Nella Bufera della Resistenza Valtaro

Testimonianze del  Clero Piacentino durante  la  guerra partigiana   a cura di  Angelo Porro Memorie  raccolte  da Domenico Ponzini.

PARROCCHIA DI ALPE

CARDINALI DON GIUSEPPE (1908 – 1968)

Dal 1933 fino alla morte Parroco di Alpe di Bedonia.

1944 luglio 12 – Alpe Testimonianza di Don Cardinali.

Ore Tragicamente Storiche

L’8 settembre 1943, con la liberazione di Mussolini dall’isola della Maddalena per opera delle SS Tedesche di Hitler, si ricostruì nella parte dell’Italia ancora controllata dai Tedeschi, un governo repubbli­cano Fascista, con a Capo Supremo il Duce che scelse Salò di Garda co­me sede del nuovo governo. Si temettero rappresaglie che non manca­rono e non risparmiarono lo stesso genero di Mussolini Galeazzo Ciano, giustiziato assieme ad altri gerarchi a Verona dopo un processo per direttissima. Elementi egoisti e poco responsabili di Alpe, nei giorni della con­fusione, credettero di poter esportare tutto il filo di rame della linea militare telefonica della Postazione antiaerea. Si temettero giustamen­te le ire dei Tedeschi e loro rappresaglie per l’atto di sabotaggio com­piuto. Corse ai ripari il parroco presso le varie autorità italiane e te­desche e con la promessa della totale restituzione del filo poté storna­re tanti pericoli dalla popolazione di Alpe.

Per questa volta si passò liscia, seppure con grande spavento. 23 Marzo 1944 – Giornata di panico questa e il 24 Marzo. Il governo di Mussolini aveva ristabilito anche qui la postazione antiaerea composta di 12 uomini, armati. Da tempo si vociferava che le varie compagnie di Partigiani che via via si costituivano clandesti­namente, avevano deciso di disarmare i militi e distruggere la Posta­zione. Era il 23 marzo. Si stavano terminando solennemente le 40 ore con la Messa cantata delle ore 11. Oltre il parroco e un padre predi­catore di Pontremoli, assistevano il parroco di Carniglia Don Guido Donelli e il parroco di Strepeto Don Riccardo Volpini. Mentre il pre­dicatore stava parlando ai fedeli che gremivano la Chiesa, incomin­ciò a cantare la mitraglia. Fu un fuggi fuggi generale, al predicatore morirono le parole di bocca; il parroco si adoperò in tutti i modi che la popolazione rimanesse calma in Chiesa. Per breviarmi, finita la Mes­sa, mi recai con Don G. Donelli alla vicina caserma per accertarmi dell’accaduto. Un militare giaceva morto nel proprio sangue. Gli am­ministrai l’Olio Santo e poi fu composto alla meglio su una branda. Il pomeriggio trascorse lento in una attesa spasmodica; tutti erano smar­riti. I Partigiani hanno ucciso il milite; ora aspettiamo la tempesta. Don Donelli, coraggioso perché se ne andava a casa sua, promise che avrebbe avvertito il Vic. For. Mons. Checchi Don Paolo il quale mi man­dasse istruzioni in merito; ma non ricevetti nessun ordine. Dopo lo sbalordimento, mi guardai attorno e del frate predicatore e di Don Vol­pini non vidi più traccia. Erano vilmente partiti, quasi insalutato ospite. Ero solo in ballo. Dopo una notte che si può facilmente immaginare, nella mattina seguente stavo pensando al da fare, quando sul mezzogiorno mi avvertono che Tedeschi e Fascisti stanno mettendo a soqqua­dro Pontestrambo. Che significa ciò? Partigiani e Repubblicani alle pre­se? In breve giungono ad Alpe Tedeschi e Fascisti con un apparato bellico degno di miglior causa. Spari indiscriminati in tutte le direzio­ni. Si teme che vi siano vittime. Sono preso e messo al muro come col­pevole del fatto. Mi gridano che mi uccideranno subito insieme ad al­tri catturati; mi invitano a far testamento; il terribile temporale è scop­piato in modo imprevisto e delle vere furie, avanzi di galera, danno li­bero sfogo al loro odio e alla loro irresponsabilità. Finalmente hanno deciso sul mio conto. Mi dice il capitano di quei Giannizzeri, che mi condurranno a Genova dove certamente sarò fucilato. «Con sua buo­na grazia! ». Cosi trascorse tutta la giornata fino a sera, quando mi as­sicurarono che mi lasciavano libero. Si portarono via il morto dopo aver rubacchiato in qua e in là tutto quello che vollero e poterono trasportare. Spreco enorme di munizioni; spiegamento inutile di forze; grande apparato bellico per lasciare una situazione molto inasprita e favorevole al movimento partigiano.

Tornò la calma molto lentamente. Quando si credette di averla riacquistata, ecco altri fatti che ci piom­barono nell’esasperazione precedente. 23 maggio 1944 – Il Duce di Salò diventava il drastico dittatore delle persecuzioni. Gli alleati Anglo – americani premevano alle spalle. Tutto il nuovo apparato governativo e la nuova gloria stava lentamen­te, ma definitivamente, crollando giorno per giorno. S’imponevano or­dini draconiani per costringere i renitenti richiamati a presentarsi d’ur­genza per la difesa ad oltranza. Richiamandosi alla tramontata dema­gogia di palazzo Venezia, il Duce, in un ultimo discorso a Milano, gri­dò: «Difenderemo coi pugni e coi denti la Val Padana! ». E venne fuo­ri l’editto della Disperazione. «Chi non si presenterà entro il 25 mag­gio 1944, sarà considerato fuori legge; catturato, sarà passato per le armi; i famigliari uccisi e i beni mobili ed immobili distrutti ». Per di­mostrare che l’Editto diceva sul serio, il 23 maggio la nostra montagna rigurgitò di Tedeschi e Repubblicani. Si incominciava la caccia ai parti­giani ed ai renitenti. Aerei a bassa quota lanciavano manifestini inci­tanti i popoli all’obbedienza. Passarono da noi anche grossi cani poli­ziotti che dovevano scovare nelle grotte del Penna i fuori legge. I no­stri giovani fuggiti sui monti, in breve, si videro circondati, mitraglia­ti da ogni lato e in procinto di rimanere in trappola. Anche la popo­lazione era pazza dal timore. Più d’uno sentenziò che i giovani doveva­no presentarsi per liberare se stessi dalla morte ed il paese da più ca­tastrofiche rovine.

Più di venti si consegnarono all’ Autorità la quale li considerò co­me partigiani catturati nel rastrellamento contrariamente alle disposi­zioni date, e trattenuti in carcere e trattati come bestie. Intervenendo prontamente il Parroco presso le autorità competenti ottenne la loro liberazione dal carcere, ma furono avviati in Germania nei lager a lavo­ri e trattamenti inumani. Vi rimasero 18 mesi circa. Vitto scarso, lavoro estenuante per 12 o 14 ore giornaliere, riposo da stalla, disciplina ferrea e bombardamen­ti continui. Ecco la loro vita in Germania. Pure dopo la liberazione, tutti sani e salvi ritornarono alle loro ca­se, magnificando la S. Croce che li aveva miracolosamente salvati. E ritornarono con la assistenza, gli automezzi, e l’interessamento del Sommo Pontefice. Tutti l’ammisero concordemente. 29 maggio 1944 – Data tristemente indimenticabile, poiché le ro­vine materiali commuovono di più le masse che non quelle morali. Si aveva diritto a sperare un po’ di tranquillità dopo le giornate descritte di maggio. I giovani si erano offerti vittima a questo scopo! Non mai. Giunsero a Parma e da Salsomaggiore i soli Tedeschi armati e moto­rizzati alla grande e difficile impresa. Resta un presidio a Pontestram­bo e in un baleno il grosso si porta ad Alpe – Setterone – Strepeto. «Bru­ciare paese. Rebbello!! ». Il pianto e l’esasperazione è al massimo. Le nostre case; le case dei nostri vecchi! Purtroppo la gente ha pochi mi­nuti a disposizione per portare nei campi un po’ di grano e di bian­cheria, poi il caos.

Tutti debbono recarsi in Ottù ed il paese è in fiamme. Rivoltelle lanciafiamme a 7.000 gradi in un’ora tutto distruggono. In paese resta­no solo i Tedeschi a rubare tutto quando non danno alle fiamme che divorano in parte anche la roba portata nei campi. La gente deve osser­vare ebete tanta distruzione senza poterla impedire. Cosi a Strepeto e a Setterone. Il Parroco, che si trova a Casale per la festa della Madon­na Consolata, all’annunzio discende a Pontestrambo dove è fermato e non può assolutamente muoversi al soccorso. Il Capo, severamente ri­chiesto della causa di tanto ingiusto scempio, puntandogli la rivoltella alla gola grida: «Parroco bugiardo e rebello! Qui tutti ribelli! ». «E i nostri giovani che si sono presentati e voi tenete in prigione, sono ribelli? », rispose concitato il parroco. «Era meglio prendere le armi contro di voi; ci avreste rispettati maggiormente, ma la giustizia divi­na vi metterà in conto anche questa vostra azione criminosa! ». Le ri­sposte forti placano i Tedeschi, ma ormai la catastrofe era consumata.

Giunto in paese mi si presentò una ben triste scena davanti agli occhi. Rovine, rovine e gente automa! Ho visto i forti del paese; quel­li che in piazza gridan forte quando tutto va bene! Poverini; erano an­nientati. Si spensero gli incendi e si provvide ad alloggiare i senza tet­to. Da un computo fatto le case e le cascine distrutte superavano la cinquantina. In un’ora, il lavoro tenace di tante generazioni! Parecchi giorni passarono prima di rivedere in paese una qualsiasi normalità. Setterone e Strepeto furono questa volta più fortunati; a conti fatti po­che cascine e solo due o tre case distrutte. Accompagnò i Tedeschi par­tenti l’esecrazione di tutti. Questi portarono via parecchi autotreni stra­carichi di bestiame e di preziosi. Dopo il fatto si viveva continuamente nell’aspettazione di altri fat­ti del genere. Dopo 15 giorni i partigiani li avevamo ancora alle costo­le. Si presentavano armati e la gente spaurita doveva accoglierli col ti­more in gola di altre rappresaglie da parte dei Tedeschi. 9 – 30 luglio 1944 – La campagna era meravigliosa e prometteva un rac­colto mai realizzato. Ciliegie e amarene per tutto; frumento e melica ot­timi; funghi a barili; fieno a iosa. Ma noi non eravamo tranquilli. I Partigiani di Beretta – Ricchetto – Bil ed altri viaggiavano con miste­ro; qualche cosa di grosso in aria. Scoppi enormi nella notte a metà Giu­gno avevano distrutto i ponti delle Piane, di Pelosa, di Giuncareggio. Si aspettava un rastrellamento in forza come quello di maggio, che si calcola a 30.000 uomini. E la notizia fatale non tarda a venire. I Par­tigiani attendono sui fianchi dei monti a Pelosa. Era il mattino del 9 luglio 1944. Un’avanguardia di Nazi – Fascisti si avventura sulla carroz­zabile S. Maria del Taro – Bedonia. A Pelosa il fatale scontro. Si combattè per due giorni e il triste bilancio fu: 6 Partigiani uccisi; una set­tantina di Nazi – Fascisti e parecchi civili pure uccisi. I paesani com­misero un crimine che nessuno avrebbe immaginato. Incuranti del pe­ricolo, corsero a spogliare i cadaveri di tutti gli averi, lasciandoli nella più sconcia umiliazione.

Compiuta la prodezza, i Partigiani partirono gloriosi e lasciarono noi a purgare la loro imprudente attività. Il Capitano Vito Spiotta, in­gegnere, calabro, comandante la piazza militare di Chiavari e despota assoluto, parti in forza a rintuzzare l’oltraggio e la sconfitta. Cinque giorni di carta bianca a quella soldataglia costò la vita a più di 300 per­sone, 4 sacerdoti ed un prossimo ordinando. Il rastrellamento compre­se le zone di Bardi – Valceno – Borgotaro – Bedonia – Bocco – S. Stefano D’A­veto. I Sacerdoti uccisi sono: Don Umberto Bracchi (prete della Mis­sione S. Vincenzo) e Don Alessandro Sozzi a Strela; Don Beotti Giuseppe e Don Delnevo (Porcigatone) a Sidolo assieme al neo – ordinando. In quel solo giorno a S. Maria 4 persone della stessa famiglia la­sciarono la vita; il conosciuto commerciante Ginella (Scurtabò) dovet­te scavarsi la fossa a casa Fazzi; colpito alla nuca, fu seppellito semivi­vo. Altri l0 di S. Maria – Cò d’Orso ecc. avevano già scavata la fossa e stavano per esservi uccisi quando arrivò l’ordine di sospendere la crudele rappresaglia.

Anche Alpe non rimase esente.

1946 gennaio 15 – Bedonia.

Relazione di Don Cardinali in risposta alla circolare della com­missione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

 

 

Parrocchia di Alpe – Santuario di S. Croce Relazione alla S. Sede sui fatti di Guerra

 

Il ciclone immane ha avuto le sue dolorose affermazioni anche in questa Parrocchia così lontana dal dinamismo bellico, posta sulle più alte propaggini del monte Penna, a cavaliere delle province di Parma e di Genova. Luoghi ameni e ridenti; prati fioriti e rallegrati dal can­to degli uccelli e dallo scorrere capriccioso di fresche sorgenti. Monti eterni ed elevati al cielo come una preghiera; purissimi laghetti che vor­rebbero riflettere tutte le stelle. Non hanno grandi risorse da offrire all’uomo: solo pace e quiete… tranquillità e pace. Oggi però offrono un bel triste spettacolo. La guerra è passata come la falce che pareggia tutte le erbe del prato. Ed ha lasciato una ben triste eredità: un odio terribile per tutto quanto si è sofferto e per lo strascico di lutti, di di­struzione, di miseria. Le dure vicende per la Parrocchia di Alpe inco­minciarono dopo 1’8 settembre 1943 quando dopo il collasso del Fasci­smo e il conseguente rilento dell’ordine pubblico, patrioti locali sabo­tarono tutta la linea telefonica militare della postazione antiaerea con sede in Alpe.

Chi conosce la tempra tedesca, sa quanto si doveva temere, tanto più che la zona subì una vera invasione di prigionieri americani, ingle­si, russi e le voci correvano veloci. Per interessamento del Parroco Don Giuseppe Cardinali si riuscì (per evitare mali maggiori) a ritro­vare filo e accessori, a ripristinare la linea e a scongiurare per quella volta una catastrofe. Ma questo non fu che l’inizio di infiniti guai. Ri­messa in efficienza la postazione antiaerea, noi temevamo molto che ele­menti clandestini (i patrioti, le cui fila aveva incominciato e vita e at­tività proprio nelle capanne dei nostri monti) commettessero qualche indiscrezione che avrebbe avuto effetti deleteri per noi e cose nostre. A questi patrioti si erano subito uniti i prigionieri di varie nazionalità, fuggiti dai campi di concentramento. Infatti il 22 marzo 1944, mentre tutta la popolazione gremiva la chiesa parrocchiale alla fine delle 40 ore per la Messa solenne, patrioti della Squadra Beretta assalivano la Ca­serma dei Militi, asportandone l’equipaggiamento e causando un morto. Panico enorme, la popolazione discesa troppo tragicamente dalle medita­zioni spirituali alla cruda realtà. Ci volle tutta l’autorità del Parroco per calmare un poco la situazione, la quale rimaneva sempre tesa e pregna di nervosismo. I militi della contraerea erano tutti fuggiti. Il Parroco doveva o no avvertire dell’accaduto l’autorità? Avvertendola, si espo­neva alle ire dei ribelli; non avvertendola, si esponeva a quella dei re­pubblicani. E preferì questo partito. Il giorno dopo, 23 marzo eccoci alle rappresaglie. Rastrellamento della zona con un vero apparato di guerra: sparare su tutto e su tutti. Il Parroco è considerato l’unico ve­ro responsabile: Messa alle 11 per tenere la popolazione all’oscuro di ciò che si stava preparando; telefono civile interrotto dal Parroco per non avvertire dell’accaduto!

In conclusione: Carta bianca; il Parroco, dopo un lunghissimo e snervante interrogatorio, messo al muro; il paese raso al suolo. Poi, cam­bio di marcia; non si abbrucia il paese, solo il Parroco sarà fucilato a Genova dopo un sommario giudizio. In effetti il diavolo non fu cosi brutto come voleva apparire. «Per questa volta le minacce non avran­no alcun esito; ma voi, rimanete in stato di arresto, e promettete di rom­perla definitivamente coi ribelli e coi prigionieri! ». «Sta bene ». Man­co a dirlo; i ribelli continuarono a ribellarsi e noi tutti, nonostante i pericoli a cui ci esponevamo) eravamo in ogni caso il loro sostegno. Quante brave persone, specie giovani, accompagnavano i prigionieri stranieri (specie anglo – americani) per strade sicure in luoghi sicuri. Qui si può dire che non c’è persona che non abbia aiutato in qual­che modo inglesi, americani e russi che si consideravano come fratelli. E pensare che tutto si faceva a costo della vita, perché le spie e i loro agguati erano numerosi e terribili. Poveri e abbandonati, timorosi di tutti, ci guardavano con affetto e ci ringraziavano col sorriso, mentre li accoglievamo nelle nostre case per mesi e mesi al sicuro di tutto. Ci hanno lasciato scritte attestazioni di profonda gratitudine ed i loro in­dirizzi, che molti hanno distrutto per paura di rappresaglie. Come espri­mere, per esempio l’atteggiamento di un maggiore americano, di un ca­pitano e un soldato inglese ricoverati in una casa e curati amorevolmen­te, quando verso le 9 di sera il Parroco e qualche buono, assumendosi la tragica responsabilità, li fecero fuggire perché il Parroco sapeva che una spia aveva telefonato ai Carabinieri per la loro cattura? Credeva­no li avessimo traditi; ci guardavano spauriti con le lagrime agli occhi, ed uno balbettò: «Buono tagliano, anch’io avere mamma!! ». «No ­li rassicurammo – state tranquilli. Siamo buoni amici; vi salviamo espo­nendo la nostra vita! ». Ci salutarono più rassicurati; non li vedem­mo più. Forse sono ritornati alle loro case e ricorderanno che gli ita­liani, quasi tutti, hanno sempre esposta la loro vita per la tutela della vita e degli interessi degli Alleati.

Alpe, ormai, era preso di mira e tutti i rastrellamenti si riferivano alla ormai tanto tormentata popolazione della Parrocchia. Cosi li avem­mo tra di noi il 23 maggio 1944, il 25 e 29 maggio 1944. Nelle pri­me ore del 23 maggio erano giunti in paese, previa una terribile bat­tuta di mitraglie e bombe a mano. Vengono rinvenute armi, munizio­ni maschere antigas inglesi ecc. Buoni uffici del Parroco. Tutto fini­sce bene; il paese viene risparmiato dalla distruzione; ma si fa una battuta generale sul monte Penna. Subito giunge in paese un’altra on­data; panico esasperante nella popolazione. Intervistato il Parroco, per suo interessamento il paese se la passa liscia. Il Penna viene circonda­to da ogni parte e i nostri giovani, rifugiatisi sui monti, presi da ogni lato, con l’aiuto di cani ammaestrati, con l’aviazione che sorvola a bas­sa quota mitragliando e bombardando, rimasero vittima d’uno dei più terribili rastrellamenti. Ben 21 giovani furono presi e deportati in Germania in quei truci campi di concentramento la cui vita, al dire dei re­duci, si può riassumere nel trinomio: « Fame, lavoro, umiliazioni mal­trattamenti ».

Non contenti di ciò, quattro giorni dopo il 29 maggio ritornarono con apposito mandato di distruggere Alpe, Setterone, Strepeto come co­vo dei ribelli. Il Parroco costretto all’inazione, sequestrato in località Pontestrambo a 3 Km. da Alpe; anzi di nuovo votato alla morte sot­to l’imputazione di essere il protettore dei ribelli e degli alleati. Il ca­pitano: «Voi prete ribello e bugiardo; dire niente partigiani; invece esserne 100.000 Penna; comando anglo – americano – russo! Prete bu­giardo, caput! ». Il Parroco, grazie a Dio, non si lasciò intimidire, nep­pure dalle amorevoli esortazioni di buoni parrocchiani che lo invitava­no a desistere dal competere in polemica coi Tedeschi; e alla fine, seb­bene quasi rasi al suolo i tre paesi, riuscì a far restituire bestiame e tan­ti beni di vario valore. Il Parroco, appena liberato, corse a visitare le macerie e non seppe meglio che piangere con il suo popolo additando il Crocifisso. Si pensò a sistemare alla meglio i molti senza tetto e a fornire i primi soccorsi ai più bisognosi sinistrati e i più derubati. Sem­bra che partecipassero al rastrellamento generale sulle nostre monta­gne 25.000 uomini equipaggiati di tutto punto. A parecchie diecine di milioni si fanno ascendere i danni riportati. Il movimento partigia­no per qualche mese fu più intenso; poi riprese tutta la sua attività con perfetta libertà precauzionale. Al punto che la squadra Beretta, Bil, Virgola, Richetto attaccarono a decisiva battaglia l’avanguardia dei Tedesco – repubblicani in cammino per un nuovo rastrellamento, il 9 luglio 1944 nel pomeriggio a Pelosa – sulla carrozzabile Bedonia (Par­ma) – Chiavari (Genova) – dove l’unica strada provinciale è chiusa ed incassata tra due folte giogaie di monti precipiti.

Furono epiche giornate di coraggio da parte dei combattenti, ma di terribile agonia per la popolazione che temeva la rabbia e le rappresa­glie dei tedeschi che furono atroci. Il terreno della battaglia era coper­to di morti. Ma i Tedeschi furono Tedeschi: massacri e terrore ovun­que; torture varie e raffinate ad innocenti cittadini; molti furono mas­sacrati sulla tomba aperta con le loro mani; non risparmiati i Sacerdo­ti, dei quali molti furono massacrati con tanti della loro parrocchia; profanate e non risparmiate le Chiese; ruberie, vessazioni dispotiche in­finite. Anche molti di Alpe ci lasciarono la vita. Alpe, Setterone, Strepeto furono di nuovo arsi, questa volta quasi al suolo e la gente visse ore trepide di spasimo nelle caverne e negli anfratti dei monti come le bestie. Una frazione di Alpe, Bruschi Soprani e Sottani venne let­teralmente arsa. Ebbene molti, tutti quelli che potevano anche in que­sto inferno, continuarono la loro eroica assistenza ai partigiani, ame­ricani, inglesi, russi che numerosissimi transitavano o vivevano nella nostra vastissima zona dell’alta Val Taro. Ad Alpe poi si concentrò l’odio nemico. Bruciata la nuova canonica di Setterone; bombardato Alpe coi cannoni e con l’aviazione; colpita la canonica di Alpe e la Chiesa ripetutamente. I danni furono gravissimi. I famigliari del Par­roco minacciati di morte, perché « . .. non essere casa parroco! ». Per­quisita la casa e derubata di tutto. Il Parroco si trovava in parrocchia prudentemente nascosto dalla fobia nemica. Questa vitaccia durò un mese e più. La gente esitava a rientrare e a farsi vedere. Si era cele­brata per vario tempo la S. Messa nei canali, quasi come nelle cata­combe. Ma la S. Croce di cui Alpe possiede una insigne reliquia e il suo bel Santuario, pregata con fede non comune, salvò sempre il suo popolo. Forse il racconto ha del fiabesco; ma dà solo una pallida idea della dura realtà. Ben pochi americani, inglesi, russi vi lasciarono la vita, perché ben protetti e guidati dalla popolazione. Si viveva sempre con precauzione; le feste anche solenni rimanevano chiuse nei cuori, non ardendo uscire dalla Chiesa con pubbliche manifestazioni; suona­re poco le campane perché in esse i Tedeschi vedevano sempre un ag­guato e un avviso ai ribelli. Paralizzato ogni più piccolo commercio; a terra le comunicazioni; rotti le strade e i ponti; rubati i fili telefo­nici e telegrafici; distrutti gli impianti di elettricità; la gente sempre con un fare trasognato da sonnambulo. Giunge Natale, ma un Natale

da trincea; qualche saluto; auguri strozzati dal timore. Infatti il 31 Dicembre siamo da capo: «Sono qui; un nuovo rastrellamento; am­mazzano anche i preti. Hanno preso il parroco di Valletti (Don Gio­vanni Bobbio – Diocesi di Chiavari) e lo fucileranno subito (fucilato il primo Gennaio 1945 nel cimitero di Chiavari). Solita accusa: «Ri­belle e amico degli alleati! » Queste sono le voci correnti. È notte; sono giunti a Pontestrambo; un vento gelido da Siberia. Si corre ai rifugi; si monta di sentinella e nessuno ha voglia di dor­mire. Silenzio profondo. Qualche colpo di cannone; qualche raffica; il bagliore sinistro nell’oscurità di qualche casa incendiata; poi di nuo­vo lugubre silenzio di morte. Il primo gennaio 1945 si celebra dal Par­roco la S. Messa nel Santuario; ma poco assembramento di popolo e molte sentinelle! Dopo una settimana arriva la neve: circa un metro e più. Vita impossibile per i fuggitivi i quali minacciano di essere cir­condati e catturati. Affondano nella neve; debbono sostare di notte in capanne sconnesse, a cento a cento; molti sono i congelati. I Tede­schi giungono ad Alpe tra lo spavento generale: si gioca sempre la vita. La prima cosa che cercano è sempre la canonica. Il prete! il prete! Egli è al suo posto di combattimento: il suo pacifico studio. Dice la gente: «Questa volta lo ammazzano certo! ». Sulla «Fiamma Repub­blicana» di Chiavari si era stampato che il Parroco di Alpe è un ri­belle; un lurido traditore, perché nella sua casa furon trovate: armi, munizioni, divise americane ecc. Il Parroco, un poco emozionato ma franco, si presenta e paria con la forza della verità e dell’innocenza:

«Se volete sacrificarmi, fatelo pure; ma vi macchiate d’un crimine che peserà molto sulla bilancia della storia contro di voi, come tanti altri fatti del genere ». Basta; Dio lo protegge; lo lasciano libero anche que­sta volta. Ma fino a quando, o Gesù; fino a quando? Il fisico umano non è una macchina. Il cuore batte forte; recalcitra; s’impenna; qualche capello imbianca; la cura per dimagrire è eccellente. Chi ha provato le crudeltà dei rastrellamenti, la loro lenta, agonica attesa incerta, sa che quanto esposto in questo diario non riflette che un’ombra della verità. E la musica durò per noi un anno e mezzo: tra la incudine ed il martello! L’incudine: caldeggiare il movimento partigiano, sostenerlo, sal­varlo coi molti prigionieri anglo – americano – russi da ogni imboscata, dai tradimenti, dalle rappresaglie con spirito di squisita carità cristia­na che abbraccia tutti. Il martello: l’urto continuo di forze tedesco – repubblicane che non la perdonavano a nessuno: occhio per occhio; dente per dente; questa la loro legge.

Finalmente respiriamo. Tutti abbiamo ringraziato Iddio per la pri­ma e più importante pace ottenuta: la cessazione della guerra. Attendiamo la seconda pace; quella in cui gli uomini si abbiano a stringere in un unico amplesso fraterno di idee e di intenti. Questa è la nostra grande speranza; per questa viviamo; per questa lavoriamo at­tentamente col sacrificio; per questa preghiamo.

In fede  Don Giuseppe Cardinali Arciprete

PARROCCHIA DI TARSOGNO

BADENCHINI DON MARIO

Nato a Piacenza nel 1916, è attualmente Parroco a Celleri di Carpaneto. Ne] 1940 fu coadiutore a Borgotaro. Dal 1944 al 1946 fu economo spirituale di Tar­sogno. La sua testimonianza riguarda la Parrocchia di Tarsogno e l’operato di Mons. Giuseppe Nestori, suo predecessore e di Mons. Paolo Checchi, Arciprete di Bedonia. 1.d.

Testimonianza resa oralmente da Don Badenchini e registrata su nastro.

PARROCCHIA DI TORNOLO

MUTTI DON SILVIO

Vivente e residente nella Casa di Riposo di Pieve Duliara, ove fu Arciprete dal 1959 al 1982. Dal 1941 al 1951 fu Parroco di Tornolo.  1.d.

Testimonianza resa oralmente da Don Mutti e registrata su nastro.

SEMINARIO VESCOVILE DI BEDONIA

BIGGI CAN. MONS. GIULIO (1889 – 1970)

Dal 1941 al 1954 fu rettore del Seminario Vescovile di Bedonia.

1946 gennaio 1 – Bedonia

Relazione di Don Biggi in risposta alla circolare della commissio­ne cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

Questo Seminario, durante tutto il periodo della guerra poté qua­si sempre tenere aperti i suoi battenti e continuare le lezioni per una percentuale rilevante dei suoi alunni. Solo la scuola preparatoria fu so­spesa per l’annata scolastica 1944 – 45. Nel mese di maggio 1944 la Direzione, col debito beneplacito di S. E. Mons. Vescovo, acconsentiva di lasciare sfollare nella parte migliore dell’Istituto l’Ospedale S. Antonio di Pontremoli. L’Amministrazione di questo ospedale fece preparare gli ambienti a circa ottanta cronici incurabili. Questi ambienti furono mantenuti a disposizione sempre: però non furono mai occupati, non sappiamo il perché. Nel luglio 1944 per circa 15 giorni gli ambienti di cui sopra, furo­no occupati da partigiani, i quali vi portarono una trentina di feriti (te­deschi e italiani) di una azione bellica compiuta a circa 15 Km. da Be­donia. Locali e letti e parte di coltri furono messi dall’amministrazione del Seminario che pensò anche alla cucina, all’assistenza morale e infermiera dei feriti. La popolazione di Bedonia diede il resto per i letti e procurò anche generi diversi per il vitto e medicinali. Il tutto sempre sotto la direzione tecnica di alcuni sanitari di Bedonia.

La popolazione dava molto aiuto dietro interessamento dell’ A.C. Femminile della Parrocchia di Bedonia. Il Seminario che aveva favori­to i partigiani dando il locale, ottenne un esplicito e scritto elogio della Autorità tedesca, che prelevava i feriti tedeschi e italiani a sè aggregati. Il 17 luglio i locali erano liberati nell’imminenza dell’arrivo di un grande contingente di truppe per rastrellamento, che infatti arrivava al. le ore 17 circa dello stesso giorno. Il rastrellamento durò circa venti giorni. Furono raccolti molti ostaggi (circa ottanta più dodici Sacerdo­ti): tutti furono chiusi in Seminario dove in parte subirono spietati in­terrogatori e atroci torture.

La Direzione e l’Amministrazione dell’Istituto alla quale era stata riconosciuta e concessa una certa libertà, chiusa però, dovette pensare anche a questi ostaggi, provvedere colla propria cucina circa cento mi­nestre quotidiane per venti giorni a questi ostaggi che nulla ricevevano dalla famiglia lontana e dall’autorità militare.. . Non si lasciò mancare agli ostaggi la Santa Messa alla domenica e tutte le sere recitavano il santo Rosario in comune. Così si lavorò in modo da rendere meno penosa la loro misteriosa attesa. Le Autorità rastrellanti non si vergognavano da far da padroni nel materiale dell’Isti­tuto, nel pollaio e nell’orto. I dodici Sacerdoti ebbero in Seminario un trattamento fraterno. Essi però ebbero premura di indennizzare il Se­minario della spesa viva per il loro mantenimento. Molti degli ottanta ostaggi di cui sopra dopo la liberazione non mancarono di recarsi al Se­minario per ringraziare, far generose offerte e specialmente per ringra­ziare la Madonna, la loro celeste Consolatrice, a cui si erano tanto rac­comandati nella catastrofe. Realmente nessuno degli ostaggi ospiti qui andò a mala fine. Tutti hanno confessato di aver sperimentato una par­ticolare protezione della Beata Vergine. Le stesse milizie della Decima Mas – Battaglione Lupo – ebbero dai Superiori del Seminario partico­lari attenzioni morali nei limiti del possibile in quella contingenza. Fu­rono distribuite medaglie della Madonna a loro e anche a molti soldati tedeschi, i quali la gradirono.

Un giorno la Compagnia del Battaglione Lupo parti per una azione. Dopo circa ventiquattro ore alla mattina verso le ore sei ritornarono in Seminario mogi mogi, tutti sconcertati e sporchi. Avevano avuto la peggio verso il passo del Cento Croci. Ma tutti erano riusciti a salvare la pelle. .. Il sergente disse al Rettore del Semi­nario: «La medaglia della Madonna di S. Marco ci ha salvati. . . Ci sia­mo trovati in situazioni assai difficili. Solo la Madonna ci può aver sal­vati. . . ». Finito il rastrellamento, Bedonia godette un bel periodo di quie­te. . . Vennero i tedeschi, ma a riposo.

Nel 1944 in ottobre Mons. Vescovo decideva di non aprire il Se­minario, dati gli eccidi del luglio precedente. Intanto si presentava al Seminario l’occasione di fare un po’ di bene ospitando una scuola me­dia sfollata a Bedonia. Questa scuola media ebbe la comodità di com­pletare l’anno scolastico in alcune aule del Seminario a pian terreno. Così nella foresteria del Seminario più volte la settimana le Rev. de Suore Dorotee della Frassinetti adunarono per quasi tutto l’anno sco­lastico le loro alunne che non avevano potuto raccogliere nell’Istitu­to loro proprio sfollato da Genova a Borgotaro. Ai primi di novembre 1944 S. E. Mons. Vescovo concedeva che si adunassero in Seminario ed avessero regolari lezioni dagli insegnan­ti volontari quegli alunni Seminaristi che permettendolo i loro paren­ti desiderassero compiere l’anno scolastico. In complesso furono circa quarantacinque questi volontari, che finirono gli studi con esame nor­male alla fine di giugno 1945. E fu per loro un grande privilegio. Ma in Seminario c’era ancora molto posto. Col consenso benevolo di S. E. Rev. ma Mons. Menzani, i Superiori del Seminario pensarono di acco­gliere fra le sacre mura del benemerito Istituto una parte dei bambini senza tetto, perchè appartenenti a paese in cui i tedeschi durante i ra­strellamenti avevano bruciato casa, stalla, masserizie e vettovaglie.

Quei bambini, erano una trentina, sotto l’amorevole cura delle Suo­re addette al Seminario e alimentati dalla Provvidenza, poterono vive­re tranquilli e dormire pacificamente i loro sonni all’ombra del Santua­rio della Madonna della Consolazione. , Quanto sarebbe stato desiderabile accogliere tutti i fanciulletti del­le famiglie sinistrate! I fortunati hanno avuto agio di fare una classe di scuola elementare sotto la guida della buona figliuola Sig.na Mae­stra Cesira Conti aiutata nella assistenza dal fratello Giocondo e anche da alcuni Seminaristi. Poterono tornare ai loro desolati casolari alla fi­ne del mese di maggio. Diversi di loro hanno fatto qui in Seminario la prima Comunione.

Rastrellamento Del Gennaio 1945.

Fu compiuto dagli Alpini fiancheggiati da elementi tedeschi. Il Se­minario si trovò nella necessità di ospitare centocinquanta Alpini per circa 10 giorni. La stagione cruda ci costrinse a sacrificare molta le­gna. Fortunatamente i Seminaristi erano tutti a casa. Gli Ufficiali di questi Alpini erano trattabili e furono molto umani nel rastrellamen­to. Molto riguardosi furono con i Superiori del Seminario presso il quale ebbero cordialissima e generosa ospitalità.

In Aiuto del Movimento Partigiano.

Si è sempre avuto la preoccupazione di non compromettere l’Isti­tuto tanto da parte dei Superiori che per parte dei Partigiani stessi. Deo adiuvante, il Seminario non andò soggetto a rappresaglie di sorta. Diverse volte il Seminario rifocillò drappelli di partigiani di passaggio, accettò in rifugio e da custodire burro ed olio, prestò quaranta lenzuola che servirono a formare segnalazioni per i primi lanci. Quando i parti­giani ricorsero al Seminario non ebbero mai ripulse, se appena si poteva. Il paese diverse volte s’è trovato a non avere farina per la panifi­cazione. Il Seminario ha dato diversi quintali di farina prodotti in proprio. I Sacerdoti del Seminario non ebbero straordinarie occasioni di prestarsi ad attutire i contatti delle Autorità occupanti con la po­polazione perchè a tale attività si prestò sempre molto abilmente e con successo il Rev.mo Mons. Arciprete Paolo Checchi con gravissimi suoi incomodi e pericoli.

Assistette molti partigiani sia spiritualmente che materialmente. L’alta Val Taro e Ceno furono terribilmente provate coi rastrella­menti. Sono moltissime le case (circa duecento) abbruciate con tutte le masserizie altrettante stalle con foraggi, biada, ecc. Più di duecento sono le vittime umane tra cui quattro Sacerdoti e un Chierico Teologo. Don Alessandro Sozzi, Prevosto di Strela; Don Umberto Bracchi C.M.; Don Giuseppe Beotti, Arciprete di Sidolo; Don Francesco Delnevo, Arciprete di Porcigatone; Ch. Italo Subacchi (del Seminario di Parma).

Per sostenere il morale della popolazione.

Nel 1942, 26 aprile grande funzione preceduta da ottima predica­zione della durata di una settimana. Giornata di chiusura con grande partecipazione ai Sacramenti; Pontificale di S. E. Mons. Vescovo di Piacenza, Processione con la statua della Madonna della Cintura, por­tata dagli Alpini; nome dei combattenti e militari in un cuore offerto alla Madonna. Nel 1943, 16 maggio, altra funzione come la precedente con l’in­tervento del Vescovo di Pontremoli, di Piacenza e dell’Arciv. Mons. Umberto Malchiodi di Camerino. In tutto il tempo della guerra il Santuario della Madonna della Consolazione accolse in numero straordinario pellegrini da tutte le par­ti delle vallate del Taro, del Ceno e del Nure. Non funzioni solenni e pompose, ma molto devote, sempre allo scopo di sostenere gli spiriti a non lasciarsi abbattere, a sopportare cristianamente le calamità. Il tema della predicazione sempre si aggirava attorno all’invito del­la misericordia divina: Redite peccatores ad coro Fedeli, se vogliamo grazie da Dio, siamo buoni, fuggiamo il mal costume, non mettiamo ostacolo alla divina bontà.

Il Rettore  Don Giulio Biggi

SEMINARIO VESCOVILE DI BEDONIA

GAZZOLA CAN. MONS. ROMUALDO

           Nato nel 1913, attualmente Penitenziere Maggiore nella Cattedrale di Piacenza. Dal 1942 al 1948 fu Vicedirettore del Seminario Vescovile di Bedonia.

1944 luglio 15 – Farini d’Olmo

Lettera di Don Gazzola a Mons. Mondini (?) con richiesta d’aiu­to perché fermato dai fascisti. 1944 agosto 13 – Bedonia

Testimonianza di Don Gazzola sul!’ uccisione di Don Giuseppe Beotti, Padre Umberto Bracchi, Don Alessandro Sozzi e dal chie­rico Italo Subacchi.

Strage di laici e Sacerdoti

Il giorno 3 agosto 1944 sono partito da Montalbo con alcuni Semi­naristi, che tornavano in famiglia per le vacanze, diretti nelle zone di Bedonia, Bardi, Borgotaro, Montereggio. Il percorso Pontedellolio – Be­donia fu fatto a piedi. Nel tragitto, moltissime persone ci fermarono, interrogandoci e raccontandoci le loro sventure, subite nel recente rastrel­lamento: rubamenti, saccheggi, distruzioni, incendi, vittime, ecc. A Farini d’Olmo ho fatto una breve visita all’ Arciprete da un giorno rien­trato in Parrocchia. Pernottai a Le Moline. Il 4 celebrai nell’oratorio e molti fedeli ascoltarono la santa messa. A Mezzogiorno feci pure visita al Parroco cui consegnai la ricevuta di una commissione per lui fatta. Anch’egli era in parrocchia da una notte (era arrivato la sera del tre) dopo il ritorno dalle deportazione. Mi volle raccontare le sue vicende: danni nella stalla, nella cantina, in casa ecc.; rubamenti in Parrocchia, quasi tutto il bestiame asportato. Giunsi a Pione sul mezzogiorno e già la gente mi aveva raccontato quanto era avvenuto di triste nel paese, quando mi incontrai con l’Arciprete Don A. Raffi, il quale mi diede più dettagli. Mi disse ancora che egli non aveva più nulla. La Canoni­ca svaligiata completamente. Mangiava e dormiva presso una famiglia di buoni parrocchiani. Anche la cavalla gliela avevano portata via.

Gli avevano lasciato solo il puledro di tre mesi. Il Parroco ha subito maltrattamenti, percosse e fu minacciato di morte. I militari si sono diportati pessimamente specie con le donne. Da persona di Faggio mi fu riferito che i Tedeschi hanno rotto con bom­be a mano le porte della Canonica e della Chiesa di Faggio. I paramen­ti sacri furono portati fuori di sagrestia e stesi per terra. Furono poi raccolti dal campanaro. Furono portati dietro il campanile anche i re­gistri parrocchiali. Non so se li abbiano bruciati. I vasi sacri pare che non li abbiano manomessi. A Scopolo pure ho trovato il Parroco rientrato da un giorno.

In Canonica non fu molto danneggiato: asportazione della radio, di una bicicletta (non sua) e di qualche altro oggetto. Il Parroco di Masanti fu rinchiuso in canonica per due o tre giorni senza poter comunicare con nessuna persona (il comando tedesco era in casa del Parroco). Il paese di Scopolo e di Masanti ha subito ruba­menti, svaligiamenti di pollai e di stalle, ecc. Nessuna vittima umana. Verso le ore 20 dello stesso giorno, dopo essermi ben informato di quanto era avvenuto in Seminario (nessuno, benché così vicino, seppe darmi precise indicazioni), girando nella par­te del bosco, (si temeva ci fossero ancora sentinelle a S. Marco) mi ap­prestai al Seminario dove ho incontrato Mons. Rettore, l’Economo, Don Scrocchi e Don Groppi e ci scambiammo le prime notizie sommarie: anch’essi fermati o meglio bloccati per alcuni giorni in Seminario (più dettagliate informazioni le darà Mons. Rettore). Erano però il 4 tutti liberi, ad eccezione di Don Sanguineti, Don Donelli e Don E. Squeri deportati, con gli altri civili catturati, a Chiavari da dove tornarono il 9 c.m., insieme a due collegiali.

Il 5, circa 17 soldati della Decima Flottiglia, cercano o meglio al­loggiano ed usano dela cucina in Seminario. Il 5 sera però si parla di due giorni di tregua. Ne approfittano e il 6 partono da Bedonia con qua­si tutti i camerati alleati. Ai due giorni di tregua seguono delle conven­zioni tra partigiani e tedeschi tra cui si conviene di accordare libero passaggio (senza sosta) dal Bocco a oltre Borgotaro ai tedeschi e que­sti a loro volta si impegnano di non molestare più la popolazione di detta zona. Il giorno 6 vado a celebrare due SS. Messe a Casale. Che desola­zione! Diverse case bruciate, molte derubate, stalle private di bestiame e tre persone del paese uccise (due oltre i 60 anni, una di 35). La cano­nica non fu bruciata. Il 9, S. Fermo, vado a Strepeto: peggio che a Casale, in quanto i danni rimangono solo quattro case e la scuola (perchè fu possibile spe­gnere il fuoco). Della bella canonica nuova non rimangono che quattro affumicate mura: non si è salvato nulla, neppure un registro.. .

Nel pomeriggio; dopo i vespri, mi reco ad Alpe. Il paese, com­preso il Parroco, è ancora in preda al terrore. Su questa Parrocchia il cannone piazzato a Pelosa ha lanciato ben 52 bombe, due delle qua­li sono cadute sul tetto, nella parte prospiciente Strepeto, facendolo ro­vinare sul volto che per fortuna ha resistito. Il Parroco mi disse che per lo meno avrà subito un danno di 20.000 lire. Un’altra bomba è esplo­sa all’angolo della canonica, nell’orto, senza conseguenze. Nel paese vi sono molte case distrutte, perforate e bruciate. Non si lamentano vittime. Quasi tutti i vetri, compresi quelli della Chiesa, sono rotti. Il Par­roco ha peregrinato vari giorni. Alla mia andata si è calmato, e mi ha raccontato le sue penose vicende.. Anch’egli fu cercato, ma si era as­sentato. Nel discendere sono passato ai Bruschi di sotto per portare a nome di una pia persona L. 2.000 ad una povera famiglia, alla quale i tede­schi avevano bruciato tutto ed avevano ucciso due persone (il padre di 75 anni e il Figlio di 45, questi a sua volta aveva a carico la moglie con 7 figli, due dei quali già alle armi – uno disperso e uno prigioniero – gli altri tutti piccoli, l’ultimo di pochi mesi). Che scena straziante! Nei giorni del terrore i due uccisi furono sepolti – pare provvisoriamente -, perchè li vogliono portare al Cimitero di Carniglia, in un campo dietro all’oratorio, terreno già adibito a cimitero al tempo del colera. L’ope­ra di misericordia (seppellire i morti) fu compiuta da alcuni vecchietti e da donne. Tutti erano fuggiti e nessun sacerdote poteva andare per le esequie. Quasi tutte le case di Alpe mi fu riferito dal Parroco che so­no ancora in peggiori condizioni. Mentre ero ai Bruschi di sotto sono ritornati dalla prigionia di Chiavari alcuni uomini deportati e mi pregarono di voler impartire la Benedizione in ringraziamento. Li accon­tentai, ritornando in Seminario un po’ tardi, ma facendo buon viaggio.

 

Sidolo – Il 10, S. Lorenzo, dal Seminario vado a Sidolo. Alle pri­me frazioni appena vedono il Sacerdote, piangendo, mi fermano e parla­no del loro Don Giuseppe, di quel santo Sacerdote che non dimenti­cheranno mai. . . Arrivo in paese che piove a dirotto. Vado subito ver­so la canonica e la Chiesa che trovo chiuse. Mi dirigo al cimitero e vedo una tomba con la terra smossa di fresco. Penso che ivi riposino le vittime e particolarmente per Don Beotti innalzo la mia povera pre­ghiera. Mi informo in seguito e apprendo che pochi minuti prima la salma di Don Beotti fu sotterrata di nuovo in una cassa di zinco.Ecco quanto posso riferire circa i delitti perpetrati a Sidolo se­condo le testimonianze dei seguenti parrocchiani: Berni Giuseppe di anni 52, Moruzzi Ernesto di anni 38 e Balestrazzi Domenica di anni 46, che ha le chiavi della Canonica e della Chiesa.

Il 19 luglio Don Delnevo, Arciprete di Porgicatone, è andato a celebrare la S. Messa nell’oratorio del Poggio. Pensa poi di andare a casa, ma non vi riesce, perché già dai monti, circostanti Porcigatone, i Tedeschi sparano. Tenta diverse vie, va fino a Tollaro di Comune Stradella, ma invano. Incontra poi per istrada alcuni giovani di Porci­gatone e di Borgotaro e con loro va a Sidolo. Don Delnevo alloggia presso il Parroco, i borghesi passano la notte in paese, al dopolavoro. Al mattino del 20 i giovani, di cui sopra, cer­cano pane in paese e non ne trovano. Allora vanno presso la Cano­nica. Don Beotti, essendo anche lui sprovvisto, va da una famiglia e se ne fa dare un po’. Questo pane viene distribuito ai giovani sul sa­grato da Don Beotti, Don Delnevo e dal seminarista Subacchi Italo (c’è chi dice che il pane fu portato direttamente dalla gente ai giovani sul sagrato della Chiesa, presenti, però, anche i sacerdoti).

