, alla quale, per i partigia­ni, presero parte “Birra”, “Vampa” e “Bixio” (58) “Bixio” era il nome di battaglia di Mino Tassi, Commissario di guerra di un distaccamento dei pontremolesi, passato poi, assieme a “Birra”, nelle Brigate Beretta. E per i tede­schi il Col. Fross, il Capitano Müller ed il Sergente Jost.

Su richiesta della popolazione rurale della Val d’ Antena(59), D’Antena è una vallata a nord-est di Pontremoli, distante circa IO km dal capoluogo. Impossibilitata a coltivare i campi dalle conti­nue puntate dei tedeschi e dei fascisti, venne anche concor­data una tregua di breve durata. Si riuscì così ad ottenere la liberazione di diversi partigiani e civili contro rilascio di al­trettanti tedeschi (60).

Birra, in “La Resistenza a Pontremoli” di Aristide Angelini, a pag. 83 racconta: “Ci recammo alla sede comunale (di Pontremoli, ndr) ed ebbe inizio il colloquio. Erano con me Giovanni Cattini (Vampa), Luigi Serni ed altri. [Luigi Serni, “Basco”, comandante di Distaccamento, non era presente ma, assieme a don Pietro Bernini, parroco di Ceretoli, era stato incaricato degli approcci iniziali, come riporta Mino Tassi in “Pagine Pontremolesi” a pago 80, ndr]. La prima domanda che il Ten. Col. Fross rivolse a me fu: «È comunista oppure nazionalsocialista? Al mondo non esiste altro che nazionalsocialismo o comunismo». Risposi: «Non sono nazionalsocialista, neppure comunista, né assolutamente fascista. Sono militare e tratto questioni esclusivamente mi­litari». Visto che la nostra risposta era decisa, al primo colloquio ne seguiro­no altri sette. I tedeschi volevano la garanzia del libero transito sulle vie di comunicazione, noi insistevamo che era nostro dovere attaccare i tedeschi invasori dell’Italia per poterla rendere libera”.

 

Il 24 novembre ebbe luogo a Parma, presso l’Albergo Button, l’ultimo colloquio coi tedeschi. Si incontrarono “Bir­ra” e “Bixio” da una parte ed il Capitano Jeromin (61) Jeromin era il Vice-Comandante del Presidio di Berceto. Mino Tassi, “Bixio”, nel suo libro “Pagine pontremolesi” a pag. 136 lo descrive come un deciso e risoluto antinazista che con loro, “Birra” e “Bixio”, diceva coma tanto di Hitler che di Musso1ini.

Al posto del Maggiore Müller, indisposto, il solito Sergente Jost, l’ Aiu­tante di campo di Kesselring e diversi ufficiali delle SS tede­sche ed italiane e della SD di Parma. Si raggiunse un accordo per lo scambio di 50 tedeschi contro 50 partigiani, scambio che avvenne nella zona di Langhirano alla vigilia di Natale del 1944. Mino Tassi, nel libro citato scrisse che da parte tedesca venne avanzata la richiesta che le tre Brigate Julia si conse­gnassero ai tedeschi entro il 24 gennaio 1945 a Berceto con­tro il rilascio di mille prigionieri, anche civili, internati nelle carceri di Parma. Ma tale assurda richiesta non poteva avere alcun seguito (62). Mino Tassi, “Pagine pontremolesi”, pagg. 145-150.

Vista la disponibilità del movimento partigiano allo scam­bio dei prigionieri, il nemico avanzò la pretesa di scambiare due tedeschi per un partigiano. Senza indugi, relativamente ad un’altra trattativa, Don Guido Anelli, “don Tito”, indiriz­zava nell’ ottobre del 44 una lettera al Comando tedesco di Berceto e per conoscenza a quello di Parma e di Ostia Par­mense, nella quale, fatta la cronaca dell’ andamento della trat­tativa, precisava:

“Attendo in merito una vostra risposta e, qualora il Co­mando suddetto addivenga al proposito di uno scambio: uno contro uno, assicuro l’immediato esito della missione. Riferisco che il cambio non potrà aver luogo se fra le persone da voi restituite non vi saranno il Maestro Angella ed il Ten. Borzoni”.         .

Lo scambio era stato sollecitato anche dal Comando del­la 1ª Julia che, in data 28 ottobre 1944, aveva indirizzato a Don Guido Anelli una lettera nella quale si precisava: “Circa lo scambio dei prigionieri è necessario a questo Comando conoscere la località dello scambio e le modalità di esso.

Confermiamo che saranno consegnati N. 12 tedeschi in cambio di N. 12 patrioti tra cui il Borzoni e l’Angella già ricordati. Inoltre sarà effettuato lo scambio con 8 fascisti per altrettanti ebrei”.

Il maestro Armando Angella non faceva parte della 2ª Julia, ma tutti conoscevano la sua rischiosa attività e per lui erano in trepida apprensione tutti i partigiani perché questo giovane poliomielitico, incapace di muoversi autonomamen­te, pur sapendo di non potersi difendere né di poter fuggire, diventò un punto di riferimento preziosissimo, prestandosi in Borgotaro occupata dai tedeschi, a ricevere e trasmettere le notizie che interessavano il movimento partigiano.

Scoperto, venne arrestato e tradotto a Parma nelle carce­ri delle SD tedesche ove subì interrogatori e sevizie, ma, infi­ne, si riuscì a scambiarlo, in contrasto con la regola di “uno contro uno”, con il rilascio di ben tre tedeschi. Sulle trattative per lo scambio dei prigionieri e per tre­gue limitate, finalizzate a scopi umanitari, si innescò una po­lemica strumentale e calunniosa. Si è voluto, anche in tempi recenti, impostare il problema sulla base di una contrapposizione fra due concezioni. Una intransigente, espressa dai comunisti, contraria ad ogni com­promesso e l’altra, espressa dai cattolici, più possibilista (63).

Vietti, “L’Alta Valle del Taro nella Resistenza”, pagg. 244-246.

Per necessità connesse all’approvvigionamento dei ge­neri alimentari alla popolazione civile, soprattutto dei centri urbani, o per ragioni organizzative, tutte le formazioni, indi­pendentemente dalle loro connotazioni politiche, hanno do­vuto, direttamente od indirettamente, trattare col nemico, ma tali trattative non hanno mai investito, né fatto venir meno le motivazioni in base alle quali erano state impugnate le armi per combattere il nemico nazi-fascista.

Per quanto riguarda la 2ª Julia, con riferimento a voci correnti in Bosco di Corniglio che diffusero notizie che la detta Brigata agisse in accordo col Comando tedesco, il Co­mando di Brigata reagì con lettera del 2 dicembre 1944 indi­rizzata al Comando Unico, nella quale, premesso che il con­tatto col nemico aveva avuto luogo esclusivamente per poter ottenere la liberazione di Patrioti caduti prigionieri, invitava il detto Comando a “voler accertare se corrispondono al vero le voci pervenuteci e di voler smentire queste casi infamanti accuse”.

Dato che si continuava ad accreditare queste voci, il Co­mando della Brigata, disgustato ed offeso per il comporta­mento dei Comandi superiori, il 31 dicembre indirizzava al “Comando Delegazione del Nord-Emilia” la seguente lette­ra: “In riferimento al vostro foglio n. 23 di prot. in data 19 dicembre 1944 comunichiamo che non prendiamo nota del contenuto di detto foglio e ci meravigliamo anzi che i supe­riori Comandi abbiano prestato fede a dicerie che a noi non riguardano” .

                                    A RIDOSSO DELLA LINEA GOTICA

Sotto la spinta dell’ offensiva delle truppe Alleate, che nel luglio del 1944 entrarono in Firenze, sembrava che l’ora della liberazione stesse per giungere relativamente presto. Il 10 settembre iniziò l’attacco degli Alleati alla linea Gotica che correva dal Mar Tirreno a Sud di Massa, fino all’ Adriatico nei pressi di Pesaro. Il territorio a ridosso di tale linea diventò il Calvario per la Resistenza italiana, e Sant’ Anna di Stazzena, Vinca, Mar­zabotto e tante altre contrade furono le stazioni di una cruen­ta “via crucis”.

Migliaia furono i vecchi, i giovani, le donne ed i bambini che, innocenti, caddero sotto la furia criminale della Divisio­ne SS “Adolf Hitler” agli ordini del Maggiore Walter Reder. I tedeschi volevano eliminare ogni forma di resistenza alle spalle della linea dietro la quale intendevano resistere all’ of­fensiva alleata, cercando di sgominare le formazioni parti­giane e nello stesso tempo terrorizzare le popolazioni che collaboravano con esse. Ma il fronte della Resistenza non cedette. Anzi, da questi tragici fatti trovò una ragione in più per serrare le proprie file.

Nel mese di settembre, attraverso le Missioni Alleate. Queste missioni, dotate di apparecchi radio rice-trasmittenti, erano com­poste prevalentemente da ufficiali americani ed inglesi. Ne facevano parte anche ufficiali italiani. Leonardo Tarantini, in “La Resistenza Parmense”, alle pagi­ne 68 e 69 racconta: «Giunsero o furono paracadutate in territorio montano parmense le Missioni Alleate, tra le quali assunsero particolare rilievo, per la qualità e la quantità del lavoro svolto, le seguenti: nella zona Est-Cisa quella comandata dal Maggiore inglese Holland (agosto 1944), precedentemente paracadutato nella zona di Montefiorino (Modena); nella zona ovest, la mis­sione “Renata” (denominata poi Rochester) aviolanciata il 27-3-44 nei pres­si di Borgotaro, diretta dal Sottotenente Piero Boni, e successivamente la missione “Cajuga”, aviolanciata nei pressi di Bardi il 27-12-44 e diretta dal Capitano americano Bob …omissis… Alle tre qui ricordate altre si aggiunse­ro, quali quella del Capitano Abba, di Giovanni e di Roberto (zona Ovest), di Gigi e Stelvio (zona Est)>>.

Che garantivano i collegamenti col Sud d’Italia, il Comando Alleato aveva allertato le formazioni partigiane per essere pronte a partecipare ad un nuovo piano di attacco.Ed in previsione di un rapido sfondamento della linea Gotica, su indicazione dello stesso Comando Alleato, il Co­mando Unico parmense si trasferì da Mariano a Bosco di Cor­niglio per essere meglio in grado, come già riferito, di guida­re le brigate partigiane verso la pianura onde favorire l’ avan­zata delle truppe alleate.

In relazione a questa nuova situazione, il Comando della 2ª Julia, come tutti i Comandi di brigata, in data 16 settembre 1944, diramò ai Comandi dei battaglioni le seguenti istruzio­ni operative: “Ai Comandi dei Gruppi dipendenti Loro Sedi Portiamo conoscenza la seguente circolare diramata dal

Comitato di Liberazione Nazionale:

«Le formazioni partigiane che, col proseguire delle forze alleate verso il settentrione dell ‘Italia, si trovano ad essere impegnate nelle immediate retrovie Tedesche, dovranno uni­formare il loro comportamento ai seguenti criteri di massima:

1) Se non ancora coinvolte in azioni di vero e proprio combattimento del fronte anglo-tedesco, dovranno compiere azioni di sabotaggio e di attacco di sorpresa sulle immediate retrovie germaniche, quali distruzioni di tratti di ferrovia, di ponti, di linee telegrafiche, attacchi di sorpresa a colonne di rifornimento, ecc.

