I Caduti di Valmozzola Istituto  Storico Della Resistenza ” Pietro Mario  Beghi ” La Spezia

I fatti di  Valmozzola ( Gruppo  di  Monte Barca ) 13 – 17 Marzo 1944

INTRODUZIONE

di M. T. Mori

I fatti di Valmozzola del Marzo ’44 costituiscono uno dei primi avvenimenti di larga risonanza nella storia dello sviluppo delle formazioni partigiane in provincia della Spezia (1). L’episodio si svolse in due tempi, di cui uno fu la drammatica conclusione dell’altro: l’assalto al treno nella stazione di Valmozzola da parte dei partigiani del gruppo Betti il 13 Marzo, e la rappresaglia nazifa­scista che ne seguì, portando qualche giorno dopo alla fucilazione di sette «ribelli ».

Il gruppo Betti era nato nella Val Ceno spontanea­mente, e in un primo tempo senza alcun intervento di­retto da parte di partiti antifascisti, essendosi formato intorno alla figura di Mario Betti, uomo di cui ancor oggi è sconosciuto il vero nome, quasi sicuramente pro­veniente dal Piacentino e che si trovava nella zona fin dal mese di Dicembre. Valmozzola è precisamente in provincia di Parma; ma l’episodio di cui si tratta si inserisce a buon diritto nella storia delle formazioni partigiane che avevano come riferimento politico e organizzativo gli esponenti antifascisti e il C. L. N. della Spezia. Mario Betti aveva già partecipato allo scontro che si era svolto ad Osacca contro reparti fascisti qualche tempo prima.

Dotato di carattere autoritario e coraggioso, aveva raccolto intorno a sé un piccolo numero di uomini del luogo che per un certo periodo agirono autonomamente, preoccupati soprattutto di sopravvivere all’inverno pro­curandosi armi, cibo, vestiario. Alla fine del febbraio del ’44 la banda entrò in contatto con i partiti del C. L. N. della Spezia che incominciò ad inviare armi e uomini. Questi ultimi erano per lo più giovani renitenti alla leva od esponenti dei partiti di si­nistra che l’attività antifascista in città aveva ormai com­promesso. L’arrivo degli spezzini, se da un lato ingrossò notevol­mente il gruppo portandolo a circa 60 elementi, d’altro canto pose subito problemi di prim’ordine quali la ne­cessità di amalgamare le due componenti della banda, quella cittadina e quella locale, e di darle una corretta impostazione politica. Si trattava di uomini di estrazione e sensibilità diverse: in prevalenza erano lavoratori e studenti molti dei quali abituati alla disciplina ed alla lotta, politicamente coscienti; vi erano poi alcuni con­tadini, tradizionalmente Un po’ chiusi e legati al loro mondo. Si incontravano quindi diverse esperienze sociali e, soprattutto, diversi modi di intendere l’impostazione da dare alla stessa guerriglia.

Mario Betti era certo un antifascista generoso e pron­to al sacrificio; ma la sua formazione mentale (e la sua stessa scelta individuale di organizzare una banda sui monti) lo portava ad una concezione della lotta più mi­litare che politica, più basata sull’impulso e sul presti­gio personale che sulla maturazione politica dei suoi uomini. Vi erano tra gli altri Mario Portonato (Claudio) e Paolino Ranieri (Andrea), che in futuro diventeranno commissari politici nella Brigata « Ugo Muccini» della IV Zona Operativa.

Al contrario per gli antifascisti della città (tra cui al­cuni sperimentati militanti del partito comunista), con­durre una guerra partigiana contro il nazifascismo voleva dire innanzi tutto mettere alla base di questa guerra ta­luni obiettivi politici chiari e precisi. I primi giorni di Marzo furono dunque dedicati in gran parte alla discussione ed alla riorganizzazione; fatti questi che non mancarono di produrre immediatamente alcuni effetti: all’interno della banda fu per esempio eliminato, alla mensa, il tavolo <<speciale >> dei comandanti, conformemente all’idea che un esercito popolare basa la propria compattezza sull’uguaglianza e sulla soli­darietà e non sui gradi o sul numero delle stellette.

Si arrivò così al 13 Marzo del ’44.

 Circa una ventina di patrioti partirono da Mariano, base del gruppo, per requisire del grano ad uno dei tanti ammassi della zona. Compiuta l’azione il carico venne inviato alla base con una scorta: una quindicina di parti­giani con il comandante Betti decise invece di dirigersi a Valmozzola per prelevare il capostazione repubblichino. Se poi fosse passato un treno, non si sarebbe persa l’occa­sione per fermarlo, dato che i treni della linea La Spezia Parma erano spesso frequentati da militari di ogni ge­nere.

Questa concezione è esemplificata dal fatto che il coman­dante faceva sfilare ripetutamente i suoi venti uomini sulla cima del monte sovrastante Bardi in modo che sembrassero molti e… spaventassero i militi che dalla cittadina potevano vederli. L’unico episodio di rilievo nel frattempo era stato l’assalto al presidio di Roccamurata. Da quanto si è detto risulta perciò che i partigiani non erano a conoscenza della presenza sul treno dei due renitenti prigionieri, come pare invece dalle precedenti pubblicazioni Sull’ argomento

« Presa la decisione partimmo per Valmozzola. All’ini­zio della strada che porta alla stazione scorgemmo la sen­tinella che, non appena ci avvistò, fuggì a dare l’allarme. Gli ultimi duecento metri che ci dividevano dalla stazio­ne li facemmo di corsa in quanto avevamo notato la pre­senza del treno La Spezia – Parma.

Arrivati sul marciapiede, davanti al treno, Betti e altri partigiani, notato che tra le prime carrozze ven’era una riservata ai militari, salirono per intimare loro di scen­dere senza sparare perché circondati. L’avviso non fu accolto ma anzi da parte di un milite venne esplosa con­tro il Betti una bomba a mano. Da questo momento iniziò l’attacco da parte dei partigiani. Ebbe luogo una breve sparatoria (circa dieci minuti) fino a quando dall’interno la maggior parte dei militari decise di scendere e di arrendersi. Si fecero prigionieri una quindicina fra fascisti e tedeschi. Tra i militari c’erano inoltre i due renitenti prigionieri che stavano per essere trasportati a Parma. Il capostazione non riuscimmo a prenderlo, perché mentre si svolgeva l’azione era riuscito a fug­gire» . Particolare grottesco: nonostante che i parti­giani si fossero fermati alla stazione per qualche tempo, nessuno fece caso al comandante Betti ucciso e lasciato morto sul treno.

Il gruppo rientrò a Mariano nel primo pomeriggio. Prevedendo un rastrellamento, venne immediatamente deciso lo sganciamento. Dei prigionieri alcuni vennero rilasciati, altri giustiziati dopo regolare processo. I due renitenti liberati si unirono al gruppo. Testim. di Bassano Ezio (Romualdo) e Mario Fortunato (Claudio ).

Per lo sganciamento la banda si divise in due parti: l’una, formata prevalentemente da locali, non resse alle difficoltà e si sbandò, l’altra riuscì a portarsi in VaI Noveglia. La notizia dell’impresa di Valmozzola ebbe immedia­ta risonanza nella zona. Altrettanto immediata fu la ri­sposta nazifascista. Qualche giorno dopo otto partigiani sorpresi in una capanna del monte Barca vennero fuci­lati nella stessa località dove si era svolto l’assalto al treno: rappresaglia feroce, messa in atto dalla famige­rata X Mas per dimostrare che non lasciava «invendicati i suoi caduti ».

Il piccolo gruppo del monte Barca si era formato in seguito ai contatti stabiliti da parte di un comunista sarzanese, Dario Montaresi (Brichè), con Edoardo Bassignani (8 bis), vecchio antifascista (durante il ventennio ave­va subito il confino), che già da alcuni mesi ospitava tre russi ex-prigionieri in casa sua, in località Merizzo. Qui si era portato il Montaresi; dopo qualche giorno erano incominciati ad arrivare alcuni giovani inviati dal C.L.N.: si era così formato il gruppo che a fine mese si sarebbe trasferito sul monte Barca.

Nel breve periodo della sua esistenza il nucleo parti­giano si era dedicato prevalentemente a risolvere i pro­blemi primari per ogni banda al suo nascere, quali la necessità di procurarsi cibo e armamento da un lato, di instaurare buoni rapporti con la popolazione dall’altro. Di quest’ultimo problema Brichè, che aveva le funzioni di commissario politico, si preoccupava costantemente: era giunto ad affittare una stanza nel paese di Collesino, per guadagnarsi la fiducia degli abitanti attraverso la conoscenza reciproca. Era in poco tempo riuscito a farsi <<accettare >>.

Il Bassignani, nato il 13-7-1910, verrà poi fucilato dai nazifascisti il 3-2-‘1945’ in località Merizzo (Comune di Villafranca Lunigiana).

Testimonianza dello stesso << Brichè >>.

Riuscire a rompere il muro di indifferenza o addirit­tura di ostilità che divideva i partigiani dalla gente del luogo non era comunque un compito facile in questa prima fase della formazione di nuclei ai monti: si trat­tava per lo più, in Lunigiana, di contadini piccoli pro­prietari, tradizionalmente al di fuori da ogni fermento sociale, certo pronti alla generosità ma altrettanto istin­tivamente portati alla tenace difesa del proprio inte­resse personale dalla comprensibile paura di perdere la piccola, frazionatissima proprietà. A Bagnone bastava la puntata di due partigiani mal vestiti e non sbarbati scesi a comprare da mangiare per suscitare diffidenza, risentimento, sospetto . Diverso era stato il caso di Merizzo, dove già da tempo era esistito un gruppo di antifascisti: qui i tre russi avevano vissuto per mesi in­disturbati ed anzi aiutati in ogni modo da gran parte della gente del posto.

Il gruppo del monte Barca non ebbe ad ogni modo il tempo di risolvere meglio questi problemi. Il 14 Marzo, mentre il commissario politico Brichè era sceso alla Spezia per i consueti contatti, la banda venne sorpresa nel suo rifugio, probabilmente in seguito ad una spiata, da un plotone del battaglione S. Marco. Due giovani, tra cui un russo, furono uccisi sul posto: uno riuscì a fug­gire (1l), gli altri vennero tradotti a Pontremoli. Di questi, otto vennero fucilati a Valmozzola il 17 Marzo 1944; uno, Mario Galeazzi, fu graziato all’ultimo momento.

Non ci si sofferma sullo svolgersi particolare di questi

Testimonianza di « Briché ».