Tre tedeschi verso le 9,30 si precipitarono in canonica dicendo di aver visto dar da mangiare ai ribelli, avendoli scorti da un posto più in alto con il cannocchiale (nel ritorno mi fermai sulle posizioni indicatami e in realtà si vedeva bene quanto avveniva davanti alla Chiesa e alla Canonica, non essendovi davanti nessun ostacolo). Ai tre ne fecero seguito altri. Dopo una mezz’ora circa, i testi che erano ap­piattati nei boschi sui monti circostanti, videro uscir di canonica i due Parroci e il seminarista, scortati da una sentinella e sostare per un po’ di tempo davanti alla Canonica. Poi un tedesco è sceso dal paese in fretta con la pistola in mano verso i sacerdoti; giunto da­vanti a loro, ha fatto un gesto e i sacerdoti sempre scortati, si porta­rono sulla strada che dall’orto curiale va a Sidolo di là dal Rio. Giun­ti a metà strada tra l’orto e la frazione di case, si fermarono. Ivi pare che abbiano subito insieme un interrogatorio. Nessuno ha saputo dir­mi con precisione quanto abbiano chiesto. Si dice che abbiano doman­dato: «Avete detto Messa questa mattina?» «Si ». «Avete pregato anche per noi?» «Si, per voi e per tutti ». «Perché avete messo le bandiere bianche sulla torre?» «Per indicare che in paese non c’era niente ». (Le bandiere in realtà furono esposte sulla torre, pare che gliele abbia portate il seminarista Subacchi con lo scopo di salvare il paese) .

Mentre i sacerdoti e il seminarista erano su quella strada è pas­sata una donna (certa Moruzzi Maria in Sidoli) e Don Beotti le avreb­be detto: «Dite con mia sorella che mi trovo qui; continuano ad interrogarci, ma non so perché ». La donna ha proseguito il suo cam­mino e ad un certo punto si volta e vede i tre sacerdoti che erano vol­tati verso di lei, quasi in atto di voler parlare; ma lei non ha azzar­dato tornare indietro. Furono visti i sacerdoti rimanere ancora al­quanto tempo sulla strada custoditi. Poi andarono verso di loro diver­si soldati. Poi udirono raffiche di mitraglia e colpi di rivoltella. Avevano sparato contro gli ecclesiastici. Furono messi con le spal­le contro il muricciolo che sostiene un appezzamento del terreno del beneficio e fu loro sparato in fronte (maggiori particolari potranno dare le sorelle Carpanini sfollate allora da Bardi, dalla cui casa – la più vicina al luogo del misfatto – hanno potuto assistere alla truce scena, e si sono poi prestate per pulire dal sangue le salme).

Don Beotti aveva trapassate le tempia, ferito un braccio e un pie­de; Don Delnevo aveva spaccato la scatola cranica e ferito a un brac­cio; il seminarista Subacchi ferito in bocca e al petto. Questi ha avu­to un’agonia abbastanza lunga; fu visto a congiungere le mani in atto di pregare. La fucilazione avvenne verso le 16,15 del 20 luglio 1944. Poco dopo le salme furono portate in Canonica da alcuni vecchietti e donne; tra gli altri mi hanno ricordato questi nomi: Pellegrino Sidoli di anni 73, Elia Sidoli di anni 67, Sidoli Celeste di anni 80, Sidoli Maria di anni 40, Balestrazzi Domenica di anni 46, ecc. Le salme rimasero in Canonica esposte: venerdì mattina altri tede­schi ritornarono a svaligiare la Canonica. Trovata chiusa a chiave la camera ardente, forzarono la serratura, scoprirono dal lenzuolo le sal­me e se ne andarono. Alla sera hanno portato via anche della cera per la Chiesa. Non pare abbiano preso vasi sacri.

Sabato 22, il Vicario di Bardi è andato a celebrare la Messa a Si­dolo e far eseguire le esequie. Nel ritorno da Sidolo pare sia stato preso anche l’Arciprete Don Delnevo con un suo parrocchiano (pure ucciso) fu portato a Porcigatone nel pomeriggio di sabato. Don Beotti e il seminarista fu­rono sepolti dalle persone su ricordate nel pomeriggio di domenica 23 luglio in due casse di legno. Come ho detto più sopra, Don Beotti il 9 fu riesumato e messo, per desiderio della sorella, in una cassa di zinco e risepolto il l0 nel terreno di fronte al cancello d’ingresso vi­cino al muro. Accanto a lui è il seminarista Subacchi. Il SS. nella Chie­sa di Sidolo quando andai io non c’era: l’aveva tolto Don Nino Rolleri. Questi è andato a celebrare nei giorni festivi un paio di volte, una volta è andato Don Dorino Ferrari. Non so come abbiano stabi­lito in seguito.

Come accennai più sopra, con Don Delnevo erano giunti a Sidolo dei giovani e degli uomini del suo paese e di Borgotaro. Sei di que­sti due paesi, trovandosi circondati dai tedeschi, hanno issato un faz­zoletto bianco su un palo e si sono arresi. Ma i tedeschi, dopo alcune ore, li hanno condotti verso il cimitero e presso il pero, a pochi passi dal medesimo, hanno scaricato contro di loro una raffica di mitraglia. Uno dei sei, udito il primo colpo, se la dava a gambe e fu così preci­pitosa la fuga che riuscì a mettersi in salvo, nonostante fosse insegui­to col fucile. È uno, mi si disse, di Porcigatone. Il nome dei cinque fucilati borghesi non mi fu possibile saperlo, perché forestieri. Di Si­dolo non vi furono vittime borghesi. Svaligiamenti, rapine e qualche incendio ecc. I cinque civili furono uccisi circa mezz’ora prima dei sacerdoti. Dal 22 al 26 furono tutti portati via.

Don Sozzi e Don Bracchi, uccisi nella mattina del 19 luglio vicino al cancello del cimitero di Strela, rimasero tre giornate all’aria e al sole: proibizione assoluta di avvicinarsi e comporre le salme. Tutti e due sepolti a Strela. Chiesi se sapessero qualche motivo addotto dai sicari per giustifi­care le loro azioni diaboliche ed ebbi in risposta: 1) non si sa; 2) un repubblicano la sera del 20 in una famiglia avrebbe asserito che i te­schi hanno ucciso tre pastori perché davano da mangiare ai ribelli; 3) facevano segnalazioni ai ribelli; 4) il Parroco teneva presso di sè due ribelli travestiti; 5) Don Beotti avrebbe detto: «Piuttosto che bruciare il paese, uccidete me ». Mentre stavo per partire mi fu riferito che un repubblicano in ca­sa Berni avrebbe detto: «Nostro compito è di uccidere tutti i preti ». Quanti ha incontrato espressero il desiderio di aver ancora un sacer­dote. Vari giovanotti parlandomi di Don Giuseppe piangevano. Da tutti furono pronunciate parole di lode e di ammirazione per Don Beotti. Al povero Don Bracchi è stata manomessa anche la dentiera (den­ti d’oro o dorati). Ma di questi e di Don Alessandro avrà riferito Mons. Checchi che per tre domeniche consecutive è andato a celebra­re a Strela.

Don Romualdo Gazzola

SEMINARIO VESCOVILE DI BEDONIA

PERINI CAN. MONS. CELSO (1914 -1982)

           Dal 1942 al 1954 fu Direttore Spirituale del Seminario Vescovile di Bedonia.

1975 ottobre 28 – Piacenza Testimonianza di Don Perini sul rastrellamento del luglio 1944.

PARROCCHIA DI MONTEGROPPO

BRACCHI DON ANTONIO (1916 – 1982)

Nel 1939, appena ordinato sacerdote, venne mandato Parroco a Montegrop­po ove rimase fino al 1935, quando passò a Porcigatone, dopo la fucilazione di Don Delnevo.

1978, gennaio 17 – Piacenza Testimonianza di Don Bracchi su fatti avvenuti durante la Resi­stenza.

Scrive nel suo epistolato il Sacerdote Don Antonio Bracchi:

« Mi ritornano in mente due versi, ricordati da Dragotte, comandante di un gruppo d’Azione Val Taro nell’ordine del giorni del 14 aprile 1945: Su. gli aspri monti ci siamo fatti lupi: il nostro grido è Libertà o Morte (c. Bas­sani) ». Versi e pensiero che giustamente si addicono ai giovani di Montegroppo, piccola frazione incuneata fra le sorgenti del torrente Gotra, ai piedi del mon­te Gottero (m. 1640), morti nelle gelide steppe della Russia ed ai patrioti che la ferocia nazifascista ha trucidato sulle balze dei nostri monti. Per essi e per la popolazione di Montegroppo il nostro ricordo, il tributo della nostra riconoscenza.

settembre 1943.

Montegroppo aveva generosamente dato il suo contributo di sangue nel sacrificio dei suoi giovani e forti Alpini della Divisione «Julia », eroicamen­te caduti nelle sterminate pianure del Don, quando con un anelito di speran­za aveva salutato con gioia il passaggio di migliaia e migliaia di militari con in faccia il sorriso e la volontà di ritornare alle loro famiglie. Fu soltanto unsoffio di euforica pace… la guerra riprese con la nuova Repubblica di Salò e l’ondata sterminatrice dei nazisti.

13 ottobre 1943.

Si ebbe in Albareto un incontro dei primari elementi che, nel vicino do­mani, avrebbero costituito i primi nuclei della Resistenza. Tra costoro: Gino Cacchioli, Gec (Solari), Cucchi, Pelizzoni, Ghezzi – Zanrè. In questo convegno si parlò e si stabilì di costituire dei gruppi volontari che tenessero l’ordine pubblico e salvaguardassero la libertà dei cittadini con­tro le piccole bande di sbandati del lontano 8 settembre, che dislocati nelle campagne assaltavano e derubavano gli sfortunati passanti. Come premesso, questo incontro diventerà in futuro attiva collaborazio­ne e vita vissuta tra la popolazione e le varie Brigate partigiane della Val di Gotra e della Val di Taro contro le forze repubblicane e naziste.

 Natale 1943.

Nel periodo natalizio si ebbe il primo battesimo di sangue. Lo scontro avvenne tra i primi gruppi di ribelli, comandati da Dario e i repubblicani nella località « Osacca» (Bardi). Fu la prima scintilla che divampò nei cuori ardenti dei giovani e da cui nacquero le prime Divisioni, le molteplici Brigate, i numerosi Distaccamenti dal Penna alla Manubiola nelle valli del Taro, del Ceno nelle limitrofi zone liguri e toscane. La scintilla fu portata ed accesa nei giovani della valle del Gotra da Gino Beretta, comandante della 2ª Brigata « Cisa ».

aprile 1944 – venerdì Santo.

In accordo col comandante G. Beretta il mercoledì santo (5 aprile) avrei dovuto celebrare la S. Pasqua con i suoi ribelli quando, la sera del martedì un contro-ordine mi avvertì che i partigiani si erano rifugiati sul Penna a se­guito dello svolgimento di un rastrellamento dei nazifascisti a vasto raggio in tutta la zona del Monte Gottero. In segreto ed in trepida ansia attesi gli eventi che purtroppo arrivarono tremendi la mattina del 7 aprile: Venerdì Santo. La prima luce dell’alba mi svegliò con una lunga e forte suonata di cam­panello. Attesi la chiamata dei miei familiari, che dormivano nella camera prospiciente il sagrato, ma prolungandosi il loro silenzio sbalzai dal letto e mi vestii in fretta.

Spiando tra le persiane vidi l’angolo sinistro del piazzale pieno di militari e, spingendo lo sguardo verso la strada, una lunga colonna di tedeschi che avanzava lentamente verso le case. Uscii dalla mia camera ed incontrai mio padre che, tremante, mi disse semplicemente: «I tedeschi ». Scesi frettolosamente la scala, aprii la porta di casa e mi trovai dinnanzi a due ufficiali tedeschi e ad un tenente italiano che bruscamente mi intimò: « Fuori, fuori ». Risposi pacatamente alle domande che mi furono rivolte cercando di portarli nella bussola della Chiesa ove erano affissi i manifesti del bando alla chiamata alle armi della classe 1925 ed altre ordinanze.

Quando ero quasi sicuro che tutto stava finendo, mi portarono dinnanzi un vecchio, bianco dalla paura, dalle cui labbra avevano appreso che suo fi­glio era stato in casa fino a mezzanotte e che poi era uscito. Senza scompormi dissi: «Tenente, se glielo ha detto suo padre sarà vero. Io di sera non esco se non per necessità di ministero. Vado a letto presto ». Non mi sembrò troppo convinto e improvvisamente mi disse: «Voi ave­te dato sigarette ai partigiani ». La faccenda si faceva seria ma, senza palesare alcun timore risposi: «Sì ho dato ad alcuni giovani in maschera qualche pacchetto di sigarette ed un bicchiere di vino ». Fortunatamente, tutto finì così, poiché un forte colpo di fischietto li sorprese e salutarono militarmente si allontanarono.

Era andata bene. Guardai l’orologio che segnava un tempo già da un po’ oltrepassato da quello stabilito per i Riti della Settimana Santa. Indossai i paramenti e con il cuore ancora in subbuglio iniziai con i pochi fedeli la sacra liturgia della Croce con un generoso « Grazie» al Signore. Terminata la funzione uscii di Chiesa ove appresi le prime sconcertanti e terrificanti notizie. I nazifascisti, divisi in vari gruppi e colonne, durante il rastrellamento notturno avevano colto di sorpresa un distaccamento di ribel­li oltre il monte Gottero nel versante tosco-ligure uccidendo diversi parti­giani. . Favoriti dall’oscurità avevano circondato la zona, bruciando tutti i casci­nali dove in estate i contadini usavano riparare il bestiame. Poi, giunti nella località « Zaloni » sfogarono tutta la loro rabbia contro quella povera gente. Erano a conoscenza che in una casa non abitata si era stabilito il comando della 2ª Brigata «Beretta ».

La casa fu distrutta con diverse bombe, le abitazioni saccheggiate e, ciò che non fu possibile essere portato via, fu distrutto, bruciato, tanto che a mezzogiorno gli abitanti non avevano alcuna cosa da mangiare. Ma la ferita non era ancora chiusa, poiché giunse la notizia terrificante della cattura del giovane Sabini Primo, su cui si riversò tutta la bestiale fe­rocia nazifascista, facendolo morire tra atroci spasmi trascinandolo, per terra, per vari chilometri dal Bivio di Campo fino alla Cantoniera di Tarsogno. L’ul­timo colpo di pistola lo lasciò cadavere nel fosso della strada. Montegroppo diede in quel figlio il suo primo contributo di sangue che fuse nel cuore dei suoi fratelli la sete di Resistenza e di Libertà. Le bande dei Ribelli si moltiplicarono; giovani della città e della pianura lasciarono le proprie famiglie per cercare rifugio sui nostri monti che risuo­navano di canti alla Patria, anelanti alla Libertà dal giogo nazifascista. Si for­marono gruppi, distaccamenti, che diventavano Brigate, Divisioni regolari con l’aiuto degli alleati inglesi.

Tutta la Val di Taro cominciò a fermentare; i nomi dei più importanti scontri passarono di bocca in bocca: Anzola, Ponte Strambo, Manubiola… Le perdite erano gravi da ambo le parti ma, il più importante era che « Le forze della Resistenza erano una realtà». La Val Gotra con le sue Brigate diventò un epicentro della lotta: Mon­tegroppo, Folta, Tombeto, Cacciarasca, Boschetto, Albareto, diventarono un tutt’uno in piena collaborazione. Gli scontri si susseguirono, i rastrellamenti si alternarono con il recipro­co inseguirsi di zona in zona, cosicché arrivammo al mese di luglio, in cui avvennero i fatti più interessanti della lotta partigiana.

Borgo Val di Taro, liberata in un primo tempo dalla Divisione «Julia », fu occupata il 15 luglio dalle forze nazifasciste che fecero prigionieri Mons. Arciprete, i Curati ed altre 50 persone, tenendoli come ostaggi nell’albergo « Roma». Ad Albareto, presso il cimitero avvenne un grosso scontro tra i tedeschi ed i partigiani della lª Brigata «Beretta », comandata dal capodivisione Guglielmo Beretta. La lotta fu dura e le perdite reciproche non poche. Nel frattempo i prigionieri tedeschi dal campo base del comando partigiano del castello di Albareto furono trasferiti nella scuola di Montegroppo.

La popolazione, pensando ai loro figli sperduti nella lontana Russia, su mio invito, li trattò molto bene, portando loro da mangiare quanto pote­vano data la situazione economica in cui vivevamo. La loro permanenza durò pochi giorni poiché, un ordine del comando partigiano li fece traslocare attraverso un bosco verso il Monte Gottero. Vivemmo in quei giorni momenti di trepidazione: le voci più confuse e contrastanti giungevano a noi. La gente intimorita veniva in canonica per rassicurarsi sulla situazione dei prigionieri perché era corsa la voce che la Banda di Faccio, li aveva presi per rappresaglia delle perdite subite nel rastrellamento di Pasqua e li aveva fucilati.

Non sapevamo a che Santo rivolgerci, poiché i tedeschi non scherzava­no: «Ad ogni loro prigioniero ucciso, l0 civili venivano passati per le armi ». Il giorno 17 luglio verso le l0 una lunga colonna di tedeschi avanzò ver­so l’osteria dei Bini, preceduta da una bandiera bianca, accompagnata dalla Crocerossina prof.ssa A. Gotelli, dall’Arciprete di Albareto e da un giovane mutilato, certo Bosi Mario. Ci fu un incontro con i capi partigiani e poiché i prigionieri tedeschi non potevano arrivare per l’ora stabilita, tutto venne rimandato per il giorno se­guente.

I nostri cuori fremevano e, mentre la colonna riprendeva la via del ritorno, chiamai i due comandanti del distaccamento invitandoli a partire im­mediatamente per rintracciare i prigionieri. Li lasciai con una forte stretta di mano. Passai la notte in preghiera. La mattina celebrai la S. Messa con un fer­vore particolare poi, chiusa la Chiesa, mi ritirai in una località da cui potevo osservare ogni movimento.

I minuti sembravano ore, erano già le l0 e nessuna novità rassicurante ci era ancora pervenuta. Col binocolo guardai la strada che sale dal Boschetto e vidi la colonna tedesca che si allungava avvicinandosi. Volsi lo sguardo verso il monte e vidi dal profondo canale salire un par­tigiano: era la staffetta che annunciava l’arrivo dei prigionieri. Il cuore si allargò alla speranza più sicura che tutto procedesse per il meglio. Dal sicu­ro nascondiglio mi portai alla Chiesa, da cui scesi al luogo dell’incontro, ove dovevano svolgersi le trattative dello scambio dei prigionieri.

Era il 18 luglio 1944! La sala della trattoria Delucci-Sabini era gremita: nel mezzo di un ampio tavolo in cui a sinistra stava il comandante tedesco cap. Kantian con i suoi ufficiali mentre, alla destra il capo divisione Guglielmo Beretta con i coman­danti dei vari distaccamenti. Si trattò dello scambio e dei patti stabiliti per i reciproci prigionieri: 65 prigionieri tedeschi e 15 prigionieri patrioti.

Toccò a me l’onore di scrivere in duplice copia in Italiano la Dichiarazio­ne dello scambio e dei patti concordati e da un ufficiale tedesco la versione in lingua germanica. Tutto si chiuse sotto i migliori auspici; i tedeschi ci lasciarono al canto di Lily Marlen; i partigiani brindarono alla loro prima vittoria mentre la po­polazione ritornò a casa con la speranza di vivere un po’ di pace. La nostra pace e serenità fu però presto turbata dagli atroci fatti di Strela – Cereseto – Sidolo (*). I rastrellamenti si susseguirono con il reciproco riconoscersi tra le oppo­ste formazioni.

La Chiesa era il punto di riferimento e di movimento della popolazione. Quando vedevano chiudersi l’accesso della chiesa e della canonica, pure essi chiudevano la porta, aprivano le stalle e con il bestiame si inoltravano nei boschi e sotto improvvise baracche di frasche passavano le notti, beven­do latte di mucca e mangiando quel poco di rifornimento che ognuno portava. Durante il periodo della Resistenza Montegroppo subì 1l rastrellamenti con 4 combattimenti. Dopo il patto dello scambio dei prigionieri il comandante della 2ª Brigata « Beretta », passò con pochi fidi il fronte e costituì la Divisione « Val Taro » con il nuovo comandante « Ricchetto » ex vice brigadiere dei Carabinieri, che sarà l’anima della lotta partigiana, intorno a cui si uni tutta la gioventù del­la Val Gotra. In ogni azione Ricchetto sarà presente e contro a lui s’infran­geranno gli assalti nemici.

Degna di nota la battaglia dell’Alpicella del 5 agosto 1944. Il Battaglione « S. Marco = Mai morti» alle dipendenze di Valerio Bor­ghese, partito da Varese Ligure, si diresse su Montegroppo. Le staffette par­tigiane fuggirono alla prima notizia; domandai di Ricchetto, mi risposero che era agli Squarzi, insistei affinché venisse subito con i suoi uomini. Poco dopo passò sul sagrato col suo passo veloce, seguito da pochi pa­trioti: la giornata era coperta e con il «in bocca al lupo» ci salutò. Giunto sul monte con buon fiuto chiamò alcuni contadini del luogo, disponendoli qua e là tra gli anfratti rocciosi, piazzando con tiro incrociato le sue mitraglie in attesa della «lepre ».

Noi, intanto, con la popolazione dei gruppi vicini alla Chiesa, ci portam­mo sull’altra sponda, agli Zaloni, aspettando l’esito. I minuti sembravano ore: finalmente qualche sparo, poi silenzio… quin­di le mitragliatrici ripresero il lavoro ma, la nebbia sempre più fitta ostaco­lò ogni visione di movimento.

Finalmente le staffette portarono la notizia che tutto era andato bene: il Battaglione si era ritirato e Montegroppo era salvo! Agli Squarzi trovammo Ricchetto che sembrò tutto soddisfatto del suo primo bagno di fuoco.

 (*) Fatti che Don Antonio Bracchi ha particolarmente ricordato in un opuscolo de­dicato alla memoria dello zio «Padre Umberto Bracchi », missionario vincenziano barba­ramente fucilato dai nazisti a Strela di Compiano il 19 luglio 1944.

Ferragosto.

Mentre tutto invitava al riposo ed al divertimento, le armi continuava­no il loro tambureggiamento. Le mitraglie dal lontano Cento Croci canta­vano la loro micidiale canzone. Dall’ Austria era rientra la Divisione degli Alpini «Monte Rosa» in aiu­to alle forze nazifasciste. In Parrocchia si celebrava nella festa di S. Rocco la cerimonia della lª Comunione dei bambini. Il Sacro Rito riempiva di gioia i nostri cuori e con­tenti si tornava alla propria famiglia per assaporare il pranzo preparato dal­le mamme quando, improvvisamente, giunse la notizia che una nutrita colonna di Alpini da Cento Croci stava marciando su Montegroppo (Covo dei ri­belli). I patrioti si ritirarono nelle più sicure postazioni, pronti ad ogni even­to. Con la famiglia, lasciata la tavola imbandita, trovai rifugio presso il Par­roco di Boschetto con la speranza che tutto passasse senza danno.

Rimanemmo fuori casa due giorni e, quindi, passata la tempesta, tornam­mo in canonica. Con amarezza trovammo che avevano fatto man bassa di un po’ di tutto, la porta era sfondata, la cantina pulita e cosi pure scomparse le poche provviste di casa. Grazie al Buon Dio avevano almeno avuto rispetto della sua casa. I giorni passavano mentre la lotta tra le due parti continuava. Quella che doveva essere una guerra lampo si era manifestata una vera e propria guerra.

La cruda stagione invernale non agevolava le postazioni partigiane che, cercavano in tane scavate nei luoghi più nascosti e riparati. Fu una vera gioia vedere come la popolazione diede la sua cooperazione, il proprio aiuto morale e materiale sotto ogni aspetto. Una particolare riconoscenza va alle ragazze che, camuffate con lenzuola bianche, portavano da mangiare ai partigiani, incuranti di non lievi disagi per sentieri impervi, ostacolate dall’alta neve gelata su cui dovevano arrampicar­si. L’affetto per i loro cari, il desiderio della pace e della libertà facevano dimenticare ogni asprezza; ogni difficoltà e paura. Alla sera ci si raccoglieva in una cantina, al sicuro, per raccontarci le no­vità degli eventi accaduti, mentre saliva al cielo la nostra preghiera ed il can­to del partigiano «Oh! Bella ciao ».

10 dicembre 1944.

L’inverno era giunto in anticipo, tutta la vallata era ammantata di neve. I tedeschi, consci ormai che la loro fine non era lontana, gettavano nella lot­ta le loro ultime tremende cartucce. Ad Albareto, non trovando ribelli, presero come ostaggi vari civili e fa­cendosi scudo di essi si avvicinarono alla nostra Montegroppo. I patrioti stabilirono le loro postazioni di difesa e di offesa dietro il pic­colo promontorio, vicino alla Cappelletta, pronti a ricevere i tedeschi, che bene equipaggiati e armati anche di mortai salivano verso le case di Rivarola preceduti da tre ostaggi che la popolazione ben conosceva:

Sig. Bosi Attilio di Albareto, sig. Signorastri Angiolino di Boschetto e Sig.ra Sabini Irene di Rivarola di Montegroppo. I tedeschi, giunti a metà salita si fermarono per sistemare le loro posta­zioni. Dopo un ansioso silenzio i partigiani spararono i primi colpi di assaggio: nessuno rispose. La tattica tedesca fu terribile. La situazione degli ostaggi precaria; erano tra due fuochi. All’improvviso le mitraglie cominciarono a crepitare e a cantare sui due fronti. Gli ostaggi tentarono il tutto per tutto buttandosi in un profondo ca­nalone in mezzo alla neve. Le pallottole sibilarono sulle loro teste ma, la pel­le era salva.

Sui due fronti la lotta continuò cruenta. La perizia bellica in breve tem­po fece tacere il fronte partigiano, che lasciò sul terreno parecchi morti, co­stringendoli in luoghi più sicuri. Anche i tedeschi ripresero la strada del ritorno verso Albareto. A noi ed alla buona gente non rimase altro che dare una temporanea se­poltura a quei generosi caduti nel piccolo cimitero, mentre nella nostra Chie­sa si innalzava per essi la preghiera della carità e del suffragio cristiano.

Un personaggio enigmatico.

Noi la ricordiamo come la «Marchesa della Stufa di Firenze », ma sape­re chi fosse realmente sarebbe come dire alla Don Abbondio « Carneade, chi era costei? », tuttavia pei i connotati che essa dava ai suoi interlocutori, tra i quali i miei familiari, dal modo di comportarsi e di agire, di camuffarsi, era un personaggio compromettente, senza alcuno scrupolo. Di tutto questo resi consapevole il comando partigiano, affinché mettes­se a conoscenza il comando Inglese alleato del nostro sospetto « Quel perso­naggio è una spia tedesca, quindi all’erta ». Alla mia rivelazione non si nascose una certa sorpresa da parte loro, ma insistetti sul mio sospetto, di cui i fatti ne palesarono poi la cruda realtà nel­la trappola del famoso gennaio 1945.  Dopo il doloroso attacco della Cappelletta il periodo pre e post natali­zio trascorse abbastanza tranquillo ma, il mio peregrinare non cessò infatti, l’ultimo ma più tremendo attacco a sorpresa mi trovò a Tombeto di Albareto in casa della anziana maestra sig.ra Borella.

Ecco come si svolsero i fatti:

« Era il 20 gennaio 1944 i partigiani, tranquilli, divisi in due gruppi so­starono presso le trattorie dei Bini e degli Squarzi. Una pattuglia vigilava all’imposta dove erano situati i magazzini di legna e carbone della ditta Tosi Roberto. Era una giornata cupa, nebbiosa: la pattuglia armi spianate percorreva la strada su e giù, pronta a dare l’allarme ad ogni possibile eventualità. All’im­provviso nella nebbia un’ombra nera avanzò: la pattuglia intimò l’alt. L’ombra nera si fermò, si fece riconoscere ed informò i ribelli che i tede­schi erano sparsi in vari battaglioni a Tombeto, Cacciarasca ed Albareto.

Indi con passo lesto si avviò verso gli Squarzi incurante per la neve del faticoso cammino. La pattuglia partigiana, armi in spalla, proseguì, sicura che nella zona non vi fossero nemici quando, dopo una stretta curva, una colonna tedesca sbucò all’improvviso e li catturò senza colpo ferire. Silenziosamente proseguì verso il paese, dividendosi poi in due gruppi: uno verso gli Squarzi l’altro verso i Bini.

La poca gente fuori di casa, accortasi del pericolo, diede subito l’allarme: « I tedeschi, i tedeschi ». A quelle grida i partigiani, usciti dalla trattoria dei Bini, cercarono scampo qua e là nella fitta nebbia gettandosi all’impazzata lungo il greto del torrente Gotra ignari dell’inesorabile sorte che li attendeva. I tedeschi, appostati in alto alla strada, li falciavano con le mitragliatrici. Numerosi i caduti soprattutto spezzini che, abbandonata la città, si erano inseriti nelle forze partigiane.

Quando li raccogliemmo per dare loro onorata sepoltura notammo che erano stati quasi tutti colpiti in fronte. Nel frattempo la prima semicolonna, composta anche da mongoli, arrivò silenziosa agli Squarzi dove di sorpresa, nella trattoria, arrestò tutto il co­mando della Brigata «Val Taro» con il comandante Ricchetto. Un gruppo si spinse sino agli Zaloni ove fecero radunare tutte le perso­ne in una casa nuova. Poco dopo un tremendo boato fece sussultare tutto il fabbricato: i tedeschi avevano fatto esplodere il deposito delle armi e del­le munizioni dei partigiani.

L’esplosione fu cosi potente che lo spostamento d’aria infranse perfino i vetri della finestra centrale della Chiesa. L’azione positiva dei tedeschi terminò. La colonna ricomposta lasciò Montegroppo mentre il cuore di tutti veniva invaso da una profonda tri­stezza e presagio della sorte che li attendeva ma, il buon Dio vigilava su quei valorosi, ed un giorno giunse giuliva la notizia che Ricchetto con i suoi compagni era riuscito ad evadere nella discesa tra la Vernasca e Luga­gnano d’Arda nel Piacentino. Un pomeriggio ero sul sagrato quando vidi salire svelto Ricchetto assie­me ad altri patrioti verso la chiesa: non ci sono parole che sappiano espri­mere la gioia che inondò il mio cuore nel vederlo.   

L’incontro fu cordiale e fraterno: un grosso abbraccio ci avvinse e grosse lacrime rigarono i nostri volti. Ricordai a lui se era ormai persuaso che il mio sospetto fosse una cer­tezza. Mi rispose: «Don Antonio, aveva ragione, ma ormai giustizia è fatta! » Ringraziammo insieme il Signore e, con una forte stretta di mano, ci lasciammo. In appendice a questi cari, ma dolorosi ricordi il Sacerdote Don Antonio Bracchi evidenzia:

«Mi sentirei in debito verso il Buon Dio per la sua paterna assistenza e protezione in questa lunga prova, se non ricordassi che il Nostro Grazie lo dicemmo con una pubblica, grandiosa cerimonia religiosa portando la venerata Icona della Parrocchia di Montegroppo: Sant’Anna, madre di Maria SS.ma. Una cerimonia commovente, devota, cui parteciparono circa 2.000 per­sone di tutta la Valle del Gotra. La processione parti dalla chiesa parrocchiale e si portò alla Cappelletta, sul monte, ove celebrai la S. Messa. Era la preghiera di Cristo, che si univa alla nostra a confronto dei vivi e per la pace dei caduti.

Celebrai tale funzione con il fervore di una Prima Messa poiché, dopo poche settimane, avrei lasciato per un altro ministero quella buona gente, a cui avevo dato con generosità le primizie del mio sacerdozio, ricambiato dai parrocchiani per l’affetto dimostratomi e dai Superiori con la nomina a primo Arciprete di Montegroppo il l0 agosto 1941.  

 Antonio Bracchi, Sacerdote

PARROCCHIA DI BORGOTARO

BOIARDI S. E. MONS. CARLO (1899 – 1970)

Nato a Chiavenna Rocchetta di Lugagnano, fu alunno del Seminario e del Collegio Alberoni. Insegnante nel Seminario di Bedonia e poi in quello di Piacenza, nel 1936 fu nominato Vicario Parroco della Cattedrale. Nel 1944 fu pro­mosso Arciprete e Vicario Foraneo di Borgotaro. Il suo diario è fedele testimo­nianza del grande lavoro da lui svolto durante il periodo cruciale della guerra nella grossa borgata Valtarese. Nel novembre 1945 veniva eletto Vescovo di Mas­sa Carrara, ma il suo breve passaggio rimase imperituro nella memoria dei Bor­gotaresi, a lui sempre grati per la grande dedizione dimostrata in quei tempi ca­lamitosi.

1944 aprile 30 – 1945 gennaio 9

 Diario di Don Boiardi.

 Oggi, 30 aprile 1944, ho fatto ingresso in Parrocchia, venendo da Bedonia – Seminario – dove mi ero recato venerdì scorso, 28 corro a chiedere alla Madonna della Consolazione che vide gli inizi del mio ministero sacerdotale, appena uscito dal collegio Alberoni, una bene­dizione del mio apostolato in questa importantissima parrocchia. Desideravo con tutto l’animo questo giorno. Da quando compresi che era volontà di Dio che abbandonassi la Parrocchia della Cattedra­le, dove insieme con tante spine avevo trovato tante consolazioni, e assistenziato della G. F. di A. C. dove avevo trovato una si bella e gran­de e sempre promettente famiglia, il mio cuore era ormai a Borgo­taro.

Il distacco materiale dalla Parrocchia della Cattedrale avvenne do­menica scorsa: 23 anni; non avrei mai immaginato che la popolazione del Duomo mi aveva voluto tanto bene: ciò mi rivelò ancora una vol­ta l’animo buono di quella gente, che mi aveva seguito in tutte le ini­ziative parrocchiali, con sacrificio e docilità. Il distacco dalla G. F. av­venne la domenica in Albis, festa della Madonna del Popolo. Il con­vegno consueto si trasformò in una specie di accademia per me. Ciò mi dispiacque, perché mi sembrò che si fosse tolto qualcosa alla Ma­donna, in onore e omaggio della quale ogni anno ci si radunava; e non mancai di mettere in rilievo la mia protesta. L’incontro con la popolazione di Borgotaro non poteva essere più festoso e più cordiale, sebbene, per la circostanza di tempo, e per mio esplicito desiderio, contenuto in forma esteriore più modesta.

In Seminario di Bedonia sono venuti a prendermi Mons. Vicario Generale, Italo Sgorbati, il Podestà Sig. Zibioli Rag. Umberto, il Si­gnor Alberto Tosi parrocchiano di Borgotaro e Podestà di Compiano, e il Sig. Cresci. All’ingresso della cittadina sono stato incontrato e ossequiato da un cospicuo gruppo di autorità e di personalità, il Segretario politico, il Tenente Comandante il Presidio, il Segretario Comunale e funzio­nari, i Conti Albertoni Piccinardi, il Comm. A. Calandra, il Preside dell’Istituto, Sac. Prof. Giacomo Sangiorgi, ecc. Nel piazzale della scuola, davanti al monumento, si rese omaggio ai caduti e si recitò il «De Profundis ». Poi, per Via Principale, ci si avviò alla Chiesa. Qui avvenne l’incontro con la popolazione, guidata dall’economo spirituale, Don Bernardino Copelli che ha retto la Par­rocchia durante la vacanza; molti altri sacerdoti erano presenti, dei quali alcuni, Borgotaresi, venuti di lontano; era pure presente tutta la A. C. e una folla di fedeli.       .

Segui la cerimonia della presa di possesso, compiuta da Mons. Vi­cario Generale e fungendo da testimoni il Sig. Podestà, il Segretario Politico, il Conte Albertoni e il Com. Calandra. Mons. Vicario Generale mi presentò al popolo con parole troppo buone e troppo benevole. Rispondendo, io lo ringraziai di cuore, poi, rivolgendomi al popolo, ringraziai pure questo dell’accoglienza, le au­torità per la loro presenza, e assicurai che consideravo come dono di Dio questa Parrocchia che mi veniva affidata, che già conoscevo e sti­mavo anche prima, ma che avrei curato come Padre e Pastore. Resi il dovuto omaggio a Mons. Squeri.

Terminata la S. Messa in canto, era già mezzogiorno passato. Mi si dice che siamo in allarme e che, mentre io parlavo al popolo e poi durante la funzione, diverse centinaia di apparecchi hanno sorvolato in formazioni la zona e la città. Non dò molta importanza alla noti­zia: vengo dalla città dove si era continuamente in allarme… tutta­via mi confermo nell’idea che anche qui non si è tranquilli, e che la guerra si fa sentire e forse si farà sentire ancora di più in seguito, se gli avvenimenti dovessero assumere il corso che si prevede. Nel pomeriggio hanno luogo due funzioni: l’una in chiesa, dove si canta il Te Deum; l’altra all’asilo dove l’A. C. rende omaggio al suo nuovo parroco. Ogni ramo di A. C. si presenta per mezzo del suo Presidente o di un suo rappresentante. Don Nardino Copelli fa una rassegna dello stato attuale dell’A. C. mettendone in rilievo la efficien­za e le manchevolezze. Il Cav. Francesco Marchini, poi, a nome di tut­ta l’A. C. esprime sentimenti di devozione e promette amore, discipli­na e collaborazione; infine, mi presenta una offerta per una S. Messa offerta veramente cospicua perché sorpassa le 27 mila lire. .

Tutto ciò mi commuove profondamente e cerco di esprimere i miei sentimenti di ringraziamento all’operoso Economo Spirituale Don Bernardino Copelli, al suo coadiutore Don Mario Sacchi, al Presidente Uo­mini Cav. Marchini e a tutti i dirigenti e soci e a mia volta prometto amore, perseveranza e servizio. Mons. Vicario Generale chiude con ap­propriate parole, ricordando che S. E. Mons. Vescovo è spiritualmente presente. Non manca la nota allegra: una bella poesia in vernacolo Borghigiano di Don Armani. 1 maggio. – Sono molto contento che il mio ministero parrocchiale si inauguri con l’inizio del mese di maggio, quindi sotto la particolare protezione della Madonna, che ho particolarmente invocato fin da quan­do ho fatto l’esame di concorso, come ho invocato ieri S. Caterina da Siena. Mi accorgo subito che la pietà mariana è sentita. Le S. Messe so­no molto frequentate e la chiesa è affollata, anche la sera. Capisco che è necessario regolare l’orario delle Ss. Messe, in modo che si possano accontentare anche coloro che non possono venire presto.

maggio; Martedì. – Stamattina vado a celebrare nella Cappella del Cimitero in suffragio del povero Arciprete Mons. Giovanni Sque­ri. É presente una cospicua folla di fedeli a cui rivolgo parole di fede, e rievoco la figura del defunto Arciprete. Sono presenti anche la Sig. na Rita Cervini e la Sig. na Carolina Ricchini, Presidente diocesana della G. F., che prima di partire sono ritornate a salutarmi, dopo che erano state domenica a rappresentare la G. F. al mio ingresso. Vengono a visitarmi le Rev. de suore Gianelline e alcune suore Dorotee. Con le Rev. de suore dell’asilo e dell’ospedale mi sono già incontrato ieri. Con le Suore Gianelline si parla della loro situazione e ci si met­te d’accordo: continueranno il dopo scuola; mentre le suore dell’asi­lo continueranno la direzione dell’asilo di S. Rocco e custodiranno i bambini nella Chiesa di S. Rocco.

maggio; Mercoledì – Vado con il curato Don Copelli a visitare S. Domenica; osservo i bei lavori di restauro e quanto rimane da fa­re, specialmente per la Sagrestia e per custodia degli oggetti di Chiesa. Ricevo le prime notizie dei bombardamenti di Fidenza e di Piacenza. Sono ancora notizie confuse; ma già capisco che si tratta di cose gravi. Mi si dice che la zona più colpita è quella attorno al Duomo: la mia Parrocchia, lasciata da pochi giorni! Sono in ansia per conoscere i nomi delle vittime. Comincio a comprendere che la situazione locale è molto comples­sa e difficile a causa delle ostilità sempre crescenti tra fascisti e parti­giani.

Vado a ossequiare il Sig. Podestà in Comune; apprezzo la gentilez­za, la spigliatezza della conversazione; lo ringrazio dei lavori fatti ese­guire in canonica: mi sorprende la insistenza con cui accenna alla co­struzione del Teatro – Cinema da lui promessa e favorita, come a una opera di primaria importanza per il paese. Mi sembra una grave sto­natura il non aver capito che in tempi gravissimi di guerra, in cui sa­rebbe necessario il raccoglimento, la cittadinanza non gli è favorevole, come pure non è favorevole e certuni dei gerarchi in carica, cui si rim­proverano abusi, e soprusi, partigianerie, ecc. Le simpatie del popolo sono come il vento: ora spirano da una parte ora dall’altra: è sempre stato così, ma, alle volte preparano e provocano tremende bufere!

maggio; Giovedì. – Vado con il curato M. Copelli a visitare S. Rocco, dove pure osservo la importanza dei restauri, l’altare maggiore, che mi piace più di quello di S. Domenico (questo non mi sembra in ar­monia con la chiesa); vedo che occorrerebbero molti lavori di sistema­zione specialmente ai fabbricati annessi. Ovunque, anche in S. Rocco, trovo tracce dei lavori compiuti dal povero Arciprete Mons. Squeri, che ne testimoniano la pietà e lo zelo per il decoro della casa di Dio. Mi convinco sempre più di una cosa: a Borgotaro è ora necessario lavorare, più che nella Chiesa, attorno ad essa; poiché mentre possiede tre chiese, tutte in ordine, manca completamente di opere parrocchiali per le attività del ministero parrocchiale. Due cose urgono: la organiz­zazione del Catechismo e l’assistenza alla gioventù, specialmente a quel­la maschile. Ho sentito dire di progetti di creazione di una parrocchia a S. Rocco: a me sembra che sia più urgente costruire le Scuole di catechismo e l’oratorio: due cose che potrebbero anche riunirsi in una. Forza! Se N. Signore mi concedesse questa grazia!

Nel pomeriggio faccio la prima adunanza della consulta Parrocchia­le, in canonica. Sono presenti tutti i presidenti dei quattro rami, più qualche altra persona. Ho voluto adunare la consulta proprio in questi primissimi giorni, non tanto per prendere accordi sul lavoro da svolgere dalle orga­nizzazioni di A. c., quanto piuttosto e soprattutto per dare la con­vinzione che vorrei che l’A. C. in Parrocchia funzionasse in pieno e desse, così, quel rendimento che in una parrocchia come questa si ha il diritto di attendere. Mi propongo, quindi, di riunire periodicamen­te – si stabiliranno le date – non solo la consulta, ma anche i singoli consigli di Presidenza.

Anche per l’A. C. parrocchiale, mi accorgo che manca di respiro: c’è un buono, o almeno discreto, organismo, ma a questo organismo occorre dare possibilità di svilupparsi e di esprimersi, con l’aprirgli campi di apostolato e non limitato solo a qualche adunanza; con dar­gli ambienti necessari, poiché ora mancano le sedi, e quelle che fanno da sede sono ambienti respingenti anziché accoglienti. Quanto lavo­ro da farsi! Nell’adunanza, ringrazio prima di tutto dell’accoglienza che mi è stata fatta, della generosa offerta con cui si è voluto venire incontro alle mie necessità; poi propongo che si discuta insieme alcune inizia­tive, specialmente riguardanti l’organizzazione di una Crociata Maria­na di preghiera per la Pace in omaggio all’appello del S. Padre, e poi una giornata per i malati, e l’organizzazione dell’A. C. in Parrocchia. Si prendono accordi di massima e si rimanda alla prossima adunanza, e cioè al 9 del mese, la determinazione dei dettagli con i singoli Pre­sidenti, dopo la esposizione delle situazioni di ogni Associazione, si prendono accordi per l’adunanza dei Consigli di Presidenza.

maggio, Venerdì. – Funzione del lª venerdì del mese, bisognerà renderla più solenne. Penso che quando si potrà sarà bene fare l’Ora Santa del giovedì. Mi giungono notizie più dettagliate del bombardamento di Piacenza. Purtroppo, la mia cara Parrocchia del Duomo è tutta in lutto. Non avrei mai pensato che nella eventualità di una sciagura proprio alla mia parrocchia fosse riservata la primizia dei lutti e delle rovine. Quante persone sono scomparse, che conoscevo bene, che mi furono di un valido appoggio nella organizzazione delle opere, dell’attività parrocchiale di A. C., di catechismo, di canto! Scrivo alle famiglie del­le vittime; celebrerò appena possibile la S. Messa di suffragio.

maggio; Sabato. – Primo Sabato del mese. Trovo già esistente la pia pratica e la devozione al Cuore Immacolato di Maria, ne sono con­tento. Ma occorrerà darle maggiore sviluppo. I continui, prolungati allarmi con frequenti passaggi di grosse for­mazioni di apparecchi inglesi cominciano a preoccupare. La gente, al se­gnale d’allarme si allontana dalle case e va in campagna; qualche fami­glia non manda più i bambini a scuola. Vado a visitare le suore Gianelline, a palazzo Ostacchini, a S. Rocco. Praticano davvero la povertà! C’è ancora qualche strascico circa la vertenza con l’asilo.

La sera vado all’ospedale, ove sono già stato fin da mercoledì. Mi dà l’impressione di un ospedale primitivo; sebbene non mi intenda di organizzazione e amministrazione ospedaliera, mi pare che manchi non del superfluo, ma anche del necessario, sia quanto ai locali, sia quanto a ordine e pulizia, sia quanto a personale. Le suore sono encomiabili, suppliscono e provvedono a tutto con il loro tatto e con la loro gene­rosità, ma si vede che c’è qualche altra cosa che non funziona. È l’Ospedale, per il quale è ancora in sospeso la pratica di acqui­sto da parte dell’opera Parrocchiale. Sarà un buon acquisto, ma non po­trà in nessun modo provvedere ai bisogni vasti di una Parrocchia che è una città. Ci vuol altro!

maggio; Domenica. – Appena in Sagrestia, sono avvertito che nel­la notte c’è stato uno scontro tra militi e partigiani presso Ostia, che vi sono due morti, un milite e un partigiano, e che questi è stato tra­sportato al Cimitero mentre quello è stato onorato in una camera arden­te nella Sede del Fascio. Tra la popolazione c’è fermento. Si dice che mentre per il milite si vogliono preparare funerali molto solenni, per il partigiano, invece, si vuol proibire ogni rito cristiano e lo si vuole seppellito «come un cane ». Sul mezzogiorno vengono da me alcune persone, signorine, allarmate, a protestare e «decise a tutto ». Nel po­meriggio, andando dalle Suore Dorotee, passo davanti alla Sede del Fascio: (io ignoravo ancora dove questo si trovasse!) e subito si spar­ge la voce che l’Arciprete è andato a benedire la salma del milite e non ha pensato a quella del partigiano! Così che sono costretto a chia­mare alcune donne, alle quali, spiegata la cosa, dò ordine che chia­riscano le idee in testa a chi le ha e le vuole ostinatamente avere oscu­re, confuse o peggio! Intanto io ho preso gli accordi necessari con le Autorità e si è appianata ogni cosa: la salma del milite il giorno do­po sarà benedetta e partirà per Parma; per quella del partigiano si faranno le esequie nella Cappella del Cimitero.

Questo episodio che mi colpiva proprio la prima domenica e mi metteva di fronte a un caso a cui non ero preparato, mi rivelava pa­recchie cose: prima di tutto il carattere di questa popolazione: carat­tere caldo, impulsivo; un po’ pettegolo e chiassoso, capace di abban­donarsi a te completamente e capace anche di rivoltarsi, che, perciò, ti può essere di grandissimo aiuto, come anche ti può causare dei guai molto gravi (es. ho la questione dell’asilo e delle Giuseppine!); poi mi rivelava la gravità della situazione, che io, venuto dalla città, non potevo sempre immaginare.

Situazione di una complessità e di una delicatezza notevole. Il fu­turo è costituito dall’antagonismo fra i sostenitori del fascismo (mili­ti, squadristi, gerarchi, ecc.) e i partigiani che da questi stessi sono chiamati e considerati ribelli e da altri sono chiamati e considerati pa­trioti. La posizione strategica è la seguente: gli uni intendono di re­staurare per primo il fascismo con i suoi metodi la sua dottrina, le sue organizzazioni e i suoi uomini e appoggiano i tedeschi e auspicano una vittoria della Germania alla quale, perciò, occorre dare ogni collabo­razione, e vedono nei partigiani nemici più pericolosi di quelli che han­no invaso la Nazione. Gli altri, invece, intendono di ostacolare questa restaurazione del fascismo e auspicano un regime di libertà con uomi­ni e metodi nuovi, e pensano. che ciò non può essere ottenuto se non con la vittoria degli inglesi, ai quali, quindi, danno la loro colla­borazione e dai quali sono abbondantemente riforniti con i lanci not­turni a scadenze quasi fisse; e considerano i fascisti come nemici più pericolosi ancora dei tedeschi: decisi a rispettare questi, sono altrettan­to decisi a far fuori quelli.