2) Se a stretto contatto coi tedeschi impegnati nel com­battimento e quindi coinvolti nel combattimento stesso, do­vranno arrecare il maggior danno possibile all’avversario, impegnando col fuoco posti di Comando, rincalzi, personale e mezzi addetti al servizio di prima linea, cosi come è avvenu­to a Livorno è come si sta verificando in questi giorni a Firenze o a Varsavia.

3) Se infine sotto la pressione alleata le forze tedesche sono costrette a ripiegare, le formazioni partigiane non do­vranno occultarsi per passare in un secondo tempo alle file alleate, ma dovranno mantenere contatto col nemico per ar­recar gli il maggior danno possibile durante la critica e difficile fase di ripiegamento. In linea di massima, le formazioni partigiane dislocate nell’ Appennino Ligure e Tosco-Emilia­no, si comporteranno nel modo anzidetto sino alla linea del Po, dove potranno occultarsi e passare in un secondo tempo alle file Alleate. Oltre il Po entreranno in azione con compiti analoghi le formazioni partigiane dislocate fra il Po ed il cri­nale Alpino”.

Ma mentre a Firenze, sotto la pressione delle truppe alle­ate, il movimento insurrezionale riuscì ad aver ragione del nemico, il richiamo a Varsavia non fu calzante perché l’ eroi­ca insurrezione della popolazione venne spenta nel sangue dalle truppe naziste senza che le armate sovietiche comanda­te dal Maresciallo Rocosovskij, attestate a poca distanza, avan­zassero di un pollice per contrastare il massacro dei polacchi.

Il generale Alexander, nella certezza che il suo esercito potesse sfondare la Linea Gotica prima dell’inverno, il 2 ot­tobre 1944, lanciò il noto messaggio al movimento partigia­no: “Il giorno tanto da voi atteso è finalmente giunto. Faccio appello a tutti i patrioti d’Italia ad insorgere contro il comu­ne nemico”.

Ma gli attacchi degli Alleati si infransero contro la resi­stenza delle truppe tedesche, ed il nemico, sempre preoccu­pato di ciò che stava accadendo a ridosso della sua linea di­fensiva, riuscì nel tentativo di colpire la testa del movimento partigiano parmense.

                                             L’ATTACCO AL COMANDO UNICO

Il 17 ottobre 1944 si consumò l’eccidio di Bosco di Cor­niglio che decapitò il vertice della Resistenza parmense.

Il Capitano Oliva (65)

Il Capitano Adriano Oliva era il Capo di Stato Maggiore del Comando Nord – Emilia.

 Nella relazione dell’eccidio inviata al Ministero della Difesa così narrò l’episodio:

“Alle ore 19 del 16/10/44 partirono da Fornovo Taro (Par­ma) 180 SS tedesche guidate da un traditore, Mario lo Sla­vo(66),

Il delatore fu presto identificato. Immediatamente processato, venne fucilato due giorni dopo.

 Alla volta di Bosco di Corniglio, sede del Comando Unico delle formazioni partigiane della Provincia di Parma. Giunti a Berceto alle ore 20,30 richiedono una guida che, date le eccezionali condizioni atmosferiche del momento (fit­ta nebbia, pioggia), possa condurli nel più breve tempo pos­sibile, di sorpresa, sul loro obiettivo.

Un carbonaio del posto (67)

Trattasi di Antonio Malpeli di Berceto, soprannominato “Furbèt”. Per il suo coraggioso comportamento la Patria avrebbe dovuto ricompensarlo con una medaglia al Valor Militare.

Viene prescelto e, sotto la mi­naccia delle armi tedesche, obbligato al servizio di guida. Il carbonaio, collaboratore del C. V L., a rischio di gravi pericoli riesce a far percorrere alla colonna nazista la strada più lunga, tanto da giungere sul posto il mattino seguente alle ore 8,55. È da tenere presente che avrebbe potuto essere a Bosco di Corniglio dopo quattro ore e trenta di marcia.

I tedeschi giungono in paese di sorpresa in quanto la fit­ta nebbia impediva la visibilità oltre i tre metri. La sede del Comando venne circondata mentre tre vedette partigiane ve­nivano eliminate di sorpresa. Ogni particolare sul servizio di guardia e sull’ubicazione del Comando era stato svelato dal traditore Mario lo Slavo.

Raffiche di armi automatiche investirono, da ogni parte, le finestre e le porte della sede del Comando Unico. Il Comandante Pablo, resosi immediatamente conto di quanto avveniva, invitò i suoi collaboratori a sottrarsi all’ im­pari lotta, e da solo affrontava le orde tedesche, rispondendo al fuoco delle armi automatiche con raffiche del suo sten. Colpito a morte, cadeva nel generoso tentativo di proteggere la ritirata dei suoi collaboratori. I tedeschi, penetrati nella sede del Comando, bruciarono i partigiani Menconi e Penola, ancora vivi malgrado le ferite riportate.

In questa occasione le forze partigiane subirono le dolo­rose perdite di: Giacomo Di Crollalanza Comandante unico del C. VL. della Provincia di Parma;

Gino Menconi Comandante della piazza di Parma;

Giuseppe Picedi Ufficiale di collegamento; e di altri tre partigiani addetti al servizio di guardia”.

A Bosco di Corniglio, presso il Comando Unico, oltre al Conte Picedi, al prof. Pellizzari ed all’ avv. Franchini, vi erano altri due partigiani della 2ª Julia, la staffetta Nino Savani ed il carabiniere Antonio Molinari che riuscirono a salvarsi per puro miracolo. Franchini, come già detto, venne cattura­to, ma riuscì a fuggire nei pressi del Passo del Cirone.

                                            IL NUOVO COMANDO

Il colpo inflitto al movimento partigiano parmense fu du­rissimo, ma appena rese le dovute onoranze agli eroici caduti e seppelliti i loro corpi, tutti i Comandanti delle Brigate ven­nero convocati a Belforte ove, protetti dai distaccamenti del­la 2ª Julia, dopo intense consultazioni avvenute nella canoni­ca di Don Guido Anelli, elessero nella sede del Comando della Brigata, posto in una località del paese denominata Pie­tra, il nuovo Comando Unico della Provincia di Parma.

Esso risultava così composto:

Ing. Giacomo Ferrari, “Arta” – Comandante;

Prof. Achille Pellizzari, “Poe” – Commissario Politico;

Enrico Tanzi, “Alpino” – Vice Comandante;

Ten. Nardo Tarantini, “Nardo” – Capo di Stato Maggio­re, successivamente sostituito dal Col. Fernando Cipriani, “Ottavio”, quando “Nardo” andrà ad assumere analoga carica nella Delegazione del Comando Unico per l’Est-Cisa (68). Alla fine della guerra il Col. Cipriani scrisse il primo libro sulla guerra partigiana nelle province di Parma, Reggia Emilia e Piacenza. Alle cariche di Ispettori Militari vennero chiamati Fran­co Franchini, “Franco”, Primo Brindani, “Libero” e Ferdinando Cipriani, “Ottavio”, che, come è stato testè detto, as­sumerà il ruolo di Capo di Stato Maggiore (69).

(69) Giuseppe Molinari ha sempre affermato che, nel corso degli incontri di Belforte, gli esponenti comunisti delle Brigate Garibaldine chiesero per loro la carica di Commissario Politico (e lo scopo di tale richiesta era palese!), senza avanzare alcuna pretesa per la carica di Comandante Militare per la quale correva il nome del prof. Ettore Cosenza, “Trasibulo”, un valoroso partigiano che, pur comandando una Brigata Garibaldina, non era comunista. A questa impostazione si oppose il prof. Pellizzari.

Sulla nomina del nuovo Comando Unico sorse un con­flitto di competenza col Comitato di Liberazione di Parma che, come organo di governo, riteneva sua competenza pro­cedere a tale nomina e provvide, pertanto, a nominare Co­mandante il Ten. Col. Paolo Ceschi, “Gloria”. Il Comando Unico, come si legge nei verbali fedelmente riprodotti da Franco Franchini nel suo libro “Achille Pelliz­zari – il partigiano Poe”, contestò tale tesi, sostenendo che la legittimità delle nuove cariche riposava sulla elezione unani­me dei Comandanti di tutte le Brigate.

Dato che entrambe le tesi avevano un loro fondamento, per superare questo incresciosa situazione, che poteva avere ripercussioni negative sul funzionamento del Comando e sulla saldezza della disciplina, ai primi di novembre, venne creata una delegazione del Comando Unico con competenza sul ter­ritorio posto ad Est della strada statale della Cisa, alla quale venne preposto lo stesso col. “Gloria”.

Dal “Diario Clandestino” (70), a proposito della giornata

(70) Aurelio Giussani, op. cit. pagg. 51-52.

in cui venne formato il nuovo Comando Unico, si legge:

“(21 ottobre) Nella piccola canonica (di Belforte, ndr) oggi arrivano tutti i comandanti delle brigate partigiane par­mensi. Ci guardiamo in faccia muti al primo incontro e ci stringiamo la mano come pegno di riscossa.

La casetta del Parroco (Don Guido Anelli, ndr) con mi­racolosa capacità accoglie una quarantina di ospiti, che vi trovano da mangiare e da dormire. Non ci sono orari qui: si va e si viene come in casa propria. Ad ogni ora del giorno e della notte si è sempre pronti ad accogliere con un sorriso ed un gentile saluto. Quanti sacrifici e quante veglie sono costate queste visi­te alla buona Gina (Anelli) ed alla laboriosa Anna, (anzi Do­menica Anelli) (71) sempre sorridenti e gentili.”

Domenica Anelli, come è già stato raccontato, morì tragicamente assie­me alla sua bambina di sette anni ed al marito Ugo Giliotti, il 29 luglio 1967 a seguito del terremoto che sconvolse Caracas.

Una delle prime decisioni assunte dal Comando Unico fu quella di inviare a Roma Don Guido per riferire al Gover­no Italiano ed agli Alleati sulla situazione del movimento par­tigiano del parmense e chiedere maggiori aiuti in armi, ve­stiario e denaro al fine di fronteggiare i gravi e pressanti pro­blemi creatisi a seguito del continuo aumento degli organici delle brigate ed anche per alleviare i disagi che avrebbe com­portato per gli uomini l’imminente inverno.

Don Guido, accompagnato dal capitano dei corazzieri, Conte Carlo Pianzola, “Abba” (72), partì ai primi di novembre, Il Capitano “Abba” svolse la delicata funzione di ufficiale di collega­mento tra il Comando Unico e il CLN di Parma col Governo di Roma, a volte indipendentemente dal CLN dell’Alta Italia.

Superando i gravi rischi che il passaggio del fronte comportava. Raggiunse Firenze e fu ricevuto personalmente dal gene­rale Alexander. Da Firenze si portò a Roma ove ebbe collo­qui col Capo del Governo, Bonomi, col Capo di Stato Mag­giore delle Forze Armate e col Ministro del Tesoro.

A Don Guido fu spianata la strada per essere accolto a così elevati livelli, ed essere preso in così alta considerazio­ne, dalle lettere di presentazione, vere e proprie credenziali, rilasciategli dal prof. Pellizzari, conosciuto molto bene dall’ on. Bonomi per essere stato, come lui, deputato al Parlamento Italiano nelle file del Partito Popolare prima dell’avvento del Fascismo. Sia dalle Autorità Alleate che dal Governo Italia­no ottenne assicurazioni che i lanci di materiale bellico e di vestiario sarebbero stati intensificati.