(11) Si tratta di Ernesto Parducci (Giovanni), unico sopravvis­suto del gruppo. Del gruppo faceva anche parte Giuseppe Ca­stagnola (Paolo) che il giorno 13 era stato inviato in missione pres­so Edoardo Bassignani, per un incarico affidatogli dal Parducci. Avvenimenti perché sono sufficientemente documentati nelle testimonianze riportate in questa pubblicazione.

L’esposizione degli avvenimenti del 14/17 Marzo 1943 apre la strada ad alcune considerazioni di carattere più generale. La formazione del gruppo Betti, l’episodio dell’assal­to al treno e la successiva rappresaglia nazifascista so­no momenti di rilievo nel quadro dai contorni ancora incerti e confusi delle origini e del primo sviluppo delle bande partigiane in provincia della Spezia e in Lunigiana.

La banda di Betti, nata spontaneamente intorno alla figura di un antifascista particolarmente energico e in­traprendente, è l’esempio (individuabile in molte parti d’Italia nel periodo dell’inverno 1943,/44) di tipico gruppo partigiano nato dopo 1’8 Settembre al di fuori del con­trollo dei partiti, che però ad un certo momento trova proprio nell’incontro con i rappresentanti dei partiti e delle loro organizzazioni clandestine l’avvio a darsi una più solida struttura, sia militarmente che dal punto di vista della maturità politica, parallelamente alla cre­scita numerica. Quando fu deciso l’assalto al treno di Valmozzola, il 14Marzo del ’43, questa struttura era ancora ben lontana dall’essere raggiunta per la banda in questione: basti pensare all’assoluta impreparazione tecnica con cui si arrivò all’azione, e all’assoluta man­canza di coordinamento che lo caratterizzò (la vicenda del comandante lasciato morto su di un vagone senza che nessuno se ne accorgesse ne è d’esempio).

Solo da poco tempo, del resto, il gruppo era venuto Gran parte di queste testimonianza riguardano Uba1do Cheirasco, una delle vittime, che era un po’ il capo spirituale del gruppo per sensibilità e preparazione politica (era, come il padre, socialista).In contatto con il Comitato Militare del C. L. N. spezzino che aveva incominciato ad inviare uomini (soprattutto operai della città) e materiale. L’improvvisazione e la spontaneità dell’azione di Valmozzola (elementi che tro­viamo molto spesso in questo primo periodo della guer­ra partigiana), se ne costituiscono la caratteristica pre­cisa, non ne diminuiscono però l’importanza decisiva. La risonanza che ebbe fu certamente in gran parte do­vuta alla bestialità della reazione nazifascista; ma dal punto di vista politico e militare era comunque non so­lo giustificata ma utile un tipo d’azione dimostrativa e d’effetto che, facendo giustizia di ogni ipotesi attendista, fosse d’esempio e di incitamento. Ai primi del me­se, del resto, già gli scioperi compatti della classe lavo­ratrice spezzina erano stati uno straordinario banco di prova per l’antifascismo, e la combattività e l’unità di questa classe necessitavano di essere adeguatamente so­stenute con l’impulso alla lotta armata sui monti contro ogni tentazione all’accordo od al rinvio.

Poco importa dunque cercare di stabilire se i parti­giani erano al corrente della presenza dei due renitenti quando presero la decisione di assalire il treno o se la coincidenza è stata casuale: quello che più conta è che si trattava di un’azione possibile e che perciò fu fatta, in un momento in cui bisognava dimostrare che il movi­mento partigiano esisteva ed era pronto a prendere l’ini­ziativa contro il nemico.

Questa valutazione non può cambiare pur tenendo conto delle conseguenze dolorose e sproporzionate che l’azione causò. A prescindere dall’imprevedibilità di quel­le conseguenze non si ponevano alternative possibili e reali per chi non limitasse l’analisi della situazione al momento ma tenesse conto delle prospettive generali. Riguardo poi alla vicenda degli otto partigiani del monte Barca, si trattò senza dubbio di una perdita tra le più gravi nel primo periodo di sviluppo delle forma­zioni nello spezzino, nell’alta Lunigiana e nelle valli vi­cine dell’Appennino ligure-emiliano. I nazifascisti conta­vano di stroncare con rappresaglie esemplari il movimen­to sul suo nascere e, soprattutto, contavano di spezzare, con il terrore e l’intimidazione, qualunque tipo di solida­rietà da parte della gente dei paesi. Era un’ipotesi che aveva certamente una sua logica oggettiva; ma che finì inevitabilmente per ritorcersi contro chi l’aveva perfidamente calcolata.

NASCITA E PRIME AZIONI

            DEL GRUPPO « BETTI» (1)

di Marisa Tedaldi

Dal desiderio di questi uomini di non farsi trovare impreparati sorgono nella Val Ceno diversi gruppi. Dopo quello di Osacca è la volta del gruppo Betti. In che modo si era formato il gruppo Betti ? La nascita e lo sviluppo di tale gruppo presenta un particolare interesse in quanto sarà l’unico collegato col C. L. N. di La Spezia e l’unico a sorgere senza alcuna direttiva precisa di partito, ma per la volontà di un uomo che odiava il fascismo.

Ancora sconosciuto è il vero nome di Mario Betti e a nulla sono valse le molteplici ricerche fatte, ma cre­do che questo poco importi ai fini della sua attività. Uomo quasi sicuramente di origine piacentina si tro­vava nella zona di Gravago nel mese di dicembre. Sua ferma volontà era quella di costituire una banda per combattere il fascismo e manifestava questi suoi pensieri alla gente del luogo.

Il presente articolo è estratto dalla tesi di laurea « Aspetti e momenti della Resistenza nella Valle del Ceno, con particolare riferimento a Bardi, dalle origini sino alla costituzione del Co­mando Unico» (pagina 55 – capitolo II). Per le sue doti di uomo generoso, coraggioso, onesto e antifascista ben presto riuscì a radunare intorno a sé un discreto numero di uomini del luogo e di Tosca in comune di Varsi.

Insieme discutono intorno ai problemi che subito si presentano. E’ necessario procurarsi viveri, armi e coor­dinare le loro azioni. Preoccupazione grande di Betti era che nessun so­pruso venisse commesso ai danni della gente del luogo ed essa gliene fu grata tanto che non mancò mai di aiuta­re il Betti ed i suoi uomini in ogni circostanza.

Il Betti da parte sua era in possesso di una certa somma di denaro di cui si serviva per pagare i viveri, ed era uomo che sapeva farsi amare. La Banda sorse da coscienze diverse, ma tutte ten­devano allo stesso fine. L’inverno rendeva acuti, talvolta insopportabili, i so­liti problemi: armi, viveri, vestiario.

Il gruppo agisce indipendentemente ed è chiaro esempio di banda partigiana sorta dal popolo e per volontà del popolo.

Alla fine di febbraio del ’44 il gruppo che si era così formato e si spostava quasi continuamente nei luoghi fra Gravago e Valmozzola riesce, tramite un tecnico dell’arsenale di La Spezia che veniva a trovare setti­manalmente la famiglia sfollata a Rasoli di Campora (Valmozzola), ad entrare in contatto col C. L. N. della Spezia. Da questo momento incominciano ad arrivare quasi settimanalmente alla stazione di Valmozzola, in punti di volta in volta convenuti, armi, giovani  e direttive di azione.

Siamo ai primi giorni di marzo quando Andrea (1), in­viato dal C. L. N. della Spezia, arriva a Roccamurata, nei pressi di Valmozzola. E’ tramite una staffetta che entra in contatto con il Betti. Davanti a lui, accanto al Betti, sono sette od otto partigiani camuffati e mascherati.

A distanza di tempo questo particolare ci fa sorri­dere ma bisogna invece pensare a quegli anni per ca­pire come queste precauzioni erano estremamente ne­cessarie.

Andrea è il nome di battaglia di Paolino Ranieri, già Sin­daco di Sarzana. Siamo ancora agli inizi della vita partigiana e la vita di ogni singolo uomo era costantemente in pericolo; e il timore per le rappresaglie nei confronti delle fami­glie era grande. Il gruppo col nuovo arrivato Andrea (con funzione di commissario politico) discute sul come organizzare la lotta antifascista, stabilisce di usare nomi di batta­glia per evitare rappresaglie, decide di cercare di cono­scere bene i luoghi dove si dovrà agire.

Siamo ancora ai primi giorni di marzo quando due giovani della Spezia che dovevano raggiungere il gruppo vengono arrestati a Roccamurata. La notizia subito viene portata da una staffetta al gruppo e si discute intorno ai mezzi più idonei per ten­tarne la liberazione. Durante la discussione sorgono contrasti, ma alla fine sono i giovani che riescono ad imporre il loro volere e decidono di tentare l’impresa. In compagnia della staffetta, il gruppo dei giovani attraversa il fiume a guado sotto il fuoco del nemico, riesce ad attaccare la caserma, a mettere in fuga i militi” ma, i due giovani che si volevano liberare erano già stati trasferiti  a Borgotaro.

L’impresa era stata particolarmente difficile, si era dovuto attraversare  il, fiume a guado sotto il tiro delle armi  nemiche; e questo dimostra il coraggio di quei giovani Il giorno dopo arriva dalla Spezia un camioncino carico  di  armi­: è un gran  giorno per tutti. Betti è euforico, si è risolto  il grave  problema costituito dalla mancanza di armi. Era il 13 marzo 1944 quando Betti decide di recarsi al  consorzio  agrario del paese vicino per comperare farina di cui il gruppo abbisognava.

Parte, con un gruppo di partigiani e alcuni sono di  ritorno verso le dodici e trenta: mancano Betti  ed alcuni  compagni. Che cosa era accaduto? Betti aveva deciso di assaltare il treno all’arrivo alla stazione di Valmozzola. Perché questa decisione? Gli scritti postumi intorno all’avvenimento dicono per liberare i due prigionieri che erano sul treno, ma dalla testimonianza orale di Andrea si è appreso che la pre­senza dei due giovani sul treno era casuale.

(1) in Guerra Partigiana» di Fernando Cipriani, a pag. 81, si legge che il Betti assalta il convoglio ferroviario che trasporta alcuni partigiani prigionieri. La liberazione di questi prigionieri costituisce lo scopo dell’azione. La stessa notizia viene riportata da Gracco! in << Dal carcere fascista alla lotta armata >>, pag. 34 e da Luigi Sbodio in « Fornovo Taro nel movimento partigiano», pàg. 39. Nel libro «Un popolo alla macchia» di Luigi Longo, ed, riuniti, 1964, pag, 139, si legge che « i partigiani fermano un treno per liberare tre loro compagni arrestati. Incontrata resi­stenza da, parte, ,dei tedeschi e dei fascisti di scorta vengono uccisi un capitano, altri due ufficiali e sei fra tedeschi e militi ».