Da questo contrasto ideologico viene un contrasto di azioni. Da quanto mi si riferisce, azioni poco corrette vengono fatte da ambo le parti: aggressioni, rapine a mano armata, minacce, liste di proscrizio­ne, ecc. specialmente da parte dei partigiani. Soprattutto da qualche tempo, costoro danno segno di irrequietezza di movimenti, di attività sabotatrice, ecc. Si ha l’impressione che vogliano forzare i tempi e la situazione, e con le minacce e con i fatti sgombrare con le buone o con le cattive la zona dalla forza e delle Autorità fasciste. Mi si dice di casi dolorosi di uccisioni, aggressioni, ecc. Si vanno moltiplicando di nu­mero, altri elementi entrano a complicare la situazione. Innanzi tutto, l’eco. che questi contrasti determineranno nella popolazione. Questo è enorme e non si può fare nulla. Una buona parte dei partigiani della zona ha la famiglia qui; donde, motivi di simpatia per ragioni di paren­tela o di amicizia: la popolazione, divisa fra gli uni e gli altri, assume atteggiamenti contrastanti, che auspica eventi pure contrastanti, ecc. Inoltre, molti di qui hanno fatto la loro fortuna in Inghilterra o in Ame­rica: quasi ogni famiglia ha un suo membro che conosce la lingua inglese e ha ancora beni in America e in Inghilterra: anche questo ha la sua importanza nel giudicare il fenomeno ribellistico di qui. Inol­tre, il servizio di spionaggio, forse un po’ primitivo, ma intenso, tie­ne la gente in allarme: si temono rappresaglie e perciò si prendono at­teggiamenti insicuri. Mi convinco che occorre una grande prudenza in noi Parroci, poiché per noi, tutti devono essere uguali sul piano della religione; noi dobbiamo astenerci da ogni forma, anche larvata, di po­litica. Eppure capisco che ci saranno momenti in cui non bisognerà stare alla finestra a guardare, ma occorrerà, per dovere di carità, ac­correre dove il bene degli uni e degli altri o il bene di tutti lo richie­derà: ma bisognerà farlo in modo che il nostro disinteresse, il nostro sentimento paterno si mostri in luce piena.

Capisco tutto questo: ma mi chiedo se sarò capace di farlo, e chiedo allo Spirito Santo che mi illumini e mi fortifichi e mi dia una gran­de, bella, schietta paternità. Si vive anche in questo angolo della Diocesi un aspetto dell’im­mensa tragedia che dilania e dilapida la Patria. Povera nostra Patria! Oggi tanta gente in Chiesa. La Messa dei bambini alle 11 in San Domenico – non sono contento – c’è tutto da cambiare. Nel pomeriggio: prima adunanza al gruppo di Fucine, in forma­zione, presso il Collegio delle Dorotee. Adunanza del gruppo di don­ne di A. c.: buon gruppo. Adunanza all’Asilo dell’Associazione G. F.: mi pare che ci sia del buono. Il catechismo dei bambini: c’è tutto da fare. La sera vado a S. Rocco e annunzio che da domani ogni mattina ci sarà la S. Messa per tutto il mese in S. Rocco: mi pare che ciò piaccia.

maggio, lunedì. – Si chiude la pia pratica dei 15 sabati in ono­re della Madonna di Pompei. A mezzogiorno la Supplica: la Chiesa non riesce a contenere tutta la folla che si riversa su sagrato. È dav­vero uno spettacolo che edifica e impressiona.

maggio, martedì. – Oggi ho riunito di nuovo la Consulta Par­rocchiale in Canonica. Si riparla della Crociata mariana di preghiere. Si decide di convocare in ogni festa e domenica di maggio fino alla prima domenica di giugno, portando a quella data la chiusura del mese di maggio, i fedeli, divisi per categoria e precisamente così:

18 Ascensione – per i bambini, la giornata sarà chiamata: Giornata dell’Innocenza; 21 domenica – per la G. F., la giornata sarà chiamata: Giornata della Purezza, perché culminerà con la promessa di purezza che le giovani saranno chiamate a fare.

28 Pentecoste – per i Giovani e gli Uomini, la giornata sarà chiama­ta: Giornata del Sacrificio perché culminerà con la promessa anti­blasfema, che è il sacrificio più prezioso che si possa chiedere ad essi.

4 giugno, domenica – per le Donne, la giornata sarà chiamata: Gior­nata della Sofferenza perché culminerà con la presentazione al Si­gnore e alla Madonna delle sofferenze e dei dolori della mamma e delle spose nel cui cuore, specialmente la guerra ha fatto sentire le sue crudeli ripercussioni. Di tutto ciò si darà avviso alla popolazione mediante circolare che sarà distribuita domenica prossima. Ogni giornata sarà preceduta da un triduo di predicazione. La giornata per gli infermi sarà fatta più tardi, esigendo un’accu­ratissima preparazione non solo spirituale ma anche tecnica. Dò notizia della incursione di Piacenza e chiedo che l’A. C. Bor­gotarese in segno di fratellanza con il centro della Diocesi faccia cele­brare una S. Messa e vi partecipi: è fissato giovedì Il c.m.

10 maggio, mercoledì. – All’asilo un incontro con i membri della Amministrazione: e cioè Conte Albertoni Piccinardi, Conte F. Mar­chini, Don Giuseppe Beccarelli di San Martino, e con la Superiora. Visitiamo i locali; poi si va a visitare quello di S. Rocco (il Conte non viene). La faccenda dell’Asilo è per me un rebus; oltre che essere un pro­blema grave.Per quanto ho potuto capire le cose stanno in questi termini. Mol­ti anni fa (una quarantina o più?) un gruppo di persone di Borgotaro (mi si disse di tendenza demomassonica) pensò di istituire un asilo per i bambini servendosi allo scopo di locali appartenenti alla Con­gregazione della Carità che ne perdé l’uso, e di offerte da raccogliersi a cura di questo gruppo che si chiamò Comitato per l’asilo. Mentre si chiamavano le suore per il governo dell’asilo, si escludeva di propo­sito dal Comitato l’Arciprete. L’Amministrazione, quindi, rimase in mano al Comitato, il quale non aveva da rendere i conti a nessuno. L’Asilo quindi sorgeva come una specie di monstrum juris, poiché non aveva alcuna fisionomia giuridica, viveva in casa non sua, voleva edu­care e si serviva per questo delle suore e insieme si escludeva l’Autori­tà ecclesiastica, si prefiggeva scopi di beneficenza a vantaggio dalla Parrocchia e si escludeva il Parroco.

Comunque era un’opera buona e poté fare del bene. In seguito, venne chiesta la collaborazione di Don Giuseppe Beccarelli, Parroco di San Martino, come segretario: questi adagio adagio si introdusse nell’ Amministrazione e la concentrò nelle sue mani. Cosicché, in se­guito alla morte di un membro del Comitato, veniva proposta la no­mina di lui, ma questi allora pose come condizione alla sua accetta­zione, la nomina a membro del Comitato anche dell’Arciprete Monsi­gnor Squeri. In un primo momento sembrò che questa condizione non fosse accettata; in seguito poi si accettò; così anche l’Arciprete (e pare qua talis) entrò a far parte dell’Amministrazione o meglio del Comitato; poiché di fatto chi finora ha amministrato in modo indisturbato ha continuato ad essere Don Beccarelli. Anche in occasione della visita all’ Asilo di oggi non si parlò affatto della parte amministrativa.

Un altro aspetto poco chiaro riguardò la sede. Questa non soltan­to non è adatta, non è degna e conveniente per l’importanza di Bor­gotaro e delle opere che dovrebbero farvi capo, ma continua ad esse­re di proposito della Congregazione della Carità (almeno così mi è assicurato); eppure si è continuato fino ad ora a farvi delle costru­zioni, modifiche, ecc., come se si trattasse di cosa propria. Anche nella zona di S. Rocco si rendeva necessario un Asilo. Se ne vedeva l’urgenza ma non si provvedeva, né era facile provvedervi. Ma verso la fine del 1942 vennero da La Spezia un gruppo di Suore Gianelline, costrette a sfollare a causa dei bombardamenti, invitate a recarsi a Borgotaro per fondarvi un Asilo a S. Rocco da parte di una signorina di qui (non so chi sia) la quale dava loro le assicurazioni più ampie. Pare che il povero Arciprete se ne mostrasse contento; non così invece l’Amministrazione dell’ Asilo, la quale per mezzo di Don Beccarelli ottenne in uso dalla ditta «Azzi e Milanese» (<< Cerruti >>?) di Casale Monferrato, alcuni locali che vennero alla meglio adibiti allo scopo e affidati alle medesime suore dell’asilo di Borgotaro; S. E. Mons. Vescovo avrebbe apprezzato l’idea dell’amministrazione e quel­la dell’ Arciprete, onde impedire che nella stessa Parrocchia e per lo stesso scopo vi fossero suore di due diverse Congregazioni. Le Suore Gianelline si videro offese e presero un po’ l’atteggiamento della vit­tima, specialmente per essere sfollate, per poter svolgere il loro apo­stolato, ecc. La gente prese parte alla controversia e purtroppo per lungo tempo vi fu un pettegolare per nulla edificante.

Tuttavia, a parte tutto, le suore fecero male a venire con un pro­getto già belle e fatto sulle parole soltanto di una donna, e per sè l’Ar­ciprete non poteva dare una facoltà che non era in grado di dare essen­do di competenza di S.E. Mons. Vescovo. L’amministrazione dell’Asi­lo precipitò le cose e l’aver in tutta fretta risolto un problema che da anni si agitava diede l’impressione di agire per ripicco, anziché per in­tima convinzione. Inoltre aver adibito ad uso Asilo i locali di un capan­no costò molto, mi pare circa 60 mila lire; e si rinnovò, secondo me, l’errore di prima cioè quello di aver speso dei denari in locali che non sono propri e che domani potranno essere richiesti senza indennità. Per tutto questo non riesco a capire questo rebus che è l’asilo e la po­sizione del Parroco in esso. Ora all’Asilo di S. Rocco vanno due suore dell’Asilo del paese; men­tre le Gianelline hanno aperto un doposcuola abbastanza frequentato.

Stasera è venuta da me la Direttrice delle Scuole, signorina Ines Pellacini alla quale ho parlato dell’organizzazione della crociata per i bambini. Molto gentile mi ha promesso la collaborazione sua, quella degli insegnanti e mi ha invitato a visitare le Scuole per sabato.

13 maggio, sabato. – Vado a visitare le scuole; sono accolto in o­gni classe dall’insegnante e accompagnato dalla sig. na Direttrice, con molta cordialità. I continui allarmi hanno tenuto molti bambini lontano dalla scuola. Molte classi sono dimezzate. A tutti parlo della Giornata dell’In­nocenza e della Crociata Mariana di preghiera per la pace e ottengo promesse di intervento.

14 maggio, domenica. – Oggi ho fatto distribuire la circolare per la Crociata Mariana di preghiera per la pace; e ne ho parlato nei Van­geli. Mi pare che la gente sia contenta e abbia accolto con favore le iniziative. La sera, dopo i Vespri, faccio l’adunanza al gruppo Uomini di A. c., presentato dal Presidente Cav. Marchini. In questo primo incontro tratteggio le responsabilità degli uomini in questo momento. La situazione generale mi pare che vada aggravandosi. Si moltipli­cano atti di sabotaggio lungo la ferrovia e lungo la strada. Anche qual­che scontro fra partigiani e militi.

15 maggio, lunedì. – Si inizia il Triduo per i bambini in prepara­zione della loro giornata fissata per giovedì, festa dell’ Ascensione. Il numero è molto cospicuo. Alcuni arrivarono in gruppi guidati dai sigg. maestri e maestre delle scuole El. ri, e dalle suore dell’Asilo, dalle Suore Gianelline e Dorotee. Li facciamo pregare, recitiamo il S. Ro­sario, parlo della Madonna, specialmente delle apparizioni di Fatima, assegno il fioretto per il giorno, e si dà la Benedizione Eucaristica. Nessun allarme ci ha disturbato.

16 maggio, martedì. – Oggi i bambini hanno letteralmente riempi­to la Chiesa. Io credo che erano più di cinquecento. È gioia immensa vedere con quanto fervore, con quanta fiducia vengono, ascoltano, pre­gano e fanno i fioretti. La funzione si svolge ancora come ieri. Diamo le norme per le S. Confessioni, per domani. Vi saranno molti sacerdoti a confessare.

17 maggio, mercoledì. – Anche stamattina abbiamo avuto un allar­me molto presto, verso le 7, ma non pensavamo che avvenisse ciò che è avvenuto. Alle 7,40 circa si è avuta una incursione sopra al nostro paese, preceduta da una raffica di mitragliamento. Le bombe, circa una ventina, sono state sganciate sul ponte della ferrovia e sulla stazione; qualcuna è caduta sui pressi della fabbrica del cemento e del tannino. Per vera e segnalata grazia del cielo non c’è stata nessuna vittima, nonostante che gli uffici della stazione fossero in attività e gli uomini fossero alloro posto di lavoro, e la famiglia del capostazione, Sig. Uber­ti, fosse ancora in casa; non si credeva alla eventualità di un bombar­damento di Borgotaro.

La Chiesa accoglieva ancora molta: gente, sebbene non si stesse svolgendo in quel momento nessuna funzione. Io stavo confessando. Al primo sgancio fu un urlo, poi un fuggire disordinato, un grido in­composto di gente che è presa dallo spavento, dal panico, dal timore per la sorte dei propri parenti che ha lasciato in casa. Invitai la gente alla calma e la feci ricoverare nella torre cam­panaria. Quando gli apparecchi si furono allontanati, andai insieme con il Curato Don Mario alla stazione. Mi confortai quando seppi che non vi erano state vittime: solo un milite e un carabiniere feriti, leggermente. Ma quale sconquasso, quali crateri, quale disordine!

E sul volto di tutti i segni visibili dello sgomento, della sofferen­za, dell’incertezza! In realtà era un. .. mito che crollava: cioè la convinzione che Bor­gotaro non sarebbe stata bombardata non possedendo obiettivi mili­tari. E non soltanto crollava un mito, ma un problema nuovo e grave si presentava: come ormai difendersi. Per questo oggi stesso sono in­cominciati gli sfollamenti: hanno incominciato quelli che sfollati da altre città avevano cercato rifugio qui. In realtà finora Borgotaro aveva vissuto nella calma più perfetta; e sembrava un posto così sicuro che qui da ogni patte erano venuti. Si contava una popolazione di quasi tre mila sfollati in Borgotaro e, in piccola parte, nel Comune.

Naturalmente i primi a far uscire furono i bambini. E perciò la nostra funzione per essi andò totalmente deserta. Quanto ne soffro ! Vedo ormai che non soltanto la funzione per i bambini dovrà essere sospesa, ma anche tutte le altre della Crociata già disposte. Mi consolo pensando che il Signore e la Madonna hanno visto la nostra buona volontà, il nostro desiderio, i desideri dei nostri bambini: e se tutto ormai deve essere sospeso, ciò non è per colpa nostra! Ciò nonostante, il nostro dispiacere è moltissimo. Anche le mam­me vengono a dirmi il loro dispiacere e a confidarmi con quale impe­gno i loro bambini si erano preparati alla loro Giornata, con quale at­tenzione facevano i fioretti, con quale fervore si erano messi a pregare. Fiat, fiat!… Ne dò subito comunicazione a Mons. Vicario Genera­le. Un’altra iniziativa vedo sfumare: una giornata di preghiera e di con­tatto riservata agli sfollati, venuti da tante parti e che hanno tanto bisogno di conforto! Pazienza! Fiat voluntas Tua!

18 maggio, giovedì. – Ascensione: Ascensione di guerra anche per Borgotaro! Le funzioni in Chiesa sono fatte come si può: e cioè le SS. Messe sono celebrate regolarmente, ma senza alcuna solennità.

La gente pare che si rincuori un po’: si pensa, o meglio, si dice che il bombardamento sia dovuto al fatto che sostavano in stazione alcuni carri carichi di materiale bellico: bisognerà cercare di evitare queste soste. Tuttavia quando suona il segnale di all’arme, al primo squillo tutta la popolazione si riversa in fretta fuori dell’abitato, in preda a una paura che non riesce a domare. È un bene, è un male? Io finora durante gli allarmi non mi sono mosso, nonostante che sia rimproverato dai più, che mi invitano a uscire. Anche un’ordinan­za podestarile esorta la popolazione a uscire in campagna in tempo di allarme, pur mantenendo la calma necessaria.

21 maggio, domenica. – Domenica piena di malinconia. Vedo le SS. Messe diradare nel numero dei fedeli. Gli allarmi fanno sospende­re e rimandare qualche Messa di orario, con tutte le conseguenze. Rie­sco ancora a fare un po’ di adunanza a un piccolo gruppo di Gioventù femminile, che cerco di rincuorare. Si vuol tentare ancora la costitu­zione del gruppo studentesco, e indico un’adunanza di consiglio per mercoledì. Oggi ci doveva essere l’esame di gara per gli aspiranti: cen’ erano tre o quattro In tutto. Nella zona si notano altri sintomi di irrequietezza da parte di par­tigiani e di timore da parte avversaria. Mi risulta che sono stati richie­sti rinforzi del presidio, da parte dell’autorità, ma senza risultati. An­che la popolazione della campagna è alquanto allarmata, poiché i casi di furto, di saccheggi, di imposizioni, ecc. diventano sempre più nu­merosi.

I Parroci del Vicariato mi chiedono come debbano regolarsi; ed io consiglio che facciano nè più nè meno che il loro dovere sacerdota­le, non si immischino in questioni di politica, e che il Parroco deve es­sere e mantenersi il padre di tutti. Ma è fuori dubbio che anche il Clero si trova in una situazione estremamente delicata e difficile. Più di un Parroco è stato oggetto di violazione nella casa e nella roba. Oggi si inaugura un Teatro nuovo costruito da una società geno­vese, con la calorosa collaborazione del Podestà, il Cinematografo «Far­nese ». Ieri, dietro suggerimento poco simpatico e poco opportuno di un frate di qui, i dirigenti vennero a pregarmi perché andassi a bene­dire il locale. Francamente, la proposta non mi piacque: a pochi gior­ni di distanza da un bombardamento e in una situazione sempre più grave, anche la semplice benedizione di una sala cinematografica mi sembrava poco bella: tuttavia volli mostrarmi arrendevole, allo scopo di poter dire a quei dirigenti parole chiare intorno agli spettacoli. Es­si mi diedero ogni assicurazione; ma ci credo poco! Così da oggi si avrà un cinematografo moderno anche a Borgotaro! Ecco un’altra posizione perduta. Ci vorrà altro che avvertire, gridare, e minacciare; ma oggi la usanza del cinema è una moda, e direi un a­spetto di quella… pazzia collettiva del divertimento e del piacere che attanaglia tutti. E al cinema si andrà anche nonostante gli allarmi e anche se cadranno le bombe! Quando si è pazzi!. . .

23 maggio, martedì. – Sono invitato a partecipare a un’adunanza della Conferenza di S. Vincenzo, che si tiene all’ospedale per mancan­za di locali. Ho l’impressione che lavori bene. Mi comunicano che mi hanno nominato Presidente onorario; ringrazio, e offro per i poveri li­re 600. Mi propongono, e lo dichiaro ai Confratelli, di favorire e svi­luppare sempre più l’attività della conferenza perché solo la carità do­mani ci potrà salvare. Si discute sulla necessità di istituire la Messa dei poveri, iniziativa che finora non si è potuta realizzare e il Segretariato della Carità, opera meravigliosa ed estremamente necessaria. La Prov­videnza sembra venirmi in aiuto: il Sig. Conte Albertoni Piccinardi ci fa sapere che è disposto a farci dono di una casa. Speriamo.

24 maggio, mercoledì. – Il Cav. Marchini viene da me per parlarmi di due casi. Innanzitutto si parla della casa che ha promesso in dono suo cognato il Conte Albertoni Piccinardi, allo scopo di studiare la for­ma giuridica più conveniente. Il Cav. sembra optare per la istituzione di un ente giuridico a sè; io invece ritengo più utile fare la donazione alla Chiesa; si conclude di scrivere in proposito a Mons. Civardi, Di­rettore dell’Ufficio Amministrativo.

L’altra cosa di cui mi parla il Cav. è la situazione generale; mi dà alcune informazioni preziose, che servono a mettersi al corrente intor­no alle cose di qui; mi consiglia anche di iniziare una certa attività, per la quale non vedo di essere lo strumento adatto e comunque non mi sembra che rientri nel mio ministero. Ho preso contatto con il Segretario Politico, Sig. Ferrari, che ho interessato per il bene della nostra popolazione. Mi sembra una per­sona moderata e giudiziosa e, almeno da quanto mi pare dai primi in­contri con lui, ben intenzionato. Se è tutto vero quanto mi dice ha real­mente risparmiato al paese dolorose e incresciose vicende. È di buoni sentimenti religiosi, gli chiarisco alcune idee che egli pure ha com­preso «ad aures », ma che non sono esatte, anzi! Faccio un’adunanza di consiglio della G. F. e insisto che non si perdano d’animo e che non si abbandoni l’attività dell’Associazione. Soprattutto insisto che richiamino e raccolgano le bambine delle se­zioni minori; e si studia il modo di iniziare la sezione Studenti.

27 maggio, sabato. – Da qualche giorno sono arrivati soldati italia­ni, oltre un centinaio, e un gruppo di tedeschi. Dicono che stanno co­struendo una linea telefonica dalla Spezia, attraverso i monti. Opera difficilissima! Specialmente a causa della presenza dei partigiani in tut­ta la zona. A proposito di questi giungono voci di un’attività sempre più vivace e che preoccupa la popolazione. Circola la voce di un’occu­pazione del paese. La gente fraternizza sia coi soldati italiani sia con quelli tedeschi.

28 maggio, domenica di Pentecoste. – Mattinata assai tribolata a causa degli allarmi continui. La gente è agitata in una maniera preoc­cupante. È in continuo movimento, nella necessità in cui si trova di uscire e rientrare in paese, al giorno più volte. Stamattina un’altra grave incursione. L’allarme è suonato verso le 9,30; verso le 10,30 un’improvvisa ondata di apparecchi ha sorvolato con rumore assordante il paese, e poi lo sgancio pauroso delle bombe a più riprese. Caddero nel campo sportivo e nel fiume vicino al ponte ferroviario: in totale una quarantina e più. Una sola vittima: certo Bonacci Abramo, colpito da una pietra, mentre dal canale, ove si era rifugiato, si era alzato per osservare lo sgancio. La gente è terrorizzata. Povera gente inerme e innocente, così pro­vata, che fino a pochi giorni fa viveva tranquilla e serena; Oh! la guer­ra non risparmia nessuno davvero.

Ora il ponte ferroviario – esso pure innocuo – diventa l’ossessione della gente, che si augura che venga una buona volta colpito, frantu­mato, distrutto!… almeno poi non ci saranno più incursioni!… Co­me è fatto il popolo: fino a, poco tempo fa si gloriava del suo ponte e della ferrovia: ora ne vorrebbe fare un cumulo di macerie. L’esodo dal paese riprende. Le mie esortazioni dopo la prima in­cursione purtroppo hanno fatto naufragio. Anche la vita parrocchiale subisce un nuovo colpo di arresto. Di tutto dò relazione a Mons. Vicario Generale, dal quale ho rice­vuto parole di conforto dopo la prima incursione.

Le pellicole che si proiettano al nuovo cinema sono purtroppo in maggioranza non ammesse: ciò nonostante purtroppo la sala si riem­pie. Anche qui gioventù che non è più sensibile si richiami del pudore e dell’onestà; anche quei babbi e mamme traditori dei loro figli, che accompagnano persino i loro innocenti figlioli a spettacoli sconvenien­ti. Se sapessero quali distruzioni avvengono in quegli animi! Peggio degli incendi di spezzoni e delle macerie e abissi scavati dalle bombe! A noi poveri preti poi il compito di riparare: ma come riuscire? Si con­tinua il servizio delle Segnalazioni.

29 maggio, lunedì. – Nella notte sono stati disarmati sei militi al ponte ferroviario da parte dei partigiani.

giugno, giovedì. – Si inizia il mese di giugno. Ma c’è tanta me­stizia in tutti e tanta preoccupazione! Le messe del mattino sono qua­si deserte; e la funzione della sera è fatta come si può. Eppure c’è tan­ta fiducia! Le SS. Messe vengono celebrate presto presto di buon mat­tino, con trepidazione, spesso interrotte a causa degli allarmi. Comprendo che occorre prendere provvedimenti per la custodia del SS. mo Sacramento e della biancheria e degli arredi. In un incavo del muro del campanile faccio preparare un taberna­colo per riparare il SS. mo Sacramento durante gli allarmi; e insieme con le suore dell’asilo raccolgo la biancheria della Chiesa e la metto in luogo che si ritiene sicuro. Con quanta paura nell’anima! Avevo in progetto di sistemare gli oggetti di sagrestia e mettere ordine in tante cose buttate alla rinfusa un po’ dappertutto; ma debbo rinunziarvi.

Faccio continuare la celebrazione della S. Messa a S. Rocco: ma ormai non viene nessuno. Quella zona più vicina alla stazione e al pon­te è deserta. Il piccolo podere lasciato al Parroco pro tempore da parte della Sig. . . è stato battuto e sconvolto completamente dalle due incursioni; il fittavolo che ha avuto il raccolto distrutto e la casa rovinata se n’è andato. Il Parroco di Borgotaro deve vivere in povertà! Per una parte è un bene, e non me ne rammarico; si vedrà meglio l’opera della Prov­videnza. E questa, almeno per quanto riguarda me, si manifesta pale­semente: la popolazione è per me di una generosità superiore ad ogni attesa.

giugno, domenica. – Doveva segnare la chiusura delle funzioni disposte per la Crociata di preghiera alla Madonna per la pace: invece la gente è tutta in allarme. Le SS. Messe vengono interrotte, alcune sospese a causa degli allarmi; riesco ancora a fare un po’ di adunanza alle giovani. Il cinema ha continuato a funzionare; la gente rimasta in paese, nonostante tutto, ha continuato ad andarci: da certe infezioni non si guarisce! Le «Segnalazioni cinematografiche» messe alla porta della Chiesa registrano purtroppo in maggioranza fìlms «non ammessi». Pe­rò mi convinco che fanno del bene; perché constato che molte persone le consultano con profitto; e perché mi viene riferito che i dirigenti del cinema sono parecchio adirati per queste segnalazioni. Buon segno!

giugno,” lunedì. – Nonostante la situazione precaria, oggi c’è mol­ta gente in paese, a causa non so se del solito mercato o di una fiera. Ma si annunzia come una giornata tribolata… Per quest’oggi è indetta la Adunanza del Clero del Vicariato per la soluzione dei casi. Quasi tutti i Sacerdoti sono presenti: mancano due giustificati. È il primo incontro che ho con loro; e ne sono conten­to: ho l’impressione che ci intenderemo e ci aiuteremo a vicenda. No­nostante gli allarmi durati per tutta la mattinata, la adunanza si svolge vivace e interessante, al punto che un altro allarme dato durante essa, non viene notato. Nulla lasciava presagire la immane sciagura che si sarebbe abbattu­ta su noi poco dopo.

Infatti verso le 13, ecco un altro urlo delle sirene: era il quinto allarme della giornata; molta gente, come per tutta la giornata, fugge verso l’aperto; ma molta altra rimane in paese persuasa che tutto sa­rebbe passato. Io sono rimasto in casa; i nostri di casa invece sono fuori. Poco dopo avviene un passaggio di una grossa formazione di aerei. Scendo nella via, poi mi ritiro temendo un mitragliamento; passati gli appa­recchi mi avvio a Porta Farnese; trovo qualcuno con cui mi fermo a parlare. Ecco arrivare un giovane che mi chiama d’urgenza da una po­vera vecchia, agonizzante, per improvviso malore provocato dal pas­saggio degli apparecchi. Vado in tutta fretta a prendere l’Olio Santo e mi reco tosto dalla povera vecchia, nella casetta di destra all’inizio della strada che porta a Porcigatone (Madonnina); la trovo già priva di sensi e già morta. Mentre sto amministrando i Sacramenti, ecco sopraggiungere una formazione di apparecchi a bassissima quota, con un rumore spaventevole; e pochi istanti dopo ecco il pauroso sgancio di bombe, che fa rimbombare e crollare la casa. Continuo il mio pie­toso ufficio, e poco dopo ecco un secondo sgancio. Ho l’impressione che la casa cada e rovini: né so spiegarmi come ciò non sia avvenuto.

Esco e vedo due immense e altissime colonne di fumo: l’una al di sopra dell’Ospedale nuovo l’altra presso il torrente Varacola: non so le determinazioni precise. Incontro gente che fugge all’impazzata; altra che grida con disperazione, altra che piange e si dispera. E in­tanto ecco un altro sorvolo di apparecchi a bassissima quota: ho l’im­pressione che si avveri un altro sgancio. Mi rifugio dietro una siepe nel fossato di un canale. Passano! Mi rialzo e mi avvio verso la zona colpita sopra l’ospedale: si è in aperta campagna, e spero che non vi siano vittime. Domando, ma non riesco a sapere notizie: la gente fugge, è come pazza! Poi qualcuno mi dice che vi sono feriti, che vi sono anche dei morti: seguo le indicazioni e trovo infatti qualche ferito, poi sono chiamato altrove dove c’è un morto, poi altrove ancora dove c’è una strage di vittime. Ora capisco: lassù si rifugiava a frotte la gente, perché era una posi­zione alta fuori e lontana da ogni abitato e ritenuta sicura (qualcuno, mi aveva detto nei giorni scorsi, vi andava anche per assistere even­tualmente al bombardamento del ponte, che è bene in vista): quel raggruppamento di persone aveva forse richiamato l’attenzione dei pi­loti: ma che cosa possa servire agli effetti della guerra il bombarda­mento di un agglomerato di persone, proprio non si capisce. In que­sta guerra ci sono episodi che non si spiegano se non con l’ammettere che in certi momenti nell’uomo si desta la bestia. Uno studioso un giorno mi faceva questa osservazione: nei popoli nordici c’è una guer­ra di criminalità che alle volte si manifesta in gesti di crudeltà bel­luina. Non so. Io per me, rimpiango che nel turbine della guerra sia­no state sommerse l’Italia e la Francia, perché ritengo che questi due popoli conservano, nonostante tutto, un senso di umanità, di senti­mento che li trattiene dal compiere atti di disumana ferocia, come quello che oggi ci ha colpito.

Passo accanto ai feriti e alle vittime e dò i conforti della S. Reli­gione. In questo pietoso ufficio si prodiga anche Don Mario Sacchi, il caro Curato che per miracolo è salvo, trovandosi egli pure vicinis­simo al luogo del disastro, (l’altro Curato, Don Bernardino, è assente) dal sig. Giornelli P.d.M., e da qualche altro sacerdote. Le povere vittime sono portate da pie e volenterose persone che subito si prodigano all’Ospedale vecchio, e da qui alla sede del Fascio. Eccole allineate in una vasta camera ardente, povere vittime, uomini e donne, persone mature, giovinezza e piccoli bambini: quindici! Po­veri corpi maciullati, in cui la barbarie ha fatto orribile scempio. Figli accanto alla mamma, sorella accanto alla sorella, amico vicino all’ami­co: la morte li ha orribilmente colpiti e uniti per sempre!

Brave, pie e coraggiose persone ricompongono quelle povere mem­bra, le puliscono, le lavano, le coprono di fiori; accanto a ciascuna vit­tima, insieme con la corona sulle mani, pongono un biglietto con il nome della persona cara: Ferrari Maria, Ferrari Leonardi Francesca, Taglierini Luigi, Gandi Giovanni, Gasparini Flora, Bicocchi A. Ma­ria, Bicocchi Angela, Ferrari Antonietta, Pattoneri Antonietta, Natalini Elvira, Natalini A. Maria, Talamini Teresa, Ferrari Giuseppe, Bor­di Caterina, Gandi Ida. Per tutto il pomeriggio continua il pellegrinaggio alle vittime. Ma la sera il paese è completamente deserto, letteralmente! I feriti, non molti, un’altra decina vengono curati e poi dai familiari portati fuori di paese, quasi tutti.

Si può immaginare l’impressione e i commenti della povera popo­lazione! Intorno alle povere vittime, affiorano episodi, che rendono ancora più amara la loro scomparsa. Il Podestà fa affiggere un manifesto, e invita la popolazione ai fu­nerali che avranno luogo domani alle ore 17. Io invito i Parroci vi­ciniori a parteciparvi. Oggi si è diffusa la notizia che le truppe alleate sono entrate in Roma, sgombrata dalle truppe tedesche. Si pensi come si vuole, ma una stretta al cuore ci fa grandemente soffrire. Sono avvenimenti che tra­valicano la limitanza dell’episodio, e assumono carattere storico, per­ché pregni di conseguenze che ora ancora non si intravedono, ma che verranno. Saranno propizie per l’Italia? Quale interrogativo! Io sof­fro, pur sapendo, e forse proprio per questo. Sofferenza, che aggiun­ta allo schianto per la orribile sciagura della giornata, rende questo 5 giugno un giorno per me di grande lutto, di estremo dolore: me­morabile! I danni causati dal bombardamento si limitarono a rottura di ve­tri. Ma anche solo per questo le nostre Chiese ebbero a soffrire mol­to, specialmente la Chiesa Parrocchiale, dove si frantumarono i bei finestrini istoriati del coro, altri e molti vetri alle finestre, la caduta della croce e della cimasa dell’altare di S. Antonio.

giugno, martedì. – Stamattina, appena sceso in sagrestia, ho un’al­tra notizia gravissima: nella notte, presso l’albergo «Appennino» è stato colpito il Ten. dei Carabinieri, Ezio Chellini. È stato un atto indegno. Era una buona persona. C’era già tanto lutto, che proprio non si doveva aggiungere sciagura a sciagura. Sul­le cause e sugli autori si sono fatte delle ipotesi diverse; ma credo ora non sia difficile identificare le une e gli altri, quando si tenga presen­te la situazione in cui ci si trova. Nel tardo pomeriggio si sono fatti i funerali delle povere vittime di ieri e del povero Tenente. È stato uno spettacolo commovente. La poca popolazione presente partecipa tutta. Sono presenti tutte le Auto­rità. Le bare sono portate a spalla dai militi. Al Ponte vengono carica­te sopra un camion, mentre la Salma del Tenente Chellini viene posta su un furgoncino e avviata a Parma.

Quanta costernazione e quanto lutto. La scomparsa tragica del po­vero Tenente suscitò da tutti la più severa deplorazione. Avevo in ani­mo di fare un breve discorso, ma poi non lo feci, sia perché si voleva che il rito si compisse presto per timore di allarmi, sia perché l’ucci­sione dell’ufficiale complicava le cose; per cui ritenni più opportuno tacere, perché avrei dovuto dire cose spiacevoli agli uni o agli altri.

giugno, mercoledì. – Fatti disgustosi tra partigiani e militi si van­no moltiplicando. Quasi ogni giorno militi isolati o a gruppi vengono disarmati. Si ha l’impressione che i partigiani vogliono passare a una azione decisiva. Le minacce contro i gerarchi del fascismo e contro le famiglie si fanno più chiare e più audaci. Essi prendono delle precau­zioni andando a dormire fuori in luoghi ignorati e sicuri e fanno par­tire le famiglie. È una gran croce anche questa per un Parroco, specialmente per un Parroco nuovo del posto, che non conosce ancora nè per­sone nè casi, nè sa come porre rimedio.

giugno, giovedì. – Festa del Corpus Domini: Mi si dice che la festa del Corpus Domini a Borgotaro aveva una solennità e uno splen­dore grandiosi, culminanti su una fantasiosa Processione. Ma questa mattina alla prima S. Messa vi saranno state si e no cinquanta persone; alla seconda, meno ancora. È una desolazione! La mia Parrocchia è in sfacelo; come tale non esiste più. I par­rocchiani sono dispersi un po’ dovunque: Brunelli, Porcigatone, Pon­tolo, San Vincenzo, Rovinaglia, Albareto San Martino, Caffaraccia, ecc.

Comprendo che compiti nuovi mi attendono: non lasciare abban­donata questa gente, ma visitarla, consolarla, incoraggiarla e assister­la; e in mancanza di una parrocchia reale disfatta, ricostruire, attraver­so visite e incontri, idealmente la nostra cara Parrocchia e mantenere così vivi i legami che devono avvincere i parrocchiani tra essi e con il Parroco, come in una famiglia. Per questo decido di andare a turno, nelle parrocchie vicine a vi­sitare ogni domenica i futuri nostri parrocchiani. La colonia più nume­rosa e più vicina di Borgotaresi è a Brunelli; e oggi, vado a celebrare la S. Messa a Brunelli, ove ritrovo tanti parrocchiani, ai quali rivolgo, non senza una grande commozione, parole di incoraggiamento e dò direttive.

10 giugno, sabato. – Il radio-messaggio di Alexander, il generale in capo delle truppe anglo-americane in Italia, ai partigiani italiani tro­va eco anche nei partigiani di questa zona. Essi si vanno persuadendo, dopo lo sfondamento delle linee tede­sche e l’avanzata abbastanza rapida delle truppe alleate, che in pochi giorni la partita sarà chiusa. Essi pensano e dicono che al massimo in quindici giorni tutto sarà finito, per lo meno qui a Borgotaro gli ingle­si saranno arrivati. Santa ingenuità di ragazzi animosi, entusiasti, ma poco criteriati e poco prudenti! La loro attività si va quindi moltiplicando e, purtroppo, con atti inconsulti e spesso riprovevoli, perché non conformi né a giudizio né a pietà.

Questa sera, poco dopo l’imbrunire una corriera di militi fascisti proveniente da Bedonia cade in un’imboscata tesa dai partigiani pres­so Pontolo. Dei 19 militi diretti a Parma, 13 rimangono uccisi, gli al­tri feriti. È stata una carneficina. È vero che costoro lungo il cammi­no avevano imprudentemente fatto continue sparatorie, forse a scopo intimidatorio, e anche mentre erano passati in Borgotaro avevano spa­rato e gettato nel fiume delle bombe a mano; tuttavia la carneficina e lo scempio non erano perciò giustificati. Il giudizio della popolazio­ne è stato severo. Le salme ritrovate furono accompagnate a Borgotaro e disposte in una sala del Fascio.

11 giugno, domenica. – Con questo precedente oggi vado a Pon­tolo a trovare i nostri parrocchiani. Questa festa che mi fanno, poveri e cari parrocchiani! Mi fermo tutta la giornata e tengo adunanza. In Parrocchia le funzioni si fanno alla bell’e meglio. Il cinema ha cessato le proiezioni.

12 giugno, lunedì. – Stamattina vado alla sede del Fascio a dare l’assoluzione alle povere vittime, prendo gli accordi con il Segretario Politico per i funerali. Essi avranno luogo domani mattina, e ci si li­miterà a dare l’assoluzione alle salme, le quali poscia saranno caricate sopra un camion e trasportate a Parma. Si vede la preoccupazione di evitare ogni incidente; ossia una dimostrazione ostile o un’assenza si­gnificativa della gente; la quale, sebbene deplori il fatto, non simpa­tizza con il fascismo. I soldati che da qualche tempo erano qui, so­spendono i lavori e se ne vanno. Si viene a sapere che ciò si deve a misure di precauzione: ogni notte un gruppo sempre più numeroso fugge e si rifugia presso i partigiani. L’attività e l’influenza di questi si fa sentire sempre più. Gli atti di sabotaggio continuano senza interruzione: giunge notizia di ponti fatti saltare, e dell’interruzione della ferrovia a causa del deraglia­mento di un treno, provocato apposta, in una galleria fra Ostia e Roc­camurata, in modo da ostruirla completamente. Ma l’influsso si rivela maggiore nel senso di timore che si rivela nei capi e negli aderenti al fascismo repubblicano e nel crescente sen­timento di simpatia negli altri, specialmente nei giovani. Quelli o fuggono perché temono un giorno o l’altro di restare catturati e uc­cisi, o cercano di barricarsi in alcune case, ove portano armi e muni­zioni in grande abbondanza e ove passano la notte: anche le Auto­rità, per alcune notti, fanno così, prendono come luogo di rifugio la casa delle Suore Dorotee, che, come è naturale, sono prese da sgo­mento e da paura.

I giovani salgono sui monti. Per molti è un problema morale che si presenta davanti alla loro coscienza: e cioè, in un momento come questo, in cui è in gioco la possibilità di ridonare alla Patria la libertà, è lecito a noi giovani di restare ospiti? Il nostro dovere non è quello di contribuire, sia pure con la guerriglia, alla liberazione? È un’idea largamente agitata e, si capisce per chi non sa fare molte discriminazioni e non sa valutare tutti gli elementi di una situazione continua­mente in evoluzione, è seducente e avvincente. Per questo, nonostan­te il parere contrario di genitori, molti giovani si uniscono ai parti­giani, i quali vedono accrescersi le loro fila ogni giorno e vivono il loro momento di celebrità… I partigiani della prima ora, stanchi della vita dura della montagna, della macchia, sopravvalutando enormemente, quasi fanciullescamente il corso degli avvenimenti che si svolgono in Italia e in Russia, attribuendo ingenuamente agli inglesi e ai tedeschi piani di vittoria e limiti della resistenza quali sono soltanto nel fer­mento immagino so della loro fantasia, sono impazienti di entrare in azione in modo più risoluto, e secondo essi, più risolutivo, e temono che, aspettando, possano essere sorpassati dagli avvenimenti e non possano quindi domani dire la loro parola, essi pure. I partigiani, ve­nuti da poco, attratti dal fascino del loro ideale e un poco anche dal pathos dell’avventura – non per niente sono i figli del Novecento e sono stati educati alla scuola fascista, che del senso dell’avventura e del rischio ha fatto uno dei dogmi e dei pilastri della sua opera edu­cativa – portano un elemento di funzione assai importante. In mezzo a questi benintenzionati, anche praticamente se non poco ingenui, c’è anche un gruppo di individui che nel e per mezzo del partigianesimo mira a tutt’altro: o a interessi personali egoistici e materiali per il presente o per il domani, quali pescatori nel torbido, o a interessi di partito, e svolgono in seno alla banda in cui sono arruolati attività po­litiche, ossia comunista, più che attività militare e mirano a instau­rare un regime che essi bene conoscono, e che raggiungeranno per mezzo dell’attività dei Partigiani, ai quali ciò rimane estraneo.

C’è nell’aria diffuso un senso di attesa e di novità, acuito anche da qualche manifestino scritto a macchina e affisso alle contrade dai partigiani, in barba a tutte le Autorità del Paese. La gente sta a vedere. La gente! Povera popolazione: essa è di­spersa a causa dei bombardamenti, è assetata dal problema di salvare sè e i figli e di provvedere alla meglio a un ricovero e a un po’ di pane; e non ha tempo di interessarsi ai problemi che in questo mo­mento tengono impegnati e agitati i partigiani. Arrivano notizie intorno all’occupazione di Bedonia, di Compia­no, di Tornolo, di Bardi da parte dei Partigiani e di altri centri. Di Bardi hanno fatto «la piccola Russia d’Italia », un esperimento comunista, stando a quanto si dice; qualche cosa di vero dev’ esserci. Si sente che l’aria è arroventata.

13 giugno, martedì. – S. Antonio di Padova. – Altra giornata tor­mentata. Al mattino alle 7,30 quarta incursione, e il pomeriggio alle 17,30 quinta incursione: ancora il ponte è colpito. Nessuna vittima. Da Bedonia arriva il Vice Rettore, Don Aldo Gazzola con qualche seminarista a prendere notizie, poiché il bombardamento ha avuto una ripercussione così forte, che anche a Bedonia si ebbe timore di rovine irreparabili . Stamattina, alle 6,30 è ripartito Don Mario Badenchini, già Cura­to a Borgotaro, e ora Cappellano militare, che era venuto domenica sera per salutare gli amici. Non abbiamo notizie da lui e siamo un po’ preoccupati. Vado a dare l’assoluzione alle vittime dell’eccidio di Pontolo. In giornata ci si trasferisce nella ospitalissima Canonica di Brunelli, dove già da qualche giorno i Curati e mia cugina vanno la sera a dormire, mentre io continuo a restare in paese, e mi reco a Brunelli solo a mez­zogiorno.

14 giugno, mercoledì. – Stamattina alla solita ora delle 7,30 cir­ca, altra incursione al ponte. Ancora nessuna vittima, per grazia di Dio.

Sesta incursione! Non si capisce questo accanimento contro Bor­gotaro. L’importanza del ponte ferroviario è esageratamente soprava­lutata: la ferrovia è già interrotta, da qualche giorno il transito è so­speso. Perché allora continuare? Si pensa che ci sia qualcuno a segna­lare ai Comandi militari inglesi notizie che non hanno corrispondenza nella realtà. lo penso alla nostra povera Parrocchia dispersa, e alle tribolazioni cui la nostra gente è sottoposta. E non potendo dire ad essa quanto ho nel cuore, preparo una circolare da distribuire a tutti, onde segna­lare loro quanto ho deciso di fare, per incoraggiarli e per dare le op­portune direttive.  . Comunico quindi che ho rinnovato la consacrazione della Parroc­chia, delle famiglie e di tutti i parrocchiani al Cuore Immacolato di Ma­ria, e che ho fatto due promesse: 1) che, appena possibile, dopo la guerra, andrò in devoto pellegrinaggio a un Santuario della Madonna e vi condurrò quelli che vorranno unirsi con me; 2) che, se il Signore mi darà grazia di restare qui e di poter compiere un’opera stabile di bene, la dedicherò e la consacrerò al Cuore Immacolato di Maria, e, pur non specificando per ora, vorrei che quest’opera fosse l’Oratorio per la gioventù e per le scuole di catechismo. Raccomando la rassegnazio­ne e la fiducia, la preghiera, e la santità della vita; dico che diano il buon esempio nelle parrocchie dove si trovano, partecipino alle fun­zioni, e gli iscritti all’A. C. alle adunanze e i bambini al catechismo; annunzio che andrò per turno a visitarli nella loro parrocchia di sfol­lamento. La sera, verso le 20,30 un gruppo di partigiani, sopra un camion, entra, dalla parte della stazione di San Rocco, in paese; scorrazza per le vie, sparacchiando specialmente contro qualche casa di fascisti, gri­da e canta; e poi si allontana. Il paese è completamente deserto. Una cinquantina di persone, al massimo, è chiusa nelle proprie case, anche perché da qualche giorno è stato messo il coprifuoco alle ore 20.

15 giugno, giovedì. – Vado a Tiedoli, di mattina presto. Borgotaro è abbandonata dalle Autorità e gerarchie fasciste che si sono allonta­nate nella giornata e nella notte scorsa: la loro incolumità è in pericolo. I partigiani quindi entrano in paese e fanno una rumorosa dimo­strazione, a cui si uniscono i non molti cittadini che si trovano, at­tratti più dalla curiosità e dal desiderio di rivedere persone da tempo lontane, che non da vera e propria solidarietà. Anche il curato Don Bernardino, chiamato da un malato, è coinvolto nella dimostrazione. Dopo aver sfilato nelle vie, si portano al Monumento ai Caduti e presentano le armi. Le case dei capi fascisti vengono assalite e svali­giate. Gli altri, cioè i malintenzionati che si trovano dappertutto e che sono sempre pronti a sfruttare le situazioni torbide, fanno il resto.

Nel pomeriggio, arrivano due macchine tedesche, su cui viaggiano ufficiali. Presso l’Appennino ha luogo uno scontro: 2 rimangono ucci­si e 4 prigionieri. Si dice che fossero in possesso di importanti docu­menti, che vengono presi. La sera i partigiani si allontanano. Ritorna la riflessione. Perché queste invasioni? Sarebbe semplicemente per una dimostrazione, sen­za intendimenti veri e propri di occupazione. Ma valeva la pena di far­la? E lo scontro con i tedeschi? E i capi fascisti certamente rifugiatisi a Parma, taceranno e resteranno inerti? Credo che sarà una dimostra­zione che si pagherà cara. Ritorno da Tiedoli la sera, non a Borgotaro, ma a Brunelli. Decido che per misure di sicurezza domani mattina i curati dopo la S. Messa ritirino il SS. mo e lo portino a Brunelli. Nella mattinata avevo fatto ritirare il SS. mo anche dalla Cappellina delle suore dell’ Asilo e delle Dorotee, e dell’Ospedale, e da S. Rocco e da S. Domenico, per premunirsi contro i bombardamenti.