Ottenne altresì un contributo di tredici milioni di lire. “Quei milioni – scrisse Pellizzari – furono la salvezza delle nostre for­mazioni quando due settimane più tardi, in una terribile ripresa dell ‘inverno, si scatenò contro di noi il più importante e violen­to rastrellamento di tutta la guerra; tutte le Brigate furono tem­pestivamente ed abbondantemente provviste di moneta; i re­parti organizzati ed allontanati dalle basi e dai rifornimenti, e persino i volontari dispersi, poterono comprare a contanti il grano ed il vino necessari; migliaia di combattenti furono sal­vati dall’ inedia e dal congelamento, grazie a quei benedetti mi­lioni che la Patria ci aveva donati e che un umile prete di cam­pagna ci aveva portati per la via del cielo. “(73)

(73) Don Guido, che il prof. Pellizzari chiamava il Prete Volante, venne paraca­dutato nei pressi di Bardi verso il 20 dicembre. Essendosi dimenticato sull’aereo il suo breviario, l’apparecchio dopo qualche minuto tornò indietro, si abbassò egli venne lanciato avvolto in un telo. Nel febbraio ’45 riattraversò la Linea Goti­ca, chiamato a compiere un’altra delicata missione. Venne paracadutato nel bresciano a riorganizzare una formazione partigiana duramente provata durante un rastrellamento. Lo si rivide a Parma subito dopo la Liberazione.

                                                   NOZZE PARTIGIANE

Tra tanti, duri eventi guerreschi se ne annoverò uno che più pacifico e nello stesso tempo più gentile di così non pote­va essere. Ai partigiani della brigata arrivò la bella notizia che il suo Comandante “Birra” stava per convolare a giuste nozze con la signorina Zita Marzocchi.

La cerimonia venne celebrata il 15 novembre a Succiso, piccolo paese situato tra il Passo della Cisa e Pontremoli. Fu un matrimonio prettamente partigiano. I due sposi vennero uniti in matrimonio dal Cappellano della Brigata “Don Carlo” e testimoni furono il Commissario del Comando Unico “Poe” ed Umberto Pestarini, “Umberto”, che, come si vedrà in seguito, succederà a “Birra” nel Comando della Brigata. Ma anche la luna di miele, chiamiamola così, fu partigia­na perché, verso sera, il novello sposo anziché “abbracciare” la tenera sposa fu costretto ad “imbracciare” il ferreo mitra per respingere un puntata nemica verso il paese di Succiso ove era appena terminato il gioioso banchetto nuziale.

Il prof. Pellizzari era molto attaccato a “Birra” e lo tene­va in somma considerazione. Nei documenti della Brigata vi è il biglietto augurale inviatogli in occasione del Santo Nata­le 1944, con scritte di suo pugno le affettuose parole:

“A Birra e a Zita, a tutti i loro cari invia auguri di ogni bene, per oggi e per domani e per poi, l’’affezionatissimo A.P”.

                                                              IL DURO INVERNO

Arrestatasi l’offensiva alleata contro le fortificazioni della linea Gotica e con l’inverno ormai iniziato, l’attività di guer­riglia delle brigate andava affievolendosi anche perché si sta­vano assottigliando le scorte di munizioni. Il generale Alexander, il 13 novembre 1944, inviò alle formazioni partigiane un nuovo messaggio col quale infor­mava che l’offensiva Alleata veniva rinviata alla primavera del 1945, invitandole a sospendere l’attività di guerriglia ed a sciogliere temporaneamente le formazioni .

Alexander non si rese conto che non tutti potevano smo­bilitare per riprendere l’attività in primavera; le formazioni pertanto restarono ai loro posti, sia pure in posizioni meno esposte. Di fronte a questo deciso atteggiamento, ribadito anche da Don Guido nel corso della sua missione a Roma, gli Alleati intensificarono i lanci di vestiari, scarpe, armi e munizioni.

La 2ª Julia ricette un consistente lancio il 4 gennaio del 1945 a Mariano di Valmozzola.

Nevicava senza interruzione da diversi giorni e giunge­vano al Comando di Brigata informazioni riguardanti l’ am­massamento di truppe nazi-fasciste a Solignano, Valmozzola stazione, Ghiare di Berceto, Roccamurata, Ostia, Borgotaro ed in diverse località della Val Ceno, chiaro indizio di un imminente massiccio rastrellamento. Lo scopo che i tedeschi non avevano raggiunto nel luglio del 1944 speravano di ottenerlo con la nuova operazione che stava per scattare, favoriti dalla neve che avrebbe reso molto difficile ogni via di scampo ai partigiani.

Gran parte del vestiario e delle scarpe lanciate dagli Al­leati venne immediatamente distribuita per meglio difendere gli uomini dal rigore del freddo. Le armi e le munizioni non strettamente necessarie vennero occultate dentro le cavità delle secolari piante di castagno. La neve che continuava a cadere cancellava le orme che portavano a quei depositi di fortuna.

Il rastrellamento iniziò e le truppe nazi-fasciste, dal fon­do delle valli, salirono verso i monti alla caccia dei partigiani. Alcuni distaccamenti che non erano stati impiegati nella raccolta e nell’ occultamento del materiale del lancio erano già passati sulla riva destra del Taro. Il 5 gennaio 45, verso le ore quindici, il Comando, per sfuggire all’ accerchiamento che già si delineava, impartì alla restante parte della Brigata l’or­dine di armarsi e di portarsi anch’ essa sulla sponda destra del fiume, cioè verso le più familiari contrade di Baselica e di Belforte non investite dal rastrellamento.

Un passo dietro l’altro, faticosamente, gli uomini della Brigata, appesantiti dalle armi e dalle scorte di munizioni, si aprirono la strada rompendo la neve alta oltre un metro. Sa­lendo faticosamente, raggiunsero la località denominata “Roccaccia”, dalla quale si domina una gran parte della val­lata del Taro. Il cielo si era parzialmente rasserenato. Oltre il fiume, lontani, si scorgevano i paesi di Belforte e di Baselica: raggiungerli poteva significare la salvezza. Di qua dal fiume, Branzone e Tiedoli, già occupate dai tedeschi: indugiarvisi significava la morte o la prigionia.

I colpi dei “ta – pum” e delle armi automatiche nemiche, sparati a casaccio, le sagome delle sentinelle tedesche poste a guardia delle alture e sulla neve le orme che mostravano la strada percorsa, gettarono nell’indecisione il Comando. Chi era favorevole allo scioglimento della formazione affinché ognuno, separatamente od a piccoli gruppi, si por­:asse sull’ altra sponda del fiume, chi voleva battere una stra­da, chi un’ altra. In quel momento, su quel pianoro scoperto si abbassarono due aerei alleati che, per fortuna, riconobbero i Partigiani e fecero alcuni cenni di saluto.

Ad un certo punto il Capo di Stato Maggiore della Briga­ta, “Vampa”, ruppe gli indugi e si rivolse ad un partigiano chiedendogli: “Te la senti di portare il mio battaglione oltre il Taro?” Alla rapida risposta affermativa, il battaglione abban­donò immediatamente la strada e, seguendo il corso di un canalone, in mezzo all’acqua gelida, senza lasciare tracce, riprese la marcia, mentre il Comando, scortato da una venti­la di partigiani, prosegui, seguendo la strada, per una diversa direzione.

Il Battaglione “Vampa”, dopo circa un’ora raggiunse un gruppo di case in una località dell’ alto Tiedoli, denominata Testanello. Le brave famiglie di quei casolari, incuranti del pericolo che potenzialmente le minacciava, perché a non più li 300 – 400 metri stazionavano le sentinelle tedesche, sfa­marono e riscaldarono come poterono questi uomini che do­vevano cercare la via della salvezza per essere in grado di ricombattere domani.

La sera era già calata con le sue ombre. Il battaglione aveva appena ripreso la marcia quando si udì un calpestio. Rapida e possente una voce, mentre tutti gli uomini si getta­no a terra pronti al combattimento, gridò “alt, chi va là, parola d’ordine”: non meno rapida, dall’altra parte la parola l’ordine venne pronunciata con la richiesta della controparola. Erano gli uomini del Comando che, non avendo potuto per­correre l’itinerario prefissato, avevano puntato sulla direttri­ce di marcia del battaglione “Vampa”. Un sospiro (e che so­spiro!) di sollievo uscì dal petto di tutti.

Rifocillatisi velocemente anch’ essi presso quelle gene­rose famiglie, tutti ripresero la marcia. Con la notte scendeva anche il gelo. Nel buio e col ghiac­cio, con le mani impedite dalle armi, il cammino era irto di difficoltà ed ognuno bastava appena per sé stesso. Eppure, a turno, si riuscì a trasportare due partigiani che durante il per­corso, scivolando, si erano fratturate le gambe. Al primo grup­po di case che si trovarono sul cammino, presso familiari di partigiani, si lasciarono i feriti, che vennero nascosti.

La marcia, lentamente, continuò, anche fuori strada per evitare di incappare in qualche pattuglia nemica, che ogni tanto sparava colpi a casaccio e lanciava razzi colorati. La luna, alzatasi, illuminava il cammino, ma nello stesso tempo poteva favorire l’ avvistamento da parte del nemico. Il Taro, ormai, era a poche centinaia di metri, ma gli uo­mini erano sfiniti per la lunga e faticosa marcia di oltre dieci ore. A questo punto si dovette assumere la decisione se attra­versare il ponte di Magrano, presso Ostia Parmense, presi­diato dal nemico, oppure risalire più a monte, verso Borgotaro, ed attraversare il fiume in un posto guadabile. Questa se­conda soluzione era indubbiamente la più sicura, ma gli uo­mini non avrebbero sopportato tale ulteriore fatica.

Il ponte era lì a pochi passi. In fondo si scorgevano le sagome di due sentinelle tedesche. Sopraffarle sarebbe stato estremamente facile, ma ad Ostia il presidio tedesco era in grado, con i fucili e le mitraglie, di colpire chiunque transi­tasse sullo scoperto ponte. La colonna si fermò. In testa “Vampa” discusse con un gruppo di partigiani sul da farsi. Ed ecco che due partigiani, uno col fucile mitragliatore e l’altro con la maschinpistole puntarono risolutamente sul ponte. La decisione era stata pre­sa. “Disporsi in colonna distanti dieci passi l’uno dall’altro ed attraversare il ponte”. Questo fu l’ordine da trasmettersi da un partigiano all’altro sino all’ultimo della colonna.

Un campo che la luna, nel biancore della neve, illumina­va a giorno, completamente scoperto, degradante verso il fiu­me, senza un cespuglio, senza un riparo, portava all’ingresso del ponte. La Brigata si snodò lungo quel campo come un interminabile serpente e riprese il cammino. I due partigiani, mandati in avanscoperta, col fiato sospeso, ricurvi sulle armi pronte a far fuoco, attraversarono il ponte. Le sentinelle tede­sche, intimidite, abbandonarono il loro posto. I due partigia­ni, ormai dall’ altra parte del fiume, in posizione coperta, era­no pronti a proteggere il passaggio della Brigata. Lentamen­te, senza colpo ferire, tutta la formazione si portò sull’ altra sponda del Taro.