I partigiani nell’assalto riescono a fare prigionieri dieci fascisti e due tedeschi; il Betti rimane sul treno ferito a morte e morti sono pure alcuni fascisti.

Al ritorno del gruppo con i prigionieri viene istituito un tribunale per giudicarli. I responsabili della sparatoria vengono uccisi, i due tedeschi lasciati liberi (in seguito si seppe che la libe­razione dei due tedeschi evitò l’incendio di Valmozzola). Nello stesso tempo i partigiani si rendono conto che l’attacco al treno ha avuto vasta eco e di conseguenza temono un rastrellamento che non si farà attendere. Di fronte all’arrivo di ingenti forze nemiche nella zona di Valmozzola, i ribelli dovettero sganciarsi.

I partigiani del posto si rifugiarono sul monte Dosso, gli spezzini (circa 40 uomini) si allontanarono da Valmozzola ma, inesperti del luogo, vagarono senza sapere dove e si fermarono in un boschetto. Fortuna volle che invece di salire rimanessero in basso; nascosti dietro tronchi d’albero, senza mangiare, senza dormire stettero lì per qualche giorno mentre i tedeschi e i fascisti rastrellavano metro per metro i crinali dei monti. A trarli da questa incomoda posizione è un abitante della zona il quale li conduce in una baracca di sua proprietà e li rifocilla alla men peggio.

VALERIO BORGHESE

E I GIOVANI DEL MONTE BARCA

Il brano che segue è tratto dal volume di Luciano Casella, «La Toscana nella guerra di Liberazione », edito dalla Nuova Europa di Carrara nel 1972.

 di Luciano Casella

Luciano Righi nato alla Spezia nel 1924

Luigi Amedeo Giannetti nato a nel 1923

Vi furono anche in questo campo interpreti più o meno felici, operazioni più o meno riuscite. Tuttavia per molti casi non fu certo la disponibilità che venne a mancare. Esemplare in questa adesione alle esigenze dell’alleato nazista, con fiera critica della stessa orga­nizzazione fascista nazionale, fu l’organizzazione della Decima Mas, comandata dal principe Valerio Borghese. Il particolare ostentato dinamismo di questo «uomo d’arme» nonché l’originalità di costumi di questa prima­ria organizzazione fascista sorta a La Spezia, subito dopo l’ 8 settembre, la quale ebbe in Toscana un privilegiato territorio per il reclutamento e per le proprie imprese, ci porta a considerare subito uno degli atti più significativi del suo esordio. Il 13 marzo del 1944 una squadra di 20 partigiani provenienti da Molinatico dove avevano sede, guidati dal ten. Betti, bloccarono un treno proveniente dalla Spezia e diretto verso Parma, sul quale venivano trasportati alcuni partigiani fatti prigionieri. Impegnato il combat­timento contro i tedeschi e i fascisti di scorta, furono liberati i tre prigionieri.

Nello scontro, nel quale era morto lo stesso Betti, capo della formazione, caddero anche due tedeschi e sette fascisti, precisamente due ufficiali della X Mas e quattro militi. Valerio Borghese diede notizia, una settimana dopo, del combattimento con il seguente manifesto: « La X Mas vendica due suoi ufficiali trucidati dai par­tigiani. Undici banditi caduti in combattimento ed otto catturati e fucilati. « Due ufficiali della S. Marcosono stati barbaramente trucidati alla stazione ferroviaria di Valmozzola da una banda di cosiddetti partigiani, perché rei di indossare  la gloriosa divisa della Marina Militare.

La pronta reazione della X Flottiglia Mas ha portato  alla morte di undici banditi caduti in combattimento  e alla cattura di altri nove, dei quali otto ieri mattina, in Valmozzola, sono stati fucilati. Eccone i nomi: « Parenti Gino – Trogu Angelo – Gerini Dino – Cheirasco  Ubaldo – Mosti Domenico – Tendola Giuseppe, oltre due soldati russi ex prigionieri.

Uno, certo Galeazzi Mario, fu Battista, da Comano, è  stato graziato perché dalle testimonianze dei compagni  è risultato che in punto di morte è stato coercito nell’arruolamento alla banda. La X Mas non lascia invendicati i suoi caduti. Per mare  e per terra, nella rada di Anzio e sul fronte di Nettuno i nostri mezzi di assalto e il Battaglione Barbarigo  stanno combattendo contro l’odiato nemico anglo- ame­ricano. Noi non vogliamo lo spargimento di sangue italiano. Nostra unica meta, nostro unico scopo, sono di bat­tersi per l’onore e per la vittoria! Siamo decisi a difenderci e a punire chiunque tenti di  turbarci nel nostro compito.

Il comandante della X Flottiglia Mas (1)

            Firmato

Principe Valerio Borghese

Gli otto fucilati vennero presentati come catturati nel­la Valle del Taro, lasciando intendere in tal modo che essi potevano essere stati implicati nello scontro di Val­mozzola. L’espediente provocò ulteriore motivo di disgusto in quanti ebbero la possibilità di rendersi conto di come stavano realmente le cose. Prima di ogni altra considerazione ci sembra utile seguire una preziosa testimonianza quale appare nel Liber Chronicus della Parrocchia di Gabbiana – Diocesi di Pontremoli. In data 14 marzo 1944 scriveva il parroco don Primo Gallorini: «Anche la plaga bagnonese non è stata immune da fatti macabri di sangue che hanno terrorizzato queste pacifiche popolazioni, suscitando in tutti i buoni il massimo sdegno, portando scempio di vite umane. E’ qui il caso di dire che “i fratelli hanno ucciso i fratelli”.

In un gradale (o seccatoio), situato nel basso Monte Barca (località chiamata Stazzana) in prossimità della Guardia, da qualche giorno vi si trovavano rifugiati alcuni patrioti, tredici in tutto. Circa la firma del manifesto della X Mas esistono due ver­sioni. In altra parte di questo volumetto è riprodotta infatti una copia dell’originale (I.S.R.S.) che porta una firma diversa da quel­la di Valerio Borghese. Un individuo di Collesino (che ora non nominiamo) accusandoli ingiustamente di un furto di una pecora e di un agnello, la domenica precedente al fattaccio, aveva detto a una donna di Collesino, sposata a Pieve di Bagnone e abitante in località Castagno Grosso, che entro due giorni quei tredici, da lui chiamati ribelli, sarebbero scomparsi.

Infatti il giorno 14 marzo si portava sul posto un plotone del Battaglione S. Marco comandato da un mag­giore, e dietro tutte le indicazioni avute in precedenza dalla spia, arrivava fulmineamente addosso ai suddetti giovani. Era l’ora del mezzogiorno, ed erano intenti a mangiare. Un russo (professore) fu ucciso, distante circa trenta metri dal gradale, la sua testa era immersa in una pozza di sangue dove si vedeva pure il suo cervello. Un giovane non ancora identificato, ma di nazionalità italiana, fu ucciso vicino al gradale; anche lui aveva la testa immersa in una pozza di sangue, dove si vedeva pure il suo cervello. (Identificato per Gianetti Luigi di S. Bartolomeo – La Spezia).Un altro giovane – Righi Luciano – classe 1924, abitante in via della Pianta, 62 – Migliarina (La Spezia), fu trovato ucciso ai piedi di un castagno, prossimo alla località detta i Due Gratti, sulla mulattiera che dalla Pieve porta sul monte e che termina circa 200 metri prima di arrivare al gradale.

Il poverino, nel tentativo di scappare, cioè di darsi alla fuga, fu ferito alla gamba destra, quindi preso e fatto camminare fino al luogo dove poi fu trovato morto Un testimonio oculare, certo Giuseppe di Maddalena della Pieve, costretto dal maggiore a seguirlo per le pre­cise indicazioni, racconta che il Righi, non potendo camminare, sarebbe stato portato volentieri da alcuni militi, ma il maggiore, malgrado la loro buona volontà, e, peggio ancora, con cuore di belva, anziché commuo­versi alla preghiera del Righi di non ucciderlo, ordinò la immediata fucilazione.

Il giorno seguente, quando lo scrivente si portò casual­mente sul posto, lo trovò bocconi per terra, ai piedi del castagno, con la mano destra in prossimità della bocca, e l’altra più in basso, e la pallidezza del suo volto denotava tutto il sangue che aveva versato. La scarpa del piede destro era qualche metro distante da lui e la gamba stretta sotto il polpaccio con un panno bianco. Ai suoi piedi, contati e raccolti anche dallo scrivente, furono trovati 17 bossoli vuoti di pallottola da fucile mitra che erano state sparate sulla sua schiena per ucci­derlo, ma l’ufficiale sanitario di Bagnone riscontrò 26 fori.

Gli altri nove furono portati a Pontremoli, uno dei quali, Mario Galeazzi di Comano, fu liberato, e gli altri fucilati a Valmozzola, stazione ferroviaria sulla linea La Spezia – Parma. Il giornale “Il Telegrafo”, mettendo in rilievo a ca­ratteri grossi le gesta della X Flottiglia Mas, Batta­glione S, Marco in tale circostanza, dice che tale rastrel­lamento sarebbe avvenuto nella Valle del Taro (povera geografia!) e quei tredici giovani sarebbero stati “gli autori dei delitti avvenuti nel treno alla stazione di Valmozzola il giorno 13 marzo”, Ed ecco perché si spie­ga il fatto di averli portati a fucilare a Valmozzola stes­sa; non è spiegabile però la colpa loro attribuita date le distanze, tanto più che qualche pastore che li aveva visti dichiara che i tredici giovani si trovavano al gradale sunnominato da circa quindici giorni! .”

Ma “Il Telegrafo” mette in rilievo un’altra cosa, e cioè che « il maggiore è stato decorato di medaglia d’oro !..».

Della vicenda di quei giovani, condotti a Pontremoli prima della messinscena orchestrata dai seguaci di Bor­ghese, ci resta la significativa testimonianza che più sotto riferiamo, cui va associata la lettera di conforto e di ammirazione che il vescovo di Pontremoli Giovanni Sismondo inviò ai genitori delle vittime. Lettera che si concludeva con questo riconoscimento: « La loro morte ha il sapore del martirio ». Riteniamo utile pubblicare integralmente quanto in merito all’uccisione di quei giovani ha scritto nel suo diario il canonico pontremolese don Marco Mori, che ebbe la fortuna di parlare con loro durante l’attesa del­l’esecuzione:

«Pontremoli, 14 marzo 1944.