16 giugno, venerdì. – Festa del Sacro Cuore. Stamattina vado a ce­lebrare la S. Messa a Casembola, dove c’è rifugiato un buon gruppo di parrocchiani, ma non vado a Caffaraccia, come avevo promesso, perché sono in pensiero per i fatti di ieri, e voglio seguire da vicino lo svol­gersi degli avvenimenti; perciò ritorno a Brunelli. Le «contromisure» non tardano a verificarsi. Nel pomeriggio ver­so le 16 viene segnalato l’arrivo di un gruppo di carri armati e di ca­mion con truppe tedesche provenienti da Chiavari, attraverso il passo di Cento Croci. Stavo discendendo in paese, quando si udirono le pri­me fucilate. Decido allora di aspettare. La sparatoria si fa più vivace, e più nutrita. Gli uomini fuggono. La poca gente che era ancora in paese si allontana; non rimane che qualche persona che si rinchiude in casa. Anche dalle frazioni, gli uo­mini fuggono nei boschi.

lo sono in pena. Scendere in paese è senza dubbio pericoloso: le strade di accesso sono sbarrate dai carri armati; da ogni parte si spara; restare assente, pure mi preoccupa. Siccome so che qui vicino è rifu­giato il Podestà, dotto Zibioli, mi reco da lui, per vedere che cosa in­tende fare e per proporgli di scendere insieme. Lo trovo molto angu­stiato di essere preso dai partigiani per la intercessione della madre di « Dragotte» (nome di battaglia di Delnevo Giuseppe, capo della Bri­gata Julia) e che è ben deciso a non muoversi. Ritorno in canonica a Brunelli, lasciando che le cose seguano il loro corso. Lo spavento nella gente è grande. Si dice che pattuglie di tedeschi e di militi della S. Marco si aggirino nei dintorni a rastrellare gli uo­mini. I Curati sono presi da paura e vanno via, verso i boschi; qual­cuno consiglia anche a me di nascondermi. lo rimango. Poco dopo al­cuni militi vengono a fare una perquisizione in piena regola in canoni­ca; ma non mancano di rispetto. La sparatoria continua tutta la notte. Sono ore lunghe e molto dure.

17 giugno, sabato. – Mi alzo con l’idea di scendere ad ogni costo in paese. Celebrata la S. Messa, ecco venire il Sig. Podestà per dirmi che egli pure scende. Andiamo insieme; con noi si unisce qualche altro. In paese non troviamo più nessun soldato. Ma quanta desolazione! Per tutto il pomeriggio di ieri e per tutta la notte, la soldatesca ha scassinato le case, ha svaligiato gli appartamenti, ha sciupato, rovinato, gozzovigliato. Nelle poche case in cui si trova qualcuno non entrarono. Così pure le Chiese furono rispettate; anche la canonica illesa. De­positi e negozi vuotati. C’è un po’ di gente, accorsa a vedere le proprie case e i negozi. C’è in tutti amarezza, ira, sdegno. Parole scomposte si odono da molti, specialmente contro le autorità che non si sono fatte vedere. Raccolgo qualche parola aspra contro di me. Vicino al Municipio un uomo che sta rimettendo in sesto, alla meglio, le porte del suo negozio svaligiato, vedendomi mi dice ad alta voce: «A Bedonia l’Arciprete ha salvato il paese! ». Parole che mi vanno al cuore! Forse non ho fatto il mio do­vere!… Eppure credo di non aver meritato il rimprovero di non aver salvato il paese; poiché codesta gente è venuta con un piano ben pre­ciso: punire la popolazione e il paese che ha accolto i partigiani, punizione tanto più aspra, quanto più deserto è stato trovato il paese, poichè questa fuga è la prova migliore della connivenza della popolazione con i «Ribelli»: questa la mentalità, formatasi per convinzioni pro­prie e per l’intrigo di chi ha istigato alla rappresaglia: mentalità che può riuscire immensamente dannosa. Invece il paese è vuoto per le in­cursioni! Inoltre i migliori custodi delle proprie cose, ne sono i padro­ni; e quindi, se questi se ne sono andati o per timore dei bombardamenti e per timore dei tedeschi, è strano che si pretenda che altri, sia pure l’Arciprete, pensi a difenderli. E poi se avessi risparmiato una ca­sa e non fossi riuscito a risparmiarne un’altra? Forse i guai sarebbero stati peggiori. Comunque mi rincresce molto il non essermi trovato in paese. Da uno sguardo anche approssimativo i danni sono gravissimi. Il problema dell’approvvigionamento viveri si presenta subito urgentissimo. Le riserve che si trovano nei depositi dell’annonaria sono state più che rubate, sciupate. È un pensiero che mi tormenta. Che cosa deb­bo fare? Penso a una colletta di grano per mezzo dei parroci; ma at­tendo.

18 giugno, domenica. – Mestizia in tutti. Le funzioni sono ridotte ai minimi termini. La gente è pochissima. Le SS. Messe tardive non possono celebrarsi, per gli allarmi continui. E poi… stamattina non ci sono nè i Curati nè il sacrestano: non so dove siano andati; non han­no ancora fatto ritorno. Vado a S. Vincenzo per visitare i parrocchia­ni sfollati.

19 giugno, lunedì. – Dopo lo sgomento di questi giorni sembra es­serci una ripresa. Per iniziativa di alcuni cittadini, si fa una riunione di una quindicina di persone in canonica, per pensare al da farsi. Sono in­vitato anch’io. Oltre il Podestà sono presenti il sig. Bracchi P.d.M., l’avv. Ferrari, l’ingegnere della «Milanese – Azzi », il dotto Molinari e gli altri non li conosco ancora. Il Podestà riassume lo stato delle cose, poi dà la parola all’avv. Ferrari, il quale dice che occorre lasciare da parte le proprie idee politiche e unirsi per ovviare alla situazione che si è venuta creando. La conclusione è che occorre riprendere le rela­zioni con le autorità provinciali, per questo una commissione sarà in­viata a Parma. Di essa si propone che facciano parte il Podestà, il p. Bracchi e un altro, credo il sig. Picelli per la Banca della Cassa di ri­sparmio. La difficoltà da superare; la libertà delle strade, ostacolate dai partigiani. Si dà incarico a me di prendere i contatti con questi per avere le seguenti assicurazioni: incolumità personali del Podestà e de­gli altri, sicurezza per il mezzo di trasporto, l’automobile che sarà data dal sig. Tosi, sicurezza per le somme che eventualmente saranno por­tate da Parma. Cosi per la prima volta ho contatti con i partigiani, il che avviene il pomeriggio stesso in una località fissata. Le assicurazioni sono date. Io colgo l’occasione per suggerire moderazione e rispetto e astensione da atti inconsulti. Lo scambio di idee è abbastanza vivace. Capisco che non è facile fare intendere certe cose. Questi giovani posseggono molto entusiasmo; sono persuasi che ormai siamo alla vigilia di avve­nimenti decisivi, e che la soluzione della situazione locale è prossima, fra pochi giorni. Evidentemente l’entusiasmo fa velo al raziocinio: ma come si fa a fare intendere ciò? Nel pomeriggio ritorna Don Mario: mi racconta la sua avventura. Insieme con Don Bernardino e con il sig. Tanisio Brugnoli si sono portati fino a Gravago. Don Bernardino non ritorna: credo che andrà a casa sua. Io intanto penso che fare: sarebbe bene pure che a Parma andassi anch’io come Parroco. Ne parlo con il sig. Bracchi, perché se crede lo accenni al Podestà.

20 giugno, martedì. – La sera tardi un signore, L. F., viene da me per pregarmi di andare domani a un convegno di capi patrioti e del sig. M. e di lui stesso. Io faccio qualche difficoltà, sia perché pensavo di andare a Parma domani, sia perché la cosa non mi sembrava pru­dente. Ma egli mi assicura che per il bene del paese e della popolazio­ne ciò è necessario. Prometto di andare. Nella giornata si sono viste circolare macchine di partigiani. Co­minciano ad agire allo scoperto. Ogni autorità o è eclissata o è impo­tente.

21 giugno, mercoledì. – Il sig. Podestà e il sig. Picelli vanno a Parma. Il P. Bracchi già pronto per partire secondo gli accordi, è pregato dal Podestà di restare, preferendo di andare solo dal Capo della Pro­vincia. Ciò non mi è piaciuto e so che anche agli altri non piacque. Si ha l’impressione che il Podestà pensi a salvare più se stesso che la si­tuazione del paese. Comunque non è stato un atto simpatico, nè in­dovinato. All’ora fissata e al luogo stabilito vado al Convegno. Mi trovo con i capi della Brigata « Liguria ». Anche in questi riscontro la stessa men­talità: occorre agire, perché si è alla vigilia: fra dieci o quindici giorni al massimo. I successi militari degli americani in Italia e quelli russi e soprattutto la propaganda inglese e l’ordine del gen. Alexander ai par­tigiani di agire, fanno credere a questi giovani che ormai l’ora è giunta. A parte il fatto che l’ordine del gen. Alexander non è rivolto ai parti­giani di qui, basta dare uno sguardo alla carta geografica e guardare con obbiettività allo svolgersi degli avvenimenti, alla sempre più cre­scente difficoltà che gli Anglo – americani incontrano e agli ostacoli an­che di carattere puramente naturali che si frappongono, basti pensare alla catena degli Appennini, per capire che l’ora è invece ancora molto lontana. Svolgo queste idee, metto avanti la necessità di non coinvol­gere in possibili rappresaglie la popolazione, insisto sulla necessità, an­che nell’interesse dei partigiani, di restare sui monti; infine accenno alle condizioni spirituali delle loro squadre. C’è discussione vivace; ma mi pare di aver fatto qualche cosa di bene; di aver fatto capire qual­che idea. Mi pare… ma e poi?

22 giugno, giovedì. – Il Podestà è tornato da Parma, con il risulta­to che la sua domanda già ripetutamente rivolta al Capo della Provin­cia, di essere esonerato dalla carica, è stata accettata; per il resto, esito negativo. Ci saranno tagliati tutti i viveri perché paese di ribelli. Nel pomeriggio, altro incontro brevissimo con i capi di ieri, ai qua­li riferisco l’esito negativo degli approcci con Parma; insisto di nuovo sulla astensione da atti compromettenti, che rendono più grave anco­ra una situazione già molto grave. Intanto il problema dei viveri diventa urgente, non ci sono più scorte; e non si sa come provvedere per il pane. Penso di fare una que­stua e preparo una circolare ai Parroci, chiedendo che raccolgano fru­mento, che poi invieranno in canonica e all’asilo e che io distribuirò ai poveri e agli operai.

Anche la situazione operaia si aggrava. Molti vengono licenziati. Penso che noi sacerdoti dobbiamo essere i primi a provvedere, affinché il popolo veda che pensiamo a lui. Mi si dice che è giunto dal Comando Supremo Italiano dell’Italia occupata dagli inglesi un colonnello (di nome Clerici?) per prendere il Comando delle banda dei patrioti e unificare l’attività e impedire azio­ni imprudenti e riprovevoli. Se ci riuscirà! L’individualismo mi pare una delle più gravi crepe nel campo partigiano.

24 giugno, sabato. – Si riunisce di nuovo in Comune un gruppo di persone per ascoltare la relazione del Podestà. Questi riferisce che è dimissionario, che Parma non intende aiutare, che il capo della Provin­cia, dietro sua insistenza e più ampie informazioni da lui fornite in­torno agli avvenimenti di Borgotaro si riservava di parlare con il comando tedesco, e che eventualmente ripassasse. Ciò detto, dichia­rava che ormai egli si considera un semplice cittadino, ma non rifiuterà tutta la collaborazione che gli si chiederà. L’atteggiamento di Parma che colpisce tutta la popolazione innocente, mentre d’altra parte non sa o non può o non vuole dare la difesa di cui ha bisogno, incontra la più viva indignazione, espressa in modo molto vivace dal Com. Ca­landra. Ma intanto il sorvolo di una grossa formazione di bombardie­ri fa scendere a piano terreno e in parte disperdere gli adunati. Alla adunanza è presente anche A. P., partigiano, invitato, il quale riprende l’adunanza e si trattano specialmente argomenti di carattere tecnico. Ciò osservato, me ne vado. Ormai può dirsi che anche Borgotaro è occupato dai partigiani, che prendono in mano la direzione dei servizi.

25 giugno, domenica. – Vado a celebrare le seconda Messa a Gotra per i nostri parrocchiani sfollati; come al solito, le funzioni si fanno come si può. Nel tardo mattino, incomincia una forte sparatoria alla stazione ferroviaria: uno scontro tra partigiani e militi e fascisti: c’è un morto e 8 tedeschi rimangono prigionieri. I commenti della gente sono improntati a diffidenza e a timore.

27 giugno, martedì – Ho un colloquio con il Cav. Marchini, e si cerca di trovare una soluzione alla situazione di Borgotaro. La presen­za dei partigiani in paese non può essere utile, non può essere ammes­sa. Si pensa di pregare il Com. Calandra di accettare la carica di Com­missario la cui nomina verrebbe chiesta a Parma: il Com. Calandra è persona assai distinta, ha già coperto questa carica qualche tempo fa, prima del Potestà Zibioli, ed è accetto non solo a Parma, ma anche qui a tutti, partigiani compresi. Gliene parliamo, ma non accetta. Si pensa al prof. Pierangeli, egli pure persona molto distinta e accetta a tutti; e sembra che la cosa vada in porto. Condizione essenziale a tutto dò: la uscita dei Partigiani dal Bor­go e dai dintorni. In seguito ad accordi con il sig. Colonnello, ciò av­verrà quanto prima.

28 giugno, mercoledì. – I partigiani non se ne vanno; anzi appare chiaro che intendono conservare la direzione dei servizi. Si prendono già disposizioni: carne due volte la settimana e requisizione di frumen­to per la panificazione. Essi poi assicurano che non avverrà più il bom­bardamento e per questo fanno cessare il segnale di allarme. La gente, è piuttosto incredula.

29 giugno; giovedì – Festa di S. Pietro. – Celebro la prima S. Messa in Parrocchia e parlo del Papa e invito alla preghiera per Lui, quest’an­no specialmente che ce lo sentiamo, con la occupazione di Roma, stac­cato da noi. Poi vado a visitare i nostri parrocchiani sfollati a Porciga­tone. Di qui la sera passo a Pieve di Campi per lo stesso motivo.

30 giugno, venerdì. – Alla S. Messa sono presenti tutti i borgotare­si sfollati a Pieve di Campi. Ad essi pure rivolgo parole di conforto e di speranza; e grande è la loro soddisfazione, che curano di manifestare in tutti i modi. La sera giungono notizie da Borgotaro che offuscano la letizia della giornata. Una autocolonna dei tedeschi, proveniente da Berceto tenta di raggiungere il Borgo. A Pontolo vengono prelevati ostaggi, e viene uc­ciso un povero vecchio di oltre 80 anni, nella porta di casa; altre per­sone vengono prese lungo la strada, sia uomini che donne e bambini. Il Dott. Adolfo Marchini che si reca in moto con un altro signore, a Ostia, sua condotta, è pure arrestato. Una squadra di partigiani intanto circonda i tedeschi e si impegna un sanguinoso combattimento, in cui trovano la morte una decina di ostaggi, che i tedeschi avevano collocato come scudo dinanzi a sé; rima­ne grevemente ferito il Dott. Marchini, il quale, a un capo partigiano che gli gridava: «Ti vendicheremo », rispondeva molto cristianamente: «Basta, non uccidete più! ». Rimane pure ucciso il Dott. Bruno Antoli­ni, partigiano, che viene ricordato come persona distinta, di buona fami­glia, e di ottimi sentimenti religiosi, e che lascia la vedova e una bam­bina in tenerissima età: si era arruolato nei partigiani spinto da ideali intimamente sentiti, ed era fra essi una delle figure più belle. Rimane ucciso anche un operaio, Levanti, padre di 9 figli, della Unione U. C. Il lutto che colpisce non solo numerose famiglie, ma anche tutta la cit­tadinanza, vela di dolorosa mestizia il volto di tutti. La gente è impau­rita per il gesto barbaro dei tedeschi e lo depreca a viva voce. Il combattimento cessato sulla sera, si è concluso con numerosi pri­gionieri, compreso il Capitano comandante, fiero e duro uomo, membro della Gendarmeria.

luglio, sabato. – Passo la giornata a Campi, dove trovo una colo­nia numerosa e affezionata di Parrocchiani, che ritornano anche nel po­meriggio per un’ora di adorazione. Sono circondato da mille attenzio­ni. Tengo anche una adunanza di Dirigenti G. F. di A. c.; alle quali promettono valido appoggio alcuni dirigenti borgotaresi; e poi un’adu­nanza alle giovani della Parrocchia.

luglio, domenica. – Oggi è la giornata per gli sfollati a S. Martino. So che sono stati avvertiti e che attendono con tanta ansia. Alla S. Messa sono molti. Ma, ho appena iniziato il discorso di saluto, che un’ondata di apparecchi si abbatte sul ponte della ferrovia di Borgota­ro, con uno scroscio di bombe così violente che la Chiesa tutta è in sob­balzo. La gente si impressiona, grida e vuol uscire, ma ne è trattenuta. Pochi minuti dopo, un’altra ondata sgancia altre bombe… Invito alla calma, e mi sforzo di mantenermi sereno. Aggiungo qualche parola, ma mi accorgo che non vale la pena. Riprendo la celebrazione della Santa Messa, con l’animo angosciato. Ma ecco, poco dopo la fine della Santa Messa, una terza ondata di apparecchi completa l’opera. Non capisco questo accanimento; non capisco come questo benedet­to ponte possa avere tanta importanza, specialmente quando tutta la fer­rovia è rovinata, e rovinati sono già tutti i ponti di essa. E pensare che i partigiani andavano dicendo che non sarebbero più venuti a bom­bardare! Essi pure ci rimasero male! Una vittima all’imbocco della fat­toria: il partigiano Cesare Bassani, studente di medicina, 4° anno. Il povero tormentato Borgo è sempre più desolato. La sera sul tar­di, si fanno i funerali del povero Dott. Antolini.

luglio, lunedì. – Si insedia una Giunta Comunale provvisoria, pre­sieduta da un Commissario civile, prof. Achille Pellizzari, che tiene in Comune la prima adunanza. È stato mandato l’invito anche a me, ma mi è stato consegnato la sera tardi, e non ho preso parte alla riunione. Non ne ho provato dispiacere. Muore il dotto Marchini, e suscita in tutti un grande cordoglio. Tut­ti hanno espressioni di grande stima per lui, come professionista coscien­zioso, e come cittadino onestissimo, e come cristiano di aperta profes­sione di fede.

luglio, martedì. – Due funerali: la vittima del bombardamento Ce­sare Bassani; e il povero dottore. I partigiani hanno pubblicato manife­sti necrologici, e fanno spiegamento di forze ai funerali. lo sono profondamente amareggiato. Da oltre un mese e mezzo non faccio che funerali di povere vittime: pare sia venuto a Borgotaro che per accompagnare al Cimitero povere vittime dell’odio fraterno e del furore bellico. Guardo col pensiero al futuro e non scorgo che sintomi di nuovi dolori e di nuovi lutti. Mi persuado sempre più che la situa­zione del nostro Borgo è sempre più precaria e pericolosa; eppure c’è tanta gente che si illude di poterla tenere in pugno. Io tremo per la no­stra povera gente.

luglio, mercoledì. – I parrocchiani di Borgotaro sfollati a Gotra mi avevano pregato di ritornare con loro nella frazione di Roncole, do­ve c’è un piccolo Oratorio, dipendente dalla stessa Parrocchia, e dove c’è un gruppo notevole di sfollati. Oggi ci sono andato e ho celebrato la S. Messa nell’oratorio, dove l’Arciprete di Gotra D. Felice De Stefanis, gentilissimo, mi ha fatto trovare tutto pronto, e dove ho raccolto tutti i miei parrocchiani. Ho avuto anche la gioia di ammettere alla prima Comunione, una bambina borgotarese. Giuliani… La famiglia Ber­nardi, insieme con un’altra famiglia…, ha voluto tenermi a pranzo, con l’Arciprete di Gotra e il Parroco di Buzzò, D. Giuseppe Riccoboni. Tut­ta la frazione ha solennizzato la giornata. Comprendo e mi persuado sempre più che queste visite ai parrocchiani è quanto di meglio ora pos­sa fare: ricostruire idealmente la Parrocchia! Nel pomeriggio, presto per desiderio della stessa gente, facciamo un’ora di adorazione nella Chiesa di Buzzò; e cosi posso vedere e salu­tare gli sfollati di qui.

Ritorno presto a Borgotaro, per partecipare a un’adunanza della co­si detta Giunta Comunale Provvisoria, a cui sono stato nuovamente espressantemente invitato. Presiedeva il già nominato Prof. Pellizzari. In fondo non ne sono stato malcontento, perché ho potuto impedire alcu­ne deliberazioni che, secondo me, sarebbero state nocive, in un momen­to in cui molti operai e sfollati riescono a stento, quando riescono, a comprarsi il pane. La riunione ebbe carattere esclusivamente annonario, e vi presero parte altre persone che potevano essere competenti. Mi ha sorpreso la sicurezza con cui il Commissario giudicava la so­luzione della situazione attuale e la stabilità dell’amministrazione parti­giana. Io invece in cuor mio giudicavo molto diversamente, e continuo ad essere molto… pessimista.

luglio, sabato. – Oggi altro tentativo tedesco di aprirsi il varco a Borgotaro. Stamattina è stata segnalata la presenza di una colonna di tedeschi, che da Guinadi è salita al Bratello e di qui è discesa verso Borgotaro, passando per Valdena; S. Vincenzo e Rovinaglia. Nel tardo pomeriggio sono stati incontrati dai partigiani e si è ac­ceso un combattimento che si è protratto fino a sera inoltrata, lungo il Tarodine. Alcuni tedeschi rimasero uccisi e numerosi vennero fatti pri­gionieri. Un partigiano non ha fatto ritorno. La novena alla Madonna del Carmine iniziatasi ieri sera con discre­to numero di persone (alcune sono entrate in vista della festa, o per un certo senso di euforia per le assicurazioni dei partigiani che non av­verranno più bombardamenti, tanto che non viene più suonato l’allar­me) viene sospesa per stasera.

luglio, domenica. – Dopo le funzioni del pomeriggio vado in pel­legrinaggio al Santuario della Madonna di S. Marco a Bedonia. Presen­to che si avvicinano giorni gravi per tutti: l’episodio di ieri, che per al­cuni rappresenta un altro segno della capacità di resistenza dei partigia­ni, è per me invece un altro sintomo della volontà tedesca di liberare la strada verso Chiavari. E perciò vado a chiedere alla Madonna luce e forza per me e per la Parrocchia. Quasi tre ore di strada. Che differenza dagli altri anni! Trovo la strada deserta: solo a Compiano un gruppo di curiosi attorno a un ca­mion dove sono caricati alcuni prigionieri svedesi. Al Santuario, più anima viva! Ed è il giorno della Festa della Madonna! Ricordo gli an­ni, in cui ero qui in Seminario; e, senza ritornare molto indietro, ricor­do lo scorso anno, in cui la folla di devoti e di pellegrini rigurgitava dal Tempio e affollava le strade. Speravo di trovare a Bedonia più calma che al Borgo. Invece an­che qui sono giunte notizie di colonne di tedeschi che saliti al Bocco discenderebbero verso S. Maria del Taro. Vi è quindi grande appren­sione, numerosi lasciano il paese. Dentro il Seminario trovo, nel Salone dell’ala nuova, un ospedaletto costruitovi dai partigiani: vi sono quattro tedeschi feriti, e alcuni partigiani di cui uno molto grave. I Superiori del Seminario furono co­stretti a cedere il locale; ora debbono anche in gran parte provvedere ai servizi e al nutrimento dei feriti. Le Suore sono pronte a tutto. La presenza dei feriti tedeschi potrà essere una garanzia di protezione con­tro eventuali rappresaglie di domani?

10 luglio, lunedì. – Celebro la S. Messa al Santuario; chiedo alla Madonna la grazia che mi assista nei giorni che verranno. Sul mezzogiorno giungono altre notizie ancora della presenza dei te­deschi nell’alta Val Taro: si dice che, occupato S. Maria, sono discesi e si trovano a Pelosa. Nel pomeriggio qui avviene uno scontro sanguino­so, che si protrae fino alla sera. Ne abbiamo una documentazione la sera stessa, quando portano qui numerosi feriti e una cinquantina di prigionieri tra i quali anche molti italiani. A Pelosa deve essere succes­so una carneficina orribile. Tra i Partigiani han trovato la morte un ca­po, tale Fortunin di S. Maria e una giovane di Tarsogno. Ma i tedeschi e gli italiani uniti con essi devono aver avuto moltissime vittime. Le di­chiarazioni dei prigionieri sono esplicite. I prigionieri italiani spiegano come si trovino insieme con i tedeschi, e senza dubbio caricando le do­si e accentuano i dolori, le fatiche e le umiliazioni; si dichiarano innocen­ti di tutto, poiché costretti, e chiedono che si interceda per loro affin­ché sia loro risparmiata la vita. Mons. Rettore è molto allarmato non soltanto per la sorte del Se­minario, ma soprattutto per i seminaristi. Decide di fare domani una giornata di ritiro, se si potrà, e poi di mandarli a casa. Mi prega di te­nere le meditazioni.

11 luglio, martedì. – Predico il ritiro ai seminaristi. Le notizie giun­gono incerte e contraddittorie. Si spera che ancora una volta i partigia­ni tengano testa ed essi che vanno e vengono si mostrano molto fidu­ciosi; ma non ci vuol molto a capire che presto o tardi la situazione sarà capovolta.

12 luglio, mercoledì. – Sono ancora in Seminario. Giunge notizia che i tedeschi sono giunti alle Piane: non è possibile: comunque è basta­to questo, perché in un baleno tutto il paese si sfolli. Dalle ore 11 in poi intere comitive con le provviste e masserizie che possono essere portate si susseguono in tutte le direzioni. Mons. Rettore licenzia i seminaristi. Il Vice Rettore con il gruppo di piacentini prende la via dei monti e li accompagna a casa. Gli altri se ne vanno ciascuno come può. Anche i professori studiano il quid faciendum; e alcuni senz’altro se ne vanno. Ritorno anch’io a Borgotaro. Lungo la strada è un continuo inter­rogarmi su quanto succede nell’alta Val Taro. Senza dar retta alle chiac­chiere, espongo le cose come sono. In questi giorni, al Borgo, nulla di nuovo. Ma sul volto di tutti si leggono evidenti i segni della preoccupazione più grave. Nei partigiani invece grande fiducia pensano che sia impossibile che i tedeschi dispon­gano ancora di tali forze da fare un rastrellamento in grande stile. Ma credo però che intimamente siano molto preoccupati: tra l’altro questo continuo succedersi di combattimenti deve aver esaurito le loro scorte di munizioni.

14 luglio, venerdì. – Mentre le cose si aggrovigliano sempre di più e stanno per precipitare, oggi vede la luce un giornale locale partigiano: « Italia nova». Si parla del movimento partigiano, di quanto ha operato special­mente in questi mesi, si accenna specialmente ai combattimenti avve­nuti, e si fa una descrizione della zona e dei paesi occupati nella Val Taro.

15 luglio, sabato. – Stamattina alle cinque siamo stati svegliati da al­cuni colpi di cannone, che ci sembrano molto vicini, e ben distinti da altri rumori di bombardamento. Sono andato alla finestra, e mi sono persuaso che venivano dalla zona di Valdena e S. Vincenzo. I colpi di mortaio si ripeterono a rapidi intervalli fino alle sei. Poi un poco di sosta; e ripresero a intermittenze più larghe verso le otto. Si capì subi­to che si ripeteva il tentativo da parte dei tedeschi di discendere al Bor­go per la via di Guinadi, Bratello, Valdena. Verso le nove mi riferisco­no che Bardi è stata occupata dai tedeschi e che i partigiani sono ritira­ti sui monti. Arrivano notizie che anche ai due Santi, al Gottero, al Cento Croci, al Bocco ci sono colonne di tedeschi in movimento. Ho l’impressione che si sia all’epilogo dell’avventura dei Partigia­ni. Anche in paese si nota un certo movimento sospetto; nel campo dei partigiani pure si osserva qualche segno di preoccupazione; se ne vede qualcuno passare; interrogato risponde che non è ancora detta l’ultima parola; che si combatterà; ma si intuisce che la partita è perduta. La gente osserva e dice: «E ancora ieri stampavano un giornale, come se le cose fossero normali e dovessero durare! »

E ora che cosa succederà? Cosa faranno del paese? Esco di casa per informarmi meglio. Intanto penso che nell’even­tualità ormai inevitabile della venuta dei tedeschi, sarebbe bene che qualcuno, dei rappresentativi, si presentasse al Comando a precisare lo stato delle cose. Incontro il sig. Alberto Tosi, Podestà di Compia­no; gliene parlo, condivide il mio pensiero, ma non mi assicura di unirsi con me. Lo prego di avvertire il Comm. Calandra che passi da me. Intanto incontro il sig. Alarino Gasperini e gli dico la stessa co­sa; egli mi assicura che se occorrerà sarà con me. Verso le 10,30 vie­ne in Canonica il Comm. Calandra; gli espongo il mio pensiero e cioè: «Ormai non c’è dubbio; fra poco arriveranno i tedeschi; per salvare il paese è necessario che le migliori persone si riuniscano e vadano ad incontrarli e attraverso l’esposizione dei fatti ottengano che il paese sia risparmiato da estreme e irreparabili rovine». Ci troviamo d’accordo. Facciamo alcuni nomi: oltre noi due, il Prof. Pierangeli, il Sig. Tosi, il Segretario Comunale Sig. Cantarelli, il Sig. A. Gasperini. Il commendatore si incarica di parlarne e si fissa un’adunanza in Canonica per le ore 16 di oggi. Purtroppo lo sfollamento per i bombardamenti ha allontanato dal paese altre persone che in quest’occasione avrebbero potuto aiutarci: forse erano ugualmente presenti altre, ma io, nuovo come sono, non so a chi rivolgermi. Del resto penso che anche un grup­petto così può essere sufficiente.

A mezzogiorno sono a Brunelli per il pranzo. Non ho ancora finito di pranzare che si annunzia che i tedeschi stanno per arrivare. Io sten­to a credere che sia così imminente il loro arrivo, perché dalle nove non si era udito più alcun colpo di mortaio, né si avevano udito noti­zie di combattenti. Ma dal movimento e dal passaggio di persone che fuggono, capisco che qualche cosa di nuovo deve esserci. Discendo rapidamente in paese. Lungo la strada incontro gruppi di gente impaurita che fugge, e si meraviglia come io invece vada giù; mi prega di allontanarmi. Invece sento in me il dovere di andare per es­sere presente a quanto sta per avvenire. All’ingresso del paese incontro la signorina Teresina Ferrari e un’al­tra (mi pare la sig.na Maria Brugnoli) e poco dopo arriva il sig. Alarico Gasparini, che di nuovo prego di voler fermarsi per vedere il da farsi. Sono le 14 circa. In Chiesa si adunano intanto alcune donne e da­vanti alla statua della Madonna del Carmine – siamo alla vigilia della sua festa e la statua è esposta sul suo trono nella Chiesa – e rimango­no a recitare il S. Rosario.

Faccio un giro per il paese: è il deserto, letteralmente. Presso la Chiesa mi trovo col sig. Gasparini, discutiamo della convenienza non solo di aspettare, ma di andare ad incontrare i tedeschi. Ormai non può essere che questione di ore. Poi giriamo di nuovo per il paese: incon­triamo un capo partigiano, che ci annunzia che presso Gotra i tedeschi hanno fatto prigionieri due capi partigiani: Zanrè e Scagliola. Noi gli chiediamo se in Paese non ci sono più partigiani; egli ci assicura che egli se ne parte e che non ce n’è più neppure uno. Noi insistiamo che ci dia la garanzia più assoluta ed egli ripete quanto ha detto. Intanto è sbucato qualche altro uomo: cinque o sei in tutto. lo ritorno in Chiesa e mi unisco alle donne a pregare. Poco dopo viene il commendatore Calandra per la adunanza; aspettiamo una ven­tina di minuti, ma non arriva nessun altro. Usciamo, ci lasciamo con l’intesa che al momento opportuno ci saremmo trovati col sig. Alarico Gasparini per andare insieme.

Non sono passati che una quindicina di minuti, che viene il sig. Felbi (elettricista) a dirmi: «Se vuole andare, è ora: arrivano dalla parte del Cimitero! ». Chiedo al Signore e alla Madonna col pensiero e col cuore, la grazia della necessaria fortezza e prudenza: si tratta di salva­re forse persone e case: non ci può essere dubbio su le intenzioni dei soldati tedeschi, ne avevamo avuto un esempio un mese prima: e allo­ra non si trattava di rastrellamento in piena regola, come ora. È neces­sario tentare la Madonna del Carmine che ha salvato il paese da altre occasioni (mi hanno detto di una peste che avevano arrestato per le preghiere che la popolazione aveva fatto alla B. V. del Carmine, un se­colo fa) manifesterà la sua assistenza anche ora, la vigilia della sua Festa. Esco dalla porta principale e sul piazzale incontro il Comm. Ca­landra e il sig Gasparini. Vediamo là una colonna di soldati discen­dere per il viale del Cimitero; giunta a S. Rocco si arresta un mo­mento, e poi si avvia verso il ponte. «Andiamo? »… Il sig. Gaspari­ni si unisce con me: il Commendatore non si arrischia e ritorna in­dietro.

Col fazzoletto bianco in mano che agitiamo, ci avviamo verso il ponte, e ci portiamo incontro ai soldati. Con le parole e coi gesti, so­prattutto con questi, assicuriamo su la nostra vita che in paese non ci sono nè partigiani nè armi, e che possono entrare con assoluta si­curezza. Ci chiedono quando i partigiani se ne sono andati, e rispon­diamo fin dalla mattina; e poi vogliono sapere perché il paese è de­serto: «Ciò vuol dire – insistono – che tutti sono banditi! ». (Banditi è la parola che sanno pronunziare bene, e che usano a tutto spiano!). Noi spieghiamo che il paese è vuoto perché i ripetuti bombardamenti hanno fatto sfollare la gente; e i pochi rimasti sono fuggiti per non essere coinvolti in un eventuale combattimento. Le due ragioni che pur sono vere non soddisfano, perché non vedono alcuna casa distrut­ta; e insistono col ritenere tutti banditi. Capisco che questa insisten­za è una brutta sonata… Siamo confinati presso il distributore della benzina insieme con il mugnaio sig. Volta e i panettieri, sig Saglio di S. Rocco che hanno già presi come ostaggi. Intanto fanno segnalazioni con razzi. Sono le 17 circa.

Poco dopo arriva un’altra colonna più numerosa; in capo vi è il Comandante, un Maggiore. Ci presentiamo di nuovo e di nuovo dia­mo le assicurazioni già date, e le spiegazioni intorno alla mancanza della gente. Un tasto sempre duro. Per mezzo di un ufficiale che sa par­lare latino e con la solita minaccia, ci si intende e si viene a un accordo: la popolazione sarebbe dovuta rientrare almeno la più vicina, per le ore 10 di domani, e sarebbe stato rispettato nella perquisizione che avrebbero fatto nelle case per vedere se vi erano nascosti partigiani o armi. Noi ci impegnammo a diffondere la notizia nel modo migliore. A questo punto sopraggiunge il Comm. Calandra, il quale riconferma quanto noi avevamo già detto. Intanto in pochi momenti impiantano la radio, e i servizi neces­sari; e poiché qualche soldato aveva incominciato a sfondare le porte, viene richiamato. Mentre il sig Gasparini accompagna un gruppo di soldati in paese in cerca di un albergo, e trova aperta l’osteria Pellacini sul viale Bottego, io rimango col Comandante e gli altri ufficiali e soldati che vanno sempre più aumentando. Il Comandante riprende il discorso sull’assen­za della gente e io insisto su le ragioni addotte e insisto anche su la di­stinzione delle responsabilità dei partigiani da quelle della popolazio­ne che ha già avuto una ventina di vittime, ha subito una decina di bombardamenti, due saccheggi, ed è disarmata. Il Maggiore allora mi dice testualmente così: «lo ho piene facoltà di distruggere il paese, ma non lo farò se voi farete opera leale di pacificazione» e sottolinea la parola leale, che mi venne ripetuta in francese: loyale. lo rispondo così: «Per questo sono venuto ad incontrarmi, per fare opera leale di pacificazione ». E ci diamo la mano come ce l’avevamo data prima, per l’accordo già accennato, come per ratificare un accordo.

Poi mi chiesero dove era il «Tunnel », ossia la galleria e se vi erano partigiani; e vollero che vi accompagnassi una squadra di sol­dati. E così andai verso la stazione: evidentemente avevano voluto che li accompagnassi, perché non si fidavano, per avere quindi un pa­rafulmine, poiché alla stazione vi si trovavano già altri soldati. Qui fui licenziato e lasciato libero. Venne pure lasciato libero un uomo di Val­dena o San Vincenzo, non ricordo bene; così come erano stati rilascia­ti liberi i primi ostaggi. Ritorno con l’animo pieno di riconoscenza alla Madonna, perché pare che le cose non si mettano male. Vado a casa per mezzo di un soldato, mando alcune bottiglie di vino ai Comandanti. Sono ormai le ore 20. Poco dopo, sono richiamato al Comando: il Maggiore ordina che per le 22 siano preparate 400 razioni di pastasciutta. Noi diciamo che siamo sprovvisti di pasta e di condimento, ed è la verità; ma non vuol sentire ragioni, e dichiara responsabile Gasparini, me, e Com. Calan­dra che è pure presente. Poi ci chiede informazioni su Bedonia e Pon­tolo, il chilometraggio della strada, raduna la truppa e via verso Pon­tolo.

Noi ci guardiamo in faccia stupiti e impacciati. Raccogliamo alcu­ne signore e signorine, chiediamo aiuto alle Suore dell’Asilo, an­diamo all’« Appennino », dove fortunatamente è rimasto uno dei padroni, il sig. Orlando…: ma si constata la impossibilità di prepa­rare quanto ci è stato chiesto. Andiamo al pastificio, sfondiamo la porta, ma non vi è pasta pronta. Si decide di preparare 400 razioni di pane e carne; e si va ad un negozio di carne, che pure sfondiamo (stiamo per imparare il mestiere anche noi!…) e all’« Appennino» si prepara. Le ore passano, passano; viene la mezzanotte e poi l’una e anco­ra nessuno si fa vedere. Intanto dal sig. Gasparini vengo a sapere che mentre io sono andato alla stazione è giunto un gruppo di prigionieri tedeschi fatti dai partigiani, tra cui il Capitano di Pontolo e della Ma­nubiola, laceri, sporchi, che hanno – specialmente il Capitano che mo­stra le cicatrici delle percosse – una decisione ostile del trattamento avuto, e il Maggiore ne è rimasto molto gravemente sdegnato. Il ritardo, e questo episodio mi fanno nascere sospetti. Resto a dormire, qui all’« Appennino »: sono le 1,30.

16 -17 -18 luglio – Il Triduo della cattività. – Stamattina, Festa della Madonna del Carmine, mi reco subito dall’« Appennino» alla Chiesa, per dare i segnali della prima Messa. Vedo qualche soldato qua e là, all’incrocio delle vie. Suono l’« Ave Maria », alle 6,30, apro la Chiesa, e subito dopo incomincio a sentire colpi alle porte, come di chi voglia sfondarle. I primi sospetti cominciano a delinearmisi realtà. Mi affaccio su la via Cesare Battisti, e un soldato mi vede e mi grida: «Al Comando! Al Comando! ». Poi ne trovo altri, che ugualmente ripetono la stessa cosa e mi segnano la direzione: in ca­po al ponte di S.Rocco. Mi avvio. Giunto, vi trovo già il sig. Gaspa­rini e altre due o tre persone; e vedo quattro soldati di guardia, ver­so il ponte, verso la strada di destra e di sinistra e verso Porta Po­rtello. Sono in trappola.

Adagio adagio altri giungono isolati o a gruppi; poco dopo ar­riva anche il Curato disceso da Brunelli e il Collegiale sig. L. Galluz­zi. Ci guardiamo in faccia e ci interroghiamo a vicenda: «Che suc­cederà?» Si sentono ovunque porte sfondate, già si osservano da chi arriva, negozi svaligiati. Ormai non c’è più dubbio; un nuovo svali­giamento in piena regola. Il gruppo delle persone si va crescendo: uomini, donne, vecchi, bambini: tutti quelli che vengono trovati per le strade e nelle case. Non c’è un ufficiale: non si riesce a sapere il motivo di tutto ciò. Non si era fatto un accordo ieri? Dai paesi vicini a cui già era arri­vata la notizia di rientrare, la gente stava venendo; ma non appena venne a sapere ciò che stava succedendo, ritornarono indietro e si nascosero, e gli uomini si diedero ai monti. Si dice che fra poco arriverà il Comandante e saremo liberi. Pas­sano le ore lunghe, angosciose, piene di ansia e di tribolazione. Il Comandante non arriva mai, quindi l’incertezza grava penosa su gli animi. Le donne piangono, i bambini strillano. Così quest’anno, la nostra Festa della Madonna del Carmine. Mol­ti me ne parlano, mi descrivono la solennità, lo sfarzo degli anni scor­si: è senza dubbio la festa più solenne di Borgotaro in cui essa dava sfogo al suo sentimento religioso e al suo colore folcloristico. E ora? ! . ..

Io dico loro che forse non abbiamo mai passato una festa della Madonna del Carmine più preziosa, perché mai così tribolata. Cerco di far coraggio e confidare. E anch’io spero ancora di poter almeno celebrare la S. Messa. Ma verso le 11,30, non cambiando le cose, chiedo di andare a dare un’occhiata alla Chiesa. Vengono con me Don Mario, il Padre Giuseppe Giornelli, Lazzarista, e il collegiale Galluz­zi, accompagnati da una guardia tedesca. In Chiesa ci comunichiamo e chiediamo a Gesù e alla Madonna la forza della rassegnazione e della fiducia. Era ora. Infatti ritornati, dopo venti minuti, vediamo la gente raggruppata intorno al Comandante, che sta parlando e dando disposi­zioni. Ci affrettiamo e finalmente! Ora quasi mi rincresce di aver fat­to la S. Comunione, poiché spero che mi liberino. Le donne vengono messe in libertà; così pure i più anziani oltre i 65 anni. Quando ciò viene fatto, il comandante a mezzo dell’interpre­te dice, rivolgendosi al sig. Gasparini, a cui io mi sono messo a fianco: «Voi ieri avete dato garanzia su la vita che in paese non vi erano ar­mi: ora invece sono state trovate molte armi e gran quantità di mu­nizioni: perciò voi pagherete con la vita!… ». Non capisco se ciò lo di­ca al solo Gasparini o anche a me comunque non c’è da farsi illusioni. Poi rivoltosi agli altri uomini, prosegue: «Dei nostri soldati mancano ancora 150: finché non saranno tutti restituiti, voi sarete trattenuti, e dei mancanti risponderete con la vita».

Dal gruppo delle donne si levò un urlo di dolore, e in tutte uno scroscio di pianto. Poi si alzò un coro di proteste da parte degli uomi­ni e delle donne; si fece osservare che combattimenti avvennero an­che in luogo molto lontani di qui, e per essi non era giusto che si pa­gasse noi. Il comandante allora dice «Dieci donne, con un nostro lasciapassa­re, potranno andare per i monti a ricercare i prigionieri tedeschi; entro due giorni! …» Molte donne si offrono per questo: una bella gara di fraternità. Noi uomini, cinquanta in tutto, siamo incolonnati e rinchiusi nel re­cinto della casa Mangora, presso il ponte. Le donne potranno venire a portare da mangiare. Sono le 12,30. Ore amare! Tutte le eventualità passano per la nostra mente; tutte le possibilità vengono esaminate; in tutti una grande angoscia. Che proprio ci debbano mandare tutti all’al­tro mondo, non ci si crede proprio; ma che ci facciano fare un viaggio fino in Germania, o, per lo meno, che ci abbiano a tenere per parecchio tempo, tutto questo rientra nelle probabilità. I saluti che vengono man­dati ai partigiani si possono immaginare. Il sig. Gasparini e io siamo insieme con gli altri: pare quindi che se ne condividerà la sorte, e che quanto è stato minacciato, resterà una minaccia: ma… chi lo può sa­pere?

Alle 15 siamo di nuovo incolonnati e condotti all’Albergo Roma, nei locali occupati dalle Suore Dorotee, sfollate; e distribuiti in quattro piccole stanze al secondo piano, e guardati da sentinelle armate. Ci si comunica che quando saranno liberati i prigionieri tedeschi tenuti dai partigiani anche noi saremo messi in libertà. Non ci rimane che adattarci alla nostra sorte. Si rimane così tutto il pomeriggio, tutto il lunedì seguente e il martedì. Si dorme come si può; da un piano superiore hanno portato tre materassi, alcuni guan­ciali e sottopedane ci si arrangia! I parenti, alle ore fissate e cioè alle 8, 12 e 18, mandano da mangiare. Molti riescono ad avere anche oltre il necessario, specialmente il vino.. Ogni stanza diventa una… camera­ta; cessano le distinzioni sociali e si fraternizza con molta cordialità. Ciò serve a diminuire la pena.

L’animo è come un’altalena… secondo le notizie… vere o supposte, che arrivano attraverso le finestre dalle donne, che ogni tanto giù fan­no la ronda e cercano di mettersi a contatto con qualcuno di noi: così vi sono momenti di ottimismo anche accentuato, ai quali non di rado succedono altri di pessimismo non meno acuto. Altre volte a produrre questi alti e bassi sono le visite dei documenti tedeschi, il loro atteggiamento, i loro gesti, le loro parole, o il gesto e le parole della guardia: quando le corde sono tese, anche il tocco più lieve serve a farle vi­brare. Sono stato per tre giorni a contatto con i miei uomini: e ne sono stato contento. Se a me fosse stata data la libertà ad essi fossero stati trattenuti, avrei sì lavorato per la loro liberazione, ma ne sarei stato molto malcontento. Invece l’aver condiviso con essi la stessa sorte mi fa molto piacere. Mi sono trovato a contatto con uomini di ogni condi­zione, poveri e ricchi, operai e impiegati e professionisti, e ho potuto misurare e controllare i loro sentimenti. Ho notato un grande affetto nelle loro famiglie: esse stavano al vertice dei loro pensieri e dei loro affetti, ripetevano che non si preoccupavano di sé, ma di loro soltanto e parlavano delle loro spose e dei loro figli e della loro mamma in mo­do da commuovere veramente; non li ho sentiti mai bestemmiare, sal­vo qualche imprecazione lieve, e tutti la sera recitavano insieme con me il S. Rosario, anzi, fu proprio qualcuno di essi a chiedermi di recitare il S. Rosario, sebbene io avessi già in animo di far loro la proposta.

Due volte ho avuto qualche momento di libertà: la domenica sera, per andare a chiudere la Chiesa, e il lunedì sera per andare a dare i Sacramenti a una povera inferma e a fare i funerali alla povera sig. Viet­ti, morta già da quattro giorni. Ogni volta sono stato accompagnato da una guardia, a vista. In queste occasioni le poche persone che erano in paese, donne soprattutto, mi si sono affollate intorno per confortarmi. La commozione mi ha sorpreso ogni volta, specialmente, quando doven­do rientrare, si mettevano in ginocchio e mi chiedevano e volevano la benedizione. Povera la mia gente!… Invece non sono riuscito mai ad avere il permesso di celebrare la S. Messa; purtroppo! Il martedì hanno chiesto chi fosse iscritto al Partito Repubblicano fascista; e questi sono stati rilasciati nel pomeriggio presto. Poi hanno chiesto la professione: ciò ha un po’ insospettito. Nel tardo pomerig­gio finalmente tutti siamo stati convocati fuori, davanti all’ Albergo e finalmente ci è stato comunicato che ci si darebbe un lasciapassare e sa­remmo stati messi in libertà, fatta eccezione per due o tre che doveva­no far da guida il giorno dopo alle colonne che sarebbero andate su per i monti: poco mancò che Don Mario e Galluzzi non fossero tra questi.