Era quasi l’alba quando i partigiani della 2ª Julia rag­giunsero Baselica e trovarono in ogni casa i generosi contadi­ni che si alzarono dai letti a ristorarli e ad accendere il fuoco per riscaldarli e per sgelare i vestiti che stavano loro addosso a guisa di armature medioevali. Le prime luci del giorno dell’Epifania filtrarono pallide attraverso gli affumicati e giallastri vetri delle cucine ed i par­tigiani, buttati sulle panche e su giacigli improvvisati, final­mente poterono abbandonarsi a qualche ora di sonno mentre i contadini vegliavano per loro.

La Brigata era sfuggita alla morsa che poteva annientarla.

Ma anche senza il messaggio di Alexander, con la neve che ostacolava i movimenti, per tutto il mese di gennaio, era impossibile svolgere qualsiasi attività.

IL DURO INVERNO

                                                                  

Arrestatasi l’offensiva alleata contro le fortificazioni della linea Gotica e con l’inverno ormai iniziato, l’attività di guer­riglia delle brigate andava affievolendosi anche perché si sta­vano assottigliando le scorte di munizioni.

Il generale Alexander, il 13 novembre 1944, inviò alle formazioni partigiane un nuovo messaggio col quale infor­mava che l’offensiva Alleata veniva rinviata alla primavera del 1945, invitandole a sospendere l’attività di guerriglia ed a sciogliere temporaneamente le formazioni .

Alexander non si rese conto che non tutti potevano smo­bilitare per riprendere l’attività in primavera; le formazioni pertanto restarono ai loro posti, sia pure in posizioni meno esposte.

Di fronte a questo deciso atteggiamento, ribadito anche da Don Guido nel corso della sua missione a Roma, gli Alleati intensificarono i lanci di vestiari, scarpe, armi e munizioni.

La 2ª Julia ricette un consistente lancio il 4 gennaio del 1945 a Mariano di Valmozzola.

Nevicava senza interruzione da diversi giorni e giunge­vano al Comando di Brigata informazioni riguardanti l’ am­massamento di truppe nazi-fasciste a Solignano, Valmozzola stazione, Ghiare di Berceto, Roccamurata, Ostia, Borgotaro ed in diverse località della Val Ceno, chiaro indizio di un imminente massiccio rastrellamento.

Lo scopo che i tedeschi non avevano raggiunto nel luglio del 1944 speravano di ottenerlo con la nuova operazione che stava per scattare, favoriti dalla neve che avrebbe reso molto difficile ogni via di scampo ai partigiani.

Gran parte del vestiario e delle scarpe lanciate dagli Al­leati venne immediatamente distribuita per meglio difendere gli uomini dal rigore del freddo. Le armi e le munizioni non strettamente necessarie vennero occultate dentro le cavità delle secolari piante di castagno. La neve che continuava a cadere cancellava le orme che portavano a quei depositi di fortuna.

Il rastrellamento iniziò e le truppe nazi-fasciste, dal fon­do delle valli, salirono verso i monti alla caccia dei partigiani.

Alcuni distaccamenti che non erano stati impiegati nella raccolta e nell’ occultamento del materiale del lancio erano già passati sulla riva destra del Taro. Il 5 gennaio 45, verso le ore quindici, il Comando, per sfuggire all’ accerchiamento che già si delineava, impartì alla restante parte della Brigata l’or­dine di armarsi e di portarsi anch’ essa sulla sponda destra del fiume, cioè verso le più familiari contrade di Baselica e di Belforte non investite dal rastrellamento.

Un passo dietro l’altro, faticosamente, gli uomini della Brigata, appesantiti dalle armi e dalle scorte di munizioni, si aprirono la strada rompendo la neve alta oltre un metro. Sa­lendo faticosamente, raggiunsero la località denominata “Roccaccia”, dalla quale si domina una gran parte della val­lata del Taro. Il cielo si era parzialmente rasserenato.

Oltre il fiume, lontani, si scorgevano i paesi di Belforte e di Baselica: raggiungerli poteva significare la salvezza. Di qua dal fiume, Branzone e Tiedoli, già occupate dai tedeschi: indugiarvisi significava la morte o la prigionia.

I colpi dei “ta – pum” e delle armi automatiche nemiche, sparati a casaccio, le sagome delle sentinelle tedesche poste a guardia delle alture e sulla neve le orme che mostravano la strada percorsa, gettarono nell’indecisione il Comando.

Chi era favorevole allo scioglimento della formazione affinché ognuno, separatamente od a piccoli gruppi, si por­:asse sull’ altra sponda del fiume, chi voleva battere una stra­da, chi un’ altra. In quel momento, su quel pianoro scoperto si abbassarono due aerei alleati che, per fortuna, riconobbero i Partigiani e fecero alcuni cenni di saluto.

Ad un certo punto il Capo di Stato Maggiore della Briga­ta, “Vampa”, ruppe gli indugi e si rivolse ad un partigiano chiedendogli: “Te la senti di portare il mio battaglione oltre il Taro?” Alla rapida risposta affermativa, il battaglione abban­donò immediatamente la strada e, seguendo il corso di un canalone, in mezzo all’acqua gelida, senza lasciare tracce, riprese la marcia, mentre il Comando, scortato da una venti­la di partigiani, prosegui, seguendo la strada, per una diversa direzione.

Il Battaglione “Vampa”, dopo circa un’ora raggiunse un gruppo di case in una località dell’ alto Tiedoli, denominata Testanello. Le brave famiglie di quei casolari, incuranti del pericolo che potenzialmente le minacciava, perché a non più li 300 – 400 metri stazionavano le sentinelle tedesche, sfa­marono e riscaldarono come poterono questi uomini che do­vevano cercare la via della salvezza per essere in grado di ricombattere domani.

La sera era già calata con le sue ombre. Il battaglione aveva appena ripreso la marcia quando si udì un calpestio. Rapida e possente una voce, mentre tutti gli uomini si getta­no a terra pronti al combattimento, gridò “alt, chi va là, parola d’ordine”: non meno rapida, dall’altra parte la parola l’ordine venne pronunciata con la richiesta della controparola. Erano gli uomini del Comando che, non avendo potuto per­correre l’itinerario prefissato, avevano puntato sulla direttri­ce di marcia del battaglione “Vampa”. Un sospiro (e che so­spiro!) di sollievo uscì dal petto di tutti.

Rifocillatisi velocemente anch’ essi presso quelle gene­rose famiglie, tutti ripresero la marcia.

Con la notte scendeva anche il gelo. Nel buio e col ghiac­cio, con le mani impedite dalle armi, il cammino era irto di difficoltà ed ognuno bastava appena per sé stesso. Eppure, a turno, si riuscì a trasportare due partigiani che durante il per­corso, scivolando, si erano fratturate le gambe. Al primo grup­po di case che si trovarono sul cammino, presso familiari di partigiani, si lasciarono i feriti, che vennero nascosti.

La marcia, lentamente, continuò, anche fuori strada per evitare di incappare in qualche pattuglia nemica, che ogni tanto sparava colpi a casaccio e lanciava razzi colorati.

La luna, alzatasi, illuminava il cammino, ma nello stesso tempo poteva favorire l’ avvistamento da parte del nemico.

Il Taro, ormai, era a poche centinaia di metri, ma gli uo­mini erano sfiniti per la lunga e faticosa marcia di oltre dieci ore. A questo punto si dovette assumere la decisione se attra­versare il ponte di Magrano, presso Ostia Parmense, presi­diato dal nemico, oppure risalire più a monte, verso Borgotaro, ed attraversare il fiume in un posto guadabile. Questa se­conda soluzione era indubbiamente la più sicura, ma gli uo­mini non avrebbero sopportato tale ulteriore fatica.

Il ponte era lì a pochi passi. In fondo si scorgevano le sagome di due sentinelle tedesche. Sopraffarle sarebbe stato estremamente facile, ma ad Ostia il presidio tedesco era in grado, con i fucili e le mitraglie, di colpire chiunque transi­tasse sullo scoperto ponte.

La colonna si fermò. In testa “Vampa” discusse con un gruppo di partigiani sul da farsi. Ed ecco che due partigiani, uno col fucile mitragliatore e l’altro con la maschinpistole puntarono risolutamente sul ponte. La decisione era stata pre­sa. “Disporsi in colonna distanti dieci passi l’uno dall’altro ed attraversare il ponte”. Questo fu l’ordine da trasmettersi da un partigiano all’altro sino all’ultimo della colonna.

Un campo che la luna, nel biancore della neve, illumina­va a giorno, completamente scoperto, degradante verso il fiu­me, senza un cespuglio, senza un riparo, portava all’ingresso del ponte. La Brigata si snodò lungo quel campo come un interminabile serpente e riprese il cammino. I due partigiani, mandati in avanscoperta, col fiato sospeso, ricurvi sulle armi pronte a far fuoco, attraversarono il ponte. Le sentinelle tede­sche, intimidite, abbandonarono il loro posto. I due partigia­ni, ormai dall’ altra parte del fiume, in posizione coperta, era­no pronti a proteggere il passaggio della Brigata. Lentamen­te, senza colpo ferire, tutta la formazione si portò sull’ altra sponda del Taro.

Era quasi l’alba quando i partigiani della 2ª Julia rag­giunsero Baselica e trovarono in ogni casa i generosi contadi­ni che si alzarono dai letti a ristorarli e ad accendere il fuoco per riscaldarli e per sgelare i vestiti che stavano loro addosso a guisa di armature medioevali.

Le prime luci del giorno dell’Epifania filtrarono pallide attraverso gli affumicati e giallastri vetri delle cucine ed i par­tigiani, buttati sulle panche e su giacigli improvvisati, final­mente poterono abbandonarsi a qualche ora di sonno mentre i contadini vegliavano per loro.

La Brigata era sfuggita alla morsa che poteva annientarla.

Ma anche senza il messaggio di Alexander, con la neve che ostacolava i movimenti, per tutto il mese di gennaio, era impossibile svolgere qualsiasi attività.

                                RIPRESA DELL’ ATTIVITÀ DI GUERRIGLIA

Il primo risveglio si ebbe il 29 gennaio 1945 con l’attac­co ad una pattuglia tedesca a Roccamurata che provocò l’ im­mediata reazione dei tedeschi. Il 2 febbraio, cinque colonne tedesche effettuarono un rastrellamento nella zona di Baselica, Belforte, Gorro, Loz­zola, Bergotto, salendo fin sul San Bernardo.

Questo territorio era tenuto soltanto da piccoli presidii partigiani. Sul San Bernardo sei partigiani vennero accerchiati da preponderanti forze nemiche, circa 200 tedeschi. Nel com­battimento, durato cinque ore, il nemico perdette tre uomini e tre rimasero feriti. Finite le munizioni, il piccolo reparto par­tigiano tentò inutilmente la fuga. Tre uomini caddero sotto il piombo nemico e gli altri tre vennero catturati. A Gorro ed a Belforte una colonna, proveniente da Roccamurata, riuscì a catturare, nelle prime ore dell’ alba, oltre ad un numeroso gruppo di civili, anche quattro partigiani, mentre uno venne ucciso.

Una casa venne incendiata (74). È la casa di chi scrive queste pagine. Non bruciò interamente grazie al coraggioso intervento degli abitanti del paese. A Bergotto vennero cat­turati altri due partigiani.

                              PROBLEMI AI VERTICI DELLA BRIGATA

Ai primi di febbraio giunse inaspettata la notizia che il comandante, “Birra”, aveva rassegnato le dimissioni. Diverse furono le cause che indussero Giuseppe Molina­ri ad abbandonare il comando della Brigata, ma quella che più influì sulla sua decisione va ricercata nella violenta rea­zione suscitata per il rigore che egli intendeva usare per repri­mere certi comportamenti banditeschi di alcuni partigiani, minacciando di adottare contro di loro provvedimenti gravissi­mi quali l’espulsione ed il deferimento al Tribunale Marziale.