Nel pomeriggio di oggi, uscendo, avevo appena oltre­passata la soglia del Seminario che dovetti fermarmi: giungevano i preannunciati ribelli catturati in mattinata. Il Battaglione S. Marco era di spiegato in piazza S. Francesco. Da un autocarro scesero allineati e scortati. E pas­sarono vicino. Erano nove giovanotti laceri, dal passo fermo, col volto calmo. Il primo, bruno con la barba di più giorni, proce­deva con le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti. Uno aveva giacca e calzoni da marinaio; un altro camminava piegato, pressando il ventre con le mani. Era ferito. Nessuno era ammanettato. Ho prose­guito per l’Orfanotrofio; ero già in ritardo. Stasera, a cena, i colleghi mi hanno completato il racconto. I nove erano stati raccolti nel cortile del Seminario occupato dal S. Marco.

Tutto il battaglione era schierato in armi. Il maggiore ha rivolto ai nove parole dure sul “tradimento”, la “re­sponsabilità”, la “vigliaccheria”, la inesorabile punizione.

I nove risero. Uno di loro disse qualche parola al maggiore, sorridendo. Gli armati, schiamazzando, non l’hanno lasciato continuare e hanno circondato i nove, minacciosi. Il giovane ha sputato loro addosso. E’ vo­lato qualche pugno. I miei colleghi hanno commentato: “Avevano un’aria tutt’altro che avvilita. Ridevano, figu­riamoci” . Quel giovane si rivelava il capo morale nel piccolo gruppo. I nove sono stati condotti sulla soffitta-legnaia

Pontremoli, 16 marzo.

Appena pranzato un mio collega mi ha detto: “Biso­gna salire dai prigionieri. Sono stati condannati a morte, alla Spezia; forse li hanno riportati ieri. Li fucileranno stasera o domattina. E’ già venuto il Cappellano del S. Marco. Si sono già confessati e comunicati. Se insi­stiamo, le guardie ormai ci lasceranno passare”. Nei gior­ni precedenti ci era stato impedito perfino di vederli e assistere al loro passaggio. Salimmo nel corridoio del soffitto, semibuio. Tre armati del S. Marco facevano la guardia, davanti al pic­colo cancello di legno. Ci avvicinammo. Due o tre prigio­nieri si sono pure avvicinati al cancello. Gli altri erano seduti qua e là, nella stanza piccola e semibuia, sui pezzi di legna spaccata. Abbiamo mormorato un saluto imba­razzato. Temevamo di dire cose inutili in quel luogo che già era sacro per la morte vicina. Hanno risposto calmi.

Qualche altro si è alzato e avvicinato. Ho mormo­rato un “coraggio” Ha risposto un giovane bruno, dalle fattezze snelle e vigorose, che era appoggiato al cancello: “Grazie, Padre, il coraggio lo abbiamo”, ed ha sorriso, di un sor­riso semplice, spontaneo. Mi ha colpito la serena natu­ralezza di quel sorriso. Ho fissato a lungo il giovane: era, evidentemente, il capo del gruppo. Il suo volto era largamente chiazzato di lividure. Gli occhi particolarmente erano sottosegnati di violaceo. Il bianco dell’occhio sinistro scompariva in un travaso di sangue. Sotto i capelli arruffati, tra quella barba, lun­ga di più giorni, quei lineamenti lividi e tumefatti dalle percosse, si sarebbero detti di un sofferente; ma quella calma diffusa, quasi in un costante sorriso e l’assenza di ogni agitazione nel tratto e nel parlare, facevano pensare ad un volto normale. Lui stesso mi ha detto il suo nome: Cheirasco, studente di terz’anno di chimica all’Università di Pisa, nato a La Spezia nel 1922. E’ stato lui a regge­re la nostra lenta conversazione.

Teneva attorno al collo una sciarpa a quadri. La giacca scura e lacera aderiva poveramente alla sua persona. Faceva freddo lassù… Conversammo. I tre di guardia si univano a noi ma ogni loro espres­sione era dura e avevo l’impressione che essi volessero ribattere quel senso di tiepida compassione che la sorte dei condannati poneva nelle nostre parole. Il sergente, in modo particolare, si mostrava seccato e il suo parlare non nascondeva il dispiacere per noi. Quantunque la parola “coraggio” mi venisse spon­tanea alle labbra, dinanzi al sorriso del Cheirasco e alla serenità di tutti ebbi la sensazione che essa era lassù una parola fuori luogo.

A poco a poco mi sentii più a mio agio. La loro na­turalezza nel conversare diede all’incontro un tono sem­plice e cordiale. Uno di noi azzardò ancora: “Siete ras­segnati?” Rispose Cheirasco: “Lo siamo. Di noi non ci preme. Ci dà solo dolore il pensiero dei nostri. Mia mam­ma soffre di cuore”, lo dissi che il Signore avrebbe dato forza ai loro familiari: ch’essi pensassero a far bene il grande passo. Parlammo d’altro. Il silenzio di Cheirasco e la smania del sergente ci avvertivano quando gli argomenti erano inopportuni. Ho chiesto se avevano mangiato: erano le 14,30. Rispo­sero: un pezzo di pane stamattina. “Siete stanchi?”. Non avevano dormito nella notte. Cheirasco solo mi parve dicesse di aver dormito. Egli solo rimaneva sempre in piedi appoggiato al cancello. Dietro la mia insistenza fu data loro un po’ d’acqua.

Il sergente non ci permise di dar loro qualche siga­retta. Demmo alcune immagini sacre. Ringraziarono e lessero la preghiera sul rovescio. Cheirasco, poi, chiese quando finivano le scuole e di che materia fossimo insegnanti. Parlò con amore dei suoi studi. Aveva già dato diversi esami, che enumerò uno ad uno. Qualche punto della chimica era oscuro. “Fra poco vedrò come stanno i segreti di questa scienza! “. Con un mio collega, egli si mise a parlare della sua eletta facoltà di chimica, dei professori, dell’ambiente di Pisa. E sorrideva: “Belli, gli studi! Bei tempi, quelli degli studi! “. Il sergente ci interruppe malamente con osten­tazione d’amor patrio.

Cheirasco tacque e rimase al cancello; egli, pur sor­ridente e gentile, non rispose mai a nessuna insinuazione del sergente. Mi stringevano al cuore le allusioni così evidenti e cattive all’imminente fucilazione dei nove. Guardai i condannati. Cheirasco era solo al cancello, con il volto illividito dalle percosse, ma costantemente sereno. Continuai a conversare con lui. Gli parlai di amici  comuni, di cui si interessò vivamente: il prof. Favllli,  l’avv. Da Pozzo, Paolo Da Pozzo. Parlammo della sua facoltà. Più volte mi domandai come fosse possibile che in quelle ultime ore egli par­lasse con tanta calma e con sì minuto interesse di studi, di scuola e di regolamento che, ormai, si sarebbe detto, non potevano più interessarlo. E ne parlava senz’ombra di lamento, come se studi e scuola fossero ancora la sua occupazione cara, a cui tra poco sarebbe tornato. E in tutti i suoi ragionamenti poneva Un interesse semplice e schietto, e esprimeva una padronanza di sé assoluta. Nel conversare toccammo altri argomenti. Chiesi a tutti se avessero fede. Mi risposero schiettamente: “Si”.  Cheirasco parlò del Salesiano della Spezia. Non ricordo di che altro parlammo.

Dovevo assentarmi per una adunanza. Mi scusai con loro: “Conto di ritornare in serata”. “Si, padre, l’aspet­tiamo” mi risposero. Li salutai. Ero commosso e stupito. Non avrei mai creduto che attendere la morte, a occhi aperti, a vent’anni, fosse una cosa così semplice, quasi dolce. Mi pareva un brutto sogno che giovani così sereni e così forti dovessero essere assassinati. Scendendo ri­flettevo: “Se li fucileranno, certo sorrideranno e gride­ranno, come chi vince: Viva l’Italia”. E pensai ai fra­telli Bandiera: non potevano essere diversi. Nei due gruppi, l’eroismo era diventato egualmente sostanza vis­suta. E identico era l’Ideale. Tornando mi imbattei nel Cappellano. Teneva ancora in mano il taccuino. Veniva dai condannati. “Si sono con­fessati e comunicati stamattina – mi disse -. Purtroppo non c’è più nulla da fare per essi. Mi è stato risposto che non possono essere salvati. L’esecuzione avrà luogo domattina. Bravi giovani, vogliono ripetere la Comunione”.

La nostra conversazione fu interrotta dall’arrivo del Vescovo Mons. Giovanni Sismondo. Veniva per tentare di salvare i giovani, la cui condanna ormai non veniva più celata dal comando. Aveva steso di proprio pugno la domanda di grazia. Salimmo in soffitta, qualche altro sacerdote si era unito a noi. Il buio era quasi completo. Fu accesa una candela. Salendo il Vescovo, accorato, ci disse: “Dirò ai giovani che anche Gesù fu condannato ingiustamente a morte”. Qualcuno gli fece caldamente osservare che erano presenti soldati e ufficiali del San Marco. Il Vescovo che nei giorni precedenti aveva avuto dei violenti contradditori col comando, ritenne inutile la prudenza. Fu aperto il cancello, entrammo tutti nella legnaia. La parola del Vescovo risuonò, paterna, alterata dalla commozione. Incerti momenti parve spezzarsi in pianto, in certi altri echeggiò forte.

Egli parlò del Cielo, della Redenzione, disse che dal Paradiso, che attendeva certamente la loro vita generosa, essi avrebbero potuto continuare ad essere utili alle loro famiglie, alla Patria, al mondo. I giovani, che l’avevano accolto con un saluto a voce unanime e gli avevano ba­ciato l’anello, si inginocchiarono. Tutti ci inginocchiammo. Il Vescovo recitava preghiere: i giovani e noi le ripetevamo parola per parola. Era la preparazione collet­tiva alla morte. I condannati stavano allineati di fronte a noi.

La candela sorretta tra noi e loro dava all’ambiente una luce oscillante che mi ricordava una scena delle ca­tacombe. lo fissavo quei visi. Erano intenti al Vescovo e scandivano le parole. Nelle loro voci, fuse insieme, si ripetevano gli accenti alterati della voce del Vescovo, le identiche sfumature. In alcuni momenti, presi dalla mistica solennità del luogo, ebbi l’impressione che tutti fossimo accomunati nella stessa sorte e ci preparassimo fraternamente allo stesso passo. Non scorsi una lacrima, né alcun segno di debolezza o di straordinaria emozione. Essi mantene­vano, in quelle ultime ore, la serenità della giornata, quantunque più raccolta e religiosa.