Un episodio: la sera della domenica è stato rinvenuto nel piano su­periore un catino di munizioni. È stato un momento di spavento per noi; io poi ho pensato alle responsabilità delle Suore. Allora il lunedì mattina mi sono deciso a manifestare al comandante quanto avevano fatto prima di partire, in quel luogo i capi fascisti, i quali allo scopo dì difendersi contro eventuali attacchi dei partigiani, e nonostante le pro­teste delle Suore alle quali anzi imposero il segreto più assoluto, aveva­no accumulato armi e munizioni all’ultimo piano, nel sottotetto; e do­po di esservisi rifugiati per un paio di notti, se ne erano andati lascian­do parecchie munizioni. Sapevo però che le Suore avevano fatto togliere tutto. Temevo tuttavia che qualche cosa fosse stato dimenticato. Que­ste cose ho detto al comandante. Ma nella mattinata del lunedì sono venute le Suore, a cui ho potuto parlare e ho accennato tutto. Mi han­no detto – ed è stato confermato dall’interprete – che nella mattinata di domenica, era stato fatto dai tedeschi alla loro presenza una minuta perquisizione e non si era trovato nulla. La cosa non ha avuto segui­to. Ciò mi ha convinto che è stato un trucco preparato dai tedeschi, e che non ha avuto seguito, per le rivelazioni fatte da me. Se no!…

Avuto finalmente il lasciapassare, siamo usciti: sono le 18,30; dopo esserci intesi di ritrovarci il giorno dopo alle 19 per una funzione di ringraziamento in Chiesa. Un gruppetto di persone ci attende lì davanti all’Albergo. Quando usciamo, ci vengono incontro, ci festeggiano calorosamente e poi ci ac­compagnano fino alla Chiesa, dove diamo la benedizione. La nostra cara Madonna del Carmine non ha mai ricevuto tante pre­ghiere ardenti e fiduciose come in questi giorni, in cui tutti hanno pre­gato tanto per me. Mi si dice infatti che dovunque i nostri parrocchia­ni sfollati hanno tanto pregato e tanto sofferto. Io sento di dover tanto all’assistenza del Signore e della Madonna e alle preghiere dei miei ca­ri parrocchiani. I vincoli che mi uniscono con loro diventano sempre più intimi nella comune sofferenza e nel pianto comune.

Hanno pensato e lavorato più per noi che per loro stessi e per la loro roba. Il saccheggio infatti delle case è stato totalitario: carri e ca­mion pieni zeppi di roba, di ogni sorta, sono andati chi sa dove. La roba consumata e distrutta vandalicamente è ancora più di quella por­tata via. Non è immaginabile lo scempio, anche delle cose più belle, più preziose, più sacre, che è stato fatto nelle case. Nei dintorni il bestiame è stato depredato in quantità enorme sen­za riguardo alcuno: cosi le biciclette, le radio, i vestiti e ogni cosa in­somma, utile o no, cosi per il gusto di rubare e di distruggere. lo cre­do che i danni subiti da Borgotaro in questi pochi giorni ascendono a una decina di milioni di lire; e credo di non esagerare. Ringrazio il Signore che la Chiesa non è stata profanata, in nessuna maniera. Anche la Canonica è stata risparmiata: forse l’essere la casa più lurida di tut­to il paese, l’ha salvata!…

19 luglio, mercoledì. – Finalmente posso celebrare la S. Messa: è una S. Messa di ringraziamento e di riconoscenza. Ci poteva capitare molto peggio. Faccio un giro in paese. Quale desolazione! Altre informazioni mi vengono riportate su le infamie compiute in questi giorni. Certe cose non si fossero viste non si crederebbero. Vengo invitato a visitare una casa dove è passata la bufera: tutto è stato devastato, sciupato, i mobi­li, biancheria, vestiario, libri, e tutto gettato alla rinfusa sui pavimenti. È uno spettacolo orrendo! Sono state compiute certe ignominie da non credere. In quasi ogni casa, dopo una prima squadra n’è passata una seconda, e poi una terza: e quella che non ha fatto l’una ha fatto l’al­tra. I negozi, le cantine sono state svaligiate da capo a fondo; special­mente le cantine sono state prese di mira. E tutto questo sotto gli occhi degli ufficiali. Per fortuna che ci avevano date delle assicurazioni!

Stamattina alcune colonne di tedeschi sono finalmente partite: verso Porcigatone, e per il S. Donna distribuendosi un po’ dappertutto, spa­rando in tutte le direzioni, in tutti i canali, in tutte le macchie e cespu­gli, e gettando lo spavento. Gli uomini sono già fuggiti; sono rimaste le donne. Le case sono invase, si pretende di tutto, pane, uova, vino, soprattutto vino. Le bestie vengono portate via; alcune stalle sono spo­gliate totalmente. Galline, maiali, conigli: tutto serve e tutto è ruba­to. Gruppi di soldati pretendono da mangiare, e non sono mai sazi. So­no di una ingordigia e di una voracità incolmabili e insaziabili. Di queste violenze e di queste ruberie giungono notizie da ogni par­te. Le notizie poi si infoltiscono e sono spesso le più strane, le più contraddittorie: ma spesso, quasi sempre, un fondo di vero c’è. Ciò che più fa soffrire sono le notizie di altri ostaggi che vengono fatti lungo il cammino.

Ci si dice che anche nel Bedoniese avviene qualche cosa di simile. Notizie più gravi giungono dal Pontremolese e ci parlano di molti sa­cerdoti arrestati e di alcuni uccisi. Si direbbe che è l’ora delle tenebre. Sono veramente i giorni del ter­rore. Alle 19 facciamo la funzione di ringraziamento. Gli uomini libera­ti ci sono tutti. Dopo la Benedizione rivolgo loro alcune parole, in cui li invito a ringraziare il Signore e la Madonna del Carmine, li ringra­zio del buon esempio e della edificazione che mi hanno dato, e rin­grazio le buone donne che tanto si sono affaticate nella ricerca dei pri­gionieri.

20 luglio, giovedì. – In Borgotaro sono rimaste soltanto poche pat­tuglie ancora di tedeschi. Si vedono però passare branchi di buoi e muc­che e carri di merci che vengono dal bedoniese; altra roba saccheggiata. Continuano a circolare voci e notizie disperate sulla situazione di Bedo­nia. Si dice che molti ostaggi sono rinchiusi in Seminario, tra cui molti preti. É arrivato in Borgotaro una Compagnia del Battaglione «Lupo» del­la Flottiglia «Mas»: dalla padella nella brace! Essa assume il comando di presidio. Decido di presentarmi al comandante: sono italiani, per lo meno parlano la nostra lingua e ci si dovrebbe intendere. L’accoglienza non è festosa; anzi tutt’altro. Sono guardato con una cert’aria e mi si rivolgono parole apertamente ostili. Il comandante pe­rò, il Ten. Dettani, nonostante tutto, mi sembra ragionevole. Si dichia­ra contento che sia andato, poiché nessuna autorità si era fatta vedere. Gli espongo un po’ la nostra situazione; ci ritiene egli pure tutti ribel­li; poiché tutti sono scappati. Insisto nel dare le spiegazioni, e gli con­segno una copia della circolare inviata ai parrocchiani, cosi come avevo fatto anche coi tedeschi. Mi promette di leggerla. Intanto mi incarica di invitare qualcuno della popolazione per un’adunanza. Gli propongo di tenerla in canonica e lo invito a cena. Accetta. L’adunanza è fissa­ta per le 19. Ma all’ultimo momento mi manda ad avvertire che non può venire per impedimento.

Nel tardo pomeriggio mi giunge fulminea la notizia della uccisione del Parroco Umberto Bracchi e del Parroco di Strela, Don Alessandro Sozzi, avvenuta ieri mattina a Strela. Non voglio credere a tanta sciagu­ra e a si orrendo delitto. Egli dovrebbe trovarsi ai Ghirardi, dove si è recato da una settimana. Ritengo sia una delle solite notizie sensazio­nali, quali girano tutti i momenti. Ma poco dopo mi portano una let­tera del Cavaliere Marchini dai Ghirardi, che purtroppo mi conferma la dolorosa notizia, e mi dà i primi particolari. Il Padre Bracchi da alcuni giorni era ai Ghirardi, ospite come spesso avveniva, del Cav. Marchini. Lunedì, quando seppe della nostra cattività, era andato a Stre­la, con l’intenzione di recarsi a Bedonia per pregare Mons. Checchi di interessarsi di noi. Giunto a Strela non ritenne opportuno di prosegui­re e invece a Bedonia andò lo stesso Don Sozzi, il quale ritornò assicu­rando dell’interessamento dell’ Arciprete di Bedonia. Questi di fatto con un calesse andò a un comando tedesco che era a Gotra, e fu derubato del calesse e del cavallo, e l’uomo che l’accompagnava fu fatto ostaggio. Gli riuscì tuttavia di liberare l’uomo e riavere il calesse e il cavallo e ritornare a casa con buone speranze. Il Padre Bracchi ritornava la se­ra ai Ghirardi. Ma aveva avuto da Don Sozzi cosi buone informazioni che aveva convenuto di ritornare da lui. Ai Ghirardi trovò una situa­zione di allarme continuo per le notizie che arrivavano. E cosi il matti­no seguente, si alzò alle 4,30, celebrò e poi si recò di nuovo a Strela sperando di trovarvi un asilo più sicuro. Invece il mercoledì mattino verso le 8 giunse un gruppo di soldati tedeschi (alcuni hanno detto mi­liti della « S. Marco»), che senza ascoltare giustificazioni condusse i due sacerdoti presso il cimitero e li uccise: era il giorno di S. Vincenzo, il fondatore della sua Congregazione. Povero Padre Bracchi!

Era una figura notissima di sacerdote, amato e stimato a Borgotaro, dove ha fatto tanto del bene. Anima zelantissima, ardente e  generosissima . È un dolore grande per tutti. Per me anche che lo ricordo come mio direttore di Camerata dei moralisti, al collegio Alberoni. Anche Don Sozzi era un sacerdote di grande zelo e che ha sacrifi­cato se stesso e dato i suoi beni per la sua Parrocchia di Strela. Lui pure conoscevo bene e stimavo fin da quando fui a Bedonia. L’uccisione di Padre Bracchi e di Don Sozzi è un episodio di quan­to è avvenuto a Strela, dove le vittime furono una ventina e un gran numero di case venne bruciato. Io temo che altre notizie dolorose arriveranno.

21 luglio, venerdì. – Celebro la S. Messa in suffragio per i due po­veri sacerdoti. In mattinata viene da me il comandante, Dettoni, della Compagnia «S. Marco ». Abbiamo un lungo colloquio, dove vengono trattate questioni locali e altre più generali. Mi pare che abbia idee più chiare intorno alla nostra situazione; mi dice di aver letto con piacere la circolare che gli avevo lasciato; mi assicura che tratterà bene la po­polazione, che non farà rappresaglie, che assicurerà i viveri alla popola­zione: anzi mi prega di radunare per il pomeriggio un medico, un pa­nettiere, un macellaio, qualche padrone o mezzadro. L’adunanza ha luo­go in canonica alle 16, e vi partecipa anche il Segretario Comunale, Sig. Cantarelli. Ci vengono fatte molte promesse; ma mi viene il dubbio che siano troppo generosi. Mi intrattengo anche, all’occasione, con i soldati; hanno già cam­biato tono con me; in fondo l’animo non è cattivo: li rende cattivi la situazione e soprattutto quell’inoculare continuo di odio nei loro animi. La sera le strade sono letteralmente deserte. Un’altra gravissima notizia mi arriva: la morte del Parroco di Por­cigatone, Don Francesco Delnevo, e di altri quattro borgotaresi: Boz­zia Francesco, Benei Gaetano, due fratelli Brugnoli, avvenuta a Sidolo, dove erano fuggiti presso il Parroco Don Beotti, che venne pure fuci­lato con essi e con un Suddiacono di Parma. Anche stavolta la notizia è così grave che mi ripugna l’animo a crederla, eppure non vi è da dubitare.

Don Francesco Delnevo, borgotarese, era da vent’anni a Porciga­tone, dove era venuto da Pontenure ove era stato Curato per oltre dieci anni. Era ben voluto e stimato; curava molto la sua Chiesa, e la Parrocchia, ove ha fatto notevoli lavori, e aveva migliorato anche il beneficio. Era riuscito a farsi restituire il concerto di campane, perché ricordo dei caduti. Il compianto dei suoi parrocchiani, mi si dice, è veramente sentito e generale. Lascia ancora la madre, che ora ha il tormento di essere stata la causa della sua morte, perché fu per le insistenze veramente eccessive di essa e della sorella che egli si era deciso ad allontanarsi da casa. Tuttavia egli pure da diversi giorni era gravemente preoccupato per quanto stava avvenendo. Eppure a Porcigatone e anche in canonica è venuta una squadra di tedeschi, mo­derata di sentimenti e non volle che fosse occupata la camera del Par­roco, perché come era stato loro detto con una pia bugia, era dovuto andare da un ammalato lontano. Andò invece a Sidolo, dove passò la squadra indiavolata, che già a Strela, a Cereseto aveva fatto tanti mas­sacri e tante distruzioni e rovine!

Giungono continuamente notizie contraddittorie e allarmanti intor­no a Mons. Checchi di Bedonia e del Seminario, dei Parroci del Bardigiano e del Pontremolese ecc. Invece si salva Albareto, dove, per iniziativa specialmente della sig.na Gotelli prof. Angela, e poi dell’Arciprete Don Romeo Caldi, e del sig. Pelledri, si giunge a un accordo tra partigiani e tedeschi di re­ciproco rispetto!

Gli altri sacerdoti del Vicariato, fatto eccezione di Don Giuseppe Beccarelli, di S. Martino, che non vide arrivare neanche un tedesco, chi più chi meno ebbero a soffrire violenze, soprusi, malversazioni, violazione di domicilio, furti di robe, e profanazione della Chiesa, come a Rovinaglia dove venne aperto il Tabernacolo, tolta la pisside, versate le ss. particole sull’altare, e derubata la pisside; e a Brunelli, ove riusciti a rintracciare la chiave del Tabernacolo, lo aprirono, senza fare null’altro fortunatamente. Don Luigi Brugnoli di Pontolo fu preso, caricato di un pesantissimo carico di armi e di roba rubacchiata e costretto a por­tarla alla sede del comando abbastanza lontano; è corsa voce che sia stato condotto a Parma e visto lungo la strada di Berceto a guidare le mandrie di bestie (cosa che toccò davvero a diversi sacerdoti, ma non di questo Vicariato) ma oggi ho notizia che invece si trova a casa, libe­ro dopo l’avventura del carico.

Si incontrano continuamente persone che o piangono o sono preoc­cupate, o gemono e gli uomini sono scappati, e non sono ancora torna­ti tutti: ogni tanto si ha notizia dell’uno o dell’altro che è stato preso e condotto via; ieri è passato un camion di uomini condotti chissà do­ve: la mancanza di notizie, o l’intrecciarsi di notizie discordanti crea un disordine, una confusione e uno sconforto nelle famiglie che non è possibile immaginare. Oh! quali giornate di angoscia! Queste povere donne vengono continuamente da me a espormi il loro dubbio, le loro pene, le loro angustie: e io debbo consolarle, smorzare certe notizie, dissipare certi dubbi che pure non sono infondati, fingere di non capi­re o di ignorare o di sapere, secondo i casi, promettere di interessarmi ecc. E in realtà mi interesso presso i comandi, ma ho l’impressione che si riesca a sapere poco e a ottenere ancora meno. Ciò che addirittura spaventa è lo spauracchio di essere condotti in Germania. Certo, se i tedeschi hanno avuto sempre poca simpatia per la gente, quello che è stato fatto in questi giorni e nei giorni scorsi, dimostra che non hanno cuore, e hanno gettato nell’animo di questa gente un genere di avver­sione che non potrà essere superato facilmente. Se ciascuno potesse parlare o scrivere, avrebbe da narrare la sua avventura; un’avventura di tale folle spavento e di tale temibile rischio che i figli o i nipoti non vi crederebbero. E non è ancora tutto finito!

22 luglio, sabato. – Celebro la S. Messa di suffragio per il povero Don. F. Delnevo. Propongo al Comandante della «S. Marco» un in­contro con un capo di partigiani. Sulle prime lo respinse con sdegno, mostrando un’avversione cosi aspra contro di essi, che urta e fa male. Ha delle idee veramente curiose; in parte me le ha già manifestate nel colloquio di ieri mattina. Egli si dichiara fascista dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, ma è contro i fascisti, che accusa apertamente dei più gravi delitti e delle più gravi responsabilità. Egli riconosce il fallimento del fascismo, e specialmente della Gil (che si compiace di­chiarare ripetutamente cosi: gioventù incretinita lentamente!) di cui riconosce la incapacità di educare. Ammette che una gran parte delle attuali sciagure ricade sul fascismo. Non si pronunzia apertamente in­torno al Duce, ma non mi sembra che l’incantesimo sia crollato anche in lui. Nella conversazione cerco di destreggiarmi: a momenti ho l’im­pressione di essere più fascista io di lui! Non so fino a quanto ci sia di sincerità in quanto dice!

In seguito alle mie insistenze, poiché io mi preoccupo non già di politica ma delle condizioni di questa povera gente che soffre e alla quale vorrei risparmiare altri guai, egli finisce per accettare. Gli assi­curo la incolumità. Faccio sapere ciò ai partigiani, i quali pure accetta­no; e così la sera accompagno il Tenente a un luogo fissato ove ci si incontra con due capi partigiani: Lupo e Giorgio. L’incontro dapprima freddo e impacciato, si schiude in una sereni­tà di intese e di comprensione che rassicura; e si conclude con il fatto che il Tenente ritorna in Borgotaro in mezzo a Lupo e Giorgio, che tie­ne con sè a cena e in lunga conversazione fin oltre mezzanotte e che poi fa accompagnare a casa e il mattino fa scortare fin oltre le ultime case. Si fa un accordo di reciproco rispetto. Io sono molto contento. Quando ritorniamo in paese, la gente che incontriamo spalanca gli oc­chi di meraviglia vedere Lupo e Giorgio con il Tenente della « S. Mar­co »; ma la mia presenza la rassicura. Era molto interessante osservare l’atteggiamento del loro volto, gli sguardi che davano, la sosta che fa­cevano lungo la strada per vedere come andava a finire, le parole che bisbigliavano tra loro, la mamma di Lupo corse subito da me impauri­ta a prendere informazioni; chissà che cosa le avevano detto!… La con­clusione: impegno per un nuovo colloquio lunedì sera. Uno dei capi dei partigiani, Libero, è stato arrestato ieri mattina; ciò mi preoccupa assai; tanto più che era uno che già era andato a For­novo per trattare l’accordo con il comando tedesco e vi doveva ritor­nare: ciò nonostante i militi della «S. Marco» l’hanno arrestato!

23 luglio, domenica. – Nulla di nuovo oggi. Scrivo a Mons. Vicario Generale dandogli relazione di tutto, e affido la lettera al figlio del Comm. Calandra, perché la imbuchi a Parma. Noi siamo sempre fuori del consorzio umano…, totalmente abbandonati a noi stessi: non una autorità si fa vedere. È veramente una vergogna! Ieri ho visto Mons. Checchi di Bedonia, che è venuto per ottenere dal Comandante della «S. Marco» un po’ di frumento, perché lassù non hanno più pane. Ma il Comandante gli risponde picche poi parla con me, e gli faccio osservare che Bedonia rispetto a noi, in ritardo di circa 15 giorni nel raccolto; e mi promette che vi manderà un po’ di frumento. Da Mons. Checchi, che ringrazio per quanto ha fatto per noi, ven­go a sapere che a Bedonia sono ancora trattenuti in ostaggio molte per­sone, e tra queste Don Sanguinetti, Don Giudo Donelli, qualche pro­fessore, insieme al Rettore e l’Economo, e altri preti e seminaristi Don Egidio Squeri, il Curato.

24 luglio, lunedì. – Vado al Comando della «S. Marco », dove so­no ora accolto sempre molto gentilmente, per avere alcuni «lasciapas­sare »: per me, per il Parroco di Pontolo, di Gotra, e per alcune per­sone che mi si sono raccomandate. Il Comandante persiste nell’idea di non lasciare venire gli uomini in paese, ma a quelli che io avrei pre­sentato, avrebbe acconsentito. Di fatto però molti rientrano. Ora che la gente sa che sono in buoni rapporti con il Comando, viene a racco­mandarsi per tante cose. Tutto ciò non è secondo il mio temperamen­to, ma è carità anche questa, e quanto preziosa; ma sento che debbo compiere uno sforzo. Questa sera c’è stato un altro colloquio molto cordiale con il Te­nente e Lupo e Giorgio; io non vi ho preso parte, perché questa volta non sono stato invitato. Ma ne sono contento. Tra noi italiani, se vogliamo, possiamo sempre intenderci. Se ci intendessimo davvero, quali guai ci risparmieremmo e che invece ci procuriamo da noi, a nostra totale rovina. Non ci accorgiamo che uc­cidendoci e odiandoci facciamo il gioco dei tedeschi e degli inglesi. Aspetto non il meno grave di questa orribile tragedia, in cui la no­stra povera Patria va in rovina! va in rovina!… povera Italia, che pur non meritava e non merita tanto strazio!

25 luglio, martedì. – La compagnia del Battaglione «S. Marco» la­scia improvvisamente Borgotaro e si trasferisce a Bedonia, dove si tro­va il resto del Battaglione. Non capisco i motivi di questa affrettata partenza; tuttavia credo sia stata determinata dal timore di essere at­taccati dalla Brig «Beretta»: arguisco ciò dalle insistenti allusioni a questa eventualità che mi sono state confidate dal Tenente Coman­dante, al quale io facevo osservare che queste voci non potevano ave­re fondamento. Io per parte mia in tutti questi giorni ho fatto sapere ai partigiani, specialmente ai capi, che si guardino bene dal rinnovare gli errori com­messi nei giorni passati, perché anche la popolazione civile ha pure i suoi diritti di essere rispettata e di non essere messa allo sbaraglio da atti incoscienti e inconcludenti, quali sono stati quelli dei giorni scorsi, e che non contribuiscono neanche in misura minima alla soluzione del­la nostra sistemazione. Infatti tutti i calcoli da essi fatti su una rapida avanzata inglese, che al massimo in 15 giorni, come dicevano, doveva capovolgere la situazione, si sono mostrati infondati, come ripetuta­mente io avevo loro detto; ed è bastato un giro di pochi giorni ai te­deschi, quando l’hanno voluto, per sgomberare la strada che sta a cuo­re e spazzare via gli ostacoli. La gente poi, che di fatto ha subito le conseguenze è fortemente indignata, anche se, o per impossibilità o per pusillanimità, non manifesta molto apertamente questo sdegno con­tro i partigiani, che dopo l’averla messa negli imbrogli, se ne sono an­dati, o, secondo il loro termine tecnico,… si sono sganciati. So d’altra parte che gli ordini del Comando alleato ai nostri partigiani di qui non erano di fare ciò che hanno fatto.

L’esperimento dell’occupazione di Borgotaro, e non di Borgotaro soltanto, credo, è dovuto alla loro impazienza, e in gran parte anche alle ambizioni di squadre, avide di figurare meglio l’una sull’altra: e Borgotaro sia per il paese in se stesso sia per la sua posizione e impor­tanza, era senza dubbio, un boccone invidiabile; e senza dubbio, chi l’avesse occupato e l’avesse tenuto fino all’arrivo degli inglesi, avrebbe avuto una posta importante in mano per dire la sua parola: il che, nei loro calcoli, rientrava non solo nelle possibilità, ma senz’altro nelle ur­genze dell’ora. Faciloneria e ambizioni di parte hanno portato a que­sta situazione disgraziata. La forza delle squadre o Brigate dei partigia­ni e il loro peso sarebbe senza dubbio più determinante, se le Brigate e le squadre fossero comandate da capi più capaci e più competenti, più risoluti e più preparati, se fossero meglio addestrate all’arte militare e meglio organizzate e disciplinate con quella fermezza, con quell’ordine, con quel controllo e con quella saggezza che formano il nerbo di una organizzazione militare. È certo che la guerriglia è cosa diversa dalla guerra; ma forse è più difficile della guerra; e richiede in chi la fa, un complesso di doti, di prontezza, di avvertenza, di audacia e insieme di prudenza che assicura il successo dell’azione e richiede anche un am­biente topografico in cui l’azione e chi la fa possano essere sufficiente­mente protetti e difesi, e danno non ne debbano sentire le popolazioni civili. Nelle squadre di partigiani che operano qui non fa difetto l’en­tusiasmo, lo spirito di sacrificio, e anche spesso l’audacia, ma manca la unità di indirizzo fra le diverse Brigate, manca soprattutto la disciplina, per cui molti, troppi partigiani gironzolano e agiscono per conto proprio e impunemente compiono azioni, qualche volta vere violazio­ni e malversazioni, impunemente; manca l’addestramento militare nell’ impiego degli uomini, nello sfruttamento delle azioni, e nell’uso del­le armi; manca una organizzazione sufficiente di servizi e di comunica­zioni; manca soprattutto quella avvedutezza e quella intuizione di cal­colo, che è indispensabile nel determinare la responsabilità dell’azione, e le conseguenze che da essa derivano. Anche l’aspetto topogranco non è il più adatto, poichè vi sono sì monti, boschi, burroni, ecc. che pos­sono servite alla guerriglia; ma sono monti che sono attraversati da numerose mulattiere, alle volte strade in buon stato, da sentieri, di cui alcuni segnati anche su carte topogranche; e soprattutto vi è una po­polazione troppo intensa, distribuita anche sui monti più alti, e non è possibile giungere a una netta distinzione, anche solo approssimativa della zona di pertinenza della popolazione e della zona di pertinenza dei partigiani: questo è gravemente dannoso alla popolazione e impac­cia la libertà di azione dei partigiani, specialmente se ragionevoli e co­scienti della portata del loro operato.

Per tutto questo complesso di cause, l’esperimento della occupa­zione di Borgotaro e della zona si è concluso con esito negativo. I ca­pi stessi dei partigiani lo riconoscono e cercano di scaricarsi a vicenda le responsabilità; e ora pare che vogliano davvero restare un po’ quieti. In questi giorni ho fatto un’adunanza di mamme di partigiani perchè si rendano voce autorevole presso di essi, onde ci siano risparmia­ti altri guai.

26 luglio, mercoledì. – Vado a Porcigatone per la celebrazione di un ufficio di suffragio per il povero Parroco Don Francesco Delnevo. La salma del caro Sacerdote è stata rilevata fin da sabato a Sidolo da un gruppo di buone donne, non essendo ancora sicure le strade. I parenti volevano portarla qui a Borgotaro, ma io pur lasciando loro tutta la libertà, li ho dissuasi, perchè non si sarebbe potuto fare un fu­nerale, come si conveniva. Per la mancanza di sicurezza delle strade, non sono potuto andare prima, e oggi stesso diverse persone mi scon­sigliavano di andarci. La salma era già stata portata al Cimitero con un piccolo accompagnamento di persone e ivi sepolta. Povero Don Francesco, non ha potuto neppure avere vicini a sè i suoi parrocchia­ni nel funerale! Ma si riparerà, appena si potrà. Anche a Strela per P. Bracchi e Don Sozzi hanno fatto la stessa cosa. All’ufficio di stamattina ha partecipato Don Luigi Giubellini, di Brunelli, che sarà l’Economo Spirituale, un seminarista, Aldo Berzolla, e un discreto numero di fedeli. Avevo fatto sapere la cosa anche a Don Giuseppe Beccarelli di S. Martino, ma non è venuto: non avrà potuto. Si è fatto la consegna dei registri e della cassa della Chiesa all’Eco­nomo Spirituale.

27 luglio, giovedì. – Al Borgo la vita è ridotta ai minimassimi ter­mini. Un po’ di gente al mattino per prendere il pane; poi per tutta la giornata qualche rara persona che vagola come una apparizione. A mez­zogiorno anch’io vado a mangiare a Brunelli; nel pomeriggio ci ritorno, e la sera dormo qui, mentre gli altri di casa ritornano a Brunelli. Nessuna autorità è in paese, solo il Segretario Comunale, assistito da un paio di impiegati. Sono rimasti una quindicina di tedeschi alla stazione ferroviaria. Viene di nuovo sgombrato l’ingresso della galleria Borgallo e incomin­ciano i lavori di riattamento dei ponti. A protezione dei lavori, dei can­noncino – mitraglia sono collocati sulla Cavanna, con poca soddisfazione della gente, e soprattutto dei proprietari delle case e del luogo, poiché i tedeschi, per non smentirsi, continuano a fare quello che hanno fatto i loro camerati dieci giorni fa: entrano nelle case, sfondano tutto, rubacchiano e distruggono. Per sé vogliono non soltanto il necessario, ma anche il superfluo: ad es. proprio in questi giorni si sono presentati al Segretario Comunale e gli hanno imposto, entro il termine di poche ore, di provvedere loro un pianoforte e una radio; ne vollero sentire ragio­ni! Non potrebbero fare di meglio per alienarsi gli animi.

28 luglio, venerdì. – Le voci di un accordo tra partigiani e tedeschi si fanno più insistenti, e un fondamento debbono averlo. Altre voci ar­rivano da Bedonia, e sono tutt’altro che liete: però non si può fare un controllo.

29 luglio, sabato. – Mi preoccupo della situazione degli operai: gli stabilimenti hanno licenziato gli operai, i quali del resto in questi gior­ni, come tutti gli altri uomini, si sono nascosti. Purtroppo la mancanza di conoscenza della gente mi impedisce di individuare con maggiore pre­cisione i bisogni veri. Eppure avrei tanto desiderio di aiutare questa povera gente! Ho fatto distribuire un po’ di farina ai poveri assistiti dalla « Conferenza di S. Vincenzo », della quale nonostante che quasi tut­ti i confratelli siano sfollati, tengo ugualmente ogni martedì l’adunan­za. Ora sto raccogliendo qualche dato per gli operai e ho dato già da qualche giorno incarico alla Sig.na maestra Teresina Ferrari di provve­dermi gli elenchi.

30 luglio, domenica. – Dopo la benedizione chiamo in canonica la Sig.na Teresina Ferrari, l’operaio Antonino Marchini e la Sig. Bozzia della «Soc. Cementi Milanesi-Azzi », e dall’elenco degli operai di quel­la Società, notiamo quelli che sono bisognosi e facciamo consegnare buoni di farina. Il Cav. Marchini mi farà avere oltre mezzo quintale di farina. Spero poi, quando sarà finita la trebbiatura, di riavere quanto ho consegnato ai partigiani.

31 luglio, lunedì. – Fa ritorno qualche uomo che i tedeschi aveva­no portato via con sé. Qualcuno è stato liberato e provvisto di docu­menti, qualche altro è riuscito a scappare e a ritornare. Raccontano co­se che fanno drizzare i capelli in testa. Di altri invece nessuna notizia. Alterna vicenda di gioie e di dolori.

1° agosto, martedì. – Da qualche giorno mi tengo a contatto con il Segretario Capo del Comune, per consigliarci a vicenda sul modo di provvedere alla popolazione. Da due mesi ormai non arrivano più vive­ri, non si riceve posta, non si pagano stipendi, non si consegnano sus­sidi; inoltre è cessata qualsiasi forma di commercio, di lavoro, e così abbiamo un numero sempre crescente di disoccupati e di bisognosi. Le autorità centrali rimangono pertinacemente assenti e per sistema, per calcolo e anche a causa delle cattive e false informazioni. Anche le Ban­che hanno chiuso. E tutto ciò dopo due saccheggi!.. È necessario provvedere in qualche maniera. È necessario riprende­re i contatti normali con Parma. Per questo bisogna andare a Parma. Il Segretario è disposto ad andare; io pure andrei, se egli lo ritenesse necessario, quantunque io a Parma non conosca nessuno anche nell’am­biente ecclesiastico; il Sig. Picetti della Cassa di Risparmio si unisce al Segretario. Si prepara un pro-memoria delle cose da farsi e prima di tutto smon­tare la mentalità ostile verso di noi; chiedere la nomina di un Commis­sario o meglio l’invio di un funzionario della Prefettura perché si ren­da conto, sul posto, della situazione; poi la concessione dei viveri e dei sussidi, il ripristino dei servizi postali ecc. Intanto si attende qualche in­formazione da Parma, come da intesa con il Sig. Forni.

agosto, mercoledì. – Perdono di Assisi, in S. Domenico. Molto in­tervento di fedeli sia al mattino sia al pomeriggio. Ritorno ancora quest’oggi in Comune, poiché il Segretario stesso de­sidera che gli sia vicino in queste circostanze. Decide di partire doma­ni mattina molto per tempo; a piedi fino a Fornovo. Gli faccio molti auguri, dopo che si sono presi gli ultimi accordi.

agosto, giovedì. – Giornata piovigginosa; per quanto non vi sono stati molti passaggi di apparecchi. Nel tardo pomeriggio, verso le 18,30 c’è un sorvolo di aeroplani che impressiona un poco; ma passano. Io sono nel mio studio insieme con la Sig.na Armezzoni per lo sfoglio del­la lista degli operai della Ditta Cerati, di cui la Sig.na è impiegata da anni. Poco dopo, verso le 18,50 ecco la terza formazione ritornare: stia­mo ad ascoltare il rumore dei motori e abbiamo l’impressione che si abbassino e girino su il paese. Riteniamo più prudente discendere: ap­pena giunti a pian terreno ecco i primi sganci paurosi di bombe; poi al­tri ed altri ancora. Siamo rifugiati nella torre del campanile; e crediamo che ancora una volta il ponte ferroviario ne abbia fatto le spese. Inve­ce usciti appena del rifugio vediamo alte fumate dalla parte di S. Domenico; si incontrano persone che gridano e chiamano persone care. Corro sul luogo del disastro; sono state colpite diverse case su Via C. Battisti, sul vicolo Bovero, e i locali della Cassa di Risparmio su via S. Domenico e via Principale.

La facciata di S. Domenico è gravemente lesionata e dovrà essere ab­battuta per due terzi, il tetto è stato quasi totalmente asportato; la na­vata di destra, entrando, è stata pure lesionata nel volto. I danni mate­riali sono gravi; ma più gravi quelli umani: sette vittime e una fami­glia quasi totalmente distrutta; Mariani, poi il dotto Pedrini, la sua don­na di servizio, e la Sig. Frati che era andata per cura dal medico. Altre bombe sono cadute presso il ponte di S. Rocco, e altre anco­ra presso il ponte ferroviario. Questa incursione ha prodotto una impressione enorme. Finora si era creduto che l’abitato sarebbe stato risparmiato; ma ora anche que­sta speranza crollava. Anch’io rimango molto scosso: tra l’altro penso che se fosse avvenuta l’incursione la sera prima, a quell’ora la Chiesa di S. Domenico era piena gremita di fedeli: che sarebbe successo? Mi si presenta il problema: posso con tranquillità di coscienza chiamare an­cora la gente in Chiesa come ho fatto finora, facendo cioè, sia pure al­la meglio, le funzioni parrocchiali? Questo problema mi preoccupa as­sai, e la notte non ho coraggio di andare a letto passo la nottata come posso, sul divano.

Questa sera stessa si riesce a dissotterrare le salme dei Mariani, ven­gono portate all’ospedale. La gente, anche quella poca che finora non era partita, se ne va: le persone che rimangono si contano sulle dita della mano, quasi. Chiedo al Signore la grazia della Santa rassegnazione. Verso le dieci, viene a bussare il Cav. Marchini con sua sorella la Contessa Albertoni. Essi pure sono molto impressionati e non sanno che cosa consigliare. Il Curato e la Teresa sono andati a Brunelli.

agosto, venerdì. – Pioviggina, si possono così continuare i lavori di dissotterramento delle altre salme. Ma per tutta la giornata non si rivengono. È una pena. Stamattina il Cav. Marchini viene in Chiesa e mi offre L. 1.000 per gli operai e sinistrati. Per i funerali delle vittime non si possono fare solennità. Un po’ per lo spavento da cui tutti siamo presi, un po’ per i persistenti sorvoli di apparecchi anche ad ora tarda del pomeriggio, un po’ per mancanza di popolazione, per desiderio stesso delle famiglie, si decide di traspor­tare privatamente le salme al Cimitero e compiere qui il rito della as­soluzione. A sorvegliare un po’ le case vuote del paese prestano servizio alcu­ne guardie di Finanza. Ma purtroppo i soldati Tedeschi, sebbene molto pochi, continuano a gironzolare per le case e a rubacchiare. Triste spet­tacolo!

agosto, sabato. – Vado a S. Martino per consigliarmi con quel par­roco, Don Giuseppe Beccarelli, uomo prudente e Borgotarese. Dietro anche suo consiglio, decido di limitare le funzioni religiose a una sola S. Messa nei giorni feriali e due nei giorni festivi, di buon’ora, e di ri­tirarmi nelle ore più tormentate e pericolose della giornata a Brunelli. Così dopo tre mesi da che sono venuto a Borgotaro rimango senza casa e senza Parrocchia! Ma sono molto tranquillo e sereno: il Signore ha voluto cosi. Vorrei fare davvero la sua S. volontà. Ma il cuore sof­fre.

agosto, domenica. – Celebro la S. Messa binata; cosi si dà un po’ di aiuto al parroco di qui, che può andare a Porcigatone e celebrarvi due SS. Messe. Oggi è stata una giornata tormentatissima per sorvolo di apparecchi. Verso le 13,45 poi un nuovo bombardamento al ponte ferroviario! Ma nessuna vittima.

agosto, lunedì. – Non si è riusciti ancora a ritrovare le salme sot­to le macerie della Cassa di Risparmio. Solo alla sera se ne trova una: quella della donna di servizio del Dott. Pedrini. Gli uffici pubblici sono sfollati dal Centro e si sono portati alla pe­riferia. Qualche reparto di soldati tedeschi è di passaggio; si ferma un giorno o due e poi riparte: ma la sosta non è senza danni per le case: che l’abbiano nel sangue la mania di rubare! I partigiani stanno un po’ quieti; se ne vede qualcuno, ma in bor­ghese. lo continuo la mia opera di persuasione per riguardo al bene del­la popolazione e per salvare il salvabile nel paese e nella zona.

10 agosto, giovedì. – Il viaggio del Segretario Comunale a Parma non è stato senza risultati. Pur non essendo riuscito a sistemare la si­tuazione amministrativa, poiché nessun commissario è stato nominato, tuttavia è riuscito ad avere i viveri e un po’ di denaro per i sussidi. È il primo passo. Arrivano finalmente dopo quasi due mesi i sacchi di posta. Grosso problema rimane ora il trovare i mezzi di trasporto per i viveri e dare la sicurezza che non siano sequestrati. Per tutto questo lavoro, molto ha aiutato il Segretario il Sig. Forni. Da questi, che è in ottimi rapporti con il Comando Tedesco di Par­ma e che conosce personalmente il maggiore che ha diretto le operazio­ni di rastrellamento qui, vengo a sapere il motivo per cui non è stato mantenuto l’accordo fatto al momento del loro arrivo. Il gruppo di sol­dati tedeschi, prigionieri dei partigiani, che giunge a Borgotaro il 15 luglio a sera, con a capo il Capitano fatto prigioniero alla Manubiola il 30 giugno, era in cosi pietose condizioni il Capitano fece una relazione cosi disgraziata sul trattamento avuto che indispettì il Maggiore, il qua­le senz’altro cambiò parere. Cosi trovo confermato il mio sospetto.

Faccio trasportare a Brunelli la farina per i poveri e per gli ope­rai, ai quali ho già fatto distribuire i buoni di prelevamento. Distri­buisco anche sussidi, prendendo occasione delle visite agli sfollati. Da qualche giorno è cessato ogni sorvolo di apparecchi. Si respira un po’. Ieri a Casembola mi sono interessato della sorte di un certo M., uno dei capi fascisti, che era stato preso dai partigiani. Speravo di poter fare qualche cosa; ma non sono arrivato in tempo. Ne ho sofferto molto, perché sebbene non lo conoscessi, per me sono tutti cari i miei parrocchiani, tanto più quanto più possono essere colpevoli; e cerco di fare del bene a tutti, senza riguardo alle professioni politi­che. Sento che questo è il nostro dovere di sacerdoti in quest’ora ve­ramente tragica della nostra cara Patria.

15 agosto, martedì. – Vado ad Albareto, dove c’è una colonia mol­to numerosa di Borgotaresi. Nel pomeriggio ho la gioia di vedermeli tutti in Chiesa, e porto ad essi con il saluto, la parola della fiducia e dell’incoraggiamento. Quanta festa mi fanno, poveretti! Ma insie­me quanta pena, quando, al vedere qui la Chiesa gremitissima di gen­te, in Borgotaro questa mattina non avremo avuto alla S. Messa 100 persone! Viene annunziato lo sbarco anglo-americano nella Francia meridio­nale: ciò serve ad accrescere le speranze di una rapida fine della guer­ra. lo rimango pessimista, e metto in guardia specialmente i miei par­rocchiani dalle facili illusioni. Mi si accresce sempre più la fiducia nel­la Madonna. La notizia dei fatti di Bonate di Bergamo è giunta fin qui. Anche a questo proposito tante voci sono state messe in giro e tante versioni sono state divulgate. Di queste voci la più diffusa era quella secondo la quale la Madonna avrebbe assicurato la fine della guerra entro due mesi: voce che aveva avuto molto credito. Ci rima­sero male invece quando niente di tutto questo si avverò.

A proposito dei fatti di Bonate, in questi ultimi tempi ho potu­to avere due dichiarazioni di testimoni oculari: l’una è del giovane Francesco Delnevo, studente, che poté andare a Bonate e fu presente a una visione e constatò personalmente un miracolo; l’altra è di Suor Mussi che fu presente alla visione del 30 maggio; ed ambedue sono concordi nell’attestare la presenza di una folla straordinaria ammon­tante a centinaia di migliaia di persone, e il compimento di numerosi miracoli. Sintomatico poi il comunicato della Curia di Bergamo se­condo il quale l’autorità ecclesiastica sta facendo le indagini e racco­gliendo i dati relativi ai fatti asseriti, e finché non avrà fatto tutto ciò non potrà dare il suo giudizio; e intanto invita i fedeli ad astenersi da ogni apprezzamento. Sembra doversi concludere che il fatto delle apparizioni corrisponde a verità, poiché l’Autorità ecclesiastica in ca­so diverso avrebbe tagliato corto; ma nulla è dato sapere di più. Se sarà vero, bisognerebbe concludere che se la Madonna è discesa dal cielo, sarà venuta per portarci conforto; se è discesa in terra italiana, è da supporre che sia venuta per benedirla. Per tutto questo mi si accresce nell’anima sempre più la fiducia nella Madonna; e anche oggi ai miei parrocchiani ho detto: «lo so­no sicurissimo che la guerra finirà non tanto per la forza delle armi, quanto per l’intervento della Madonna; ed Essa mostrerà anche visi­bilmente questo suo intervento e io non so né come, né quando, ma di tutto ciò sono certissimo ». Questo pensiero lo vo ripetendo da tempo, anche prima che venissi; ma ora mi si rafforza di più nell’ani­mo; e oggi Festa dell’Assunta ho avuto caro ripeterlo ai molti par­rocchiani.

16 agosto, mercoledì – S. Rocco. – Sono ancora ad Albareto dove si festeggia S. Rocco; celebro la prima S. Messa, e tengo il panegi­rico nel pomeriggio. A mezzogiorno sono a colazione dal Dott. Gottelli, ove mi incontro con la Prof.ssa sig.na Angela Gotelli, ex Pre­sidente Nazionale della P.U.C.R., e ora Presidente delle Laureate. Es­sa ha avuto parte importante nella conclusione dell’ accordo tra tede­schi e partigiani, accordo nato morto, però, perché non riconosciuto dal Comando Militare Italiano: è il solito gioco in cui noi poveri ita­liani siamo coinvolti da chi intanto fa i suoi interessi. Pensare: un mese fa un rastrellamento in cui ci spogliano di tutto, arrestano e ammazzano chi pare e piace; tutto questo per via dei partigiani e del così detto banditismo; e poi con questi si scende a patti, oltre a non andarli nemmeno a molestare sui loro monti. Comunque alla signo­rina riuscì di salvare Albareto e la Val Gotra!

Ma proprio oggi, verso le 11,30 sentiamo sul Gottero sparare di­versi colpi di mortaio, che si ripetono a intervalli irregolari fino verso le 13 e poi tacciono. Che cosa sarà? Si sospettano diverse cose. Ma la sera ecco la notizia che a Montegroppo sono arrivati gli Alpini, sol­dati italiani dell’Esercito Repubblicano, di quell’Armata recentemen­te costituita in Germania, sotto il comando del Gen. Graziani. Cosa vorranno? Gli animi sono preoccupati; e gli uomini per pre­cauzione si son dati alla macchia. lo penso che anche a Borgotaro fi­nora ancora senza presidio, giungeranno questi Signori; ma intanto che son qui voglio assicurarmi delle loro intenzioni.

17 agosto, giovedì. – Per questo oggi sono ancora qui. Ci dicono che la sig.na Gotelli è salita a Montegroppo fin da stamattina presto per parlare con gli Ufficiali e intendersi. È veramente una donna di coraggio, e inoltre sa davvero il fatto suo. Ma a mezzogiorno non è ancora tornata; neppure nel pomeriggio. Intanto un gruppo di Alpini è giunto fino a S. Quirico e vi si intrattie­ne molto cordialmente. Anche noi ci facciamo animo. Non potendo ave­re altre informazioni, ritorno a Borgotaro. E vengo a sapere che qui so­no già giunti fin dal 15, e insieme sono giunti anche numerosi tedeschi: situazione un poco più complessa che ad Albereto!

18 agosto, venerdì. – Gli alpini – un Battaglione, comandato da un maggiore – hanno posto le loro tende al Poggio fino al Frasso. Sono ita­liani e comandati da italiani; ma hanno un ufficiale tedesco di collega­mento e l’uniforme tedesca, l’armamento tedesco, timbri e targhe della Wermacht: comunque sono italiani; ci si intenderà. Avvicino qualche soldato e sento subito l’animo e lo spirito italiano. I tedeschi si accam­pano lungo il viale e nei pressi del paese. Ma sto a vedere. I partigia­ni capiscono che incomincia un periodo nuovo, e incominciano a dar se­gni di attività.

20 agosto, domenica. – Il Comando di presidio è preso dal maggio­re comandante del Batg. Alpini. Egli ha indetto per oggi alle 9 una riunione in Comune dei maggiorenti del Paese. Io pure sono invitato e mi trovo così insieme con il Segretario Comunale, con il Com. Calan­dra, il Prof. Pierangeli, il Sig. Guatteri, Dott. Molinari. Il Magg. Raffaello Faccioli dichiara che ha assunto il Comando di presidio, che il suo compito è quello di far ritornare il paese nella nor­malità, e che per questo è necessario che il paese e la zona siano libe­rati dai Partigiani. Riguardo a questi dichiara che coloro che non hanno obblighi militari di leva possono ritornare alle loro famiglie e purché provvisti di documenti e purché si diano al lavoro e non facciano opera di ribellione mascherata, non saranno molestati e non si andrà a vede­re e a rovistare il passato; coloro invece che hanno obblighi militari di leva si presentino al Comando ed egli si dice autorizzato a dichiara­re che non saranno presi provvedimenti circa l’attività ribellistica del passato, e che non saranno inviati in Germania. Se ciò non avverrà, egli dovrà prendere i provvedimenti necessari, e minaccia delle gravi rappre­saglie, dalle quali non saranno esenti le popolazioni. Egli inoltre dichia­ra che l’Esercito Repubblicano è l’Esercito nazionale, che le truppe so­no state addestrate in Germania e che sono in piena efficienza; che non farsi delle illusioni, perché egli ha fatto un giuramento, che manterrà a qualunque costo; e che dopo il «tradimento» non vi è più possibilità di salvare l’Italia che di fiancheggiare e collaborare con la Repubblica Sociale a fianco della Germania, della quale è pienamente sicuro della vittoria finale.