Forse fu troppo impulsivo nell’assumere tale grave deci­sione e non tenne nella dovuta considerazione il fatto di go­dere della stima e della fiducia della quasi totalità degli uo­mini della Brigata, che non avrebbero esitato ad emarginare coloro che lo contestavano.

In data l0 febbraio 45 indirizzò a Don Guido, e per co­noscenza al Comando della Brigata, la seguente lettera (75): L’aver indirizzato la lettera a don Guido e solo per conoscenza al Co­mando della Brigata dimostra quale fosse il prestigio e l’autorità del sacerdote.

“La mia assenza è giustificata da fatti che certamente fan­no male a me e sicuramente anche al C. (Comando, ndr) della Brigata. La mia vita è stata minacciata dai patrioti stessi, i quali temono dell ‘espulsione per reati approvati (provati, ndr).

Come mi devo comportare? Quale strada debbo io pren­dere?

Il R. do di Gorro potrà ampiamente parlare a voce. Prefe­risco allontanarmi anziché avvicinarmi alla Brigata.

Quando un Comandante non rispecchia fiducia è finita.

Tutta la gente mi dice di rimanere a casa per la mia salute (vita, ndr) minacciata in pubblico dai Patrioti stessi.

Attendo pertanto una vostra visita o risposta per poi in­formare il C.U dando le dimissioni. Le voci portano da tutte le parti: dove c’è un patriota macchiato c’è una minaccia diretta contro di me. Non è giusto ch’io mi dilunghi e ripeto, attendo una risposta.

Fu una perdita dolorosa per la 2ª Julia, ma non per il movimento partigiano perché “Birra” con alcuni distaccamen­ti, composti prevalentemente da partigiani pontremolesi, dopo una brevissima parentesi, andò a formare la 3ª Brigata Beret­ta (76), Le Brigate Beretta vennero costituite dai fratelli Guglielmo e Gino Cacchioli, che assunsero il nome di battaglia di “Beretta”. Furono tra i miglio­ri Comandanti della provincia di Parma.

della quale assunse il comando.

Inutili furono i tentativi per farlo retrocedere dalla deci­sione presa e, dato che la Brigata non poteva restare senza comandante, venne chiamato a rivestire la carica vacante il maggiore Umberto Pestarini, nome di battaglia “Umberto”(77). Umberto Pestarini era un Maggiore dell’Esercito Italiano in forza al Servizio Segreto Militare.

Il suo primo atto, in data 9 febbraio 1945, fu di inviare a”Birra” la seguente lettera:

“Carissimo Birra,

preso in esame la tua lettera e quanto hai comunicato a Don Guido circa la tua decisione di dimetterti e visti gli at­tuali momenti e le condizioni della Brigata, si è riunito il su­perstite Comando ed ha dovuto col più vivo rammarico ac­cettare le tue dimissioni. Siamo veramente dolenti di questa decisione provocata da te in questi momenti, poiché eravamo sicuri che dopo la riunione del 28 Dicembre u.s. la crisi che tanto danno ha por­tato alla Brigata, quella tua Brigata che tu avevi portata al punto di essere da tutti invidiata, fosse definitivamente risol­ta e gli sforzi di tutti noi erano rivolti a questo scopo.

Noi ti ricorderemo con simpatia ed affetto e saremo lieti se un giorno potremo avere ancora la tua collaborazione. Sia­mo lieti di comunicarti che il nuovo Comando è così compo­sto:

Umberto: Comandante interinale

Poppy e Bazan: Vice-Comandanti

Severino: Commissario politico

Mino: Vice Commissario politico

Carlo: assumerà probabilmente la carica di Capo di Stato Maggiore e sono pure in corso le nomine dei Coman­danti di Battaglione.

La Brigata ti conserva sempre il tuo grado e la tua tessera. Contiamo di vederti presto e con i migliori auguri cor­dialmente ti salutiamo”. Come si nota, nell’ organico del nuovo Comando risulta­va vacante anche la carica di Capo di S.M. perché “Vampa” si era dimesso per assumere il comando di un reparto specia­le di sabotatori ed al suo posto venne chiamato Franco Vec­chi, “Franco” che assunse anche il comando del battaglione di “Vampa”.

Nonostante che alcuni distaccamenti fossero passati con “Birra” alla 3ª Brigata Beretta, l’organico quantitativo della Brigata restò immutato per la continua affluenza di nuove leve, compresi militari della Divisione “Monterosa”, ma so­prattutto bersaglieri della Divisione “Italia” che, continua­mente, disertavano dalle file dell’ esercito della Repubblica di Salò e che, come già scritto in precedenza, venivano con­tattati ed avviati ai “monti” dal CLN di Berceto.

Anche un consistente numero di soldati russi passò “armi e bagagli” nelle file della 2ª Julia.

                                               RIPRESA DELL’ ATTIVITÀ

In data 28 Gennaio 1945 il Comando Unico diramò ai Comandi di tutte le formazioni le disposizioni qui di seguito riportate.

“A tutti i Comandanti di Brigata e alla Delegazione del C. U La situazione della Germania precipita. È possibile, seb­bene non sicura, una improvvisa ritirata del nemico, da un giorno ali ‘altro, anche se ciò non è preannunciato da sintomi visibili. Se ciò accadrà, l’interesse del paese ed il nostro decoro di combattenti, i lunghi sacrifici durati e i morti, il cui pensie­ro ci accompagna ed incita, ci impongono di non essere as­senti.

Non deve accadere che i nostri Alleati entrino in Parma senza che li precediamo o li accompagnammo. È quindi necessario che voi procediate immediatamente e con la maggiore rapidità, alla riorganizzazione della briga­ta, sia nei quadri, sia negli uomini, sia per il rispetto dell’ ar­mamento sia per quello del morale e dello spirito aggressivo. Sarà l’ultima battaglia e sarà vittoriosa. Se ci sono dei pavidi e degli incerti lasciateli a casa. Spiegate ai vostri uomini l’im­portanza dell’azione che vi apprestate a compiere: essa avrà per testimoni i popoli stranieri ed alleati. Ciò che sarà doma­ni nell’Europa rinnovellata, dipenderà in gran parte da quel­lo che i volontari sapranno fare in quest’ultima prova.

Prima che pervenissero le suddette disposizioni, la Bri­gata aveva già ripreso ad operare col citato attacco del 29 gennaio a Roccamurata a seguito del quale vi fu la ritorsione tedesca del 2 febbraio con cui il nemico ritenne di aver ripu­lito dai “ribelli” il territorio compreso nel triangolo Ostia, La Cisa e Berceto. Pochi giorni dopo, una squadra della 2ª Julia attaccò sul­la stessa strada, nei pressi del torrente Manubiola un’ altra pattuglia tedesca per vendicare i compagni morti sul San Bernardo. Dopo la sofferta fase della forzatamente ridotta attività, causata dal rigido inverno, man mano che la neve, iniziando dal fondo delle valli e dalle sponde più solatie, si ritirava lasciando scoperte sempre più vaste zone di terreno, con lo stesso ritmo l’attività di guerriglia si incrementava e nel mese di marzo divenne più che mai martellante.

Ai primi di marzo, il Comando Unico, tenuto conto della situazione generale e della eventualità di operazioni militari di maggiore “respiro”, cioè operazioni di guerra e non di guer­riglia, invitò le Brigate dell’ Ovest-Cisa ad adottare i necessa­ri provvedimenti, tali da mettere in grado i Distaccamenti di spostarsi entro un’ ora dall’ ordine, dotandoli di viveri a secco per tre giornate. Intanto la struttura militare del movimento partigiano si andava ulteriormente razionalizzando. Come abbiamo già visto, nell’ estate del 1944, le “ban­de” erano state raggruppate in brigate; nella primavera del 45, le Brigate vennero inquadrate in Divisioni.

Nei primi giorni di marzo si costituì la Divisione “Valtaro”

Alla cui composizione concorsero le seguenti unità:

            l ª Brigata Julia con 333 combattenti;

            2ª Brigata Julia con 364           “

            Brigata Siligatto            con 220           “

            Brigata Barbagatto       con 181           “

            Gruppo d’Azione Valtaro         con 101           “

            Raggruppamento Centocroci    con 45 “

            Addetti al Comando     con 13 “

Organico totale della Divisione 1.257 unità.

Il maggiore Umberto Pestarini ed il maestro Severino Mo­linari assunsero la carica, rispettivamente, di Comandante e di Commissario Politico della Divisione, e questo creò un nuovo vuoto ai vertici della 2ª Julia, che il 6 marzo venne colmato con l’elezione di Marcello Gattai, “Bazan”, a Comandante e, successivamente, di Guglielmo Antiga, “Mino”, a Commissario politico.

Uno dei primi atti del Comando di Divisione fu quello di dare istruzioni operative all’ordine di operazioni n. 1 del 6 marzo, diramato dal Comando Unico. In particolare venne precisato che l’attacco ai presidii nemici doveva aver luogo con azione contemporanea ed improvvisa di tutte le Brigate in seguito ad ordine specifico del Comando Unico. Le dette istruzioni precisavano inoltre:

“I singoli Comandanti di Brigata studieranno sin d’ora il piano d’azione, sulla base di informazione accurata, e pre­disporranno uomini e mezzi per l’esecuzione degli attacchi, in relazione agli obiettivi assegnati.

(È inteso che fino a che non perverrà l’ordine di opera­zioni lungo gli itinerari di ritirata del nemico da parte del c. U e di questo Comando di Divisione, le Brigate continue­ranno l’attuale azione di guerriglia, ma con maggiore ener­gia e decisione).

Dal comma 3 °: Perché le Brigate abbiano gli obiettivi a distanza non eccessiva è indispensabile effettuare subito i tra­sferimenti del comma come segue:

Gruppo VaI Taro: si trasferirà nella zona sulla destra del Taro compresa fra il Torrente Cogena (78),

Affluente di destra del fiume Taro, ove getta le sue acque nei pressi di Ostia Parmense.

La Cisa, il Molina­tico e la Galleria del Borgallo (79),­(79) La galleria del Borgallo, partendo dalla stazione ferroviaria di Borgo Val di Taro, attraversa l’Appennino e congiunge l’Emilia con la Toscana.

La seconda Julia trasferirà 3 Distaccamenti (almeno 120 uomini) in zona sulla destra Taro compresa fra il torrente Cogena, la rotabile Cassio-Selva del Bocchetto e la strada della Cisa.

I detti trasferimenti debbono aver luogo immediatamente”.

Nei distaccamenti della Brigata si respirava aria di forza e di sicurezza, mentre stava calando lo spirito combattivo del nemico al punto che l’avanguardia di una colonna tedesca inviata da Ostia ad effettuare una puntata verso Mariano, che ormai era diventato una roccaforte della 2ª Julia, quando giun­se in località Lavachielli, nell’alto Tiedoli, finse di essere at­taccata dai partigiani, uccise il proprio comandante, attribu­endone la morte ai partigiani, caricò il corpo su una treggia trainata da mucche e fece ritorno ad Ostia.