La commossa intimità del momento traspariva solo dagli occhi attenti e fiduciosi. Poi il Vescovo si alzò. Noi rimanemmo inginocchiati. Ad uno ad uno, nel si­lenzio, li abbracciò, li baciò in fronte. Ci percosse un fremito d’emozione. Un nodo mi serrò la gola. Silen­ziosamente piansi. Essi ricevettero il bacio e l’abbraccio del Padre inginocchiati. In quel momento il Vescovo era per loro, Padre, Madre, Famiglia, Patria. Quel bacio era il miglior riconoscimento della nobiltà del loro sa­crificio. Vidi Cheirasco, nell’effusione di quel bacio pa­terno, abbassare rapidamente il volto, rimanere così qualche attimo. Temetti di vederlo scoppiare in singhiozzi. Rialzò il capo quasi a fatica. Povero, caro Ubaldo.

Che folla di ricordi, vero?

Penserai alla tua mamma sofferente, ai tuoi. Mi ac­corsi che si dominava con sforzo. In quel silenzio si sen­tiva solo il respiro affannoso del ferito russo, ormai morente, gettato ancora sulla legna. Il Vescovo si inginocchiò e baciò anche lui. Uscimmo. Non ricordo quel che dicemmo ancora. Ricordo solo la stretta di mano, forte e lunga, che mi diede Cheirasco. Quella stretta ci permise di direi quanto la presenza de­gli armati del S. Marco ei aveva impedito di direi. Egli capì che io, che noi tutti eravamo per lui e che comprendevamo che il vincitore era lui con i suoi uomini. Il Vescovo passò dal Comando. Non gli fu neppure accettata la lettera della domanda di grazia. Protestò. Dichiarò che si sarebbe appellato alle cariche supreme. Gli fu risposto che ormai nessuno poteva farci più nulla.

Scongiurò che si ritardasse l’esecuzione. Non gli si permise neppure di passare dal colonnello. Forte, allora gridò nel corridoio: “Ricordate che domani voi potrete avere bisogno di quella clemenza che ora negate a que­sti giovani”.

Passai la notte insonne.

Ci ripromettemmo di tentare ancora di salvarli al mat­tino. Il giorno dopo tornai in Seminario presto. Non trovai più nessuno, non i prigionieri, non un soldato. Un ordine improvviso li aveva fatti sgombrare nella notte. Nel tardo pomeriggio sapemmo che a Valmozzola i giovani erano caduti gridando «Viva l’Italia ». Qualche giorno dopo lessi, nel Confortatorio di mons. Martini, le ultime ore dei Martiri di Belfiore.

Trovai la stessa serenità, la stessa bontà, la stessa fede religiosa e patria riscontrate in Cheirasco e nei com­pagni. Qua e là, voci varie danno particolari sugli spregi e sulle percosse che, nei due giorni di interrogatorio, su­birono i nove giovani da parte degli uomini del S. Marco.

Tanta ripugnante viltà è dominata, nel nostro ricordo, dalla serena fermezza dei nove. Pontremoli e la Lunigiana trassero per prime da questo fatto la perfetta conoscenza di quell’organizza­zione che sotto il nome di X Flottiglia Mas stava muo­vendosi con vistosi addobbi, ostentando spregiudicatezza e spavalderia, a cercare un suo spazio nella squallida storia dell’assassinio politico o meno. I contrasti con certi apparati fascisti portarono Bor­ghese perfino all’arresto per ordine di Renato Ricci, l’orto­dosso, il quale sospettava, nei ricorrenti atti di insubor­dinazione del principe e nelle sue velleità, un pericoloso opportunismo.

Atteggiamenti contraddittori incoraggiarono le valu­tazioni più diverse. Significativo quanto riferiva in proposito Carlo  Ragghianti, in data 27 aprile 1944, in una lettera a Bauer e a La Malfa:

« ,..E’ un fatto che a Firenze questi elementi della X Mas litigano coi fascisti, li infamano come traditori assoldati dai tedeschi, li minacciano indisturbati », Più esplicitamente Borghese aspirava a presentarsi, forse agli occhi dei nazisti o ai suoi propri occhi, come alternativa « coraggiosa e virile» alla imbelle dirigenza di Salò. Egli teneva altresì a precisare che la tepidezza dei suoi uomini nei riguardi del Partito Fascista Repubbli­cano, a parte la riluttanza personale per quel « Repubbli­cano » finalmente da lui superata, era motivata dal fatto che essi non lo ritenevano ancora « abbastanza fascista »,

RICORDO E TESTIMONIANZA DI UN GRAZIATO

di Mario Galeazzi

Luciano Righi nato alla Spezia nel 1924

Eravamo un gruppo composto di tredici partigiani, dei quali tre russi fuggiti dai campi di concentramento, ed avevamo preso posto a Monte Barca di Bagnone in una vecchia casetta costruita in pietre a secco che un tempo aveva servito da essiccatoio. Era situata in un punto boscoso abbastanza nascosta. Il Commissario politico Brichè (Dario Montaresi) era assente, e prima di partire ci comunicò che fra qualche giorno sarebbero dovuti arrivare rinforzi ed armi, per poi abbandonare quella località.

Erano le ore 13 del 14 Marzo del 1944 e stavamo consumando il solito pasto frugale che si componeva di un piatto di minestrone o di polenta. La giornata era rigida ed il compagno di guardia sulla porta della baracca ogni tanto rientrava per prendersi Un poco di ristoro. Tutto ad un tratto questi, sparando colpi di rivoltella, scappava buttandosi giù da una gola del monte. Seppi poi che, per quanto ferito, riuscì a salvarsi. Impugnammo allora le poche armi che avevamo, (due fucili mitraglia tori , un mitra e tre moschetti) e com­battemmo 22 minuti fino all’esaurimento delle munizioni. Ricordo che il Cheirasco aveva imbracciato un moschetto.

Fummo circondati da 40 uomini della Mas, ed il bi­lancio dopo il combattimento fu il seguente: Morti in combattimento due russi e il partigiano Gianetti Luigi; feriti tre partigiani ed un russo. Uno dei partigiani feriti, il Righi Luciano, fu brutal­mente ucciso lungo il percorso perché, per quanto ci fossimo impegnati di trasportarlo a braccia, i << coraggio­si >> militi della X Mas temevano qualche imboscata avvi­cinandosi il tramonto. I superstiti, sette partigiani, compreso il sottoscritto e due russi, fummo condotti a Bagnone e da qui alle prigioni di Pontremoli, dove ci misero in celle separate. L’interrogatorio venne fatto dal Ten. Bertozzi, da un al­tro Tenente di cui non conosco il nome, dal Maresciallo Gargano e dal Sergente Costa. Alle domande intercalava­no botte per costringerci a parlare. Avevano come stru­menti di tortura un cavo di corda con nodi, un pugnale col quale ci ferivano il petto e le spalle, e con le sigarette accese ci bruciacchiavano la pelle. Il mattino dopo, a mezzo camion tedesco, fummo trasportati alle carceri di Migliarina (La Spezia) e messi ancora in celle sepa­rate contigue.

Fummo interrogati nuovamente, ma questa volta da due ufficiali tedeschi ed anche qui picchiati, in special modo i due russi. Nella serata il Cappellano della X Mas Don Bianco di Asti ci confessava preparandoci alla morte. Il mattino dopo, e precisamente il 16 Marzo, ci ricondussero con il solito camion a Pontremoli, dove, a differenza delle altre volte, ci riunirono in una unica cella. Per la prima volta, dopo l’arresto, mangiammo un pezzetto di pane che i nostri aguzzini ci porgevano alla bocca, poiché avevamo le mani legate dietro alla schiena con filo di ferro. A Pontremoli ricevemmo la visita del Vescovo e di altri sacerdoti, i quali ci comunicarono l’intervento del Vescovo presso le autorità per la com­mutazione della pena di morte, con esito purtroppo negativo. Ci esortarono alla serenità e alla rassegnazione, restando con noi parecchio tempo, durante il quale ci prepararono ad un trapasso sereno.

In una delle visite del Cappellano il Cheirasco lo pregò di far sapere ai suoi genitori che lasciava la sua fisarmonica al cugino Lino e l’anello che aveva al dito a sua sorella. Il Cappellano rispose che si sarebbe inte­ressato del suo desiderio, ma che l’anello lo avrebbe riti­rato in ultimo. L’anello fu invece trafugato dalla ma­scotte della X Mas (un ragazzo di 13 anni) e mi consta che la famiglia lo riscattò da un militare della X stessa. Premetto che io mi incorporai nel gruppo pochi gior­ni prima del rastrellamento e sorse quindi la speranza che uno potesse avere la possibilità di salvarsi passan­do per coercito dal gruppo di partigiani. Tale speranza fu alimentata dal fatto che i compagni, prima di accet­tare la mia adesione al gruppo, esperirono accertamenti.

Si affacciò così l’idea di sorteggiare il nome di colui che avrebbe potuto essere eventualmente salvato. Il  Cheirasco dichiarò subito che se anche fosse stato sorteggia­to il suo nome, non avrebbe accettato, in quanto ché ave­va già dichiarato di essere partigiano e che seguiva per­ciò la sua sorte. L’intervento del Cheirasco, giovane colto che aveva ascendente sui compagni, indusse gli altri ad accettare la sua tesi. Non vi fu altro interrogatorio. Il mattino seguente, 17 Marzo, con un treno speciale scortato dal Battaglione Lupo (200 uomini) e da 500 ca­micie nere, ci portarono a Valmozzola, località dove una settimana prima i partigiani avevano fermato un treno liberando i prigionieri partigiani scortati dalla X Mas. In un primo tempo era stato deciso di fucilarci tra i binari della stazione, ma per l’intervento del Capo Sta­zione ci tradussero in una collinetta adiacente. Duran­te il breve percorso dalla stazione alla collinetta stessa a ciascuno di noi il Cappellano consegnò un bigliettino sul quale era scritto a matita il nostro nome e cognome. Il Mosti con ira lo gettò a terra dicendo: «Cosa ne faccio! », Il Cheirasco intervenne invitando i compagni a riporlo in tasca poiché sarebbe servito certamente per il riconoscimento, come mi risulta che effettivamente avvenne.

Ci fecero schierare con la schiena rivolta al picchetto di esecuzione, ed il Cappellano ci somministrò l’olio santo. Non volevamo essere considerati traditori e chie­demmo di essere fucilati al petto, e ci venne concesso. Tutto era già pronto e come convenuto i miei compagni ad una voce dichiararono che io ero stato coercito e che dovevo essere salvato. L’ufficiale del picchetto di esecuzione, Ten. Dettoni, riferì al Ten. Col. Cerina, il quale diede ordine di uscire dalla fila, e mi comunicò che per me la sentenza di morte era sospesa. In quel momento tragico, sereno come sempre, il  Cheirasco si tolse la sciarpa di lana a quadri di colore rosso e nero che aveva al collo e rivolto verso il picchetto di esecuzione gridò: « questa al tiratore che mira diritto », e porse il petto ai mitragliatori fratricidi.