Egli ha chiesto quindi il nostro pensiero. Poiché gli altri stavano in silenzio, ho per primo preso la parola. Non potevo seguirlo nel suo or­dine di idee, per diversi motivi, soprattutto per due ragioni: l’una di carattere pratico, perché caldeggiare le sue idee significherebbe oltre che fare un buco nell’acqua, anche attirarsi l’ira dei Partigiani che avreb­bero considerato ciò come un attentato alla loro compagine e avrebbe quindi neutralizzato qualunque azione pacificatrice che si fosse svolta in seguito; l’altra di carattere, direi, sacerdotale, perché avrei dovuto schie­rarmi con una parte contro l’altra e venir meno così alla mia missione sacerdotale di Parroco, che è quella di Padre di tutti, che lavora per il bene di tutti, e che vuole il bene di tutti senza distinzione di idee, di tendenze di partiti ecc. Pensavo appunto questo intanto che il maggiore parlava, e quando ho dovuto intervenire, ho cercato di condurlo su un piano di idee di­verse. Ho quindi fatto la esposizione della nostra situazione disgraziata, senza capo, senza viveri, senza possibilità di farli arrivare, gente disper­sa in ogni angolo a causa dei bombardamenti, gente che ha immensamen­te sofferto, che soffre e che maledirebbe domani a chi la facesse mag­giormente soffrire. Inoltre ho subito imposto una netta distinzione, se si vuol capire la nostra situazione; una distinzione delle responsabilità della popolazione civile, inerme, esposta a tutti i contrasti, e le responsabilità dei Parti­giani, i quali sono in grado di difendersi. E su questa distinzione di re­sponsabilità si accese una calda discussione, nella quale appariva più chia­ra la mentalità del Maggiore e del Ten. Campanini che l’accompagnava, apertamente ostile, ossia mentalità che ritiene i cittadini senza distin­zioni tutti conniventi con i partigiani. Ma le nostre idee furono valida­mente di nuovo ribadite dal Comm. Calandra, che fece una bella dife­sa della popolazione borgotarese, di fronte alla impotenza o vigliacche­ria con cui le autorità centrali lasciarono il paese, che perciò sofferse ogni sorta di spogliazione.

Durante la discussione il Maggiore fece la rivelazione di un episodio che noi non conoscevamo: e cioè nella notte precedente ben 25 Alpini lasciarono l’accampamento e fuggirono; e cercò di addossare la respon­sabilità alla popolazione civile che avrebbe fatto propaganda disfattista in mezzo ai soldati. Noi invece comprendemmo bene che la saldezza e la piena efficienza dei suoi soldati di cui ci aveva parlato, non era inve­ce una realtà, bensì un bel motivo di chiacchiere. Comunque noi si disse che eravamo disposti alla collaborazione per il bene del paese, e che anzi si era molto contenti di avere un presidio e che questo fosse composto di Italiani soldati e non da altri. Egli, con il Maggiore, concluse l’adunanza promettendo che la popolazione, pur­ché stesse quieta, non avrebbe subito nessun danno e nessun maltratta­mento; e pregò il Segretario Comunale e me che per martedì gli faces­simo trovare riuniti papà e mamme di partigiani, perché desiderava par­lare con loro.

Ma nel tardo pomeriggio è successo un fatto grave. Due Alpini che nella notte avevano tentato di fuggire, furono invece fermati dalle sen­tinelle, e per la giornata sono stati tenuti legati a un palo, e sulla sera fucilati vicino al Cimitero, dinnanzi al Battaglione schierato. La fucila­zione è avvenuta, mi è stato assicurato, d’ordine del Comando di Divi­sione, con cui il Comando di qui è in relazione per radio. Sono venuti ad avvertirci di andare a dare i Sacramenti ad un alpino che si era fat­to male nel manovrare un’arma; e andò il Curato e invece si trattava di dare i Sacramenti ai due poveri figliuoli. Si è agito con durezza per dare un esempio e ai soldati e alla popo­lazione: ma non credo che questo atto torni di vantaggio. (Nota alle­gata al Diario: «La domenica 20 agosto 1944 verso le ore 18 una per­sona mandata dal Comando di Battaglione Alpini giunti da pochi gior­ni a Borgo Val di Taro, venne ad avvertire che un Sacerdote andasse subito per assistere due soldati Alpini feriti si gravemente nel maneggio delle armi).

Andò immediatamente il Curato Don Mario Sacchi. lo stavo facen­do una adunanza di Azione Cattolica, e il Curato che ricevette la notizia non credette opportuno di avvertirmi, non immaginando che si trattas­se di ben altro. Egli ritornò la sera tardi verso le 21,30. Mi informò subito che non si trattava di due feriti, bensì di due condannati alla fucilazione per aver tentato la fuga la notte precedente. I due Alpini vennero assistiti fino all’ultimo dal Sacerdote che assistette alla esecuzione. La esecuzione ebbe luogo nei pressi del Cimitero. Le salme vennero inumate nel Cimitero stesso. A me il Comando di Battaglione non man­dò nessun dato anagrafico dei due fucilati di cui quindi non ricordo i nomi. Invece mandò tutti i dati completi, con la precisa indicazione del­la tomba al Comune, dove io ebbi modo di trovare i documenti quando la famiglia di uno dei giustiziati mi incaricò di farle avere le notizie, sul proprio figliuolo. La mattina dello stesso giorno, il maggiore Raffaello Faccioli in una adunanza dei Maggiorenti del paese aveva annunziato che nella notte ben 25 Alpini erano fuggiti dall’accampamento: ma che due erano stati scoperti dalle sentinelle e che a quell’ora erano in attesa della decisione del Comando di Divisione Monterosa di stanza a Chiavari. »

21 agosto, lunedì. – Ieri e oggi è stato un affluire di gente a chie­dermi che cosa aveva detto il Maggiore nell’adunanza di ieri. Io ripeto a ciascuno con chiarezza quanto egli ha detto e mi astengo da commen­ti, lasciando che ciascuno, messo di fronte alla situazione quale è e qua­le si annunzia, prenda la propria decisione e si assuma la propria re­sponsabilità. Faccio avvertire mamme e papà di partigiani; ma come tali non vo­gliono venire. Allora faccio dire che chiunque domani vuol venire a sen­tire ciò che dirà il Maggiore, può venire, anzi è bene che venga. Stamattina vado a Caffaraccia per visitare i nostri parrocchiani sfol­lati, ma anche per informarmi della situazione del Parroco, Don Domenico Meschi. Tre o quattro giorni fa, una colonna di tedeschi è andata per la valle del Vona e si è spinta fino a Caffaraccia; non si è capito bene il perché: comunque ha avuto carattere di rastrellamento, ma mi­tigato. Il Parroco se n’è fuggito. I tedeschi hanno fatto una prima per­quisizione in canonica, mettendo sossopra la roba e rubando un po’ di denaro nello scrittoio; ritornati il mattino seguente andarono a fruga­re nel forno e sotto la cenere trovarono un giubbotto inglese apparte­nuto certo a un partigiano, il quale per nasconderlo ha giocato questo bello scherzo al Parroco. Di qui minacce di incendio della Canonica e altre rappresaglie, ma per le spiegazioni della madre, che assicurò di non sapere nulla, venne bruciato il giubbotto e non se ne parlò più. Ma il Parroco, temendo che abbia attorno della gente che voglia male e che lo metta in gravi pericoli, non ha ancora fatto ritorno a casa, anche per­ché teme che i tedeschi, che pur sono partiti stanotte, non abbiano fat­to rapporto al Comando degli Alpini. Lo trovo stamattina a S. Martino, dove l’ho fatto avvertire di trovarsi, e insieme andiamo a Caffaraccia. E mentre gli prometto che ne parlerò al Comando degli Alpini, lo sconsi­glio di allontanarsi da casa e specialmente di andare a Piacenza.

Stasera nel tardo pomeriggio vado al Comando degli Alpini, al Poggio. Nel viaggio mi unisco con alcuni soldati, altri ne trovo lungo il cammino: ho l’impressione che siano proprio dei bravi ragazzi, rispet­tosi, e che, essi pure, hanno soltanto un dispiacere e una preoccupazio­ne: non poter ritornare alle proprie famiglie. Anche al Comando sono accolto con molta deferenza dal Ten. Bertoldi, aiutante maggiore, e dal Cap.no Ghianti: il Maggiore è assente. Riferisco intorno a due Alpini, che secondo quanto mi aveva detto ieri il Maggiore, sarebbero andati, nel fuggire a Brunelli; ma ciò è risultato falso. Soprattutto insisto nel chiarire la assoluta mancanza di responsa­bilità della popolazione civile nella fuga degli Alpini e riporto alcuni dati di fatto: 1) che i foglietti di propaganda trovati nell’accampamen­to vennero lanciati da apparecchi inglesi in quel di Chiavari dove si trovavano gli Alpini prima di venir qui; 2) gli abiti da borghese se li erano procurati ancora nel Chiavarese; 3) i fuggitivi sono andati verso la Spezia ed erano quasi tutti delle terre occupate; 4) la popolazione ci­vile non poteva in soli due giorni fare una propaganda spietata di que­sto genere. Le ragioni che porto mi pare che colpiscano e facciano ef­fetto. Allora mi dilungo nell’esporre la nostra situazione e i sentimenti di questa gente, che, dopo aver tanto sofferto, non aspira a congiurare contro nessuno e con nessuno, ma semplicemente ad avere un po’ di re­spiro; ricordo tutte le brutture e le canagliate commesse contro la po­polazione civile, nel rastrellamento, le vittime numerose e innocenti nei laici e nel clero, e la nessuna preoccupazione di rintracciare i partigiani.

E anche su questo trovo molti consensi. Essi però pretenderebbero che la popolazione, per non essere connivente coi partigiani dovrebbe ­non potendo resistere perché inerme-mettersi a disposizione del Coman­do per le opportune segnalazioni e aiuti: soluzione questa semplicisti­ca, perché suppone, tra l’altro, che gli Alpini rimangono sempre più e sempre in tali forze da assicurare in tutto l’avvenire un determinato go­verno. Durante il colloquio mi vengono fatte delle allusioni a responsabi­lità di connivenze con i partigiani contro i tre parroci della Valdena, e precisamente contro Don Lazzaro Equini parroco di S. Vincenzo, e con­tro Don Paolo Mazzari parroco di Rovinaglia, della nostra Diocesi, e contro Don Grilli parroco di Valdena, della Diocesi di Pontremoli. Per quest’ultimo non so cosa dire, perché non lo conosco; per gli altri due dò alcune informazioni sulla particolare delicatissima situazione loro, e sulla loro difficile posizione circondati e coinvolti come sono, da ogni parte, da Squadre di partigiani; e perciò invito i due ufficiali a espormi, se vi sono, dei fatti ben concreti e ben accertati, prometten­do il mio interessamento per le opportune chiarificazioni. Ma non ag­giunsero altro.

Per il Parroco di Caffaraccia, essi mi dichiarano di non saper nulla, e soggiunsero che sarebbe una grave imprudenza se si allontanasse, perché in tal caso pregiudicherebbe la sua stessa causa. Infine, prima ancora che io gliene parlassi, sebbene l’avessi annota­to nel mio promemoria degli argomenti su cui desideravo conferire, mi chiesero che per domenica prossima celebrassi la S. Messa per gli Alpi­ni. Ne fui molto contento, anche perché mi espressero il rammarico di non aver potuto sentir la S. Messa ieri. lo ho spiegato che per ieri non avevo potuto prendere prima nessun contatto con il Comando e non sapevo ancora se si sarebbero fermati o invece se fossero stati soltanto di passaggio. In compenso sono rimasto molto contento del colloquio; ho avuto buona impressione sia degli Ufficiali sia dei soldati; e mi sembra che le mie osservazioni non siano rimaste senza efficacia. Purtroppo a nostro riguardo ci sono delle prevenzioni così gravi, che a smontare questa men­talità ostile ci vorrà del bello e del buono. Mi propongo di tenere i con­tatti più frequenti che sarà possibile per riuscire in questo scopo, volu­to dalla giustizia e dalla carità verso questa popolazione che mi sta di­ventando ogni giorno più cara e affezionata.

22 agosto, martedì. – Stamattina, con notevole ritardo su l’ora fissa­ta, nella sede provvisoria del Comune (Consorzio Antitubercolare) ha luogo l’adunanza indetta dal Maggiore degli Alpini. Egli ribadisce i punti già annunziati a noi domenica scorsa; aggiun­ge che ha ottenuto dal Comando di Divisione la facoltà di lasciare 48 ore di tempo ai partigiani per sistemare la loro situazione. La discussio­ne che si protrae anche stavolta parecchio tempo verte ancora sulla di­scriminazione tra le responsabilità di chi è armato e di chi invece è iner­me, che patisce le rappresaglie degli uni e degli altri. Il Maggiore assi­cura che in caso di rastrellamento, minacciato a più riprese se i parti­giani non metteranno giudizio, qualora sia fatto dagli Alpini, si cerche­rà di usare i riguardi doverosi alla popolazione civile; e a questo propo­sito ci fa leggere una circolare, in cui vengono date le opportune istru­zioni ai reparti operanti. L’adunanza però si chiude con un po’ di ama­ro in bocca; non si capisce ancora bene, cosa abbiano intenzione di fare. Vengono intanto stabiliti posti di blocco, a Porta Portello, alla Ma­donnina, verso il ponte della Ferrovia, lungo la strada sulla sinistra del Taro, al Ponte dello Scodellino, e al bivio con la strada detta alla Costazza, e una quantità di sentinelle lungo le strade e i sentieri che por­tano all’accampamento sia da Borgotaro sia da S. Vincenzo e da Rovi­naglia. Viene pubblicato un manifesto con cui si invita la popolazione a col­laborare nella Repubblica Sociale Italiana, con un linguaggio che non contiene nulla di nuovo; un altro manifesto del Comandante della Di­visione Gen. Carloni, minaccia sanzioni gravissime, morte, carcere, pro­cessi ecc., ai partigiani e ai civili che fossero trovati a cooperare con essi; infine un altro manifesto del Comando di Presidio, stabilisce il coprifuoco dalle 6 alle 20,30 in tutto il Comune. Gli uomini, per pre­cauzione, si tengono celati, alla larga: non si sa mai!

23 agosto, mercoledì. – Nel pomeriggio ritorno ancora al Comando degli Alpini al Poggio, per cose di poca importanza. Ma mi preme te­nermi a contatto, per salvaguardare la mia popolazione, e per vedere di capire meglio le loro intenzioni. Si capisce che di molte cose sono in­formati bene, anche di qualche persona, di molte altre sono completa­mente al buio, e di altre invece sono informati insufficientemente, e me ne accorgo dalle domande che mi rivolgono, alle quali rispondo con la prudenza che la mia posizione di Parroco mi suggerisce, evitando però di dire bugie, perché una volta scoperto, non sarei più creduto, e la mia missione di far del bene alla mia gente sarebbe fallita.

Avrei in animo di proporre un contatto diretto con i partigiani, ma non mi sento ancora sicuro dell’esito. Ma già in questi primi incontri mi pare di trovarmi con delle persone ragionevoli e molto per bene, che avranno sì delle loro opinioni e dei loro ideali, e avranno anche degli ordini da seguire, ma tuttavia non pare che vogliano agire per spirito di parte. Sintomatiche a questo proposito alcune affermazioni che nel corso della conversazione ho raccolto dalle labbra degli ufficiali che ho visto. Essi, mi hanno dichiarato, non sono qui come fascisti, ma co­me soldati, dell’esercito che si è venuto formando e che si sta forman­do dopo lo scioglimento dell’Esercito regio. Non intendono di avalla­re una dominazione tedesca in Italia; anche per essi, i tedeschi sono stranieri e devono essere messi fuori d’Italia; ma per il momento oc­corre innanzi tutto cacciare gli Inglesi, i nostri veri nemici contro i qua­li si è pur combattuto fino all’8 settembre, e liberare l’Italia dalla loro occupazione; e salvare il salvabile dell’Italia non ancora occupata dagli Inglesi. Per far questo non c’era che una soluzione: rimettersi al fian­co della Germania; diversamente questa avrebbe occupato e trattato l’Italia, come ha trattato la Polonia, e per quanto si immagini uno di brutto di orrendo – essi mi dicono, essi che videro coi loro occhi nel periodo del concentramento durato 4 mesi in Polonia – proprio non può immaginarselo come è stato in realtà il trattamento dei paesi polacchi.

Ciò che ha evitato all’Italia simile sorte è stato la liberazione del Duce e l’amicizia personale con lui di Hitler. Mi hanno ripetutamente ricon­fermato la loro piena fiducia nella vittoria della Germania; essi che ci sono stati per quasi un anno, hanno visto con i loro occhi la potenza del­la organizzazione e della produzione bellica tedesca, e ritengono che realmente armi segrete siano in preparazione. Ammettono gli errori del Fascismo, e anzi dichiarano che la stragrande maggioranza di ufficiali, oltre che di soldati, non è iscritta al Partito; e non combattono per la restaurazione del Fascismo come era fino al 25 luglio, ma per la restau­razione dei principi e della dottrina fascista. Gli errori del Fascismo non sono da iscriversi al suo capo, che è stato un tradito, bensì a colo­ro che gli erano vicini, i quali agivano in base a direttive che venivano dall’estero, e dalla Massoneria. L’armistizio è stato un ignobile tradi­mento del Re e di Badoglio, fatto non per il bene della Patria, ma per altri scopi meschini. Questa è la mentalità che ho potuto scoprire in loro in questi pri­mi incontri. Nelle loro idee non manca un nucleo di giuste osservazio­ni; ma io vi trovo anche – così come l’ho trovato nei militi della «S. Marco », una certa confusione di apprezzamenti e di valutazioni, di at­teggiamenti presenti e aspirazioni per il futuro, che non mi ha convin­to e qualche volta mi fa nascere il dubbio se siano proprio in tutto sin­ceri.

24 agosto) giovedì. – Si nota nei partigiani un certo interessamento alla situazione locale, creatasi con la venuta degli Alpini. Ma per il mo­mento non si capisce ancora quale atteggiamento prenderanno. lo non faccio che insistere nell’invitarli alla calma: è meglio avere qui Italiani che Tedeschi; è meglio avere soldati dell’Esercito che militi: c’è in lo­ro maggior senso di responsabilità. Dico della buona accoglienza avuta e dei primi buoni risultati ottenuti nel tentativo di smantellare la lo­ro mentalità, che se è ostile o per lo meno diffidente, non è tanto per colpa loro quanto per quello che ad essi hanno detto di noi. A questo proposito sono venuto a sapere da fonte sicura come da parte di qualcuno dei capi fascisti partiti di qui si sia soffiato molto sul fuoco a nostro riguardo, presso le autorità prefettizie. Così che oggi il concetto che di noi si ha a Parma si è che Borgotaro è un centro di ri­belli pericolosissimo e che bisogna tenerlo sotto severa disciplina. Que­sta mentalità è così diffusa a Parma, che quando qualcuno di qui scen­de in città, e, entrato in un qualche negozio si manifesti come borgo­tarese, trova un’accoglienza apertamente ostile, almeno per la paura che qualcuno in alto venga a sapere che si è avuto a che fare con Borgota­resi. Così riferiscono quelli che ne hanno fatta esperienza. Ciò nonostante a furia di insistenze e di raccomandazioni un po’ di viveri si riesce ancora ad avere. Le Banche invece continuano a restar chiuse. I sussidi arrivano pochi pochi; per riscuotere certe somme pres­so gli Istituti di Credito occorrerebbe la firma del Podestà, e questo an­cora non c’è, nonostante le promesse della Prefettura al Segretario Co­munale. E questi fa quello che può, ma miracoli non può fame neppu­re lui. Siamo sempre in alto mare!

25 agosto, venerdì. – Sono avvertito che un ufficiale del Comando Alpini è stato a cercarmi questa mattina e desidera parlarmi. Nel po­meriggio torno ancora al Comando al Poggio e mi incontro con S. Ten. Peruzzi, il quale mi dice che desidererebbe aver un colloquio con un capo dei partigiani, per uno scambio di idee. Io ne sono molto conten­to, perché penso che spiegandosi, tanti equivoci possono chiarirsi, e pur restando ciascuno al proprio posto, si possono risparmiare dei grossi guai specialmente ai terzi. Si prendono gli accordi per domani alle 9, in una località che verrà destinata: garanzie reciproche, e io come te­stimonio.

26 agosto, sabato. – Stamattina in una località sulla strada, detta la Costazza, ha luogo l’incontro tra il S. Ten. Peruzzi, e Lupo e Libero. In­contro cordiale, in cui ciascuno ha espresso le proprie idee e la propria convinzione. Negli uni e negli altri c’è uguale amore e dedizione per il bene della Patria; si trovano d’accordo nel volere un’Italia libera sia da tedeschi come da inglesi o americani; le questioni che ci dividono deb­bono essere rimandate a dopo guerra; ora è necessario intenderei e rispettarci a vicenda. Si propone quindi di venire a una tacita intesa: i partigiani non vengono a molestare gli Alpini, li lascino svolgere i loro compiti di presidiare la zona e di tenere libere le strade; e gli Alpini non correranno sui monti in cerca dei partigiani. Ciascuno si riserva di riportarne a chi di dovere. Io che non mi ero pronunciato su le que­stioni di indole generale e politica, ho invece appoggiato la intesa ac­cennata, perché mira a difendere la popolazione e a creare una situazione ove si possa più liberamente respirare. Nel ritorno, il S. Ten. degli Alpini mi dice di essere stato bene im­pressionato dai due giovani e mi assicura che farà di tutto per riuscire nello scopo. Io prego il Signore che ci illumini tutti e faccio del mio meglio per pacificare gli animi: ma quanta pazienza e quanto tatto ci vuole! C’è tanta suscettibilità e purtroppo tanto odio nei cuori, che non è facile far intendere certe idee, che pur sembrano così semplici e così giuste! Ma ciò che fa sperare, nonostante tutto, si è che in fon­do un po’ di buon senso c’è ancora. Questa mattina sono arrivati il M. R. Don Amadio Armani, D. Bernardino Copelli e il sig. Tanisio Brugnoli. È una festa per tutti. Ci rac­contano ciò che avviene dalle parti di Piacenza, di Castell’Arquato, di Lugagnano, Vernasca ecc.: dappertutto ci sono grandi errori e guai, causati troppo spesso dalle intemperanze dei partigiani, che con i loro gesti non valutati, e non diretti da un’unica mente e non tempestivi, creano delle situazioni spesso molto serie. Da Don Bernardino vengo a sapere notizie anche dai miei famigliari; e da Don Amadio ricevo una lettera di Mons. Vicario Generale.

27 agosto, domenica. – In Parrocchia il Curato Don Mario dice la prima S. Messa e poi va a celebrare la seconda ai soldati. Don Amadio manca di parola, e così viene a mancare la seconda S. Messa in Parroc­chia. Io invece vado a celebrare a Porcigatone e a visitare i nostri sfol­lati di là. Sono invitato a colazione dal Cav. Marchini; poi ritorno presto nel pomeriggio per tenere a Brunelli l’adunanza alle giovani. Lascio offer­te per i poveri, come ormai costumo di fare in ogni visita. L’Assoc. Giov. Femm. di A. C. si sforza di tenersi in vita. Poiché a Brunelli si trova un gruppetto di giovani sfollate, si tiene l’adunanza ogni domenica. Ho fatto riprendere anche l’adunanza per le piccole. Le altre Associazioni non si possono proprio riunire, né si riesce a tenere uniti i soci per corrispondenza, come si fa con le giovani. A Brunelli si trova la Presidente G. F. e quindi ho modo di intendermi; invece per gli altri rami tutto ciò non è possibile.

Questo sfollamento e questa persistente minaccia di bombardamen­to o di rappresaglie che tiene la popolazione fuori del suo ambiente rie­sce oltremodo dannoso alla vita spirituale. La gente si va abituando a perdere la S. Messa alla domenica, a far senza istruzione religiosa e i bambini a non venire più al catechismo che è stato del tutto sospeso; né ci guadagna la vita morale; soprattutto la immoralità non scema, an­zi sembra trovare maggior esca, nella mancanza di sorveglianza su la gioventù, nel pernicioso mescolamento di persone di ogni età e di ogni sesso in ambiente angusto e malmesso, e nella sempre più sfacciata im­modestia nel vestito, che si vuol scusare con le gravi difficoltà di pro­curarsi la stoffa e le calze: di qui una scompostezza nella persona e ne­gli atteggiamenti, che purtroppo impressiona dolorosamente. Un’altra conseguenza gravissima si nota nei riguardi al settimo Comandamento: le reali difficoltà economiche hanno aguzzato il cervello un po’ a tutti, ma anziché spingerli a trovare soluzioni e rimedi onesti, li spingono al furto e al mercato nero: il primo è considerato una necessità, il secon­do un mestiere che frutta assai. Si viene così educando l’animo all’egoi­smo più sfacciato, alla mancanza di sentimenti e di compassione. Chi è costretto a sfollare e si vede privato delle risorse economiche provenien­ti dal lavoro e dalla protezione si dà al furto, più o meno elegantemen­te perpetrato, e al mercato nero: la gente della campagna, dove gli sfol­lati si rifugiano, si danno allo sfruttamento, se non sempre al mercato nero, esoso, senza considerazione di pietà. La gente diventa cattiva! È terribile, ma è così!

Di qui anche un franamento nelle convinzioni religiose. Dio è con­siderato e invocato solo in funzione della sua capacità di far finire la guerra e farci ritornare a casa; e in questo senso lo si prega e si promet­te di fare una grande e bella festa, di suonare tutte le campane (quelle che non ci hanno portato via!…); ma non si pensa alla necessità di mu­tar vita, dì convertirsi, di non bestemmiare più, di non fare più atti im­puri ecc.; insomma non si pensa all’anima e a Dio, come nostro Pa­dre e Padrone. E siccome Dio è più furbo di noi e non si lascia im­brogliare dai nostri atteggiamenti più o meno camaleontici e tira dirit­to, la gente si inviperisce contro di Lui e Lo bestemmia ancora di più; e anziché sopportare la croce in penitenza dei peccati fatti, aumenta i peccati facendone dei nuovi e accresce il peso della sua croce. È vera­mente indurito il cuore degli uomini: essi si annodano intorno alla vi­ta una catena di perdizione, proprio mentre vorrebbero sbrogliarsene. Per questo qualche volta ci viene fatto di pensare se non sia davvero nei disegni di Dio la perdizione davvero totale di questa gente (non in­tendo dire solo questa di qui; ma di tutti) che si è allontanata da Dio in modo da non saperlo più ritrovare, (a differenza di quanto hanno fat­to i nostri padri pur peccatori e grandi peccatori, ma pur anche schiet­ti e generosi penitenti) e ha fatto della religione, di quanto di essa ha conservato, una superstizione, e di Dio, un Demiurgo, cioè un essere che dovrebbe stare ai propri comodi e ai propri capricci e mettere a di­sposizione di questi la sua onnipotenza. Una orribile inversione: non tua sed mea voluntas! …

Tuttavia ci sono anche delle anime belle, che veramente sanno ve­dere Dio, che veramente sanno soffrire, (come sanno soffrire! …), che chiamano la guerra «un flagello, non una guerra », con una cosi fine in­tuizione religiosa storica, che si considerano «pecorelle smarrite» che sotto i colpi della guerra hanno ritrovato la via del ritorno; che dichia­rano di « aver ritrovato la fede» o di riconoscere nel V angelo e nell’in­segnamento della Chiesa e del Papa l’unica via e l’unica base di rico­struzione sociale; che hanno ripreso la recita delle preghiere e del S. Rosario. Tutto ciò quanto conforto! Si apre il cuore allora alla speranza e si giudica con meno severità anche gli altri che erano più per igno­ranza e per insofferenza del castigo che non per malanimo o per vera mentalità errata. Anche in questa zona, specialmente nella campagna, hanno attecchi­to le menzogne e le calunnie contro il Papa: questo strano fenomeno della rapidità ed enorme diffusione di menzogne e di calunnie, per sfa­tare le quali non ci occorre la sapienza di Salomone, ma semplicemente un briciolo di buon senso. E poiché questo buon senso non fa difetto al popolo italiano, è da sperare che di questo fenomeno non resterà traccia profonda; mentre invece è da temere che rimanga la deviazione del senso morale e religioso prodotto da questa guerraccia!

29 agosto, martedì. – La gente sa che io mi tengo in rapporti frequenti con gli Alpini; e per questo capita di frequente da me, affinché interponga buoni offici per risolvere o questa o quella loro particolare situazione. Anche questa è carità, anzi ottima carità; e sebbene spesso mi secchi, specialmente quando si tratti di cose un po’ imbrogliate o de­licate, tuttavia cerco di fare del mio meglio per dare a questa popola­zione quel poco aiuto che so e posso dare. Inoltre finora la Prefettura non si è decisa di nominare un Commissario Prefettizio; e ciò è di dan­no al paese e alla popolazione. Strano anche questo: Bedonia, Compia­no e Tornolo, che pur sono centri di molto inferiori a Borgotaro hanno già provveduto a darsi i loro Commissari; e Borgotaro invece non se ne preoccupa. E vero che lo sfollamento ha allontanato molti elementi, che avrebbero potuto portare contributo notevole alla soluzione di que­sta questione; il che non si è verificato negli altri Comuni; ma è anche vero che i Borgotaresi mi sembrano un po’ assenteisti, e non molto ric­chi di iniziative: ciascuno si è ritirato nel suo guscio e tira a campare, e gli altri si arrangino, come si è arrangiato lui!… Il Segretario Comunale si dispone a scendere un’altra volta a Parma per questo scopo.

31 agosto} giovedì. – Oggi sono riuscito a rivedere il Ten. Peruzzi, che doveva portarmi una risposta in merito a quanto si era discusso sa­bato. Viene da me insieme con il Maresciallo Ronchetti: mi pare che possiamo accordarci nelle idee fondamentali, onde evitare di sbudellar­ci a vicenda tra noi italiani. Bella e cara sorpresa è stata per me la presenza del Maresciallo Ronchetti, che, quattro o cinque anni fa, sposò la Sig.na Piatti, della Par­rocchia della Cattedrale. Con tanto piacere e con cara nostalgia abbia­mo parlato del nostro Duomo e abbiamo rievocato quei giorni, di tan­to migliori di questi. Nella notte dal 30 al 31 i partigiani hanno fatto saltare il ponte si­to ai piedi della Chiesa di Pontolo; non hanno neppure avvertito la po­polazione che abitava nelle case vicinissime, la quale ha preso spa­vento molto grave. A che scopo abbiano fatto questo non è possibile sapere né indovinare, poiché, allo stato attuale delle cose, la frantuma­zione dei ponti e delle strade torna di danno più a noi che agli altri: poi­ché questi, con i mezzi che hanno, possono passare sempre e dovunque senza gravissime difficoltà.

1° settembre, venerdì. – Oggi ho avuto un colloquio con il Maggio­re Comandante del Battaglione, in Canonica. Abbiamo parlato a lungo della nostra condizione, e io ho nuovamente ribadito il mio concetto del­la impossibilità della popolazione di assumere un atteggiamento di op­posizione ostile contro le Bande armate dei partigiani. Ho trovato il Si­gnor Maggiore, uomo di larga comprensione, animato da sentimenti no­bili e le sue convinzioni politiche, (che del resto non combinano per niente con le direttive attuali del Fascismo, nonostante che egli sia fa­scista e sia stato, come capo della «Squadruccia» di Firenze uno dei più caldi fautori del fascismo) e la sua assoluta certezza nella vittoria della Germania potranno anche essere discutibili e discusse; ma la no­biltà dei suoi intendimenti, come me li viene esponendo, non può es­sere messa in dubbio: egli vuole che non si versi sangue fraterno, vuo­le che ciò che oggi ci divide sia rimandato a tempi posteriori: se vin­cerà l’Inghilterra, saranno gli ideali dei partigiani che trionferanno; se vincerà la Germania sarà il fascismo che detterà la legge, ma un fasci­smo rifatto, più degno di quello passato; egli chiede che i partigiani non vengano a molestare, e che non facciano, come nella notte passata, saltare ponti o rovinare strade, e ingiuriare soldati, come hanno fatto a S. Vincenzo, mi dice, l’altra sera, quando preso un Alpino che vi si era disarmato per cibarie, lo spogliarono e lo rimandarono nudo all’accampamento e chiede a me collaborazione in questo senso. La conversazione è stata quanto mai interessante; vi assisteva anche il S. Ten. Peruzzi; e mi ha dato modo di conoscere di più gli intendi­menti di questi Alpini: mi persuado sempre più che noi italiani, quan­do non siamo manovrati da mani disoneste e senza scrupoli, conservia­mo sempre una gran virtù: la moderazione. E se un po’ di moderazio­ne ci fosse stata anche in alto, non saremmo precipitati nel baratro, che ci inghiotte. A Porta Portello è stato posto una specie di sottocomando ciò mi torna comodo, perché mi risparmia la necessità di salire ogni volta al Poggio.

settembre, sabato. – Nella notte scorsa altri atti di sabotaggio so­no stati compiuti specialmente lungo la ferrovia. Il gruppo di tedeschi specializzati stanno già da tempo lavorando per rimettere in sesto la linea ferroviaria. Il loro Comando è all’ Appennino. Come interprete vi è una Signora «Annetta» di Bressanone, buona e gentile Signora, che quattro anni fa fu per quasi un anno «Bonne» in casa del Cav. Marchini a Roma. Essa è venuta da me, una mattina dei giorni precedenti, e mi ha fatto buona impressione. Non co­nosco ancora bene il Comandante; la Signora interprete me ne ha par­lato molto bene; io ho avuto occasione di trovarmi con lui, qualche se­ra fa, quando fui incaricato di chiedergli un mezzo di trasporto per una donna di S. Martino, grevemente ammalata e da ricoverarsi con urgen­za all’Ospedale: non poté accordare il mezzo di trasporto; ma mi fece condurre in moto al Comando Alpini per domandare ad esso la stessa cosa, ma anche esso non poté disporre di alcun mezzo. La Galleria del Borgallo è piena di carri carichi di ogni materiale, rubato chissà dove; e i tedeschi vogliono condurli via ad ogni costo, ci riusciranno senza dubbio, nonostante i bombardamenti e le insidie dei partigiani. Questi intanto hanno distrutto il ponte parabolico di Ostia.

settembre, domenica. – Stamane ho celebrato la 2ª S. Messa al Campo, nell’accampamento degli Alpini. Era presente anche il Maggio­re l’aiutante maggiore e altri ufficiali. Prima della S. Messa ho confes­sato diversi soldati, che hanno fatto la S. Comunione. Poi sono andato a Pontolo, dove si celebrava la Festa della Madon­na del Rosario. Dopo la Messa cantata ho parlato agli uomini, e nel pomeriggio alle giovani e alle donne. Mi sono fermato la sera per par­tecipare all’Ufficio anniversario dell’ ultimo Parroco Don Domenico Zuc­coni. Ho trovato una Chiesa e una Parrocchia tenuta con tanta proprie­tà, zelo veramente pastorale dal nuovo Parroco, Don Luigi Brugnoli, già mio scolaro in Seminario a Bedonia; bravissimo sacerdote che farà mol­to del bene e forse farà anche della strada. Colgo l’occasione per salu­tare i miei parrocchiani sfollati qui. Penso con tanta amarezza alla mia povera Parrocchia sbandata. Don Luigi Brugnoli mi racconta la sua avventura nei giorni del ra­strellamento: povero figliuolo, ha sofferto tanto anche lui!

settembre, lunedì. – Finora non ci sono stati, grazie a Dio, inci­denti proprio molto gravi, ma si è sempre con l’animo sospeso. Ieri ho saputo che è stato fatto saltare il ponte delle Piane lungo la strada Be­donia -Ponte Strambo; ma in giornata è stata aperta una strada lungo il greto del fiume, dove passano comodamente. E allora «ad quid perditio haec? » Si dice che i partigiani abbiano in animo di logorare adagio adagio la compagnia degli Alpini; da alcuni sintomi bisognerebbe dire di sì.

settembre, martedì. – Celebro la S. Messa in suffragio di Don Gio­vanni Cavagnaro e Don Luigi Agazzi, morti a pochissima distanza di tempodue miei cari figliuoli: l’uno è stato mio scolaro a Bedonia, l’al­tro mio scolaro a Piacenza e prima a Bedonia mi aveva coadiuvato nel­la direzione di una Camerata. La cosi detta «Contraerea» (un gruppo di tedeschi con mitragliatrici) del monte Cavanna, se ne è partita in quei giorni (il 3).

settembre, mercoledì. – Stamattina vado a S .Vincenzo per cele­brare la S. Messa per i miei parrocchiani. Ne trovo riuniti in Chiesa un buon numero, sia donne che uomini. Hanno tanto desiderio di ritorna­re in paese ! Verso mezzogiorno dò un passo anche a Rovinaglia. Sia qui che a S. Vincenzo lascio elemosine per i poveri, per le Conferenze di S. Vincenzo. La ragione per cui sono andato a S. Vincenzo e a Rovinaglia è sta­ta anche per avvertire i due parroci ad usare costantemente molta pru­denza, in questi momenti in cui essi sono particolarmente tenuti d’oc­chio.

settembre} giovedì. – Sul mezzogiorno vengono a chiamarmi a Bru­nelli perché un Ufficiale degli Alpini ha bisogno urgente di parlarmi. Prendo un pezzo di pane e discendo subito. Il S. Ten. Peruzzi mi comu­nica che ieri sera sono stati presi quattro Alpini dai Partigiani; e il Co­mando del Btg. ha perciò preso una dozzina circa di ostaggi: questi sa­ranno liberati, se entro le 19 di stasera i quattro Alpini saranno resti­tuiti: in caso diverso saranno prese altre misure. Io chiedo all’Ufficiale se è proprio sicuro di ciò, poiché io non ave­vo proprio sentito nulla, tanto più che trovandomi a Brunelli, dove il fatto sarebbe avvenuto, avrei dovuto pur aver sentito qualche cosa. Egli mi racconta che un Alpino Borgotarese, certo Molinari, aveva chie­sto ieri il permesso di andare a Porcigatone per una festa di famiglia, in occasione di un Battesimo, e aveva chiesto il permesso anche per tre suoi compagni. Ora il Molinari era di sicurissima fede repubblicana, soggiunge, e «io sono disposto a giocare la mia testa sulla sua fedeltà, perciò non può che essere stato prelevato! ». E si raccomanda a me perché sistemi la faccenda, onde evitare guai maggiori alla popolazione; ha creduto bene di avvertirmi per usarmi un riguardo…

Io sono rimasto seccato parecchio, sia perché aggiustare una faccen­da del genere non era facile, sia perché non sapevo a chi rivolgermi e non c’era da perder tempo; e poi perché dovevo proprio nel pomerig­gio andare ad Albareto, dove sono atteso. Ad accrescere la mia pena si è aggiunta la riflessione o meglio la convinzione che i quattro dovevano essere scappati: infatti nessun battesimo era stato amministrato in que­sti giorni a Porcigatone; questo lo sapevo bene: e se erano scappati, chi li fa più tornare indietro! Riesco a trovare Lupo e Fede e vengo a sapere tutto; sono realmen­te scappati e ora sono all’accampamento. Con Lupo decido di andare senz’altro da Dragotte e mandiamo avanti Fede perché vada ad avvertir­lo e ci venga incontro. Mangio in fretta e poi mi metto in cammino con Lupo. Fede doveva già essere avanti da una buona mezz’ora, invece nessuno l’ha visto e ci viene il dubbio che sia stato preso: avevo infat­ti osservato in paese certi movimenti di guardie, come di chi è in osser­vazione. Arriviamo fino a Caffaraccia e non si incontra nessuno; man­diamo una sfollata. Ci tocca aspettare più di un’ora; finalmente arriva Dragotte con Corrado e discutiamo la faccenda, ma mi persuado che non è possibile la restituzione dei quattro Alpini, perché, dicono non voglio­no rientrare. Vengo a sapere che un fratello di Molinari è già nei parti­giani: altro che fede repubblicana a tutta prova, come mi diceva il Ten.te!

Si decide così: domani alle 15, sulla strada di Porcigatone a una certa località si troveranno i quattro Alpini armati; un ufficiale degli Al­pini verrà, accompagnato dal Curato, perché io debbo andare ad Alba­reto; li interrogherà, e secondo la loro risposta, resteranno o ritorne­ranno. Ritorno; arrivo la sera, già tardi, quasi alle 20; porto immediatamen­te la risposta all’ufficiale di guardia al posto di Guardia di Porto Portel­lo, il S. Ten. Bertoni; questi la manda subito al Comando, e spera di poter liberarmi gli ostaggi. Dopo mezz’ora ritorno, ma la risposta è ne­gativa: gli ostaggi saranno trattenuti fino a domani dopo la restituzio­ne degli Alpini. Ci rimango male. Li ci sono tante donne in lacrime; le conforto, ma anch’io sono un po’ arrabbiato per questi metodi da barbari! Non ho voluto rivelare che Molinari e compagni avevano ingannato, per non provocare rappresaglie contro la sua famiglia; ma se domani fanno del male a questi innocenti, allora non tacerò. Stasera sono stanchissimo.

settembre, venerdì – Festa della Natività della Madonna. – Stamat­tina per tempo vado ad Albareto a rivedere i miei parrocchiani. Mi di­spiace di aver mancato di parola anche questa volta e di non essere ar­rivato ieri sera, come avevo promesso; me ne dispiace anche perché lungo la strada avrei dovuto avere un colloquio con uno dei capi dei partigiani, come d’accordo con il Maggiore, per creare una situazione di mutua comprensione: e invece, per la faccenda di ieri, tutto è andato a monte. Oggi è un anno dacché si è dichiarato l’armistizio: quanti nuovi do­lori e quanti nuovi gravissimi lutti da allora in poi! La divisione di parte, le differenze di opinioni si sono così acuite, che ci hanno porta­to alla guerra civile più spietata. I due veri contendenti, Germania e Alleati sembrano che si accordino nel modo più perfetto nel tenerci in questa tragedia e nel renderla più grave e più sanguinosa. Ora un altro colpo è stato inferto alla moderazione: sono state costituite delle così dette « Brigate Nere », formate da fascisti e capi fascisti, disposti a tutto, allo scopo di tener in piedi la attuale situazione politica a tutti i co­sti. Con ciò il fascismo si va irrigidendo sempre più in una direzione di assolutismo e di rigorismo, che a sua volta provocherà nuove reazioni, nuovi inasprimenti di odio. Povera Patria! alla distanza di appena quat­tro anni e meno dal primo Centenario dei primi tentativi dell’Unità Italia (1848), si constata che l’Italia era stata fatta, ma gli italiani re­starono ancora da farsi; dopo un secolo l’Italia corre il rischio di ritor­nare ancora un caos, un mosaico di tendenze, di movimenti, come era prima, come una povera qualunque repubblica dell’America del Centro e del Sud. Quanto pesano nell’avvenire di un popolo interi secoli di storia passata, in cui non si conobbe e non si ebbe più l’unità, ma si vis­se divisi e dispersi in cento e cento staterelli, repubbliche, o Comuni, ed era follia e crimine aspirare e parlare di unità d’Italia! A redimere un millennio e mezzo di storia ci vuole del tempo.

Eppure, nella storia dell’Italia ritornata ad unità, se ci fu un mo­mento accanto all’unità politica e geografica si poteva sperare e attende­re anche un consolidamento dell’unità spirituale e morale del popolo italiano, questo periodo propizio poteva essere il periodo del regime fa­scista. Questo è stato e voleva essere regime di autorità e di riscossa nazio­nale. E sarebbe ingiustizia non riconoscere che molte conquiste sono state ottenute in ogni campo, anche in quello strettamente nazionale. Ma non è stato raggiunto l’intento, sia perché in questo particolare settore della vita dei popoli non si possono bruciare le tappe, perché non si tratta di costruire ferrovie, o ponti, o porti o che so io, ma si tratta di formare la coscienza e l’anima di un popolo; sia perché, mi pare è stata seguita una via errata.

nfatti: l°) In un popolo come l’italiano, il vincolo che per tutti i secoli l’ha fatto uno, anche quando era politicamente a brandelli, è sta­to quello religioso. È per questo vincolo che in Italia non ha avuto for­tuna né la rivoluzione protestantica, che avrebbe fatto dell’Italia, data la sua costituzione politica di allora, un mosaico di popoli scissi a se­conda della credenza religiosa; né la rivoluzione francese, che introdus­se in Italia sì delle idee nuove, ma non i metodi suoi. È per questo vin­colo che l’Italia ha avuto una unità nelle più alte espressioni della ci­viltà: arte, poesia, musica, ecc. Il nostro Risorgimento che per le note ragioni, e cause e vicende, prese un indirizzo apertamente e schiettamente anti-religioso, anticattolico, antiecclesiastico, poté sì raggiungere un’unità politica, economica, geografica ecc., ma non poté costruire e for­giare su coefficienti e elementi politici, artistici, linguistici, economici e geografici ecc. una unità morale e spirituale perché aveva espulso, estro­messo, non soltanto dimenticato, l’elemento religioso, l’unico o per lo meno il più efficace e determinante dell’unità e dell’anima italiana, ani­ma anzi proprio esso degli altri elementi, che senza di esso, restavano gravemente vulnerati. Come si poteva ad es. comprendere Dante, farlo comprendere alle nuove generazioni, presentarlo come il padre della lingua nostra, quindi dell’elemento più efficace di unità, senza una men­talità cattolica, anzi con una mentalità ostile? Purtroppo una mentalità sinceramente cattolica è mancata anche al Fascismo, il quale, sia pure sotto forme diverse, continuò a battere le vie del passato. Esso compre­se senza dubbio l’importanza della Chiesa e della religione cattolica, ma pensò di poterla trascinare nella sua orbita e di renderla strumento del suo regime; cercò di vincolarla con concessioni, ma nello stesso tempo la ostacolò in cose che per la Chiesa sono vitali: come ad es. l’educazio­ne della gioventù, l’azione cattolica ecc: per questo non vi fu mai una perfetta armonia basti accennare ai continui dissidi causati a proposito dell’A. C., alla campagna sfacciata continuata impunemente da «Regi­me Fascista» e dagli altri organi provinciali ecc. Così, mentre da una parte si ebbero notevoli vantaggi per il riconoscimento di alcuni dirit­ti della Chiesa, come l’insegnamento religioso nelle scuole, non se ne ebbero tutti quelli che in un regime forte e omogeneo come voleva es­sere quello fascista, si potevano attendere e si potevano ottenere: in altre parole, l’anima del fascismo non è mai stata schiettamente religio­sa e cattolica; sembrò piuttosto mirare a istituire un senso religioso, una morale e una mistica tutta sua, e che perciò non poteva coincidere con quella cattolica. Questa interiore insincerità nocque, mi pare, alla causa nazionale, perché impedì al fascismo di operare più profondamen­te nell’anima del popolo italiano, come nocque alla causa nazionale, il laicismo aperto dei regimi passati. Così pure la lotta contro la Masso­neria apparve più come uno sforzo per abbattere una formidabile po­tenza avversa, che non un sincero tentativo di bonifica morale e socia­le; poiché certe forme di attività massonica perdureranno sotto il colo­re della casacca nuova.

2° L’altro grave errore che impedì la formazione di una vera e pro­fonda unità nazionale è stato quello che potrebbe chiamarsi il «livella­mento delle teste ». La costrizione a cui fu sottoposto il popolo di ogni ceto e di ogni categoria, dal popolo al professore di università, per ol­tre vent’anni ad accettare sempre come verbo assiomatico le parole, le decisioni, le direttive di chi veniva, con inopportuna e stucchevole in­sistenza, chiamato «Colui che ha sempre ragione », ha avuto conseguen­ze disastrose. Non è possibile che 45 milioni di teste si lascino indefinitamente, manovrare, come teste di legno, da un abile operatore di marionette; ma deve pur venire il momento in cui queste teste si chie­dano se davvero sono teste di legno come quelle delle marionette, o in­vece se non siano teste che sanno ragionare da per sé, senza bisogno di essere manovrate da altri, e se perciò abbiano o non abbiano il diritto di pensare e di agire autonomamente. E quando questa coscienza appa­re chiara, allora l’incantesimo dell’uno che ha sempre ragione, svanisce, e il popolo si domanda come mai questo incantesimo ha potuto durare tanto. Evidentemente ciò non è formativo di una coscienza nazionale. Così si spiega come gli operai, i professionisti, gli impiegati, i profes­sori ecc. non siano rimasti soddisfatti. Sembra strano e inspiegabile, eppure è un dato di esperienza: nessun regime ha fatto tanto come quel­lo fascista, in favore degli operai, degli impiegati e dei giovani stessi, questo bisogna riconoscerlo con tutta onestà, eppure non è riuscito in nessuna maniera a conquistarsene gli animi: i vecchi socialisti e comu­nisti sono rimasti ostinatamente tali, a meno che qualche interesse par­ticolare non li abbia almeno in apparenza mutati; e i giovani, neppure essi, sono stati del tutto conquistati.