Esclusi i presìdii tedeschi di Borgotaro, Ostia Parmense e quelli delle stazioni ferroviarie di Roccamurata, Ghiare di Berceto, Valmozzola e Solignano, tutta l’Alta Valle del Taro era in mano alle forze partigiane. I tedeschi continuavano a presidiare, con forze rilevanti la strada statale della Cisa, che collegava le retrovie al fronte tirrenico della Linea Gotica. Per i tedeschi tale strada doveva essere tenuta sgombra a tutti i costi anche in relazione alla ritirata delle truppe che ormai appariva ineluttabile.

La ferrovia Parma-La Spezia era del tutto inutilizzabile perché uno dei due ponti di Ostia era stato fatto saltare dai sabotatori di “Vampa” e le sue rovine giacevano nel greto del fiume Taro. Analoga sorte era toccata al ponte Parabolico, situato tra Ostia e Roccamurata, che, dopo diversi infruttuosi tentativi, era stato fatto saltare da sabotatori liguri assieme a quelli della l ªJulia.

La strada nazionale della Cisa continuava ad essere l’obiettivo di tutte le Brigate operanti nella zona, ma soprat­tutto era battuta dalle squadre della 2ª Julia nel tratto Montelungo- Piantonia. Il nemico, anche se si difendeva con accanimento, era costretto ad incassare i colpi, non essendo più in grado di reagire con le puntate ed i rastrellamenti di una volta. Il cielo era continuamente sorvolato dagli aerei anglo­americani che, oltre a bombardare e mitragliare le colonne tedesche transitanti per le strade, bombardavano inutilmente i ponti già crollati. Dei mitragliamenti fece le spese un auto­mezzo sul quale viaggiavano anche partigiani della Brigata, alcuni dei quali rimasero feriti.

                                    UNO STRANO COMBATTIMENTO (80)

Così intitola il racconto il Cipriani, nel riferire l’episodio alle pagine 144 e 145 di “Guerra Partigiana”.

“Notte del 21 marzo. Tre umili partigiani della Brigata Julia (81)

(81) Si trattava di una pattuglia del distaccamento “Lucidi”, composta dai bercetesi Enrico Agnetti “Spartaco” e Piero Montali “Stivens” e guidata dal Vice-Comandante di Distaccamento Emilio Zanzucchi “Castello”. Zanzucchi si distinse anche nel combattimento di Montagnana del!’ Il novembre 1944 contro preponderanti forze nemiche, nel corso del quale rimase ferito.

 Si trovano sulla strada nazionale della Cisa, presso Berceto. L’attraversano e si riposano un poco, prima di ri­prendere il cammino verso la sede del loro reparto. In quel momento, da lontano, lungo i tornanti che si sno­dano verso il passo, appaiono i fari di una automobile. I tre partigiani si appiattano, imbracciano il mitra, men­tre lo stesso pensiero attraversa la loro mente. È un piccolo “colpo” imprevisto, che non vogliono lasciarsi sfuggire.

La macchina è ormai a poche decine di metri. Simultane­amente i mitra sprigionano la prima raffica. Ma l’automobile non è sola. Altri automezzi seguono a fari spenti fra le tenebre che sono fittissime. L’improvviso allarme fa arrestare la colonna ed in un primo tempo crepita qualche arma isolata, ma, dopo pochi istanti tutte le armi automatiche del nemico sparano furiosa­mente contro l’invisibile aggressore.

Vuole il destino che in senso opposto sopraggiunga un ‘al­tra colonna nemica, a piedi. Sorpresa dal fuoco, sosta a sua volta, convinta di essere coinvolta in un ‘imboscata e risponde con altrettanto furore alle raffiche che giungono dall’ombra. Le tenebre favoriscono l’equivoco e la battaglia si ac­cende, fra le due colonne ormai decise a difendersi fino al­l’ultimo uomo, e la sparatoria diviene sempre più intensa. Sparano tutti, ali ‘impazzata, in tutte le direzioni, senza vede­re, senza sapere, senza rendersi conto di ciò che accade.

I tre partigiani si fanno piccini piccini.

Anche loro non comprendono. Cercano affannosamente un riparo, si appiattano ancor più, sotto il grandinare di pal­lottole d’ogni specie. E attendono. Accade qualcosa di asso­lutamente imprevisto. L’uragano di fuoco riprende con maggior violenza. E fa­scisti e tedeschi si sparano addosso con cieca esasperazione, ormai immobilizzati sulla strada buia, mentre i disperati co­mandi si alternano alle urla di coloro ch’e cadono.

I primi chiarori dell’alba sorprendono le opposte colon­ne ancor schierate in ordine di battaglia. Ma anche l’equivoco è chiarito. E tedeschi e fascisti non possono che contare le loro perdite: 39 morti e 43 feriti, men­tre i tre oscuri partigiani, che hanno finalmente capito anch’essi, riprendono il loro cammino, tranquilli e soddisfatti”.

                                       LA SFILATA DELLA DIVISIONE

Il 30 marzo tutta la Divisione “Val Taro” venne radunata a Porcigatone, distante pochi chilometri da Borgotaro, per essere passata in rassegna da “Arta” e “Poe”, Comandante e Commissario del Comando Unico, e da “Umberto”, Coman­dante della Divisione.

I partigiani della Seconda Julia, con la divisa in ordine, perfettamente inquadrati ed armati, partirono di buon matti­no dalle loro sedi di Valmozzola e, dopo diverse ore di mar­cia attraverso le montagne, raggiunsero il luogo dell’ adunata ove si incontrarono con i partigiani delle altre Brigate sorelle che componevano la Divisione. Si sfilò in perfetto ordine, “cantando giulive canzoni di guerra”. “Arta”, “Umberto”, ma in modo particolare “Poe”, con le loro parole, seppero infiammare gli animi dei combattenti alla vigilia delle ultime battaglie.

In un racconto dal titolo “Pasqua sui monti”, Pellizzari così descrive quella giornata:

“Era il 30 marzo, venerdì santo. Niente visite ai sepolcri, lassù. Ma pregammo il Signore sulle tombe dei nostri morti. E poi li presso, passammo in rivista i volontari della divisio­ne, che sfilarono svelti ed impettiti, come non avessero mai fatto altro in vita loro. E sembravano ed erano tutti veterani, tante volte s ‘era­no giocati la pelle da un anno in qui; e io mi sentii quasi ma non ero un generale sul serio.

Però le cose che dissi loro erano serie e non da generale a soldati, ma da uomo a uomo anzi da babbo a figlioli. ‘Pre­paratevi, la battaglia è vicina, la più grande ma l’ultima. E la vittoria è certa. E scacceremo le belve tedesche e i malfattori nostrani. E poi torneremo a trovare i nostri cari, a rifare le nostre case e ricostruire le nostre vite. E la pena non ci sem­brerà troppa, perché avremo in cuore la gioia del dovere com­piuto, della Patria liberata, della giustizia restaurata. E buo­na Pasqua e Dio vi assista, figlioli! ‘… “.

Fu una giornata memorabile. A sera si ritornò alle rispet­tive sedi con l’animo ricolmo di tanto entusiasmo.

                                  LA LIBERAZIONE DELLA VALLATA DEL TARO

 L’attacco ai presìdi di cui all’Ordine di operazioni, dira­mato dal Comando Unico il 6 marzo, era stato deciso per il 1° aprile, ma il Comando Alleato consigliò di rimandarlo al 6 e, come si vedrà, slittò all’ 8.

Con l’Ordine di operazioni n. 4 del 5 aprile indirizzato ai Comandi delle Divisioni Val Ceno, Val Taro e Cisa, il Co­mando Unico, premesso che l’offensiva Alleata sul fronte tir­renico era imminente, dispose:

“In primo tempo: sviluppare un ‘azione a fondo contro i più importanti presìdii nemici della zona, sbarrando nel con­tempo alcune vitali vie di comunicazione;

In secondo tempo: effettuare lo sbarramento in tutte le possibili vie di ritirata del nemico, secondo il piano di massi­ma già stabilito, salvo le varianti che saranno in appresso indicate.

Azioni sui presìdi. L’attacco a fondo dei presidi sarà effettuato il mattino del giorno 8 aprile, alle ore 4 (quattro), con azione contem­poranea tendente alla eliminazione delle forze nemiche esi­stenti nei presidi stessi. Questi ultimi debbono essere occu­pati e l’occupazione deve essere mantenuta, finché possibile, salvo per i presidi contro i quali è prescritto di svolgere una semplice azione dimostrativa.

Gli obiettivi sono stabiliti come segue:

1ª  Brigata Julia. Attaccherà ed occuperà Borgotaro e Ostia.

Detta Brigata sarà rinforzata dal Gruppo VaI Taro, come riterrà più conveniente il Comandante della Divisione Val Taro. 2ª Brigata Julia. Attaccherà ed occuperà Berceto. Inol­tre sbarrerà con armi automatiche e con mine le provenienze da Roccaprebalza verso Berceto. Verranno sbarrate tutte le strade sulle quali potrà veri­ficarsi la ritirata nemica, secondo le direttive dell’ordine di operazioni n. 1, tenendo inoltre conto che la 2ª Brigata Julia dovrà anche agire sul tratto di strada Nazionale Passo della Cisa Poggio di Berceto.

Il Comando Unico si trasferì dal Bardigiano a Mariano di Valmozzola il giorno 7 aprile. Tenuto conto delle rilevanti. forze che presidiavano Ber­ceto e di quelle che vi transitavano, disporre che la 2ª Brigata Julia dovesse attaccare, occupare Berceto e che agisse sul tratto di strada Nazionale Passo della Cisa-Poggio di Berce­to, significava mandarla inutilmente al macello. Pertanto l’ or­dine subì qualche variante e l’attacco a Berceto venne sospe­so. Tali considerazioni valevano anche per la Divisione Cisa per la parte che riguardava lo sbarramento della strada della Cisa tra Pontremoli ed il Passo.

Per contrastare le forze nemiche in questo scacchiere sarebbe stato necessario l’impiego di più rilevanti forze dota­te anche di cannoni e di un maggior numero di mortai senza limiti di munizionamento. In relazione a ciò l’ordine subì una modifica ed alla 2ª Julia, assieme al Gruppo Val Taro, venne assegnato il compi­to di attaccare il presidio di Roccamurata ed i caselli ferro­viari tra Ostia e Ghiare di Berceto. Due Distaccamenti dove­vano effettuare solo un’ azione dimostrativa verso Berceto (“sparatorie non ravvicinate”) ed al termine di essa, ripiegare rispettivamente al San Bernardo ed al Manubiola per impedi­re eventuali infiltrazioni nemiche provenienti da Berceto e dirette verso la Valle del Taro (82).

(82) Negli archivi non è stata trovata la variante all’ordine di operazioni suddetto che riflette, come scrive il Cipriani, op. cit., pago 155: “una diversa ripartizione negli obiettivi e la sospensione dell’attacco di Berceto, per l’im­provviso concentramento, in tale località, di ingenti forze tedesche”. Equivo­ca è l’affermazione del Vietti quando, nell’opera citata, senza evidenziare le motivazioni, afferma che “i compiti fondamentali assegnati alla IIª Brigata Julia ed alle Brigate Beretta non vengono invece conseguiti”.