Un grido di « Viva l’Italia» e quindi la scarica ordi­nata dall’ufficiale.

Erano le ore sette, ed il sole pallido nascente aveva baciato per l’ultima volta il volto di questi martiri che per la libertà della loro Patria avevano saputo affron­tare, come i martiri di Belfiore, serenamente la morte. Questa è l’arida cronaca dei martiri di Valmozzola. Questi miei compagni, a cui debbo la vita, che ne seguii il comportamento nel momento più tragico della loro esistenza, opponendo alle sevizie, alle torture ed al pensiero di abbandonare per sempre i loro cari, quello spirito sereno, paghi di dare la giovane esistenza per la causa della libertà, non possono essere dimenticati. Conobbi il Cheirasco ai monti: era un giovane di po­che parole, di carattere pastoso, sereno sempre, colto, che con la sua parola convincente sapeva infondere con l’esempio anche nei momenti più critici, quella serenità e quella calma, che rendono lo spirito pronto a tutte le rinunce e a tutte le sublimi manifestazioni. Lo vedo ancora passare davanti alla mia cella in mezzo agli aguz­zini, pieno di lividi, grondante di sangue, con gli occhi fissi nel vuoto, ma sereno; come ebbe ad esprimersi col Cappellano della X Mas, non si curava della sorte che lo aspettava, ma pensava al dolore tremendo che avrebbe procurato alla propria madre e ai suoi cari.

Si esprimeva sempre con i compagni nel senso di accettare la morte, come una liberazione alle continue torture cui eravamo sottoposti, e ciò contribuiva a cal­mare gli animi dei compagni.

Quando ci riunirono in cella comune, dopo le torture, era quasi irriconoscibile; malgrado ciò, sembrava che nulla di grave fosse successo, tanto era calmo e tran­quillo, e qualche volta potevamo ritrovare nel suo abi­tuale sorriso quella calma che soltanto lui sapeva in­fondere nel nostro spirito in quei momenti così terribili.

Così seppero combattere e morire i martiri di Val­mozzola.

Comano, 15 Luglio 1946.

LETTERA – TESTIMONIANZA DI UN COMMISSARIO POLITICO

di Dario Montaresi

Giuseppe Tendola ” Vilmo” nato a Sarzana nel 1922

Io sottoscritto Montaresi Dario (Brlchè) Commissario Politico della Prima Divisione Liguria, Brigata d’assalto Garibaldi « Ugo Muccini », dichiaro: Verso il 24 Febbraio 1944 fui inviato dal Comitato di Liberazione Nazionale di La Spezia a Merizzo per co­stituirvi un gruppo di partigiani. Raggiunta la località trovai già alcuni partigiani; dopo pochi giorni il grup­po raggiunse il numero di 14, fra i quali il giovane stu­dente Cheirasco Ubaldo della classe 1922.

Rimasi sul posto parecchi giorni, e dalle conversa­zioni che ebbi con Lui si rivelò subito giovane sincero, riflessivo, di carattere fermo e deciso per la lotta par­tigiana. Sentiva repulsione per tutto ciò che era ingiusto, e con la sua calma e riflessiva parola sapeva infondere nei suoi giovani compagni dei monti il senso di bontà che sfociava dalla sua anima. Con generosità e coraggio Egli, studente, seppe af­fiancarsi ai giovani per la lotta anti-fascista, con i quali divideva i disagi della vita partigiana per conqui­stare la libertà, che riteneva suo preciso dovere.

Dalle conversazioni che ebbi con Lui ne trassi l’im­pressione che fosse orientato verso il partito socialista. Si manifestò sensibile ai disagi dei compagni, pronto ad alleviarli in tutto ciò che gli fosse stato material­mente possibile. Ricordo che in una riunione del gruppo feci presente la precaria situazione del distaccamento, ed il Cheirasco con spontanea naturalezza versò la som­ma di denaro facendo presente che avrebbe fatto il pos­sibile per dare ulteriori aiuti. Sobrio in tutte le Sue manifestazioni, seppe acqui­stare sui giovani compagni partigiani quell’ascendente e quella simpatia che gli permettevano di confortarli e mantenere viva la visuale della redenzione.

Fu catturato, unitamente ai suoi compagni, da ele­menti della X Flottiglia Mas, il 14 Marzo del 1944 dopo combattimento, e mi risulta che durante il breve perio­do di prigionia, malgrado le sevizie patite, il Suo con­tegno fu dignitoso ed eroico, ed il Suo labbro muto. Il mattino del 17 Marzo, veniva fucilato a Valmoz­zola, nel luogo stesso dove poco tempo prima gli ani­mosi partigiani avevano fermato un treno e liberato dei patrioti prigionieri.

La Spezia, 15′ Giugno 1946.

IL GRUPPO DI MONTE BARCA IN UNA TESTIMONIANZA DEL 1945

Angelo Trogu nato a S. Terenzo di Lerici nel 1924

Sul Monte Barca, uno degli ultimi contrafforti delle Alpi di Succiso, solitudine. Interminabili castagneti sche­letrici, foglie marcite, pioggia e vento a fischiare fra gli alberi. S’era pochi in Marzo: e in quei giorni grigi, nell’essiccatoio quasi sulla cima, attorno al fuoco, ad asciu­gare le vesti o a preparare il misero pasto. Solitudine: lo sguardo, a valle, ci collegava alle no­stre case, al viso della dolorante madre, alle cose care dell’abitudine. Qui un mondo greve nella natura; le pareti squallide nel sasso vivo, il legno rozzo, due panche pri­mitive, il fuoco che dava fumo sotto il cielo nero dell’essiccatoio, e il vento, un vento freddo di acqua che pe­netrava, fra le ardesie sconnesse, fra le vesti, fra le mem­bra raccolte.

Si parlava di lotte, di battaglie, di mondi, di fratelli, di pace, di promesse; si parlava di case in pena, di madri, di affetti; si parlava…

Con noi due russi, hanno gli occhi fissi, distratti; non possono parlare la nostra lingua e pensano ad altre cose. La giornata uggiosa dà ai nervi, accresce la nostalgia, si fiacca nel forzato riposo. Intanto mentre si dicevano parole sommesse, alle falde del monte la «decima» preparava !’inganno, la « spia» aveva detto che sul Monte Barca, al gradale, c’erano pochi sbandati, una decina; bastava improvvi­sare la sorpresa. E la « decima », scottata a Valmozzola, da due giorni meditava vendetta, vendetta senza sangue, per avere sangue. All’essiccatoio di Monte Barca si attendeva che l’acqua bollisse per fare la polenta; i ribelli sdraiati sulle foglie secche si rizzano di scatto: un colpo di fucile!

Siamo circondati e non abbiamo il tempo di pen­sare: Giannetti esce sulla porta e viene freddato da cento colpi; uno fugge, Giovanni, è ferito, ruzzola nel burrone, si salva; Righi è ferito ad una gamba; gli altri nell’attimo prigionieri. La sorpresa ha impedito ogni difesa. La <<decima>> ha bottino d’uomini: sei giovani spez­zini, i due russi e uno ferito: Righi. Ma Righi cammina male, zoppica dolorante. Che fare? Secco è l’ordine: uccidere! E Righi viene lasciato ai piedi di un castagno con diciassette colpi dal tenente Pontremoli. A La Spezia gli altri per gli interrogatori.

Ciò che risponderanno i giovani alle sevizie umane e alle torture è storia ed è poesia: Trogu – Cheirasco ­Tendola – Parenti – Mosti – Gerini, son giovani ed eroi. Fra i carnefici vi sono giovani della stessa età e del­le stesse terre. Tanti di essi oggi, indisturbati, battono i margini delle nostre vie; nel loro cuore non c’è il ri­morso per tanti delitti? E la <<decima >>, sui giornali, rivendicava l’atto delit­tuoso come impresa guerresca, e lo alterava. << Due ufficiali della San Marco sono stati barbara­mente trucidati alla stazione di Valmozzola da una ban­da di così detti partigiani, perché rei di indossare la glo­riosa divisa della Marina Italiana. La pronta reazione della “x Flottiglia Mas” ha portato alla morte di undici banditi caduti in combattimento ed alla cattura di altri nove, dei quali otto, ieri mattina in Valmozzola, sono stati fucilati >>.

<<La X non lascia invendicati i suoi caduti >>.

A Valmozzola il 17 Marzo 1944, nella stazione ove quattro giorni prima altri compagni avevano compiuto il gesto audace, i sei giovani patrioti, senza un pianto, colpiti dal piombo fratricida si rovesciarono inerti sul suolo della Patria, ad arrossarlo. Il Vescovo di Pontremoli scriveva: << Morirono sorri­denti, la loro morte ha sapore di martirio >>. Le famiglie, uno ad uno, nella fossa comune, li han­no ritrovati e li hanno pianti; ma il pianto si ravviva col dolore quando nelle nostre contrade si urta lo sguar­do con quelli che furono carnefici, ed oggi sono liberi.

Dalla « Parola del Popolo» del 18 Agosto 1945. Giornale setti­manale della Federazione del P. C. di La Spezia.

DUE DOCUMENTI DEL 1945

COMUNE DELLA SPEZIA

Segreteria Generale

N. 18050                                                    6 dicembre 1945

Al Sindaco di Valmozzola

Mi riferiscono che esiste, conservato negli archivi di codesto comune, un documento scritto su carta inte­stata «Stazione di Valmozzola» contenente le seguenti parole: «Questa mattina alle ore 7 sono stati fucilati sette banditi. Disponete per il ritiro delle salme. Gli ufficiali della X sono vendicati ».

Il Signor Longoni, impiegato della Cassa di Risparmio della Spezia, anche su richiesta di un ufficiale della Ma­rina, si reca costì allo scopo di ottenere la provvisoria consegna del documento, onde fame la riproduzione foto­grafica, con l’impegno di restituire l’originale a codesto Comune.

Si chiede, per l’esperimento della inchiesta ammini­strativa ed eventualmente giudiziaria che si sta condu­cendo in proposito e su richiesta dei parenti dei fucilati qui residenti, che codesta amministrazione voglia accon­sentire a quanto sopra, con le garanzie del caso per la restituzione del documento.

Il V. SEGRETARIO GENERALE

            Paita

IL SINDACO

F.to: Bronzi

Per copia conforme.