3° Il terzo grave errore che ha impedito la formazione di una pro­fonda coscienza nazionale è stato ciò che si potrebbe chiamare il Tota­litarismo del Partito, che giunse all’assorbimento di tutto nel Partito. Ogni forma di attività, ogni iniziativa, ogni manifestazione di vita socia­le, ogni istituzione, ogni denominazione, perfino ogni manifestazione di pensiero e di arte che non portasse l’etichetta fascista, che non fosse agganciata agli organi del Partito, che non sembrasse una emanazione del Partito, non aveva diritto di cittadinanza. Perfino la carità e la be­neficenza non poteva più essere fatta se non attraverso gli organi del Partito. Tanti diritti non potevano essere riconosciuti o difesi se non erano tutelati dalla tessera di iscrizione al Partito. Cosi che si ebbe la impressione che non si cercasse il bene della nazione ma quello del Par­tito,e che non il partito fosse al servizio della Patria, ma la Patria al servizio del Partito. Questa impressione derivata dall’assorbimento di ogni cosa nel Partito, alimentata da un linguaggio e da un vocabolario a parole e a formule stereotipate e che era necessario usare per avere fortuna, nocque immensamente. Inoltre la poca scrupolosità di capi e di gregari, le moltiplicate e continuamente moltiplicante si forme di e­storsione di denaro per le cosi dette opere del Regime, i balzelli posti su ogni genere di profitto, perfino sui quaderni di scuola, in favore del­le stesse opere, le debite e indebite inframmettenze di esigenze di par­tito in quasi tutte le Amministrazioni, fecero nascere il sospetto che insomma questa fame di oro non fosse mai saziabile, soprattutto per­ché non era mai possibile poter controllare l’uso di queste risorse, e per­ché tanti capoccia che avevano agito male venivano, alla resa dei conti, sempre tutelati solo per il fatto che erano capoccia. Cosi che quando scoppiò la guerra, si ebbe l’impressione che questa guerra dovesse ser­vire non al vero bene della Patria, ma al consolidamento del Partito. In questo modo, quando le cose si misero male, non ci fu una pronta e generosa reazione di riprese della coscienza nazionale; anzi si verificò il fatto opposto. Nel 1917 invece non fu cosi, eppure allora sembrava che l’Italia di questi anni, con la presenza di tanti partiti e di tante tenden­ze politiche: eppure allora si resistette, e stavolta no. Come spiegare? Ed ecco perché ora ci troviamo nella guerra civile: la Patria sembra di­mentica dei danni e dei pericoli che le venggono dalla presenza sul suo suolo di inglesi e di tedeschi, e sembra invece concentrata solo in que­sto con il partito o contro il partito. È una dolorosa realtà.

È quindi veramente da deprecare che un tentativo operato in ca­si grande stile di dare una profonda unità nazionale, e al quale occor­re riconoscere meriti veramente insigni, sia fallito. Colpa anche e sen­za dubbio di uomini che non seppero adeguarsi all’altezza dell’impresa formidabile o anche che non vollero, ricercando più il profitto proprio che il bene comune; ma forse anche la logica stessa interiore del mo­vimento non era tale da operare un si arduo compito, senza correre il rischio di naufragare. Occorreva saper conciliare la forza e l’impero del­la legge con il rispetto al pensiero e alla libertà personale e associativa; ma per riconoscere i diritti degli altri bisogna saper riconoscere e im­porre i limiti ai propri. Queste riflessioni mi salgono malinconicamente dal fondo dell’ ani­mo in questo annuale dell’infausto otto Settembre: punto d’arrivo di un’opera grandiosa, che portava in grembo tante speranze, fallita, e pun­to di partenza per un Calvario nuovo, non meno sanguinoso del prece­dente.

settembre, sabato. – Mi reco per tempo a Boschetto, dove tengo un po’ di predicazione dopo la Messa, in preparazione della Solennità del Ss. mo Nome di Maria. Verso le l0 mi vengono a chiamare per an­dare al telefono ad Albareto. Temo che sia capitato qualche altro pa­sticcio, o che non sia andata in porto la faccenda di ieri. Invece no: mi si comunica che gli ostaggi sono stati liberati, ma che è assolutamen­te necessario che venga a Borgotaro. Bisogna andare, nonostante che la strada sia lunga. A Borgotaro trovo un signore che vuole incaricarmi di una commissione, ma da parte dei partigiani, di estrema delicatezza presso il Maggiore degli Alpini. Io prometto, ma poi ci ripenso, e non mi sembra prudente che l’iniziativa parta da me, perché estranea al mio compito sacerdotale, e parrocchiale, e perché, almeno per ora, inop­portuna e intempestiva. Perciò non ne faccio niente; e verso le 16 ri­prendo la strada per Boschetto, ma per fortuna trovo un camion che mi porta fino al Bivio di Albareto. Vengo intanto a sapere che ieri, sulla strada di Porcigatone, il S. Ten. Peruzzi trovò i suoi quattro uomini, scortati da un buon gruppo di par­tigiani; essi gli dichiararono di essersi allontanati di loro iniziativa e di non voler ritornare all’accampamento, e nonostante le gravi rimostran­ze fatte dall’Ufficiale, e l’invito a riflettere sulle conseguenze del loro gesto, non ne vollero sapere; accondiscesero soltanto a cedere le armi, che l’ufficiale ritirò e portò con sé. Ciò in parte mi dispiace, perché è un nuovo passetto sulla via delle complicazioni; in parte mi fa piacere, perché l’Ufficiale stesso ha avuto modo di constatare come le cose stan­no, e dove debba ricercarsi la responsabilità. Ritorno quindi abbastanza tranquillo. Non arrivo però in tempo per l’adunanza delle giovani, in programma.

10 settembre, domenica. – Festa del SS. mo Nome a Boschetto; di­screta partecipazione di fedeli; molte confessioni e S. Comunioni.

11 settembre, lunedì. – Ho in programma una giornata mariana per i Seminaristi. Li sto aspettando, quando verso le 8,45 arriva Don Gui­do Berzolla, suddiacono, da Borgotaro, con una lettera del  Maggiore che mi chiama al Comando, d’urgenza. Un altro grosso guaio; stanotte una quindicina di Alpini, compreso un Ufficiale, sono stati prelevati al po­sto di blocco al bivio della strada della Costazza e sono stati tratti in arresto uomini e donne delle case dei dintorni. Mi si danno le prime notizie della indignazione e dello spavento della popolazione, arrabbia­ta e con gli Alpini e con i partigiani. Io sono estremamente preoccupa­to. La Giornata mariana per i Seminaristi, cosi se ne va in fumo. Sto per mettermi in viaggio, quando viene un signore, detto «Lo Zio », che io non ho mai visto, ma che mi dice essere dei partigiani, il quale mi fa questa comunicazione: «Stanotte una quindicina di Al­pini si sono allontanati dal loro posto e sono passati con noi; sono ve­nuti via con l’Ufficiale di loro iniziativa; nessuno di noi è andato a pre­levarli, soltanto alcuni di noi sono andati a incontrarli al bivio di Albareto. Io insisto che mi dica la verità, ed egli mi conferma quanto mi ha detto. Allora gli chiedo: «Posso riferire al Maggiore quanto mi ha detto? ». Egli mi dà piena autorizzazione. Se le cose stanno così, penso, non sarà difficile risolvere l’incidente. E mi aspetta sulla via del ritorno. Non passo in Borgotaro, ma salgo al Poggio, direttamente stando sulla destra del Taro.

Incontro il Maggiore che scende in macchina. «Siamo a un altro guaio, grosso! » mi apostrofa. «Sì, ma sono molto spiacente, io pure» rispondo. «Ma, soggiunge, si tratta questa volta di gente che è fuggi­ta!» «Fuggita!…» «Sì!…» «Tutti?.. anche il S. Ten. Orlandini?» «Sì, tutti. Posso dimostrarvi che sono fuggiti, e ne ho le prove!» E gli comunico quanto avevo saputo dallo Zio. Egli allora mi prega di andare al Comando e di prender gli accordi con il S. Ten. Peruzzi per gli accertamenti sulla fuga dei militari. Con il S. Ten. Peruzzi ci si accorda che nel pomeriggio al Bivio di Albareto avrà luogo un colloquio con la persona che mi aveva dato le informazioni del mattino e con l’ufficiale e il caporalmaggiore. lo comu­nico la cosa allo Zio e ne ho conferma. Alle 18 siamo al Bivio di Albareto: troviamo lo Zio e un altro chia­mato Benedetto; ma non ci sono i due militari: essi erano già troppo lontani e non si poteva averli in tempo. Lo Zio comunica che dei mi­litari passati ai Partigiani, undici vennero spontaneamente, e quattro furono costretti, e tra essi il S. Ten. Orlandini. Io ci rimasi molto ma­le per questa nuova versione in contrasto con la precedente fatta a me il mattino. Comunque dopo un lungo conversare, in cui l’uno e gli al­tri espressero le loro idee, e si cercò di venire a una chiarificazione, si rimase d’accordo che il mattino seguente lo Zio mi avrebbe portato una risposta per il ritorno dei quattro, se cioè persistevano nel loro atteggia­mento o se invece preferivano restare coi partigiani. A me premeva una soluzione rapida per liberare al più presto gli ostaggi. In realtà verso mezzogiorno dopo il primo colloquio col Mag­giore, le donne furono liberate; restavano ancora una quindicina di uo­mini.

12 settembre, martedì. – Altra giornata movimentata, e preoccupan­te. In mattinata lo Zio mi dà una comunicazione incerta, ambigua, e mi dice che stasera alle 16 mi darà la risposta definitiva. Io insisto sulla re­stituzione dei quattro, almeno di tre, perché mi dice che uno ha aderi­to ai partigiani. Nel pomeriggio attendo ancora, e finalmente verso le 17,30 mi arriva un biglietto in cui non si riesce a capire vi si dice che non si hanno ancora tutti i nomi e che domani sarà data la lista di tutti. Non capisco: si vogliono indietro gli uomini, e mi si vuol man­dare una lista di nomi. Ma tra le righe capisco: quei benedetti stanno facendo pressione per ottenere l’adesione anche degli altri. Tutto ciò mi indispettisce, perché non ci vedo lealtà. Comunque con questo biglietto sibillino vado al Comando, deciso a ritornare un’altra volta ad Albareto, se qui si fanno proteste o mi­nacce. Trovo il S. Ten. Peruzzi; legge il biglietto e ne rimane disgusta­to. Insisto per la liberazione degli ostaggi, dei quali ormai è chiara l’in­nocenza, e poiché vengo a sapere che si stanno facendo preparativi per un rastrellamento verso Albareto, mi decido a ripartire di nuovo e su­bito per Albareto. Gli ostaggi sono liberati; e in più ho l’assicurazione che se saranno restituiti l’ufficiale e gli altri due, anche le operazioni militari assumeranno un carattere diverso.

Dò un passo in canonica, e poi mi metto in cammino. Sono appena all’ Appennino che vedo lì ferma la macchina del Maggiore e vedo sol­levare da essa un militare gravemente ferito e portarlo dentro l’Alber­go. Ho la percezione che qualche cosa di estremamente grave è avvenu­to. Mi avvicino, e il Maggiore vedendomi mi viene incontro con le ma­ni alzate e gridando a voce strozzata, mi dice «Basta, basta! Ora basta! Altro che intese! Ora glielo farò vedere io!…» E mi racconta il tragi­co episodio: di ritorno da Bedonia, in località tra il Bivio di Cento Cro­ci e il Bivio di Albareto, venne preso a fucilate da un gruppo di Par­tigiani nascosti lungo la scarpata della strada. Egli non si perse di corag­gio, ma mise il motore a pieno regime, e poté rapidamente sottrarsi al tiro degli attentatori. Le gomme erano tutte a terra; la carrozzeria bu­cherellata, e un ufficiale, quello tedesco di collegamento, gravemente fe­rito. Egli invece completamente illeso, e per nulla turbato dall’incidente, che quasi ancora celiando chiama «scherzetto! »

Il fatto è di una gravità eccezionale. Dinnanzi a fatti di questo ge­nere non si può trattenere la indignazione, perché nessuna ragione, nes­sun motivo, nessun ideale può giustificarlo: esso ha l’apparenza del cri­mine volgare. Esprimo al Maggiore la mia indignazione, le mie felicita­zioni per aver scampato da un pericolo così grave; e gli dico che stavo per ritornare ad Albareto per sistemare la faccenda ancora in pendenza. «Quelli non sono uomini; mi dice; sono delinquenti. Si sta trattando, e in questo modo tengono la parola! Questa è la loro lealtà! ». E assicu­ra che stavolta non gliela mancherà. Non c’è più niente da fare! Ritorno a casa con tanta afflizione nell’anima: fino a questo punto si può giungere! E come di solito, la po­vera gente sarà quella che ci rimetterà! Oh! Signore, fate finire questa orribile guerra!

13 settembre) mercoledì. – Tutta la popolazione deplora aspramente il fattaccio di ieri. Anche alcuni partigiani non lo approvano, sia per il modo, sia per il momento, sia per le conseguenze. Ecco un’altra prova della mancanza di disciplina, che è fonte di grossi guai. Si dice infatti che l’azione sia stata compiuta da un gruppo che ha agito di propria te­sta: cosi si dice; ma so anche per esperienza, che per far perdere le tracce delle proprie responsabilità, spesso si buttano fuori voci che non corrispondono alla verità!

Verso mezzogiorno mi incontro con il Sig. Bosi, impiegato del Co­mune, sfollato ad Albareto; mi dice quanto lassù siano preoccupati e indignati, e mi prega di vedere se non fosse possibile fare qualche cosa. Non si sa con quale coraggio si possa andare a proporre un aggiu­stamento. L’unico modo per poter riprendere i contatti è quello della immediata restituzione dei tre Alpini trattenuti: con questo qualche cosa si può ancora provare. Ma bisogna fare presto perché credo che le operazioni siano già incominciate. Qui propongo al Sig. Bosi di ritorna­re subito ad Albareto e far conoscere ai partigiani che sono disposto a far qualche cosa a queste due condizioni: restituzione degli Alpini e trattative con un capo veramente responsabile: diversamente non mi muovo. E resto in attesa di una risposta in giornata. Nel pomeriggio ricevo una lettera dell’ Arciprete di Albareto, in cui mi prega di intervenire presso il Maggiore in favore della popolazione, di proporgli un colloquio e intanto di sospendere le operazioni. Queste idee erano di una semplicità troppo spinta, dopo un fattaccio come quel­lo di ieri. Intanto però ho fatto sapere al Maggiore che la popolazione di Al­bareto era molto e molto indignata per quanto era successo, e che io ave­vo intenzione, anzi avevo già fatto sapere, di recarmi di nuovo ad Al­bareto per la restituzione degli Alpini, e perciò pregavo di usare riguar­do per la popolazione: quanto ai partigiani non osavo aggiungere nulla, perché essi dovevano rispondere delle loro azioni.

Ricevo la risposta con l’invito di recarmi al Poggio dal Comando. Qui espongo di nuovo il mio progetto; ma il Maggiore mi fa leggere un radiogramma del Comandante la Divisione, Gen. le Carloni, in cui si dice: «Non capisco vostro atteggiamento passivo. Esigo immediata ese­cuzione istruzioni impartite ». Io insisto sulla mancanza di responsabi­lità della popolazione, e mi dichiaro pronto a ritornare ad Albareto per ottenere quelle soddisfazioni che sono giuste e doverose. Sebbene non abbia una risposta esplicita, mi pare di poter capire. E perciò in sera­ta tardi mando a dire all’ Arciprete di Albareto che domani mattina ver­so le l0 sarò ad Albareto per trattare la cosa; ma esigo di nuovo come condizione assoluta che siano liberati gli Alpini e sia presente un capo responsabile.

14 settembre, giovedì – Esaltazione della S. Croce. – Mi metto in viaggio un’altra volta per Albareto, prego il Signore e la Madonna che mi assistano onde poter evitare altre tribolazioni alla nostra gente già tanto tribolata. Ho da poco passato il ponte degli Scodellini che avviene un’altra in­cursione su Borgotaro: vedo un’alta colonna di fumo sollevarsi e di­stendersi su tutta la vallata, ma non riesco a distinguere la posizione precisa che è stata colpita; spero che il paese non sia stato toccato, ma continuo il cammino con non poca trepidazione. Appena giunto ad Albareto faccio telefonare a Borgotaro: voglio in­formarmi dell’incursione. Poco dopo mi comunicano che è stato tirato al ponte e che vittime non ve ne sono. Sono contento. Ad Albareto sono aspettato. Con l’arciprete c’è il Sig. Pelledri poi sopraggiungono due altri Signori che sono i consiglieri più autorevoli presso la Brigata «Cento Croci », comandata da Richetto; vi è anche il parroco di Boschetto Don Giovanni Figoni. Il Sig. Pelledri è genti­lissima persona, che si interessa dei fatti suoi, ma che già nel luglio scorso ha fatto molto per la conclusione di quell’accordo che in defini­tiva ha salvato la Val Gotra. Gli altri due non li conosco e non ricor­do bene neppure il nome, ma non sono del luogo, vi si trovano sfolla­ti: li trovo molto ragionevoli e comprensivi, essi pure stigmatizzano il fatto dell’ attentato e tante altre corbellerie che combinano questi parti­giani, mal guidati; tanto più che gli ordini che vengono dal Comando alleato non sono di fare queste azioni meschine, ma riguardano tutt’al­tro. Vengo anche a sapere che in seno alla Brigata vi sono dissensi e contrasti, che si stava lavorando per cambiare il Comandante, che è un impulsivo e non usa la calma e tante altre utili informazioni. Vengo anche a sapere che l’intenzione di quelli che hanno fatto l’attentato al Maggiore non era quella di colpirlo, bensì di farlo prigioniero onde giun­gere allo sfaldamento del Battaglione: e questa informazione combina con altre voci che ho raccolto altrove, secondo le quali i partigiani mi­ravano appunto a sgretolare la compagnia del Battaglione: al che io mi sono sempre opposto, perché mi sembrava un’impresa che se anche riuscita, non poteva portare i frutti che essi si attendevano, senza calcola­re le pessime conseguenze che ne sarebbero derivate alla popolazione ci­vile. Era poi per lo meno imprudente, oltre che sleale, tentare di cat­turare il Maggiore, mentre si stanno facendo le trattative per la libera­zione di quelli già catturati. Per lo meno ci vuole la lealtà. A mia vol­ta informo che a poca distanza ci sono alcune migliaia di SS. tedeschi, scaglionati a Varese, e a Borzonasca, e che due o tre giorni fa il Comandante pi queste forze si è trovato a colloquio con il Maggiore degli Alpini perché intendeva venire per un rastrellamento, ma ne fu im­pedito proprio dal Maggiore, poiché voleva conservare per sè il co­mando del presidio. Oltre a questo ottimo servizio, metto in rilievo l’atteggiamento di tolleranza seguito finora dal Comando Alpini, spe­cialmente verso i partigiani, dei quali al Comando si conosce il nome di parecchi, che pur circolano indisturbati per le strade. Ora occorre pensarci se sia meglio avere in zona un gruppo di italiani, con cui ci si può intendere, oppure un presidio di tedeschi, specialmente poi se di SS., capaci di farci vedere in nuova edizione quanto abbiamo già visto.

Entro poi a parlare più precisamente dell’argomento degli Alpini prelevati; e mostro tutta l’incoerenza e la totale mancanza di buon sen­so, nel modo che finora hanno tenuto in proposito. Prima infatti mi dicono e mi autorizzano a dire che sono fuggiti di loro volontà; poi dichiarano alla presenza dell’ufficiale Alpino che quat­tro sono stati prelevati e di questi tre non vogliono restare coi parti­giani, e specialmente l’ufficiale catturato ha tenuto un contegno; di gran­de nobiltà nel sostenere la sua idea; promettono di rimandare quelli che non intendono aderire; e ora non solo non li rimandano, ma voglio­no forzarli a sottoscrivere una dichiarazione a cui più nessuno potrà cre­dere, e infine attentano al Maggiore. Accenno poi ad altre intese che si potevano raggiungere e proprio nell’interesse dei partigiani e di tutti, e di cui essi pure erano al corrente. Queste osservazioni fatte con calore, poiché ero proprio seccato di un contegno che mi disgustava perché non informato alla lealtà, ma suggerito da grettezza di mente e da piccineria di espedienti fanciulle­schi, fecero notevole impressione sui presenti, ai quali non erano noti tutti i precedenti e furono con me e più di me severi nel condannare un’attività che portava alla rovina intere popolazioni e poteva compro­mettere l’azione e gli intenti che i partigiani volevano raggiungere. Le operazioni infatti iniziate dagli Alpini su vasta zona cominciavano già a dare i loro frutti; e c’era in tutti una grave apprensione.

In questo mentre, arriva Benedetto, il Commissario Politico della Brigata, che porta con sè il S. Ten. Orlandini, e poco dopo arriva an­che lo Zio. La discussione non poteva più continuare in mezzo a troppa gente, e allora ci ritirammo in altra sala della Canonica e si è ripresa la discussione. In faccia allo Zio ho ripetuto quanto avevo già detto; e lo Zio, poveretto ci fece proprio una magra figura. Alla fine si con­vinsero della insostenibilità della loro posizione e ci si accordò: i Par­tigiani restituivano subito l’ufficiale, S. Ten. Orlandini, domani avreb­bero restituito gli altri due, un caporale maggiore e un alpino, e io avrei insistito di nuovo perché le operazioni o cessassero – il che era molto difficile, tanto più che sembravano in movimento altri reparti e i tedeschi della S.S. – o fossero limitate e soprattutto la popolazione civile fosse rispettata. E si andò a mangiare, poiché era mezzogiorno già passato parecchio. Nel pomeriggio volli ancora una volta precisare quanto ero autorizza­to a dire e a promettere e quanto invece speravo di ottenere in segui­to, e questo a scanso di equivoci o malintesi.

Poi ci si riunì tutti e il sig. Arciprete volle stendere un verbale dell’ avvenimento nel suo libro di cronaca e tutti ci si sottoscrisse, anche il sig. Ten. Orlandini. Questi venne consegnato a me e lo condussi con me fino al Coman­do di Battaglione. Nel ritorno il S. Ten. Orlandini non soltanto mi con­fermò che era stato trattato bene, con tutti i riguardi, ma che ebbe mo­do di conoscere da vicino il movimento dei Partigiani nei suoi scopi ideali, e non mi nascose che molte idee che egli aveva sente il dovere, per oggettività, di riformarle. Mi è sembrato poi anche di animo molto buono. Il ritorno del S. Ten. Orlandini ottenne più di quanto speravo. Prima di lasciare il comando son venuto a sapere che il Maggiore avreb­be dato ordine alle truppe di rientrare. Ed io mi sono affrettato a co­municare ad Albareto che «con la restituzione dell’ufficiale il cielo si era già schiarito, e con la restituzione degli altri due sarebbe ritorna­to il sereno». Raccomandavo poi di nuovo la consegna per domani dei due alpini. Così si chiudeva un altro episodio che aveva tenuto in grave ansia tutta una zona di pacifiche popolazioni. E ho ringraziato di nuovo il Signore.

15 settembre, venerdì. – Sono rimasto tutt’oggi in attesa di una comunicazione da Albareto relativa alla restituzione degli altri due Al­pini. Ma alle 16 non avevo ancora avuto alcuna informazione. Allora faccio chiamare al telefono l’Arciprete di Albareto; questi mi assicu­ra che stanno venendo, ma ancora nulla di preciso. Comincio a sospet­tare che me ne stiano combinando un’ altra. Verso le 17 mi telefona­no che gli Alpini sono a Boschetto e stanno arrivando; allora dico che mi metto per istrada e li aspetterò io al Bivio e loro aspettino me.

Al bivio di Albareto aspetto fino alle 19,30; ma non arriva nessuno. Allora perdo la pazienza e me ne riparto deciso a non occuparme­ne più: mi dispiace proprio di questa nuova brutta figura che mi toc­ca fare dinnanzi al Comando Alpini, di fronte al quale non si può dir tutto, bisogna tener su le carte di tutti, trovare delle spiegazioni, e sapere agire con un pò di prudenza e di astuzia. Ma anche questo ha un limite, al di là del quale un uomo rischia di perdere il suo buon nome, e così perdere soprattutto la capacità di influire in bene per la popolazione. . Sto ritornando, quando sono sopraggiunto da Benedetto, il quale mi dice che nonostante tutto, data la distanza, non sono ancora arriva­ti, ma domani in mattinata saranno consegnati. Forse Benedetto non ha torto, ma io sono stavolta diffidente e soprattutto stanco; perciò gli dico che domani mattina l’Arciprete di Albareto li accompagni fi­no al Ponte degli Scodellini, dove alle 8,30 o alle 9 ci sarà il Curato ad attendere. Mi dà poi i denari e altri oggetti personali del S. Ten. Orlandini perchè glieli faccia avere. Sono poco contento.

Presso il bivio di Gotra c’è la macchina del Maggiore che mi aspet­ta; mi sono venuti incontro. Riferisco quanto mi ha comunicato Be­nedetto, non ne sono molto contenti, ma non c’è altro da fare. Intanto c’è una novità: è giunto in giornata un reparto misto del­la Flack, che piazza in località «La Ghina» quattro cannoni e intorno tutto il materiale occorrente per le batterie antiaeree. Gli ufficiali Al­pini mi dicono che dovranno arrivare altri, fino a collocare intorno a Borgotaro 16 cannoni. Io non capisco tutta questa importanza che gli uni e gli altri si ostinano a dare a Borgotaro. La popolazione è molto allarmata; pensa che l’antiaerea servirà a richiamare maggiormente l’attenzione dell’aviazione inglese, con le conseguenze che si prevedono. La fantasia della popolazione galoppa, come è costume in tutti i paesi; qui a Borgotaro poi la fantasia ha po­tenza non commensurabile. Dovunque è un lamentarsi e un pronosti­care danni gravi ecc. In realtà la contraerea servirà a far deviare la rotta; ma avrà un grosso guaio che con i suoi colpi a parecchie mi­gliaia di metri distribuirà tutt’intorno e specialmente in campagna una pioggia di schegge: pericolo questo non trascurabile. Insomma, ogni giorno che passa, nuove pene, nuove preoccupa­zioni. Oh! se sapessimo sopportare tutto con tanta rassegnazione, qua­le tempo prezioso, sarebbe questo: mai forse nella nostra vita ci si ripresenterà un periodo più propizio per farci santi. Ma purtroppo, non ce ne persuadiamo. Come siamo meschini spiritualmente! Per lo meno io.

17 settembre, domenica. – Il paese continua a mantenersi deserto. Celebro la prima S. Messa alle 6,30 a un discreto numero di persone; alla seconda S. Messa, alle ore 7,30, una trentina di persone sì o no sono presenti. Quanta gente perde la S. Messa! Gli uomini soprattutto, anche quelli che sono in paese, non vengono; forse pensano che sia presto; ma se si dice più tardi, hanno la scusa del passaggio degli ap­parecchi e del pericolo dei bombardamenti. Si osserva con cuore af­franto; tanto più che non si sa come rimediare. Alle 8,30 vado a celebrare la S. Messa agli Alpini e dopo rivolgo loro un pensiero spirituale di circostanza. Anche stavolta un buon nu­mero di soldati si confessa e fa la S. Comunione. Poi vado a Pieve di Campi, dove si celebra la solennità dell’ Addo­lorata. Ai vespri tengo il discorso di occasione, e poi invito gli uomini a fermarsi, mentre i miei parrocchiani sfollati li invito per domattina.

Agli uomini espongo alcune idee direttive, che dovrebbero servire ad orientarli. E cioè: se si vuole restaurare un ordine nuovo dopo la guerra fin d’ora togliere le cause che hanno condotto al disordine at­tuale: e quindi occorre: 10 ritornare a Dio, perchè non è stato Dio a voler la guerra bensì sono stati gli uomini che al posto di Dio hanno collocato altre false divinità: la scienza, il progresso, la tecnica, l’oro o la potenza, la razza: divinità che hanno tradito l’uomo che aveva avuto fede in loro, indirizzando alla sua rovina tutte le così dette con­quiste che per loro mezzo erano state raggiunte; 2° restaurazione dell’impero della legge di giustizia, nel rispetto ai diritti della persona umana, della roba e della proprietà, e della famiglia; restaurazione dell’impero della legge della carità, con la lotta contro l’odio di perso­na a persona, di classe a classe, di popolo a popolo. Con la rinunzia della società a Dio, essa è divenuta di nuovo idolatra in una forma peggiore dei pagani, i quali per lo meno hanno conservato il concetto di Dio; con la frantumazione delle leggi della giustizia e della carità, la società è ridivenuta barbara, come quando per diritto si intendeva ciò che era stabilito dal più forte. In questo modo l’ordine sociale non era e non è cristiano, ma semplicemente pagano e barbaro anche se circonfuso da tanto splendore di progresso; e se si vuole un ordine nuovo occorre basarlo su Dio, su la giustizia e la carità, solo così sarà cristiano.

Già da qualche tempo, in occasione delle mie visite agli sfollati, raduno gli uomini, a preferenza delle donne, ed espongo loro queste idee direttrici: mi accorgo che fanno del bene; gli uomini ascoltano molto volentieri, e condividono questi principi fondamentali; riman­gono molto soddisfatti; so che poi ne parlano parecchio fra di loro. Tocca a noi sacerdoti illuminare le coscienze e insegnare il Vangelo, do­ve ogni verità è contenuta: chi ascolta saprà, se è leale, fare le applicazioni concrete, poiché la sua coscienza sarà illuminata e spingerà all’azio­ne coerente. Mi propongo di continuare questa opera di illuminazione degli uo­mini, perché ad essi, domani soprattutto, sarà chiesto molto. Consegno elemosine per i poveri sfollati a Pieve.

18 settembre, lunedì. – Stamattina celebro a Pieve di Campi per i nostri parrocchiani. Essi hanno tanta speranza di ritornare presto. Mi riferiscono quanto hanno sentito alla radio. lo vorrei alimentare la loro speranza: ho parlato loro della fede, esortandoli a imitare la fe­de, vorrebbero averla proprio così, come quella della Madonna, ma… vorrebbero che si dicesse loro anche: i progetti fatti accanto alla ra­dio hanno vero e serio fondamento. lo invece ho sorvolato, cerco di deviare il discorso. Essi capiscono e mi dicono: «Lei è pessimista!? … » lo sorrido, e lascio che pensino e interpretino come ad essi conviene o piace. Ma in realtà, io sono pessimista: passerà ancora molto del tem­po: poveri miei cari figliuoli!… Nel pomeriggio sono tornato molto in fretta, perchè dovevo anda­re a incontrare Benedetto fino al Frasso e condurlo in canonica per un incontro con il Maggiore Benedetto – tale è il nome di battaglia – non so chi sia; so che è il Commissario politico della Brigata «Cento Croci », l’ho incontrato finora due volte, e mi ha dato l’impressione di un uomo, non colto, non credente, ma onesto. È di idee comunista al cento per cento, mi pare sia livornese, e so che fa una larga propaganda di comunismo, che egli, mi ha detto, ha studiato con zelo nei tre (o quattro) anni di con­fino da cui venne liberato dopo il 25 luglio. Mi ha pregato di chiede­re per lui un colloquio con il Maggiore, il quale glielo ha accordato perché gli piace conoscere la mentalità dei partigiani.

L’incontro ha avuto luogo in canonica. Il colloquio è stato molto cordiale, ma molto schietto e aperto: ciascuno ha esposto le proprie idee; Benedetto non ha lasciato nell’oscuro la sua fede comunista, non ha però idee originali, o vedute veramente interessanti. Comunque io ho colto il destro per vedere di risparmiarsi a vicenda rappresaglie e tribolazioni. Qualche cosa mi pare di essere riuscito ad ottenere. Accompagnato poi Benedetto un bel pezzo di strada, finché non si stava in luogo sicuro: gli è stata data ogni garanzia e io ero, per comune accordo, il garante della… garanzia reciproca. Per precauzio­ne però il Maggiore aveva disposto un servizio di sentinella intorno alla canonica: il che non mi dispiacque. Stasera stanchissimo voglio andare a letto presto; invece verso le 21,30 viene Lupo e mi comunica che domani mattina alle 5,30 la Bri­gata «Cento Croci» attaccherà gli Alpini nel loro accampamento!… Non solo ne sono meravigliato, ma sono sdegnato: «Come, appena due ore fa, si fa un colloquio per venire a un’intesa, e intanto si tra­ma e si mette a repentaglio la vita di soldati e di cittadini! Quelli non sono uomini, sono delinquenti!… ». Lupo, uomo leale e onesto, mi informa che così è stato deciso in un convegno tenuto sabato a S. Vincenzo, nonostante che egli, di altra Brigata, la «India» abbia fatto ogni sforzo per dissuaderli; e con me deplora la cosa.

Confesso che, nonostante che finora abbia usato sempre la massi­ma correttezza verso gli uni e gli altri, questa volta, se avessi potuto farlo, li avrei proprio denunziati: ma per quanto abbia pensato al mo­do di impedire un simile fattaccio, sia per l’ora tarda, sia per la lon­tananza (sono stasera a Brunelli perchè ho proprio bisogno di riposa­re), sia per il coprifuoco, non so proprio come fare. Mi metto a pregare la Madonna del Buon Consiglio che illumini le menti e gli animi a sentimenti di carità e di pace.

19 settembre, martedì. – Che notte questa! La notizia dell’attacco all’ accampamento degli Alpini datami da Lupo ieri sera mi ha scon­volto l’animo: non ho potuto dormire; ho continuato a rimuginare fantasmi e fantasmi di ciò che succederà. Appena si è schiarito ho te­so l’orecchio per sentire…: ogni tanto temevo di sentire il crepitare della mitraglia e la sparatoria. Le ore durarono eterne questa mattina. Quando don Mario alzatosi all’ora solita, verso le 5.45 se ne è anda­to per discendere a Borgotaro, cominciai per un verso a rassegnarmi, per un altro ad acuirmi la tensione: infatti l’attacco doveva iniziarsi alle 5,30, e ancora nulla avevo sentito; d’altra parte qualche scarto di tempo non era da esc1udersi, e perciò questi – verso le 6 – erano i minuti decisivi. Ma passò un’altra mezz’ora, passò un’ora: e nulla! Ero già alzato. Ho cominciato a respirare: per questa volta la Madon­na ci ha fatto la grazia. Ho saputo poi questa sera ancora da Lupo, che ritornò da me più sereno anche lui. Ieri sera Benedetto di ritorno, presso il bivio di Albareto incontrò la colonna di partigiani in movimento per compiere !’impresa progettata: ma egli, che ritornava da un colloquio dove si era progettato un’intesa di rispetto, non permise che si mancasse co­sì sfacciatamente di lealtà; e riuscì a farli ritornare indietro.

Nessuno ha saputo questo fatto, né gli Alpini, né la gente. Ma abbiamo evitato un grosso guaio stamattina, ed eccone un al­tro stasera. Verso le 18 quattro soldati della Flack si sono spinti fino alla Co­lombaia di Brunelli, per qual motivo non si sa preciso: essi hanno dichiarato che andavano in cerca di frutta. Alla Colombaia si trovavano in quell’ora due partigiani, i quali, visti i tedeschi, hanno piantato lì le loro armi e si sono dati alla fuga. I tedeschi hanno sparato qualche colpo di moschetto contro di essi, ma poi, anziché inseguirli, come sa­rebbe stato loro dovere, sono entrati nelle case, e secondo il loro co­stume, hanno catturato tutti gli uomini, qualche altro uomo che lavo­rava nei campi lì presso coi buoi venne pure arrestato, tutto il bestia­me venne preso; e in questa maniera tutti vennero condotti a Borgo­taro.

Tra le persone arrestate c’è Scagliola Bruno e Vittorio Burzoni: l’uno patriota, l’altro ufficiale di aviazione in licenza. Non sono ancora giunto a Borgotaro, che viene la sig.ra Burzoni tutta in lagrime a pregarmi di andare al Comando Tedesco a patroci­nare la causa di suo marito, che teme che l’uccidano, perché dubita, mi dice, che la sua licenza sia scaduta da un giorno o due. Io la inco­raggio dicendo che solo per questo non potrà essere ucciso. Ma intanto penso a tutta la faccenda, e ho l’impressione che sia seria. Se ci fosse stata una spia? Come andare a patrocinare la causa di un partigiano? Verso le 20 arriva il gruppo degli uomini e la mandria delle be­stie. Capisco, anche senza comprendere il tedesco, che il Capitano è molto seccato di questa cosa, ma l’altro che ha ordinato l’arresto si di­fende con grande vivacità, e non è possibile su due piedi e a questa ora venire a una soluzione immediata. Gli ostaggi vengono trattenuti. Il Capitano chiede a me se li conosco; io non conosco che Scagliola e poco anche lui, degli altri conosco il padre di Borzoni, che però non è fra gli ostaggi. Questi vengono alloggiati all’Appennino; le bestie sono confinate in un prato: in attesa di domani.

20 settembre} mercoledì. – Passo quasi tutta la giornata all’ Appennino per la faccenda di ieri. La quale, anziché risolversi, sembra compli­carsi. Infatti in mattinata un camion con alcuni tedeschi è ritornato alla Colombaia; hanno portato via dell’altra roba e hanno arrestato un altro povero uomo. Finché questi non ritornano non si può deci­dere nulla. E questi sono di ritorno soltanto dopo mezzogiorno. In­tanto Scagliola, che è anche ammalato con febbre, e Burioni sono sepa­rati dagli altri e portati alla batteria contraerea. Ciò fa sospettare. Alcuni ufficiali degli Alpini si prestano per sollecitare la soluzio­ne. Il Comandante della Batteria afferma che deve giudicare il Capi­tano dell’« Appennino »; questi afferma che non vuol entrarci. Final­mente verso le 16 vengono liberati gli ostaggi dell’« Appennino», ma vengono trattenuti Scagliola e Borzoni. Anche le bestie sono trattenu­te; cosi pure il vecchio preso stamane.

I motivi per cui sono trattenuti Scagliola e Borzoni non si sanno con precisione, ma si sospettano: dell’uno che sia partigiano, dell’al­tro che non abbia i documenti in regola. E intanto le loro mogli mi sono continuamente vicine in lagrime. Verso le 15 sono pregato di proporre al Maggiore degli Alpini un colloquio con il Lupo che dovrebbe aver luogo a Bedonia. Man­do un biglietto al Comando; e alle 17 circa il Maggiore scende con la macchina e vuole che l’accompagni a Bedonia. Che cosa si siano detti non lo so, perché il colloquio è avvenuto a due, tuttavia ciò mi ha servito a incontrarmi con altri ufficiali e con altre persone, di cui desideravo conoscere il pensiero.  Intanto ho chiesto anche al Maggiore il suo intervento per la libe­razione dei due o tre trattenuti o almeno per conoscere le ragioni del loro arresto. Egli me lo ha promesso per domani mattina alle ore 8,30.

21 settembre, giovedì. – Stamattina sono andato al Comando Te­desco insieme col Maggiore, il quale stava per ritornare a Bedonia. Venni cosi a sapere che Borzoni era in possesso di un foglio di licenza falsificato: il falso venne scoperto dall’osservazione del timbro te­desco il quale risultò ricalcato. Non c’era più nulla da fare. O meglio feci presente che il padre, proprio a causa del figlio che era rimasto nell’Esercito Repubblicano, per ben due volte era stato saccheggiato dai Partigiani, e che ora sarebbe proprio strano che dovesse avere conseguenze cosi gravi. Chiesi poi che liberassero Scagliola, ammalato. Il Capitano volle che gli dessi garanzia che sarebbe rimasto a casa e non se ne sarebbe allontanato; e cosi lo liberò. Invece Borzoni più tardi, segretamente, venne portato a Parma. Grande il dolore del padre. In questi giorni casi ho avuto modo di incontrami spesso con il Capitano Holstein che ho trovato gentilissimo. Egli sovrintende ai lavori di riattivazione della ferrovia, e nonostante gli intralci dei Par­tigiani, continua il suo lavoro e riesce. La Galleria del Borgallo è piena da un capo all’altro di materiali: adagio adagio se ne vanno tutti. Nel pomeriggio vado a Campi per un Triduo di predicazione in preparazione alla festa di S. Teresa del Bambin Gesù.

22 – 24 settembre – venerdì, domenica. – Sono a Campi; tutto rie­sce bene. Si è un po’ disturbati dai colpi dell’antiaerea di Borgotaro, che in tutti questi giorni si è proprio divertita a sparare in tutti i sensi. Oggi, venerdì, gli Alpini lasciano Borgotaro, me ne dispiace. Trovo i nostri parrocchiani e mi trattengo con loro. È sempre tanto bello e tanto caro. Vado anche a trovare la zia della sig.na Con­ti, sig.ra Verazzani, gravemente ammalata.

25 settembre, lunedì. – Accolgo l’invito persistente della sig.ra Taddei e dello zio Don Emilio e vado a Pieve di Campi. Vi rimango la giornata e sulla sera ritorno a casa. I Partigiani che già giovedì avevano assalito un gruppo di Tede­schi al casello lungo la ferrovia, oggi hanno catturato undici altri tede­schi lungo la strada di Pontolo. Per questo si è preoccupati. La gente protesta; ma non sa far altro e realmente non può fare altro. O me­glio, qualche cosa potrebbe fare, ma sparsa come è, non riesce. Che il Signore ci assista! Venerdì sono partiti gli Alpini. Giunge notizia che molti lungo la strada se la sono squagliata. Non so fino a che punto e in quale misura la notizia sia vera; è certo che la loro compagine si è mostrata molto fragile, per diverse ragioni che non è facile elencare, ma anche perché, venuti in Italia con un certo corredo di idee avute in Germania, qui hanno constatato che le cose erano un pochino diverse. Ad esempio alcuni dissero che erano venuti in Italia per andare a difendere Roma (non a riconquistarla); in generale non erano affatto al corrente degli avvenimenti non soltanto degli ultimi giorni, ma di parecchio tempo addietro. Ignoravano affatto la situazione non solo militare ma anche politica in generale.

Qui fecero buona impressione; bravi e buoni ragazzi; anche reli­giosamente. Nocque al loro Comando l’aver imitato i tedeschi nel prendere ostaggi, anche quando non c’era nessuna responsabilità da parte loro: sistema che, volere o no, non rientra nella nostra men­talità. Casi pure nocque non soltanto nella situazione della popola­zione ma anche presso i soldati stessi, la fucilazione dei due Alpini: atto che giuridicamente è irreprensibile, ma che moralmente e religiosamente è stato inopportuno e fuori di tempo e luogo. Per queste e altre ragioni la speranza che i Partigiani hanno col­tivato di disgregare la loro compagine in modo totale non era infon­data; e se non fossero partiti, qualche cosa sarebbe avvenuto: ma so­no partiti proprio per questo: così ha commentato la gente Rimane la Flack e il presidio tedesco, il quale assume appunto il comando di presidio. Vedremo come andrà.

27 settembre, mercoledì. – Stamattina vado al Comando tedesco per avere notizie di Borzoni Vito e per raccomandare al Capitano quanto sta a cuore alla sua famiglia. Il Capitano mi assicura che non è stato inviato a Sarzana, bensì a Parma; mi assicura anche che con pene gravissime, ma mi lascia capire che non potrà essere liberato; che anzi sarà portato in Germania. Il Capitano poi mi prega di procurar­gli un colloquio con un capo dei Partigiani, desiderando conoscere la loro mentalità e volendo tentare di far loro comprendere la inutilità dei loro sforzi. Siccome io debbo assentarmi domani, si conviene che il colloquio avrà luogo sabato, nella villa Molinari dove egli abita, al­le ore 17,30. Stasera un’altra me ne capita. Viene uno studente di medicina, o già laureato non so bene, certo Leonardi, e mi dice che l’ufficiale me­dico – italiano – della Batteria antiaerea in partenza, ha preso con sé diversi ferri chirurgici dall’ospedale e si rifiuta di restituirli. E mi pre­ga di andare da lui e chiederne la restituzione.

Veramente io sono arcistufo di tutte queste cose: possibile che a Borgotaro non ci sia proprio nessuno che pensi a tutelare i diritti delle istituzioni e della gente? E non c’è una commissione amministra­tiva? Ma è un fatto che nessuno si fa vivo. Mi convinco sempre di più che Borgotaro è un paese mancante di elementi dirigenti. Comunque vado insieme con il sig. Picelli e con questo bel tipo di ufficiale medico che giustifica la sottrazione di questi ferri sempli­cemente per il motivo che egli ne è sprovvisto e potrebbe averne di bisogno, ho una lunga e vivace discussione: ma non ottengo nulla. Ho solo la consolazione di avergliene detto quattro fuori dei denti. Conso­lazione magra!

28 settembre, giovedì. – Arriva un altro carico di viveri. Si respi­ra un po’. E stamattina per tempo è partita la Flack: buon viaggio e non ritorni più: anche al dottore!

29 settembre, venerdì. – A Gotra per la festa di S. Michele. Al pomeriggio faccio il discorso. Rivedo i nostri cari parrocchiani e ci facciamo festa a vicenda.

30 settembre, sabato. – Un altro guaio: a Valmozzola è stato as­salito dai partigiani il presidio formato da tedeschi e da militi della Brigata «Nera ». Pare ci sia stata una vittima; fra i tedeschi tre o quattro prigionieri; casi pure i militi sono stati presi tutti. Il collo­quio del Capitano con il capo dei partigiani, «Lupo », non ha luogo per l’assenza del Capitano. È rimandato a lunedì.

1ˆ ottobre, domenica – Festa della Madonna del Rosario. – Stamat­tina alla prima Messa c’è stato un discreto concorso di gente: è la festa della Madonna del Rosario che converge e culmina nella recita della Supplica a mezzogiorno. Gli altri anni, mi dicono, si faceva gran­dissima solennità in San Domenico: ma questa volta bisogna accon­tentarci di poco: la Supplica viene recitata dopo la prima S. Messa. Tuttavia abbiamo fatto la Novena: ogni sera molto sul tardi. E con questo si è ripreso la recita vespertina del Rosario e la Benedi­zione che avevamo sospeso fin dal 3 agosto. Abbiamo anche celebra­to una terza santa Messa alle 8,30, perché accorciandosi la giornata, anche il pericolo di incursioni a quest’ora pare meno probabile. E ca­si continueremo a fare. Oh! se la Madonna del Rosario ci desse la pace! Ho tanta spe­ranza nel cuore. Credo all’apparizione di Fatima e ho tanta fiducia che per il ritorno della recita del Rosario in famiglia anche la pace ritornerà. Se la Madonna, per la bontà del suo Cuore Immacolato, ci custo­dirà e ci salverà, voglio dare ogni impulso alla devozione al suo Cuo­re Immacolato, e alla recita del S. Rosario, e voglio fare della Chie­sa di S. Domenico il Santuario del Rosario. Ma si faccia la volontà di Dio! Ho celebrato la seconda S. Messa a Brunelli, dove pure si è re­citato la Supplica.

ottobre, lunedì. – La sig.na Teresina Ferrari mi dice che sabato è avvenuto un grave fatto a Pontolo. Quattro tedeschi sarebbero ­saliti alla Chiesa e alla madre dell’Arciprete e anche all’altra gente avrebbero imposto di consegnare subito o al massimo entro un’ ora, duecento uova e altra roba. Non era possibile, poiché, oltre il resto, sono morte le galline; i soldati non avrebbero voluto sentire ragioni e avrebbero fatto gravi minacce. La gente pontolese di quelle case, già provata dai delitti del luglio scorso, sarebbe fuggita per paura. Ma poco dopo giunse una squadra di partigiani, i quali presero a fu­cilate i quattro tedeschi: dei quali uno rimase ucciso, due gravemen­te feriti e uno prigioniero. La popolazione è terrorizzata; Don Luigi è fuggito anche lui, e ieri la Parrocchia non ha avuto la Messa. Il Parroco di Baselica pure è fuggito, e tanto più preoccupato perché erano andati a cercarlo. Appena libero, sono andato dal Comando Tedesco e ho parlato con sig.ra interprete, alla quale ho raccontato la faccenda e ho chiesto se la versione fatta a me coincide con quella fatta a loro. Mi disse di si. Poi ne abbiamo parlato col Capitano, il quale mi ha detto che i sol­dati tedeschi hanno ordine di non fare atti di prepotenza; se quei quattro ne hanno fatti, ne subiscano le conseguenze. Incoraggiato da ciò, gli ho parlato di Don Luigi, di ciò che ha fatto e del suo animo buono che merita ogni riguardo. Il Capitano mi incarica di mandarlo a chiamare per il pomeriggio, desiderando di condurlo egli stesso a Ostia da quel Comando e presentarlo al Capitano di là, soprattutto per vedere di trovare il modo di riavere dai partigiani quegli undici tedeschi sequestrati il 25 settembre.