Ben diverso è il parere di Aristide Angelini, ispettore della IIª Brigata Beret­ta ed ufficiale addetto al Comando della Divisione Cisa che, a pago 42 del già citato “La Resistenza a Pontremoli” scrive: «Sarebbe interessante trascrivere per intero il diario di guerra della Divisione Cisa nei mesi di marzo-aprile ’45, ove si nota un crescendo di azioni belliche di alto valore militare, dalla distruzione del ponte di Mingegno in una strettoia della statale 62, all’attacco e conquista di tutti i caselli ferroviari tra le stazioni di Pontremoli e Guinadi, presidiati da rilevanti forze tedesche, così come la brillante operazione della presa dell’importante centrale elettrica della Falk a Teglia, presidiata e poi difesa da un battaglione della prima Brigata Beretta, su preciso ordine degli alleati, nonostante le reiterate puntate tedesche per poterla distruggere».

 Il Comando di Divisione portò la sua sede nella Canoni­ca di Belforte e quello della Brigata a Lozzola.

Il giorno 7 aprile, in mezzo allo scrosciare della pioggia che cadeva ininterrottamente da alcuni giorni, i Distaccamenti si portarono nelle zone limitrofe a quelle delle operazioni. Il morale degli uomini era alle stelle perché si avvicinava il gior­no della resa finale dei conti. La notte trascorse insonne. Si smontavano, si lubrificavano e si rimontavano le armi perché non dovevano incepparsi. Finalmente all’alba dell’ 8 aprile tutti i reparti erano nelle loro postazioni. Per le avverse con­dizioni meteorologiche, l’attacco venne ritardato, ma in cielo cominciarono ad apparire delle schiarite. Il sole non poteva non accompagnare quella giornata di gloria.

Verso le 6,30 arrivò l’ordine di aprire il fuoco e tutta la vallata era un crepitio di scoppi, dai colpi singoli dei fucili alle raffiche rabbiose delle mitraglie e dei mitragliatori che dalla sinistra del Taro sparavano senza tregua contro i quartieri ove erano asserragliati i tedeschi. Sulla destra del fiume, altri par­tigiani della 2ª Julia, al grido di “avanti Savoia”, irresistibili, espugnarono ad uno ad uno i caselli ferroviari 50 e 52 e, in collaborazione col Gruppo Val Taro, il presidio di Roccamurata.

A Lozzola, il Battaglione ivi posto per sbarrare la strada Berceto- Borgotaro attaccò ed eliminò un reparto tedesco guida­to dal Maresciallo Kurts, comandante delle truppe stanziate ad Ostia, che cercava di recare rinforzi ai presìdii in difficoltà.

Nella galleria ferroviaria di Roccamurata vennero fatti prigionieri alcuni “repubblichini” posti a guardia di un treno merci carico di munizioni e di esplosivi (83). Tutta la popolazione dei paesi limitrofi fece abbondante scorta di pani di tritolo, che userà non solo per far saltare rocce nei campi ma anche per pescare di frodo nei laghetti del Taro e dei suoi affluenti, che, a causa dell’ interruzione della linea ferroviaria, vi era rimasto intrappo­lato. I tedeschi che si erano asserragliati nelle gallerie, ad uno ad uno, vennero catturati.

Anche la squadra dei sabotatori comandati da “Vampa” partecipò attivamente alle operazioni. Nella sua relazione delle azioni compiute tra il 6 ed 12 aprile, Egli scrive: “Su ordine del Comando di Brigata la squadra sabotatori si è trasferita dalla sua sede a S. Bernardo (84).

Secondo le prime disposizioni anche la Squadra Sabotatori di Vampa avrebbe dovuto raggiungere Berceto e far saltare l’edificio ove era acquartiera­to il Comando tedesco. Anche questo obiettivo era di impossibile consegui­mento per le considerazioni già fatte. Di qui l’ordine successivo di trasferirsi a Borgotaro.

Dietro contror­dine del Comando di Divisione dal S. Bernardo si è spostata a Borgotaro con il compito specifico di minare la galleria del Borgallo una volta avvenuta l’occupazione del paese. Essen­do la suddetta occupazione avvenuta con un giorno di ritardo i sabotatori rimasero a guardia della galleria, impedendo agli 8 uomini appostati nel casello di congiungersi con gli altri 28 piazzati in galleria, e nel medesimo tempo impedire a quelli della galleria di uscire in rinforzo per la difesa del paese.

Ad occupazione avvenuta si è proceduto alla cattura dei suddetti 28 uomini. (In questa azione hanno collaborato 5 uomini, sabotatori della 1ª Julia). Dopo di ciò si è proceduto al piazzamento delle cariche atte al crollo del Borgallo, sem­pre coadiuvati da uomini della 1ª Julia. “

L’attacco a Roccamurata ed ai caselli 50 e 52 era termi­nato nella stessa mattinata dell’ 8 e tutti gli uomini impegnati nei combattimenti, col bottino bellico caricato su tregge trai­nate da buoi e coi prigionieri catturati, risalirono la riva de­stra del Taro fino a Belforte. Resistettero i più consistenti presìdii di Borgotaro, di Ostia e dei caselli tra Ostia e Borgotaro. Ostia capitolerà a sera inoltrata e Borgotaro il giorno successivo.

Dalla sede del Comando di Divisione partivano ordini e contrordini ed allo stesso Comando giungevano i messaggi delle Brigate e dei Battaglioni che comunicavano lo stato delle operazioni. Verso le tre del mattino del 9, il Comando della Brigata, da Lozzola, informò il Comando di Divisione che una colon­na tedesca forte di 180 unità stava risalendo il Taro per ricon­quistare il terreno perduto. I Distaccamenti che avevano con­quistato i caselli di Roccamurata e dintorni vennero spostati sulla riva sinistra del Taro. Anche il Comando di Divisione da Belforte si spostò a Tiedoli.

Nella mattinata venne eliminata da un Distaccamento della 2ª Julia e dal Gruppo Val Taro una colonna di circa 20 russi e l0 tedeschi che, al comando del Capitano Müller in­tendeva raggiungere Ostia, in aiuto a detto presidio, non sa­pendo che ormai era capitolato.

Di fronte alla su riportata notizia, poi risultata infonda­ta, che un forte contingente nemico risaliva la Valle del Taro, il Comando di Divisione ordinò a “Bazan” di passare, con la parte della Brigata dislocata tra Ghiare di Berceto ed il San Bernardo, sulla sinistra del Taro. Mentre stava attraversando il fiume, gli giunse il contrordine che egli non eseguì (85).

(85) Alle ore 17 del giorno 9 il comando della Divisione scriveva a Bazan: «…trattieni la Brigata sullo schieramento solito: Ghiare –Lozzola -Manubiola­ Bergotto -S.Bernardo -Termine del Gatto (attenzione che è un settore delicato, quest’ultimo!). Se per te la situazione ti risulta normale, quindi, non passare alla sinistra del Taro…».

Nac­que una polemica che assunse dimensioni che andarono al di là dell’ episodio citato e giunse a tingersi di colori politici.

Scrisse “Don Carlo” (86):

Don Aurelio Giussani, op. cit. pagg. 111-112.

 «Nel pomeriggio (14 aprile, ndr) a Tiedoli, presso il Comando divisionale, stendo la relazione dei giorni di combattimento.

Qui ho la conferma che qualcosa non va e che ci sono malumori. Prima di sera, un po’ preoccupato, parto per Gra­vago (87)

Il Comando Unico, ultimate le azioni nella valle del Taro, si era ritrasferito a Gravago di Bardi. Dove c’è il Comando Unico perché voglio sapere di preciso cosa brontola e bolle in pentola.

(15-23 aprile) Sono giornate inquiete alla Divisione VaI Taro; qualcuno soffia sul fuoco e vuoI rompere l’unità di que­sta Divisione che è l’orgoglio dei Cattolici e dei Democristia­ni. Capisco che è soprattutto il Partito Comunista, il quale in questa azione disgregatrice fa perno sul turbolento Gruppo VaI Taro di Dragotte (88),

(88) Dragotte, come già riferito, era il nome di battaglia di Giuseppe Del Nevo che fu il primo Comandante della 1ª Brigata Julia. Venne sostituito nella carica di Comandante nel gennaio 1945 da Primo Brindani “Libero”. Abban­donò la Brigata e costituì il Gruppo Val Taro del quale divenne Comandante.

 Dominato dai suoi aderenti e su altri elementi delle altre brigate che hanno questioni personali di orgoglio e di ripicca. Nelle ultime operazioni infatti le forma­zioni di marca comunista sono apparse inferiori e poco effi­cienti; il partito teme perciò di perdere la fama di liberatore ed il monopolio dell’antifascismo, cosi tanto sbandierato, in tutta la zona dell’Emilia, di fronte al valore, all’efficienza ed alle conquiste delle formazioni di colore ben diverso e spic­catamente anticomuniste.

Per questo ora tenta di penetrarvi e di sfaldarle usando tutti i mezzi leciti ed illeciti, anche i più nauseanti come la calunnia. Qui non hanno usato mezzi peggiori, come hanno fatto altrove, solo per paura. Nello stesso Comando Unico ci sono dei sostenitori di queste critiche, che sono facilmente individuabili negli ele­menti comunisti. Costoro sono cosi invadenti e turbolenti che costringono lo stesso Comando a proporre “pro bono pacis” (vedi gli agnelli) la sostituzione del Comando della Divisione Val Taro. Insieme ad altri, anch’essi nauseati dalla faccia to­sta ed invadenza di questi elementi poco desiderabili e poco raccomandabili sotto ogni aspetto, a cui “Arta “, l’idealista, dà e presta la faccia della legalità e dell’onestà, reagisco; non intendiamo per nulla affatto soccombere.

Frattanto avvicino gli uomini delle Brigate e parlo loro chiaro smascherando gli intrighi e le piccole ambizioni per­sonali. Sono giorni di corse tra Mariano, Tiedoli, S. Martino (di Valmozzola), Gravago, ecc. La crisi si protrae per una set­timana e culmina il 22 a Gravago. Oggi sono chiamato come imputato con altri al Coman­do Unico per rendere ragione della nostra condotta. È l’ulti­ma carta che i comunisti giocano perché si sentono sfuggire la loro influenza tra le truppe; sarà anche il loro smaschera­mento e la loro definitiva perdita nella zona.

Mi presento a tutto il Comando riunito e sono cosi esa­sperato e nauseato che si inizia subito una seduta burrascosa di accuse e di risposte rudi e crude. La prima accusa, ed è la solita dei comunisti, è di intro­mettermi in cose che non mi riguardano; la seconda è di man­canza di senso patriottico ed unitario per la libertà della pa­tria; infine mi si minaccia di espellermi dalle formazioni. Le mie risposte sono violente e taglienti; spesso passo alle contraccuse mettendo in imbarazzo gli stessi coman­danti. Mostro l’ inconsistenza della prima, li svergogno sulla seconda e ne rido della terza minaccia, anzi li sfido ad attua­re la cosa venendo tra le truppe che amano chi vive con loro e si sacrifica per loro, non chi li sfrutta per una propria ambi­zione personale.

Anche gli altri si difendono aspramente.

Al Comando non si aspettavano una cosi irruenta rea­zione alla loro leggera decisione e cercano ora di minimizza­re l’accaduto per evitare il peggio, e vogliono ritornare sui loro passi. Il Comando della Divisione Val Taro, dimissiona­rio, si sente offeso dell’atteggiamento del Comando Unico e non accetta l’offerta di rimanere in carica; però “Bazan “, che si era prestato al gioco, viene dimesso dal Comando del­la 2ª Brig. Julia, ove ritorna “Umberto ”  ».