COMUNE  DI VALMOZZOLA

lì, dicembre 1945

Al Sindaco di La Spezia

In risposta alla lettera contro indicata del 6 corrente mese N. 18050 con la quale si fa richiesta del documento originale rilasciato a questo Podestà per la comunica­zione della fucilazione di sette banditi eseguita a Valmoz­zola il 17 Marzo 1944 dal comandante della X Flottiglia Mas, comunico che il documento stesso non è più repe­ribile presso questo ufficio in dipendenza di eventi bel­lici , ed anche perché il documento stesso non era un documento d’ufficio, ma semplicemente un foglio volante, e per tanto non regolarmente archiviato.

p. IL SINDACO                                                IL V. SEGRETARIO GENERALE

            F.to: Illeggibile                                                        F.to: Illeggibile

Per copia conforme all’originale.

TESTIMONIANZE PER UBALDO CHEIRASCO

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Ubaldo Cheirasco nato alla Spezia nel 1922

Siamo rientrati da poco, nella sua città, con il cuore pesante dalla travagliata esperienza che ci ha aperti i limiti della conoscenza e resi capaci di un ripiegamento nuovo, di una contemplazione nuova della nostra ani­ma, attraverso la purificazione ed il lungo dolore che non sono stati invano, anche se hanno portato solo quest’unico frutto, il più bello ed ineffabile.

Abbiamo cercato con occhi nuovi e pensosi l’incontro con altre anime, quelle che nel momento della sventura e della lotta ci erano vicine in nome ed in difesa di un ideale per il quale era bello gettare anche la vita. L’urto con la realtà è sempre infinitamente triste: il momento eroico, della sublimazione ideale, è già stato travolto dal divenire continuo della vita che si afferma con le sue esigenze; troppo spesso l’ideale per il quale si è lottato e sofferto viene umiliato al concetto di un mezzo im­mediato, che serve ad un nuovo fine, non più idealistico. Forse questo nasce dalla reazione alla lunga crisi di sof­ferenza che non può risolversi entro breve volgere di tempo; forse la scintilla generosa ed eroica non si è spenta ancora del tutto, ma cerca affannosamente una sua via… Forse.

Ma a noi che riandiamo con affetto memore, con ani­mo reso sensibile e che cerca un suo rifugio dove ancora i valori morali non siano stati alterati, più generosi, più alti, più puri appaiono tutti coloro che sono caduti sen­za chiedere, che tutto hanno dato senza avere nulla. Ubaldo Cheirasco lo abbiamo ritrovato nelle la­grime della madre, avvertito vicino in ogni slancio buono e puro dell’anima, in tutto ciò che trascende la materia e la contingenza per affissarsi nell’ideale di cui si nutre e a cui sacrifica cosciente e pensoso la propria esistenza. Né il nostro ricordo è stato abbellito da quel ritor­no al passato che muta ogni cosa in ordine ed armonia.

Ubaldo Cheirasco era un ragazzo sereno, equilibrato, buono, di una bontà semplice e naturale, profonda ed inalterabile che gli splendeva nel volto ridente di giovinezza freschissima, che gli luceva nei grandi occhi limpidi. Innamorato della vita con la forza intatta dei venti anni esuberanti e vivaci, della vita gli erano care le for­me più semplici e quelle più alte. Amava la musica, amava le umili erte campestri e attraverso tutte le infinite manifestazioni dell’esistenza cercava e prediligeva quelle alle quali inerisse un signi­ficato di purificazione e di ascesa. Nessuna affermazio­ne mistica umiliava per altro in Lui la carne per una sopravalutazione dello spirito. Non era uno dei tanti: già dalla prima adolescenza il suo carattere si delineava diritto e sicuro, senza sbandamenti, senza compromessi. senza debolezze interne, ma senza neanche uno di quegli atteggiamenti rigidi ed intransigenti che turbano tal­volta la bella armonia della giovinezza.

La sua formazione era il naturale evolversi di ele­menti umani ad una forma di perfetto equilibrio. Per questo non può esservi conforto nel tempo all’in­finito dolore di quanti abbiano amato e perduto in Lui un vero uomo, uno dei pochi. L’ora grave della lotta e della sventura maturò in Lui le qualità innate e senza esitazione lo portò a scegliere. Quando ancora nei più non era chiara la via unica e quella dei monti sembrava utopia irrealizzabile e fanta­stica, e gli animi erano sconvolti dallo sbandamento delle tragiche prime giornate del Settembre 1943, Ubaldo Cheirasco seppe subito quello che occorreva fare per non tradire in sé l’ideale della Patria. Tra i primissimi, abbandonò famiglia ed università per la vita aspra dei monti: semplicemente, come cosa convenuta e necessa­ria, con quel suo sorriso chiaro il cui ricordo ci morde il cuore.

Pioniere del movimento partigiano che tanta parte ha avuto nella lotta per la liberazione, fu tra i primi a credere nella possibilità di una rinascita, tra i primi che generosamente l’accettarono e lavorarono subito per realizzarla. Molti, troppi dei compagni risolvevano la crisi indossando la divisa della vergogna e del disonore, che li faceva traditori della Patria e dei Morti ma assi­curava la placida protezione della legge. L’amarezza ed il dolore di Ubaldo erano indicibili e la sua fede di più si affermava salda contro il dilagare della corrente infame. Sapeva di gettare la sua vita per l’ideale eterno della Patria, così come il poeta getta il suo verso nella luce. Nessuna ideologia di partito lo turbava: seguiva la sola voce d’Italia che altissima gli cantava nell’animo. Mesi di vita dura, oggi ]a conosciamo.

Il 4 Marzo 1944 a Monte Barca (Bagnone) assieme con otto compagni dei quali fu creduto capo per l’ascen­dente che chiaramente esercitava su loro, Ubaldo Cheirasco fu catturato da elementi della X Flottiglia Mas, dopo un combattimento contro forze preponderanti. Dalla mattina del 14 a quella del 17 Marzo rimasero, maturata la giovinezza dalla dura esperienza umana e dalla decisione ferma e consapevole, nelle mani dei San Marco esasperati dall’uccisione di due ufficiali ad opera di partigiani. Giorni di sofferenza oltre il dicibile, di martirio. Contro Ubaldo in parti colar modo infuriava l’odio dei catturatori che lo ritenevano capo ed orga­nizzatore. Torturato, seviziato nella carne e nello spirito, pre­sente a se stesso nelle ore più dure: non una parola usciva dalle sue labbra. Volevano che parlasse: la sal­dezza dello spirito vinceva in Lui la debolezza della car­ne fino al momento ultimo, fino a quando cadeva di fronte al sole che sorgeva per Lui per l’ultima volta.

Sereno, cosciente, come sempre, alle canne dei fucili puntate contro il suo petto, Egli opponeva lo sguardo diritto e lontano che, tra le ciglia corrugate appena di contro ai raggi del sole, si affissava, limpido, nell’ideale per il quale egli cadeva. Vent’anni. « Signor Podestà, questa mattina sono stati fucilati otto banditi. Disponga per il ritiro delle salme. Gli ufficiali della X sono vendicati. Il Comandante ». Questa la cinica comunicazione; i banditi non avrebbero più dato fastidio: la morte li aveva troncati. Ma non tutto era morto di loro e quella loro anima eroica e generosa ancora si agitava e viveva nell’animo dei compagni e avrebbe continuata e compiuta la gran­de opera.

Nell’ora dura, la famiglia di Ubaldo Cheirasco fu la­sciata sola all’infinito dolore, perseguitata ancora nelle persone del padre e della sorella. Piccole, queste, e meschine storie di uomini: sempre diversi e sempre uguali, sulla cui massa miserabile ed irrequieta alto, irraggiungibile ed eterno risplende il raggio della virtù vera, quella che non conosce tramonti, che riscatta l’umiliazione dell’esistenza e alimenta quel­la scintilla divina che pure si agita al fondo delle nostre anime. Quella virtù che governò il ritmo breve nella vita terrena di Ubaldo, di questo nostro indimenticabile ragazzo, dai grandi occhi ridenti, dallo sguardo pensoso e placato. (l)

Giuliana N eri

Articolo pubblicato nel giornale quotidiano spezzino << Il Notiziario» del 26 Giugno 1945.

Quando i compagni di questo giovane studente (l) così spietatamente ucciso mi chiesero di poter in qualche modo rendergli omaggio in questo Istituto, lessi nei loro occhi tanto affettuoso rimpianto e orgoglio insieme, che ne rimasi commosso: ed infatti, Egli sarebbe dovuto essere qui con loro e nutrire come loro la stessa ansia di ricuperare con tenace volontà il tempo che gli eventi belli ci hanno tormentosamente carpito alla loro attività di studiosi. La forma dell’omaggio da rendere alla memoria del Caduto, perché ne fossero qui vivi la presenza e il ricordo,­

Discorso pronunciato dal Direttore della Facoltà di chimica generale dell’Univel1sità di Pisa, prof. C. Porlezza, il 30 Gennaio 1946 in occasione dello scoprimento della lapide in memoria dello studente Ubaldo Cheirasco. La cerimonia è avvenuta alla presen­za del padre dello studente – partigiano fucilato a Valmozzola. si è concretata, con l’approvazione del Magnifico Rettore, in quella lapide che fa ormai parte integrante di questo istituto: sono giovani studiosi che presentano il loro cuore unendolo a quello dello Scomparso, che innalzano con Lui la mente verso un superiore ideale, che ne custodiscono qui la memoria per lasciarne poi il ricordo ai venturi.

Davanti a tanta nobiltà di sentimento, che rifulge in mezzo alla durezza della vita che ci costringe oggi a dare troppo peso alle necessità materiali dell’esistenza, noi dobbiamo inchinar ci reverenti e commossi per la bel­lezza di questo gesto, che già dimostra come Ubaldo Cheirasco non è caduto invano. Questi giovani hanno desiderato che intervenissero vari professori: purtroppo il Magnifico Rettore ha do­vuto assentarsi, ma nel darmene comunicazione ha ma­nifestato la sua solidarietà con le parole << comunque io sono presente >>.

La presenza dei famigliari di Ubaldo Cheirasco ci fa sentire maggiormente che Egli è tornato oggi a far par­te della nostra famiglia, e dico col cuore questa parola, perché io considero quasi figli questi miei studenti, an­che se essi ritengano che come padre io sia un po’ trop­po severo. Vostro figlio, Signor Cheirasco, è qui in ispirito, ed ha pagato col suo giovane e generoso sangue il diritto di stare con i suoi compagni, ai quali con la nobiltà del Suo animo ha inspirato tanto affetto, tanta ammirazio­ne, tanto rimpianto. Vi parlo come padre, anche perché soltanto i padri sanno quanto in questa guerra, a un certo momento, hanno essi stessi sofferto per i loro figli l’angoscia della indecisione, della mancanza di chiari in­dizi che dicessero senza titubanze quale era la via del dovere, dell’onore, della salvezza, che essi dovevano seguire.

Vostro figlio ha scelto la via che il Suo cuore, i Suoi ideali gli indicavano: era la meno comoda, la più rischio­sa, ed è caduto da Martire inneggiando all’Italia. Un autorevole monaco francescano che cito perché anch’egli è stato qui mio allievo, mi diceva un giorno che spesso neppure la fede religiosa e le parole di un degno sacerdote che la rappresenti possono lenire l’an­goscia straziante di chi perde una persona cara: sarebbe quindi grande presunzione la mia se pretendessi con­solarVi di così grave lutto. Oso tuttavia sperare che Vi possa essere di conforto il sapere che noi tutti sentiamo la grandezza d’animo del Vostro Ubaldo, che oggi è an­che Nostro. Noi tutti sentiamo quanto la pagina che Egli ha scritto col Suo sangue sia per l’amor patrio più dimostrativa di tante altre dei nostri trattati scientifici. Soprattutto sentiamo, per merito Suo, che esiste anco­ra, nei giovani e nei giovanissimi, quel superamento di ogni egoismo, quella dedizione a un supremo ideale, che sempre hanno imposto il rispetto e l’ammirazione.

Per mezzo di quel marmo, quel giovane forte dice, a noi presenti e a quelli che qui verranno, parole che, pur nello strazio del dolore, debbono rendere tutti co­loro che lo piangono orgogliosi di Lui. Sono parole lapidarie e indimenticabili: «Alla Patria, alla Libertà, la mia Vita, il mio Martirio, la mia Morte ». Signor Cheirasco, permettetemi di abbracciarVi, di baciarVi come farei con Vostro figlio, se avessi la fortu­na di averLo tra noi.

c. Porlezza

All’Università di Pisa, presso l’istituto di chimica generale, per espressa volontà degli studenti, è stata af­fissa una lapide che reca incise queste parole:

IN MEMORIA DELLO STUDENTE IN CHIMICA

CHEIRASCO UBALDO

PATRIOTA COMBATTENTE PER LA LIBERTA’

NELLE FORMAZIONI PARTIGIANE

CRUDELMENTE SEVIZIATO E TRUCIDATO

A VALMOZZOLA IL 17 MARZO 1944

VOGLIONO I SUOI COMPAGNI QUI

RICORDATO IL SUO EROICO

SUBLIME SACRIFICIO

Il Professor Porlezza, direttore dell’Istituto, nel di­scorso che pronunciò in occasione dello scoprimento della lapide in presenza dei famigliari di Ubaldo Cheirasco, dei compagni studenti e dei professori, mise in evidenza, esprimendo la sua paterna commozione, il si­gnificato del mobilissimo gesto dei giovani studenti ispi­rato da un commovente spirito di solidarietà umana che già per se stesso dimostra come Ubaldo Cheirasco non sia morto invano. Nel rievocare la presenza del suo spi­rito ed esaltandone nel suo giusto significato il valore del martirio e dell’eroismo, terminava pronunciando que­ste parole frementi di sacro ardore:

« Per mezzo di quel marmo, quel giovane forte dice, a noi presenti e a quelli che qui verranno, parole che, pur nello strazio del dolore, debbono rendere tutti co­loro che lo piangono orgogliosi di Lui: alla Patria, alla Libertà, la mia vita, il mio martirio, la mia morte. Signor Cheirasco permettetemi di abbracciarvi e baciarvi come farei con vostro figlio ».

Riproduzione fotografica del manifesto originale (color verde con scritte in

nero) affisso in alcune località della provincia della Spezia ed in Lunigiana

(I.S.R.S. – LaSpezia)

Sono trascorsi esattamente due anni e il suo ricordo è sempre vivo e presente nel cuore di tutti i suoi amici e conoscenti che alla Spezia sono numerosi, specialmen­te nell’ambiente studentesco. Essi lo amavano e lo sti­mavano per le sue eccezionali doti di bontà d’animo, ma sopra tutto per la sua fresca e sincera giovialità di spirito che sapeva unire ad una robusta incrollabile se­rietà di carattere.

Egli è morto da vero eroe. Nei momenti che hanno preceduta la sua tragica fine Egli si è dimostrato degno del grande privilegio che spetta soltanto agli Eroi e alle creature superiori nell’ora estrema della loro vita. La famiglia ed in particolare il padre, che ha il vanto di avere educato il figlio secondo le idee e lo spirito dei suoi sacri principi di libertà ai quali è rimasto fedele con onore per tutti gli anni della tirannia fascista, deve essere fiero del suo immenso dono.

Presto sotto la lapide commemorativa verrà eretto Un busto in bronzo che fisserà per sempre, e particolar­mente, la bella e plastica fisionomia della sua sorridente ed eroica giovinezza.

Dal giornale quotidiano «Il Tirreno» del 17 Marzo 1946.

17 Marzo 1944

Tornano a Sarzana, alla «Villetta », loro quartier generale, i carnefici della X Mas. Armati fino ai denti, brilla nei loro sguardi torvi un che di malvagio che me li rende ancora più odiosi e abietti. Nella mattinata, a Valmozzola, hanno fucilato otto Patrioti e «vendicato» due loro ufficiali uccisi alcuni giorni prima. Un nome mi colpisce, Ubaldo Cheirasco, e il sangue mi si agghiaccia nelle vene. Preside del Liceo di Sarzana, in stretto contatto col Comitato Clandestino della Spezia, da molti mesi ormai, preso nel vortice della cospirazione, non avevo da lungo tempo avuto occasione di incontrare il mio vecchio scolaro di greco e pur essendo al corrente di molte cose, ignoravo pertanto che colui che mi piac­que poi definire al padre angosciato, ma fiero nel suo grande dolore, come « il più dolce dei miei alunni », aveva scelto tra i primi la via dell’onore e del sacrificio.

Intanto i biechi carnefici, il Tenente Bertozzi, il suo degno collega Catoni, il famigerato Capo Gargani discu­tono animatamente tra loro: con ribrezzo riesco a ca­pire dal tavolo, dove sono solito consumare i miei pasti, che essi discutono degli oggetti tolti ai caduti, del botti­no che dovranno spartirsi. Sento in me un odio profondo, irrefrenabile contro di loro, sono portato ad «odiare» persino i piccoli figli del già ricordato Tenente Catoni che ignari dell’infamia paterna corrono festosi per l’ampia sala.

Il giorno dopo, un manifesto a firma del Comandante Borghese, colui che avrebbe dovuto impersonare l’onore d’Italia, assurgere a vindice del « tradimento », mi con­ferma la triste notizia. Ubaldo Cheirasco è caduto con sette compagni, al grido di « Viva l’Italia»! La piccola cittadina che rappresentò anche nei giorni oscuri una roccaforte dell’antifascismo è commossa: leggo negli occhi e nei cuori dei miei alunni di terza liceale, a1cuni dei quali ritroverò alcuni mesi dopo nei monti, la mia stessa commozione, sento i loro cuori vibrare insieme col mio. E i muri esterni della scuola e di molte case della città si coprono di scritte che promettono vendetta ed esaltano il sacrificio dei caduti. La sorella di Ubaldo è arrestata, deve lasciare la scuola. Il mio Liceo subisce la violenza della sbirraglia fascista: professori ed alunni sono minacciati di arresto. Riesco a salvarli, ma un mese dopo potrò sfuggire per puro miracolo alla cattura e si inizierà per me un duro periodo che si concluderà solo con la Liberazione.

Durante tutti questi mesi il ricordo di Ubaldo mi ac­compagnò sempre e quando nel triste inverno 1944, do­po aver raggiunta agli inizi dell’autunno dalla Riviera di Ponente la mia famiglia a Comano, attivo centro parti­giano, d’accordo con la Missione Inglese di Rigoso e con i capi Partigiani del luogo, pensai di istituire una scuola media, giovandomi degli elementi idonei. presenti nella vallata per venire incontro a tanti ragazzi che erano da tempo tagliati fuori dalla pubblica scuola, decisi senza altro di intitolarla al Suo nome. La scuola << Ubaldo Cheirasco>> fu senza dubbio l’unica scuola partigiana sorta in Italia nel periodo nazi-fascista e meriterebbe di essere conosciuta se non altro per lo spirito di inizia­tiva e di sacrificio che animò docenti e alunni. Si tratta­va di trovare un meccanismo che permettesse ad alunni di corsi diversi di camminare insieme nelle materie co­muni, di provvedere i libri che non c’erano, e- si fabbricarono dispense. Qualche volta, in occasione di puntate nemiche, i professori e gli alunni più grandi, imbraccia­rono il fucile e corsero in postazione, a fare il loro do­vere di soldati. La scuola. << Ubaldo Cheirasco >> visse così fino alla liberazione e i risultati furono più che soddi­sfacenti. Poi ciascuno riprese il proprio posto.

17 Marzo 1945

Si celebrano a Comano, presente il Maggiore Gordon Lett, Capo della Missione alleata nella IV Zona operativa, i funerali dello studente Franco Nacera, caduto durante un attacco contro una autocolonna nemica la sera del 13. Sono presenti tutti gli alunni della scuola « Ubaldo Cheirasco ». Al cimitero il Prof. Remigio Luccini ricorda che proprio un anno prima, in questo stesso giorno, Ubaldo cadeva a Valmozzola ed esalta il sacrificio dei due gio­vani caduti. La commemorazione pervade tutti i presenti, mentre il feretro, coperto di fiori e avvolto nel tricolore della Patria, è calato nella tomba.

La neve copre ancora le cime degli alti monti che fan­no corona all’alpestre borgo, ma spira già intorno un’aria di primavera, primavera di liberazione. Ricordando ora, a più di due anni dal suo sacrificio, la mite nobile eroica figura di Ubaldo Cheirasco, lo sen­to sempre presente al mio spirito, sereno e buono, come quando, curvo sui libri di greco, leggeva con me le gran­di pagine dell’arte e della sapienza antica. Il suo spirito è tornato nella scuola per dire a noi maestri e ai com­pagni che si sono a Lui succeduti, che nulla vale la cul­tura, l’arte, nessun eco avrebbero le voci dei grandi antichi e moderni se, giunto il momento della prova, non sapessimo tradurre in atto gli insegnamenti.

Ecco perché il sacrificio di Ubaldo, tra, i primi nella lotta di liberazione, splende più luminoso che mai in quest’alba di libertà repubblicana.

Italo Malco

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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