Una interpretazione diversa sembra emergere dalla se­guente comunicazione al Comando Unico, datata 17 aprile a firma “Richetto”, “Libero”, “Bazan” e “Dragotte”:

“In una riunione, tenutasi a Borgotaro il giorno 17/4/ 1945 fra i Comandi delle unità che costituiscono l’intera Divi­sione Valtaro, circa rimaneggiamento del Comando di Divi­sione, dopo ampia discussione, ne è sorto un voto di sfiducia totale verso le persone che costituiscono il Comando stesso.

Le Brigate I e II Julia, Sante Barbagatto Nino Siligatto e Gruppo d’Azione VaI Taro rappresentate dai rispettivi Co­mandanti, hanno manifestato il desiderio che il Comando nuovo di Divisione sia l’espressione del movimento partigia­no e creato con elementi rappresentativi di ciascuna Brigata che, naturalmente, riscuotano la fiducia dei Volontari.

Di conseguenza, con pieno accordo di voti, si è addive­nuti nella determinazione di costituire i nuovi quadri del Co­mando di Divisione che risulta cosi formato:

Comandante: RlCCHETTO (S.Barbagatto N Siligatto)

V.Comandante: CORRADO (I Julia)

Commissario: SEVERlNO (11 Julia)

V.Commissario: BRUNO (Gruppo d’Azione Val Taro)

Capo di S.M: TARASS (I Julia).

. .” …omissis .

Comunque, come già ricordato, al Comando della 2ª Ju­lia ritornò il Maggiore “Umberto” e “Bazan” assunse l’incari­co di Ispettore della Divisione Valtaro(89).

 Bazan, pur non avendo rivestito gradi nell’Esercito, fu un ottimo Co­mandante di Battaglione ed un buon Comandante di Brigata. Liberata la Valle del Taro da Solignano fino ai Passi del Bocco e del Centocroci, gli occhi ed i pensieri erano tutti rivolti a Berceto. La Linea Gotica era stata sfondata dalle truppe alleate e le divisioni nazi – fasciste, che avevano combattuto sul fronte tirrenico, si stavano ritirando utilizzando principalmente la strada statale della Cisa ove squadre della 2ª Julia e di altre formazioni partigiane addentavano il nemico da Pontremoli a Fornovo.

Il Comando tedesco chiese di parlamentare e gli incontri avvennero a Roccaprebalza. Il Comando della Brigata chiese la resa delle truppe tedesche, mentre i parlamentari tedeschi chiedevano di non essere disturbati nella ritirata. Visto che i tedeschi approfittavano di questi incontri esclusivamente per guadagnare tempo, vennero interrotti e la mattina del 27 apri­le alcuni distaccamenti della Brigate iniziarono l’attacco a Berceto da Ovest e da Sud.

Da Ovest, un consistente numero di tedeschi era trince­rato in un gruppo di case di una località denominata Castellaro, posta su una altura dominante Roccaprebalza, distante po­chi chilometri da Berceto. Si accese un furioso combattimen­to nel quale trovarono la morte due partigiani e restò grave­mente ferito un terzo che spirerà alcuni giorni dopo. Non si conobbero le perdite inflitte al nemico, ma non dovettero es­sere certamente leggere.

I Distaccamenti impegnati nello scontro vennero sotto­ posti anche al tiro incrociato delle truppe tedesche di Berceto e di quelle appostate sulla strada statale in località Monte Marino. Dopo tre ore di impari lotta, i partigiani furono co­stretti a ripiegare su Lozzola.    .

Nella notte, le retroguardie tedesche abbandonarono de­finitivamente Berceto ed andarono ad imbottigliarsi in quella che verrà chiamata la Sacca di Fornovo e, con l’intermediazio­ne di Don Alessandro Cavalli, Parroco di Neviano dei Ros­si(9O),

Neviano dei Rossi è un piccolo paese a Sud-Est di Fomovo, si arresero alle truppe brasiliane, giunte nel frattempo.

Il 28 mattina, finalmente, tutta la Brigata entrò in Berceto, coi muri tappezzati di manifesti inneggianti ai partigiani, accol­ta da una folla entusiasta e plaudente. L’incubo era finito.

Nessun atto di rappresaglia o di vendetta venne compiu­to. Solo qualche collaboratrice dei tedeschi subì il taglio dei capelli. Ormai la guerra, che tanti lutti e tante distruzioni ave­va lasciato dietro di sé, era terminata.

Bisognava deporre le armi della guerra ed impugnare gli strumenti della pace per ricostruire il Paese distrutto. Ed in tal senso concludeva il messaggio del Comando Unico, a fir­ma di “Arta” e di “Poe”, indirizzato il 28 aprirle 45 a tutte le formazioni partigiane: “Volontari della Libertà, è finito il tem­po della battaglia, comincia il tempo del lavoro: troppo fu distrutto, bisogna ricostruire.

Chi ebbe la grande avventura di comandarvi torna oggi fra le vostre file, umile artiere come voi  della nuova Italia: ma nel cuore porta con sé, come una luce che non si spegne­rà, il ricordo e l’orgoglio della fiera prova assieme con voi affrontata e superata”.

                                                             I NOSTRI CADUTI

Sulla gioia della vittoria gravava l’ombra dei tanti, dei troppi amici che nelle file della Brigata immolarono le loro giovani vite per la causa della libertà.

I loro nomi, che per onorarne la memoria vennero scol­piti sulle lapidi, restano incisi nei cuori di tutti i compagni di lotta. Essi sono:

ANDREI Francesco    Margot                 Montagnana           11/11/1944

AZZINI Graziano        Cremona              S. Bernardo               2/2/ 1944

BABAGIANOV B.     Bargagianni         Berceto                    30/5/1945

BARBIERl Luigi          Lampo                 Ostia Parmense           9/4/1945

BERNI Aurelio            Leone                   Lozzola                    12/6/1944

BERTINELLI Giovanni Gian                Albareto                   15/4/1945

BIOLZI Francesco      Francesco            Passo  Cisa                  1944

CARLUCCI Michele   Soriano               Borgotaro                  23/4/1945

CONSIGLI Domenico Tigre                 Berceto                      27/4/1945

DELLEFAVE Giovanni Sfacìmme        S.Martino  Valm.      12/2/1945

DISGNISOF Ivan       Ivan                    S. Bernardo                   2/21945   

FRASCATI Emilio      Emilio                                                       1944

LAGHI Antonio           Ramino               S. Bernardo                   2/21945   

LAVIANI Mario         Lucidi                  Zeri                             2/8/1945

MARCHI Roberto      China                   Zeri                             2/8/1945

MALOSSI Aldo          Fuoco                Pontremoli               15/12/ 1944

MELEGARI Adriano   Adriano                                                    1944

MOLINARI Luigi        Volavia               Belforte                         2/21945

MORI Everaldo (fucilato) Cilera          Colorno                      17/1/1945         

PICEDI Benettini Giuseppe Penola     Bosco di  Corniglio  17/10/1945

PIOLI Socrate Martino Rigoletto                                                1946

TORTOROLI Ettore   Pio                  Berceto                          27/4/1945

VALLINO Emilio        Savona                                                    1944

Caddero e, come recita la preghiera di Teresio Olivelli, il loro sangue si unì a quello degli altri morti “a crescere nel mondo giustizia e carità” e a rendere “nel dolore all’Italia una vita generosa e severa”.

L’olocausto delle loro vite e quello di tanti altri che cad­dero per gli stessi ideali, le sofferenze dei feriti, il valore del­le formazioni partigiane ed il silenzioso e coraggioso sacrifi­cio delle popolazioni venne onorato col conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare ai territori che furono testimoni della lotta per la riconquista della libertà, con la se­guente motivazione:

“Il Territorio delle Alte Valli del Taro e del Ceno, zona di particolare importanza strategica a ridosso della “Linea Gotica “, divenne, sino dal settembre 1943, culla della resi­stenza e centro di coordinamento politico-militare contro il nazi-fascismo.

Le “Bande Partigiane “, subito costituitesi informazioni organiche, coadiuvate dalle popolazioni, si batterono con inu­sitato valore e determinazione, dandosi, una prima volta nel giugno 1944, una amministrazione democratica e libera stam­pa, contro cui si scatenarono la ferocia e la rappresaglia nemiche, che lasciarono ovunque lutti e rovine, nonostante l’eroica resistenza armata.

Tutto ciò non valse a piegare le popolazioni che conti­nuarono a mantenere accesa la resistenza all’invasore sino alla liberazione e che, con dura e sanguinosa lotta delle for­ze partigiane, si sottrassero definitivamente al giogo stranie­ro concorrendo a fermare la ritirata dei numerosi reparti ne­mici che cercavano scampo nella Valle Padana ed a determi­narne la resa.

 

Elenco dei partigiani che rivestirono, anche temporaneamente, incarichi di comando nella II Brigata Julia

 

Molinari Giuseppe Birra                       Comandante  di  Battaglione

                                                              Comandante  di Brigata

 

Cattini Giovanni Vampa                        Comandante  di  Battaglione

                                                               Comandante  di Brigata

                                                               Capo di S.M.di Brigata,

Pestarini Umberto   Umberto                Comandante di Brigata.

 

 

Gattai Marcello  Bazan                          Comandante di Battaglione,

                                                               Vice Comandante di Brigata,

                                                               Comandante di Brigata.

 

Molinari Severino  Severino                  Commissario  di Brigata

 

Iasoni  Giovanni   Poppy                       Comandante di Battaglione,

                                                               Vice Comandante di Brigata,

 

Antiga Gugliemo   Mino                        Vice Commissario  di Brigata

                                                               Commissario  di Brigata 

 

Vecchi Franco    Franco                        Comandante di Battaglione,

                                                               Capo di S.M.di Brigata,

 

Anelli  don Guido   Don Tito                 Cappellano

 

Giussani don Aurelio Don Carlo          Cappellano

 

Vescovi  Giuseppe   Aramis                  Comandante  di  Battaglione

 

Martinelli Francesco    Orsaro              Comandante  di  Battaglione  

 

Serni Luigi      Basco                             Comandante  di  Distaccamento

 

Bertolini Giovanni           Tito                       “                          “

 

Fantoni  Giovanni        Iamosi                      “                          “

 

Melli  Bruno              Bruno                         “                          “

 

Campi  Primo    Manifesto                           “                          “

 

Pesci  Emanuele   Bandiera                         “                          “

 

Giglioti  Giuseppe Daino                            “                          “

 

Zucconi   Eliseo    Orso                              “                          “

 

Calzi   Francesco  Camoscio                        “                          “

 

Risi    Camillo    Toselli                               “                          “

 

Di Bernardo  Livio   Giorgio                       “                          “

Pelliccia  Nello  Pirata                          Comandante  di  Distaccamento

 

Mortali  Giuseppe  Bartali                    Comandante  di  Distaccamento

 

Perotti  Giorgio  Vento                          Commissario  di  Distaccamento

 

Laurenti  Tonino  Faust                         Commissario  di  Distaccamento

 

Gori  Ero             Fui                             Commissario  di  Distaccamento

 

Aresi  Giuseppe  Pròton                        Commissario  di  Distaccamento

 

Agnetti  Enrico  Spartaco                      Commissario  di  Distaccamento

 

Boldrini Glicerio   Mantova                  Commissario  di  Distaccamento

 

Michelotti Aurelio   Tancredi                Commissario  di  Distaccamento

 

Marinello  Mario Sanità                         Capo infermiere di  Brigata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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