Così viene fatto; nel pomeriggio si va ad Ostia, dove si è accol­ti con molta gentilezza; e si concreta che Don Luigi avvertirà il Par­roco di Baselica e quello di Belforte per la soluzione della questione dei prigionieri tedeschi. Sono contento che anche Don Luigi abbia avuto questi contatti e gli abbiamo detto che se dovesse capitare qual­che incidente, prenda i contatti con il Comando di Ostia. Di ritorno, ha luogo il colloquio del Capitano con «Lupo »; col­loquio cordiale, in cui «Lupo» spiega le ragioni per le quali si sono organizzate le squadre di partigiani, non tanto perché si aspettino il Paradiso dagli inglesi, quanto piuttosto per avere quella libertà che il regime fascista ha tolto, e che non può per ora essere riottenuta che per mezzo degli Alleati, dal momento che i tedeschi sostengono i fa­scisti. Poi si parla di uno scambio di prigionieri: ai partigiani sta a cuore la liberazione di due loro compagni radiotelegrafisti che sono a Parma e del povero <<Piscina della Colombaia >> e anche se si può di Vita Borzoni. Il Capitano si impegna per la liberazione di tutti, meno di Borzoni, perché, ripete, è stato già mandato in Germania. « Lupo» a sua volta promette, se vengono liberati i due R.T. la libe­razione dei tre tedeschi presi a Valmozzola e degli undici presi a Pon­tolo. Sono contento che si siano avviate le trattative; tanto più che ogni giorno lungo la ferrovia avviene qualche incidente, scoppio di mine, deviazioni di treni, asportazione di binari ecc.

ottobre, mercoledì. – Oggi a Brunelli ho fatto un’adunanza delle nostre dirigenti per combinare un piccolo programma per noi e per la zona. Da oltre un mese e mezzo si sono riprese le adunanze a Bru­nelli per le G; F. e un po’ anche per Beniamine e Aspiranti. È tutto ciò che si può fare. Che desolazione! E il mio programma, con cui ero venuto a Borgotaro! L’uomo propone e Dio dispone! Fiat fiat!…

ottobre, giovedì. – Stamattina all’alba è stato prelevato il presi­dio tedesco della Flak dai partigiani della Brigata « Julia ». A giustifi­cazione si fa girare la voce che sono stati prelevati per averne le scar­pe, poiché i partigiani ne sono totalmente senza: ma la chiacchiera ormai non attacca più. A far perdere le piste, pure si mettono fuori altre voci. lo me ne servo per attenuare presso. il comando tedesco la dolorosa impressione, ma so bene che non sono versioni a cui si possa di uso dar credito. Ancora una volta la gente è disgustata, specialmen­te la popolazione della Bertorella ne è molto preoccupata; tanto più che si tratta di uomini anziani che fraternizzavano con la gente, e chiu­devano non uno ma tutti e due gli occhi con i partigiani. La ragione vera e propria di questi prelevamenti sta negli ordini che arrivano dal comando unico, onde premunirsi contro quanto viene fatto non in questa zona, ma in altre, anche giù in pianura, dove parti­giani e civili vengono arrestati e trattenuti sia dai tedeschi sia dalle Brigate «Nere ». Sono situazioni angosciose. Poi trattative lunghe e interminabili per gli scambi: e intanto i poveri innocenti sia militari sia civili e le loro famiglie soffrono e piangono. Situazioni a cui non si sa come rimediare, perché da una parte e dall’altra si compiono ar­bitri, atti di forza con cui si vorrebbe far trionfare la ragione, la quale invece proprio per quelle vie e mezzi è quella che ne fa le spese. Alcuni della Bertorella sono venuti a pregarmi di andare dal co­mando tedesco a patrocinare la loro causa, la loro innocenza; ma il guaio è che quei soldati dipendevano dal comando tedesco di Ostia, e poi non so se sia meglio tacere o parlare. Io li consiglio di muoversi un po’ anche loro; perché questa bene­detta gente cerca di tenere il piede in tutte le scarpe; ma quando si tratta di prendere una responsabilità nicchia e si ritira, e ciascuno pur­ché si sia trovato per sè il rifugio sicuro, lascia che gli altri si aggiu­stino e si cavino dai fastidi; quando poi è la sua volta, allora gli altri si devono muovere per venirgli in aiuto. Perciò ho detto loro che i capi famiglia vadano dai comandi dei partigiani e dicano bene chiaro e tondo come la pensano e che cosa vo­gliono; e facciano sapere al comando tedesco questo loro atteggiamen­to. Ma mi accorgo che da questo orecchio non ci sentono: essi voglio­no continuare a restare nelle quinte; ma non sanno o non vogliono sapere che cosa costa a me povero diavolo il dovere andare da un co­mando a fare delle giustificazioni a cui non credono e sentirsi dire quello che dicono.

ottobre) venerdì. – Mi viene offerta della cera per la Chiesa. Ne approfitto, perché la Chiesa ne è quasi totalmente sprovvista, e per ora non è neppure da pensare di fare acquisti a Parma, supposto che se ne trovi. Ma che prezzo! L. 200 al Kg.! Eppure, mi sono informato da altri, da qualche commerciante, e mi si dice che è a un buon prez­zo: un commerciante mi chiede se gliene cedo un pacco di 5 Kg. A L. 300 al Kg.!… E cosi ne compero Kg. 54. Avrò fatto un buon affare; almeno cosi mi dicono; tuttavia quan­do dovrò scrivere sul registro cassa una cifra oltre diecimila lire per ce­ra, penso che chi avrà occasione di leggermi, sarà tentato di darmi del pazzo!

ottobre, sabato. – Altro colloquio con il Capitano tedesco  Holstein  e con Lupo. Argomento ancora la liberazione dei due R. T.; salu­to del capitano con Lupo, perché questi risalirà sui monti per prendere il comando di una squadra. Bella scena questa del saluto e degli augu­ri scambievoli!… A sostituire Lupo per trattative verrà un altro partigiano, certo Battista. E va bene; nessuna obbiezione da parte del capitano!… È così e poi credete alla severità!

ottobre, domenica. – A S. Vincenzo per la seconda S. Messa, in onore di S. Teresa del B. G., per visitare di nuovo i nostri parrocchia­ni, e per iniziare il nuovo anno di A.C. Ho l’impressione che qui l’A.C. sia curata. Nel pomeriggio, dopo il panegirico e la funzione in onore di S. Teresa, tengo una bella adunanza agli uomini e ai giovani. Ne rimango molto contento: mi pare che mi seguano nelle idee; e questo mi fa tanto lieto, perché non parlo ad essi di politica neanche lontanamente, ma di Dio, di giudizio e di amore: i tre pilastri di ogni ordine sociale, vecchio o nuovo che si voglia.

9 ottobre, lunedì. – A Brunelli un’altra adunanza di dirigenti G. F. per preparare il programma. In questi giorni ancora si sono rinnovate azioni di partigiani. Nu­merose bombe sono state fatte scoppiare lungo la ferrovia, ma con ri­sultati molto scarsi: un ritardo di poche ore di lavoro.

Invece si sono avuti attacchi a piccoli gruppi di tedeschi: così un tentativo di prelevamento di alcuni tedeschi di guardia alla ferrovia; poi 4 tedeschi che tornavano ad Ostia con la spesa furono attaccati sulla strada di Pontolo; rimasero uccisi due cavalli, un tedesco fu fe­rito, gli altri si salvarono; così ancora altri 4 tedeschi per due volte vennero fatti segno a fucilate lungo la strada, presso Gotra. Stasera tardi il capitano tedesco (al quale i partigiani avevano dato un lasciapassare per Parma, almeno così si dice!) con la sig.a An­netta, l’Interprete, viene in canonica per consegnarmi Piscina della Colombaia di Brunelli, liberato. Per i due R. T. mi dice che sono sta­ti trasferiti in Germania e che sono già stati richiesti da altre squadre di partigiani. In cambio di Piscina vorrebbe i suoi tre uomini di Val­mozzola. Io ascolto e mi impegno di comunicare queste cose al rappresen­tante dei partigiani. Per Vito Borzoni ancora mi conferma che non c’è niente da fare. Però vengo a sapere da Piscina che non è vero che sia stato portato in Germania; è vero invece che si trova in carcere a Parma, dove lui lo ha lasciato. Cosi mi spiego la riservatezza con cui il capitano e la interprete me ne hanno sempre parlato. Piscina che molto gentilmente il capitano ha portato con sè da Parma su la sua macchina, è lasciato in libertà; e quando gli si dice che può andare a casa, quasi non ci crede alle nostre parole e piange di consolazione, povero uomo!

10 ottobre, martedì. – Faccio l’ambasciata a Battista, che nel po­meriggio accompagno dal capitano. Nel colloquio si stabilisce: i partigiani cederanno i tre uomini di Valmozzola, e il capitano si impegna sul suo onore di far rientrare i due R. T. Battista ci tiene molto al ritorno dei suoi due compagni, lanciati qui col paracadute in questa estate. I tre soldati tedeschi saranno portati a Brunelli e qui saranno con­segnati a me, e io li condurrò al comando tedesco. Battista, che non è di qui, mi ha fatto buona impressione. Mi pa­re un giovane in gamba

12 ottobre, giovedì. – Stanotte sono state fatte scoppiare dai par­tigiani numerose bombe lungo la ferrovia. I danni sono lievi. Poche ore di lavoro, e il traffico riprende. Il capitano tuttavia è un po’ im­bronciato e per rappresaglia fa sospendere il treno viaggiatori per Pon­tremoli. Queste cose mi dice stasera: io ne prendo nota, e assicuro che ne darò comunicazione, ma so che la gente sarebbe estremamente contenta che il treno non funzionasse più. E ciò per due ragioni: prima, perché la ferrovia in servizio è sempre un richiamo e una certa giusti­ficazione di incursioni aeree; secondo, perché il treno viaggiatori di Pontremoli – Spezia non trasporta che gente che viene a comprare grano, patate ecc. e non sempre per i propri bisogni, ma per favorire e praticare il mercato nero, il che è di due gravi conseguenze per noi, e cioè di un impoverimento di viveri della zona che ormai deve fare as­segnamento soltanto sopra di sè, e poi di un inasprimento di prezzi della merce.

13 ottobre, venerdì. – Stanotte di nuovo numerose bombe sono state fatte scoppiare dai partigiani lungo la ferrovia. Non manca da parte di essi la buona volontà di fare ogni tentativo per impedire che una quantità enorme di materiale accumulato nella Galleria del Borgal­lo (tutta la galleria era piena di carri ferroviari carichi di ogni sorta di materiale) e asportarlo dai cantieri di La Spezia e delle altre zone che i tedeschi avevano appena presidiato. Ma ad essi manca soprattutto la tecnica e non sanno sfruttare il materiale esplosivo che hanno. Ciò mi confermava il capitano ieri; e mi diceva che in ben altro modo spa­ravano i partigiani in Russia, dove erano organizzati in modo perfetto. Egli si imbroncia, ma non si preoccupa di quanto fanno qui i partigia­ni. Infatti stasera quando gli ho riportato un prigioniero tedesco ri­lasciato dai partigiani, a Lupo, che si era unito con me, scherzando il capitano gli dice, appena che siamo entrati: «E stanotte ci metterete ancora le bombe lungo la ferrovia? » E più tardi prima di congedarci, dice: «Fra poco, tutto è stato fatto partire. Allora facciamo una fe­sta danzante, e invito i capi partigiani, e anche il Parroco! ». «Ah! questo poi no!» esclamo io.

Ma realmente ormai il materiale è quasi del tutto partito. Povera nostra Patria distrutta da tutti. Francamente questa asportazione di materiale per noi prezioso, perché in gran parte macchinario, non la capisco. O meglio, lo capisco come interesse dei tedeschi, ma non ca­pisco come il governo repubblicano, che dice di essere governo forte, in perfetta armonia con l’alleata Germania, non riesca a impedirlo. La verità si è che anche la Repubblica e il suo capo sono strumenti nelle mani della Germania per fare i suoi interessi e spogliarci; e non mi me­raviglierei che un domani, la Germania per prima non l’abbandoni l’una e l’altro al loro destino. Diversamente: alleanza veramente cu­riosa, quella che ti spoglia di tutto! Il popolo qui commenta, mentre in silenzio si rode l’animo: «Ma la Germania restituirà! ». Povero popolo! Sempre facilone il nostro buon popolo, non sa persuadersi che le vie battute dalla politica non sono quelle della verità e della giustizia e meno ancora quella della carità, ma sono le vie dell’astuzia e dell’interesse. Spera negli Anglo­ Americani: ma questi pure fanno i loro interessi né più né meno de­gli altri; e domani, in caso di vittoria, non ci faranno ritornare a ca­sa un chiodo.

Intanto dormono su la linea del fronte. Ormai l’inverno è alle por­te; e anche i più ottimisti stanno diventando pessimisti. Quando un popolo è stato mal governato e mal guidato nei momenti delle gravi decisioni, non può che avere la sorte che stiamo subendo: trastullo degli altri popoli, che seviziando noi, risparmiano. se stessi. Oggi a Brunelli si è fatto un po’ di ritiro spirituale per le dirigen­ti di Borgotaro, della G. F. di A. C. E da Brunelli ho riportato un pri­gioniero tedesco, invece di tre, come d’accordo. Si vede che il coman­do partigiano non è dell’avviso di Battista. Ma a me dispiace, perché se una parola è data da un rappresentante, deve essere rispettata dal comando. Bel tipo questo tedesco. È stufo e arcistufo della guerra e di Hitler e dice che non vuol più far servizio, perché malato. Con il capitano rimango d’accordo che domani si parlerà con Bat­tista per gli altri due.

14 ottobre, sabato. – Oggi accompagno Battista del capitano tede­sco Holstein. Si viene a una spiegazione; e in seguito a ciò Battista scrive al comando partigiani per la restituzione degli altri due o do­mani a S. Pietro, o lunedì a Brunelli. Intanto nel pomeriggio altro incidente fra partigiani e tedeschi lungo la strada di Pontolo. Quattro tedeschi con due carrette di ritor­no dalla spesa sono presi a fucilate. Uno di essi è gravemente ferito, gli altri si sono salvati con la fuga; i cavalli sono stati uccisi, pare. Di qui altri guai: non si è ancora aggiustato un incidente e ne scoppia un altro. E per quanto faccia per dimostrare che queste azioni isolate non sono vantaggiose per nessuno, e non sono neppure secondo gli ordini impartiti dal comando, tuttavia, non ci si riesce a farlo intendere. lo temo che da un momento all’altro il comando di Ostia, già casi spes­so tormentato, non finisca per perdere la pazienza.

15 ottobre, domenica. – Dopo la celebrazione della prima S. Mes­sa, mi reco a S. Pietro, anche questa volta, come quasi sempre, accom­pagnato dal collegiale Gigi Galluzzi. Rivedo i cari parrocchiani sfolla­ti a S. Pietro, ora più numerosi che l’ultima volta che fui a visitarli. Dopo la S. Messa tengo un’adunanza agli uomini e ai giovani: molti sono presenti e ne sono contento: quanto hanno bisogno e desi­derio di ascoltare una parola di verità e di bontà. La gente è davvero stanca di ascoltare ininterrottamente disagi e parole di violenza; l’ani­mo ne sente più disgusto. È tanto bello parlare agli uomini specialmen­te un linguaggio buono, onesto, di giustizia e di carità, ma non  aereostatico, vaporoso, bensì aderente alla realtà, ai problemi di oggi e di domani, e illuminarli con la luce del Vangelo, senza nessuna specula­zione politica. Guai a noi preti se avremo taciuto! A S. Pietro, incon­tro un artista della fisarmonica: il giovane parrocchiano Aragosti.

La sera, quando giungo a casa, ho la visita del capitano tedesco, accompagnato, come di solito, dalla sig.a interprete. Temo che ci sia qualche altro guaio, ma non riesco a indovinare è venuto per una in­formazione riguardante la famiglia Calegini, di cui il padre, graduato nella milizia addetta al servizio del lavoro, attraverso il comando di di­visone tedesco (o della piazza) di Parma, chiede che sia immediatamen­te fatto accompagnare o meglio traslocare a Parma con un mezzo for­nito dal comando tedesco di qui, perché qui sarebbe oggetto di anghe­rie da parte dei partigiani e perché egli lo vuole condurre con sè in Germania. Io dò piena assicurazione che non mi risulta che ci sia una sola famiglia, che sia oggetto di vessazioni, e in particolare intendo ciò per quanto riguarda la famiglia Calegini, che conosco molto bene. Quanto al viaggio in Germania, bisognerebbe sentire la famiglia.

Poi si rimane in lungo colloquio e cordiale, nel quale occorre sta­re attenti a quanto si dice. Gusta molto il vino che gli ho servito; ed io gli prometto di mandargliene in dono qualche bottiglia. Ieri sera verso le 19, alcuni partigiani arrampicandosi per le impal­cature di sostegno costruite dai tedeschi sotto le arcate più colpite dalle bombe, hanno collocato una mina sulle rotaie; ma più presto del previsto è passata la locomotiva, e la bomba scoppiando ha ferito gli stessi che ve l’avevano posta: questi, benché feriti riescono a fuggire e involarsi alle ricerche dei tedeschi. Il capitano stasera parlandome­ne, se ne ride; credo però che queste… seccature lo angustino.

Parlando della situazione nostra, e dei rapporti con i tedeschi, gli faccio osservare che, mentre fino a tutto maggio i rapporti furono cor­diali, essi divennero assai tesi in seguito, sia per causa dei partigiani, che lasciati i monti vollero discendere in paese a stabilirvi un loro go­verno, e opposero resistenza armata a tutti i tentativi dei tedeschi di ritornare in Borgotaro; sia sopratutto per causa dei tedeschi/che com­pirono ogni sorta di iniquità e di barbarie; e, senza nulla nascondere, gli narrai per filo e per segno le atrocità commesse a Pontolo, nella Valdena, a Strela, Compiano, Sidolo eccetera, e a tutte le spoglia­zioni e devastazioni barbariche compiute in paese e nella zona, e a tut­te le ruberie di cose e arresti di persone compiuti in vari tempi. Per questo ora i tedeschi non sono veduti di buon occhio, sono temuti, ma odiati. A tutto ciò si aggiunge le infami calunnie che contro Borgo­taro sono state dette e diffuse a Parma presso i comandi tedeschi e le autorità centrali da coloro che di qui sono fuggiti in maggio e giugno.

Il capitano mi dice che egli pure disapprova questi metodi tede­schi, che anziché conciliarsi gli animi, li aliena sempre di più. Egli poi mi dà formale assicurazione che finché egli resterà a Borgotaro non si verificheranno più nè rastrellamenti nè ruberie nè altre cose del genere. Di questa preziosa assicurazione, di cui farò largo usogli sono molto riconoscente. Egli inoltre mi dà assicurazione che, non appena avrà condotto a termine il trasporto del materiale che sta portando via, metterà a di­sposizione dei civili l’uso, gratuito, della ferrovia: anche di questa co­municazione gli sono riconoscente. Evidentemente il Capitano Holstein è un uomo gentile e sa trat­tare le cose e prendere le situazioni con molto tatto e con molta bra­vura. Egli cerca il suo tornaconto: poter condurre a termine la sua impresa, senza essere eccessivamente molestato nei suoi uomini e nel­la sua persona. E si appoggia e trae profitto da tutti e da tutto, che gli possono giovare. Dei partigiani non gli importa niente: egli ostenta si­curezza e quasi disprezzo; ma gioca bene la sua carta: sa che i suoi interessi coincidono in questo momento con quelli dei partigiani e del paese. Perciò li lascia in pace: essi, sia pure in abito civile e disarma­ti, girano in paese, senza essere disturbati né sulla loro persona né nelle loro famiglie, e neppure nell’attività che svolgono.

La sig.ra Interprete – non ho ancora saputo il suo nome comple­to: è chiamata Annetta – mi chiede di leggere la «Storia di Cristo» di Papini; io le dò anche il volume del p. Jovaca «Le meraviglie di Patima », sperando di far del bene alla sua anima. Essa è una ottima e gentilissima Signora, è cattolica, nativa di Merano, ma ha optato per la Germania che ama e difende con calore e sincerità; è sposata e ha un figlio di circa l0 anni, ma, a quanto riesco a capire, il suo non è stato un matrimonio felice; poiché suo marito tedesco, aman­te dell’avventura, si era recato in Africa, ed ora dev’essere internato nell’Africa del Sud; riesce tuttavia ad averne notizie e a mantenersi in corrispondenza con lui. Il figlio l’ha affidato a un Istituto di Innsbruck. Essa si è affidata a seguire l’esercito tedesco, e guadagnare bene. Ha un fondo religioso buono, ma le manca, a quanto mi pare, la pratica, poi­ché non la vedo mai alla S. Messa. Per questo le ho dato quel volu­me, perché essa mi ha detto di ignorare i fatti di Fatima, e spero che le farà del bene.

17 ottobre, martedì. – Stamane verso le 5,30, altro fattaccio: alla Bertorella, una squadra numerosa della Brigata «Bill» del Bedoniese ha assaltato il piccolo presidio tedesco del ponte che ha resistito for­temente. Si sono avuti due feriti tedeschi gravi; due soldati tedeschi pare siano rimasti prigionieri, gli altri hanno resistito e con un camion di passaggio e con l’opera di Alarico Gasparini, Commissario prefetti­zio di Borgotaro, ma sfollato alla Bertorella, hanno condotto giù i due feriti. È stato, ripeto, un fattaccio, nel quale quei partigiani, chiunque siano, non hanno fatto bella figura né militare, né tanto meno, umana. La popolazione è indignatissima. Io mi trovo all’Appennino per parlare con il Capitano, quando arriva il camion. Sono momenti in cui si desidererebbe essere molto lontani. La guerra è troppo crudele e fa diventare troppo crudeli gli uomini!

18 ottobre, mercoledì. – Già da tempo piove a dirotto, giorno e notte. La gente ne approfitta per rientrare in paese: quando piove, è tranquilla, gira e rigira per le vie, in mezzo alle pozze d’acqua, con gli ombrelli spalancati, con gli impermeabili lucidi di acqua e insudi­ciati di fango; e con cuore sollevato, esclama: «Meno male, oggi non vengono!…» Quale terrore gli aeroplani! E veramente, credo non sa­rà facile trovare un altro paese che sia stato cosi tribolato dall’avia­zione e sul cui cielo, quasi non fosse sufficientemente spazioso, vada­no e vengano, si rincorrano e si incrocino ogni giorno tanti apparec­chi, isolati, o a piccoli gruppi; O con grosse e massicce formazioni di decine e decine di bombardieri o di caccia e di ricognitori. Qui tutti ormai si sono specializzati nell’individuarli nel cielo, nell’indovinare le rotte e le mete, e nel rilevarne i nomi e le caratteristiche. Anche i bambini. I quali, i pochi finora che sono rientrati, sono più pronti a dare l’allarme di quando c’era il servizio di segnalazione e di sirene. Com’è vero che si sta facendo espiazione di tutto ciò di cui si è abusato: anche del bel tempo e delle belle stagioni, divenuti pretesto a tante omissioni di doveri religiosi e famigliari.

19 ottobre, giovedì. – Oggi ritiro spirituale per le nostre socie di G. F. borgotaresi a Brunelli. lo, però che me ne ero dimenticato, ho preso un altro impegno: di andare a Porcigatone per regolare la pen­denza del Beneficio e gli eredi del povero Don Francesco. Vengono anche Don Beccarelli, come membro dell’Ufficio Amministrativo e Don Giubellini, come Economo Spirituale. Anche il ritiro però venne fatto: al mattino le meditazioni sono state lette; nel pomeriggio invece ho tenuto due istruzioni. Oggi il Comando Tedesco ha stabilito il coprifuoco per le ore 18, e sta mettendo tutta una cinta di ferro spinato intorno all’Appennino: evidentemente, in seguito agli ultimi fatti, non si sente sicuro. Un po’ per questi fatti, un po’ le brighe dei partigiani che voglio­no far sentire la loro autorità, un po’ per alcuni casi di insubordina­zione per multe inflitte a causa di reati annonari, il Commissario Prefettizio è molto angustiato, e vuole assolutamente dimettersi. lo l’in­coraggio, ma in realtà la sua è una posizione molto critica. Si sono iniziate le scuole: ma di alunni non ce ne sono. Si vedrà!

22 ottobre, domenica. – Stamane, dopo la prima S. Messa, mi reco a Valdena per i nostri sfollati; e celebro la santa Messa alle ore 11 e nel pomeriggio tengo l’ora di adorazione. I nostri borgotaresi sfol­lati a Valdena sono molto pochi. . Mentre salgo alla parrocchia odo numerosi scoppi di mine presso la stazione ferroviaria. In un primo tempo, temo si tratti di qualche altro atto di sabotaggio dei partigiani, ma poi, col ripetersi degli scop­pi mi persuado che sono i tedeschi che stanno minando la Galleria, ora che hanno portato via ogni cosa. E allora provo una forte stretta al cuore. Le rovine si moltiplicano. Opere che costarono tanta fatica di studio e di lavoro e tanti sacrifici rovineranno in pochi minuti!

23-26 ottobre, lunedì – giovedì. – In tutti questi giorni sono con­tinuati i lavori di minatura della galleria del ponte. Si è iniziata da qualche giorno la scuola per i Seminaristi Teologi.

27 ottobre, venerdì. – Mi viene consegnato una lista di sette no­mi di persone in ostaggio a La Spezia perché siano scambiati con pri­gionieri tedeschi. La porto al Capitano all’« Appennino ». Questi approfitta dell’occasione per comunicarmi: 1°) che la ferrovia ormai non serve più ai tedeschi né per trasporto di truppe né per trasporto di materiale; 2°) che essa funzionerà a servizio dei civili, i quali se ne potranno servire senza pagamento di alcuna tariffa, e per il trasporto di viveri; 3°) che i militari tedeschi dislocati lungo la ferrovia verran­no ritirati; 4°) che a dirigere il servizio della ferrovia verranno man­dati ferrovieri italiani. Questo il contenuto di una lettera che egli fa tradurre dall’inter­prete. Inoltre egli mi comunica che è disposto ad andare a Parma per ottenere i viveri, anche per Bedonia, Tornolo e Compiano, e mi prega di accompagnarlo insieme con il Commissario, Gasparini, al quale egli stesso comunicherà la cosa.

Queste informazioni mi fanno contento: e io sarei molto lieto che anche da parte dei partigiani ora se cessasse ogni atto di sabotaggio contro la ferrovia.   , Di ritorno in casa trovo Battista insieme con «Lupo» e un altro signore. Comunico ad essi la notizia fornitami dal Capitano e insie­me l’altra, che avevo saputo per altra via, della prossima partenza di tutto questo Comando, e chiedo se, secondo essi, i partigiani posso­ no dare una garanzia per non sabotare la ferrovia, onde poter con più facilità e sicurezza darne avviso alla gente. «Lupo» sarebbe del pa­rere; Battista, no.

29 ottobre, domenica – Festa di Cristo Re. – Mi trovo a Boschet­to, dove sono giunto ieri. Ieri sono stato anche a Gotra, dove le Suo­re Dorotee mi hanno pregato di tenere alla Comunità una conferenza spirituale. Oggi a Boschetto dovrebbe aver luogo un convegno di socie della G. F. di A. C. delle Parrocchie di: Groppo, Boschetto, Montegroppo, S. Quirico, Campi, Pieve di Campi, Albareto e Gotra. Ma stanotte ha diluviato e così per tutta la mattinata. Il convegno quindi si è ristretto alle socie di Boschetto, Groppo e Montegroppo; al pomerig­gio ne vengono anche da Albareto, e all’ora di adorazione così circa una sessantina di sode sono presenti. Si è fatta la esposizione del pro­gramma dell’anno, e si è insistito specialmente su la necessità della santa modestia come omaggio alla Madonna. Si sono date le norme di carattere organizzativo, e si è insistito anche su la Carità, non sol­tanto spirituale, ma anche materiale. Ho tenuto anche una bella adu­nanza agli uomini, nel pomeriggio.

30 ottobre, lunedì. – Di ritorno da Boschetto trovo un’altra lista di nomi di ostaggi da far liberare. Mi si dice che il capitano e Gaspa­rini sono andati a Parma per i viveri. La sig.ra ved Antolini è vittima di una brutale e violenta aggressione da parte di 4 soldati tedeschi: la cosa è avvenuta qualche giorno fa; è rimasta nascosta; ma io l’ho riferita al comandante tedesco, pur sapendo che il risultato sarà nul­lo, ma per lo meno affinché sappiano che se la gente qualche volta è diffidente, ne ha i motivi. È stata una cosa molto dolorosa e molto pe­nosa.

31 ottobre, martedì. – Oggi sono chiamato da Dragotte, Coman­dante della Brigata «Julia» I, perché mi occupi dello scambio di 20 tedeschi (e militi) con 20 ostaggi, e mi mette al corrente di quanto è già stato fatto dal Parroco di Belforte, che non è riuscito nell’intento, perché il comando tedesco di Parma all’ultimo momento ha preteso due soldati tedeschi in cambio di un ostaggio. Stasera è venuto a trovarmi il Capitano Holstein per salutarmi, essendo ormai in partenza. Mentre si conversa, io gli accenno quanto mi ha comunicato Dragotte, ma egli ormai non può più occuparsene, e mi indirizza al comando di Ostia, che d’ora in poi presidierà anche Borgotaro. La conversazione anche stavolta è stata improntata alla più schiet­ta cordialità. Lo ringrazio di quanto ha fatto per la popolazione civile, ed egli pure ringrazia me per la collaborazione avuta.

1 novembre, mercoledì – Solennità di Tutti i Santi. – In occasio­ne dei Santi e dei Morti, e poi perché persiste il cattivo tempo che ci preserva dalle incursioni, molti sono rientrati in paese. Oggi quindi celebriamo quattro SS. Messe: alle ore 6,30, 7,30, 8,30, 9,30. Ma insomma quanta pena, il non poter fare le nostre funzioni come un tempo. La gente è venuta numerosa specialmente alle prime due Mes­se; ma purtroppo, con tutto questo disordine, quanti perdono la S. Messa. Quasi inconsciamente la gente scettica, cattiva, più attaccata alle cose materiali e ai soldi, quanto più vede sfuggirseli. Alle volte faccio questa riflessione: «Se la guerra deve finire solo quando ci sarà una vera conversione degli uomini, non finirà mai più, perché non si vede un cambiamento in meglio. Mi pare che si vada sempre peggio, specialmente nella violazione dei comandamenti fondamentali: il 2°) con le bestemmie, il 3°) con la profanazione dei giorni festivi e con l’abbandono della preghiera e delle pratiche religiose e con lo smarri­mento delle coscienze; il 5°) con le più bestiali aggressioni verso le per­sone, il cui rispetto non è più considerazione: si ammazza e si discute di ammazzare un uomo così come si farebbe per una bestia; non si sen­te più l’orrore del sangue; il 6°) con cui ogni sorta di nefandezze, e divertimenti (quanto si balla!…); il 7°) è stato senz’altro estromesso dal Decalogo ecc. Ma pure penso che il Signore non si lascerà vincere dalla malvagità degli uomini; se no perché sarebbe venuto su la terra? ».      .

Nel pomeriggio vado fino a Ostia, a piedi. Ho fatto una trottata in piena regola. Parlo col Capitano Adam per lo scambio degli ostag­gi e dei soldati; faccio presente che fra i prigionieri tedeschi ve ne so­no 4 molto malandati e che quindi sarebbe bene sollecitare lo scambio. Egli mi dice che personalmente è favorevole, ma che ogni decisione ora è riservata al Comando di Parma; mi promette di riprendere la pratica e di scrivere nuovamente a Parma; e mi accorgo che non è molto soddisfatto della intransigenza del Comando di Parma. Collo­quio molto cordiale. Il capitano mi fa accompagnare con un calesse fino a Borgotaro, nel ritorno. La funzione al Cimitero che doveva aver luogo verso le 16,30, non si tiene; perché – chi sa da che parte – è stata fatta circolare la voce che essa era stata anticipata alle 14; e la gente che si era affollata per quell’ora, mancò totalmente per l’ora fissata.

novembre, giovedì. – I Morti. – Stamattina molto per tempo ab­biamo fatto l’ufficio dei Morti; poi alle otto sono andato al Cimite­ro per la celebrazione delle altre due S. Messe. Per il tempo pessimo non venne al Cimitero molta gente.

Di ritorno dal Cimitero, sono stato chiamato a Brunelli per pren­dere in consegna quattro soldati tedeschi che i partigiani restituivano, perché ammalati, e chiedevano in cambio la liberazione di Vito Burzoni e Armando Angella. Il guaio si è che a fare cosi come i partigiani suggerivano si rischiava di ottenere un bel niente, poiché questa re­stituzione di quattro soldati, non chiesta né pattuita in precedenza, ma semplicemente perché ammalati e quindi di peso e di ingombro, pote­va concludersi con nessuna reciprocità. Per questo ho dovuto far fi­gurare che questi quattro ammalati venivano consegnati a me, purché, in vista e in cambio di questo atto di carità e umanità, il Comando Tedesco restituisse i due sunnominati uomini. E cosi li ho condotti al Comando Tedesco della Stazione. E sta­sera ho scritto una lettera al sig. Capitano Comandante il presidio di Ostia. La sig.ra interprete è ripassata di nuovo da me per salutarmi. Do­mani partono.

novembre, venerdì. – Stamattina si è fatto l’ufficio Anniversario per il povero Arciprete predecessore, Mons. Giovanni Squeri. È stato un ufficio modesto: ma per le circostanze attuali non si poteva fare diversamente. Il Capitano Holstein con tutta la sua compagnia è partito oggi. E­gli lascia buon ricordo in mezzo alla gente. Uomo molto astuto; ma prudente, e di animo retto; ha cercato di non molestare: ha lasciato ai partigiani la più ampia libertà, purché, si intende, essi non facesse­ro sciocchezze da comprometterlo; intanto ha fatto tutto ciò che ha voluto e ha saputo condurre a termine la sua missione. Tutto conside­rato anche per noi è stato un bene, poiché in questi momenti difficili, in cui non si è protetti da nessuno, è pur necessario che ciascuna zona cerchi di difendersi e tutelarsi nel modo migliore: è vero, cosi i te­deschi hanno potuto asportare molto materiale prezioso per la nazione; ma che farci noi, quando il cosi detto governo Repubblicano fa­scista non sa far niente per impedire questi saccheggi in piena regola, anzi li favorisce e favorisce persino la requisizione forzata e l’interna­mento degli uomini in Germania? Siamo proprio in queste tragiche condizioni; ogni angolo di terra deve pensare da sé a tutti i suoi bi­sogni: viveri, ordine pubblico, amministrazione civile, ecc.; le auto­rità centrali repubblicane non si fanno vedere neanche per tutto l’oro del mondo; d’altra parte spiano e perseguitano perché ci credano zo­na di ribelli e ci lasciano portar via tutto: uomini e roba; bisogna far buon viso ai tedeschi, perché se no sono guai grossi, come abbiamo già sperimentato, e d’altra parte essi non pensano che ai propri inte­ressi, e noi potremmo anche scannarci a vicenda o andare tutti alla malora ed essi non se ne interessano, ignorano tutto ciò, dicendo che non sono qui per questo. E alle costole i partigiani con la loro menta­lità e i loro metodi che non hanno nulla da invidiare a quei deprecati metodi fascisti che vorrebbero abolire per sempre, e che invece usano in edizione rinnovata e peggiorata: né potrebbe essere diversamente: non sono i figli del Fascismo, che esso ha forgiato… in 22 anni?… E così si tira innanzi giorno per giorno, con la continua preoccupazione che i «Liberatori» ci vengano a deliziare con le loro caramelle pio­vute dal cielo! Ogni giorno si fa l’esercizio della buona morte: si fa­cesse almeno per davvero!

novembre, sabato – S. Carlo. – Per il mio onomastico la popola­zione si è raccolta in Chiesa, molto numerosa; e, come sempre, molto generosa, ha voluto offrirmi l’offerta di una S. Messa; così hanno fatto pure gli sfollati, specialmente di Albareto. Al Vangelo ho rivolto al popolo sentite parole di ringraziamento. Ripenso alle belle feste di S. Carlo alla Cattedrale, e l’ora di adorazione per i sacerdoti: anche là la popolazione è sempre stata tanto buona con me. Ne sia ringra­ziato il Signore. Il sig. Capitano Adam di Ostia oggi risponde alla mia lettera e mi ringrazia molto della restituzione dei prigionieri e promette ogni appoggio per la liberazione di Borzoni e di Angella. lo temo molto per Borzoni: non credo che lo libereranno, perché ufficiale dell’eser­cito Repubblicano, per fare un torto alle Autorità fasciste: così i ribel­li si riesce a liberarli, e fedeli, sia pure colpevoli, no: e dite che non siamo in una bella situazione! E dite che gli uomini hanno ancora la ragione!…

novembre, domenica. – Sul mezzogiorno mi reco a Pieve di Cam­pi, dove vi è una funzione della prima Comunione e dove si terranno adunanze per i giovani, donne, e dirigenti. Queste sono riuscite molto soddisfatte: ma occorre che la grazia di Dio fecondi; se no, fuoco di paglia. Ritornerò domani, poiché le adunanze si sono protratte fino a molto tardi.

novembre, martedì. – Abbiamo fatto un ufficio di suffragio per tutte le povere vittime dei mesi scorsi, sia di quelle dei bombardamen­ti, sia di quelle di tutti gli altri dolorosi avvenimenti e incidenti. Non c’è stata molta gente; ne aspettavo di più, nonostante che l’ufficio fos­se molto modesto. Ma oggi – e son già tre giorni – è tornato il se­reno!. .. E infatti è mancato poco che nel giorno della commemorazione del­le povere vittime, non ne avessimo delle altre. Infatti alle 10,30 ab­biamo subito un violentissimo mitragliamento, che per fortuna si è limitato alla stazione. Qui sostavano alcune centinaia di persone del pontremolese, Spezzino, Carrarese ecc. che vengono a fare incetta di frumento e in genere di viveri, molti per necessità, molti, e forse i più; per mercato nero. I tedeschi non permettono che si ricoverino in galleria, perché in precedenza hanno subito furti. Così sono esposti alle osservazioni dei caccia, che stavolta hanno suonato una musica poco deliziosa.

Cinque feriti, di cui due molto gravi. A una donna ho amministra­to i sacramenti. Ogni giorno sono diverse centinaia di persone che vengono qui a Borgotaro per viveri. Credo che realmente la fame si faccia sentire in quelle zone più che da noi; ma è fuori dubbio che c’è anche molto traffico illegittimo. Il Commissario Prefettizio ha pubbli­cato un bando, vistato dal Comando Tedesco, per impedire questo af­flusso di gente, ma come farlo osservare? I tedeschi non se ne occu­pano; i Carabinieri non esistono più. C’è una polizia costituita da par­tigiani col tacito benestare dei tedeschi!… Oggi la scuola per i seminaristi è rimasta sospesa.

novembre, giovedì. – Oggi alle 14,30 sono convocato a una loca­lità del Poggio da partigiani della Brigata «Beretta ». Vi trovo il Cap­pellano della Brigata e Commissario Politico, Don Mario, il capo di Stato Maggiore Raimondo, già mio scolaro a Bedonia, e qualche altro. Mi informano che hanno un prigioniero, ferito piuttosto gravemente, e che desidererebbero restituire in cambio di medicinali, scarpe, e ta­bacco; io preferendo che le trattative avvengano direttamente con i tedeschi, mi reco al comando e, comunicata la cosa, conduco alla stes­sa località, un maresciallo, l’aiuto del Tenente Findersen Comandante, e un soldato. Si conviene che saranno dati medicinali; quanto alle scar­pe e al tabacco, nessun impegno preciso; dietro mia proposta, il pri­gioniero è mandato a prendere e viene consegnato. Così trascorre tut­to intero il pomeriggio fino alle 19. Nella casa tedeschi e partigiani conversano e stanno allegri.

10 novembre, venerdì. – Continuo a lavorare per avere una atmo­sfera di intesa tacita fra tedeschi e partigiani. I primi girano tranquilli in paese, e i secondi non li molestano. C’è bensì in paese un gruppo di partigiani, ci tengono anzi un Ufficio di Polizia e esercitano un cer­to controllo; sorvegliano anche i movimenti tedeschi; si trovano alle osterie con i tedeschi. Credo anche che allaccino rapporti con alcuni elementi poco scrupolosi fra i soldati, allo scopo di propaganda e soprattutto per acquisto di merci di contrabbando. La situazione così è e rimane equivoca. I tedeschi, a quanto pare, non aspirano che ad es­sere lasciati quieti; non molestano né civili, né partigiani, sebbene ne conoscano parecchi; in fondo a loro i partigiani interessano poco. I partigiani dal canto loro per il momento sono a corto di denari e di approvvigionamento e i lanci sono rari; con l’inverno che si avvicina sentono sempre più il bisogno di vestiario, di calzature, e non vi è al­cuna probabilità per il momento di attività e i fronti, qui in Italia, riposando questi, anche i partigiani stanno quieti. Qualche azione di sabotaggio, ma poca cosa. Mi pare che un’idea sia entrata; e cioè la necessità di non fare azioni in paese, anzi mi è stato assicurato che la zona dalla Bertorella a Pontolo sarà zona neutra, ossia immune. Sta­remo a vedere.

12 novembre, domenica. – Oggi verso le 11,30 avviene un fattac­cio di sangue. In capo al ponte di S. Rocco, allo svolto verso la sta­zione, due partigiani hanno colpito, prima a bastonate e poi a colpi d’arma da fuoco, al capo, un certo Molinari Giuseppe, detto Narisa. I motivi non sono di carattere politico, ma personale, avendo essi li­tigato il giorno prima. Il Narisa era veramente uomo violento, origi­nale, e non del tutto normale; e ciò forse più per causa di malattia che di animo cattivo. Il fatto ha suscitato molta impressione e riprovazio­ne. Sono stato avvertito da una donna; sono accorso e ho amministra­to l’estrema unzione sotto condizione. Poi insieme con altre buone persone abbiamo portato la salma al Cimitero, poiché la famiglia del­la povera vittima è sfollata. L’autorità germanica del presidio non si è fatta viva. Essa non si immischia in nessuna faccenda della nostra vita civile, se non in quan­to può avere un qualche rapporto con le cose militari.

13 novembre} lunedì. – Oggi è arrivato un treno di viveri da Par­ma: una decina di vagoni. Il Commissario, sig. Gasparini, che si è  fermato a Parma parecchi giorni, è riuscito nell’impresa tutt’ altro che facile; gli deve essere riconosciuto questo merito. La popolazione è contenta. A proposito di viveri, non si fa giudizio. L’ingordigia del guadagno non ha scrupoli. I contadini sono odiati e oggetto di invi­dia: si dice che sono senza cuore, esosi, egoisti ecc., perché essi hanno tutto e non cedono nulla se non a prezzi astronomici. Il frumento è venduto a tutti i prezzi a L. 1.000, 2.000, e fino a 5.000 il quintale; le uova oltre a l0 lire l’una; il burro a 500 e 600 lire il Kg; le patate a 700 – 800 lire il q.le; la farina di castagne a oltre 2.000 lire il quin­tale ecc. I contadini hanno certo le loro colpe; ma non le hanno tutte. Poi­ché chi compra è il primo o offrire somme elevatissime pur di avere la merce, specialmente se compera per rivendere, poiché è sicuro di ven­dere al doppio e più; inoltre in ogni genere di merce c’è lo stesso si­stema: cosi ad es. un paio di scarpe leggere non vale meno di 2.000 o 2.600 lire; e un paio di scarponi non meno di 4.000 – 5.000 lire. Ma di scarpe si può anche far senza; e così anche di un vestito nuovo; ma di pane, no. Del resto non è più un mistero che nella zona di Albareto è stato fatto uno sporchissimo mercato nero da chi doveva impedirlo: parec­chie centinaia di quintali di frumento fatti consegnare all’ammasso e pagati a lire 500, sono stati inoltrati al di là dei monti e venduti si dice, fino a 3.000 lire!

Così la nostra zona aveva frumento e altri generi più che a suf­ficienza, poiché mai come quest’anno c’è stata tanta abbondanza, si va impoverendo e non tarderà a sentire scarsità. Almeno ci si fosse pri­vati di una parte della nostra provvista per sfamare gli altri più biso­gnosi di noi! Invece lo si fa per ingordigia. Come si guastano i piani della Provvidenza! Come non si impara la lezione, che pur ogni giorno ci viene impartita dalla guerra, che i guadagni illeciti non portano fortuna!

14 novembre) martedì. – Oggi, a mezzo del comando locale, ho spedito un’altra lettera al capitano di Ostia, relativa ai prigionieri te­deschi. Il progettato scambio non si è compiuto, perché i comandi tedeschi insistono in voler due tedeschi in cambio di un partigiano. In­tanto i prigionieri tedeschi in mano ai partigiani mi hanno mandato un biglietto da inoltrare al loro comando, con il quale chiedono ve­stiario e calzature, poiché cominciano a soffrire freddo. L’ho spedito insieme con questa lettera, e ho insistito anch’io perché siano accon­tentati. E ho colto l’occasione per rinnovare le insistenze per lo scam­bio e soprattutto per la liberazione di Borzoni Vito e Angella in luogo dei quattro tedeschi ammalati e consegnati il 2 c. m.

Nel pomeriggio Dragotti, Comandante la «1ª Julia », è venuto da me per parlarmi della situazione dei prigionieri, che è assai penosa; mi parla di una colletta da farsi per raccogliere indumenti anche per i partigiani che sono proprio senza vestiti e scarpe e soffrono assai. lo l’assicuro che stiamo già facendola. Egli poi mi ringrazia ufficialmente a nome della Brigata per tutto quello che faccio.

15 novembre, mercoledì. – Faccio un’adunanza all’Asilo delle diri­genti G. F. Sarà possibile iniziare un po’ di catechismo per i bambini? E una ripresa di vita religiosa almeno per i pochi che, a causa dei ri­gori dell’inverno, sono rientrati? Si discute insieme e si vorrebbe pro­prio fare qualche cosa. Strazia l’animo questa inerzia. Nonostante le molte cure, è morta ad Albareto la sig. Brindani, madre del partigiano Libero. Domani i funerali. Povera famiglia Brin­dani! Nel giro di pochi mesi quanti lutti e quante disgrazie! Per que­sto decido di partecipare.

16 novembre, giovedì. – Vado ad Albareto per i funerali della si­gnora Brindani. C’è molta gente; dimostrazione di affetto alla famiglia. Durante il trasporto funebre dalla Chiesa al Cimitero, verso le 10,30, passa una squadriglia di caccia: corriamo serio pericolo. Ma non suc­cede nulla!

17 novembre, venerdì. – Stamattina verso le ore 9 il Capitano Adam di Ostia mi conduce con la sua macchina qui a casa, Angella Ar­mando, che finalmente dopo tante trattative è stato rilasciato. Angella è disgraziato nel corpo, perché non può reggersi sulla persona e nelle gambe in nessun modo, e deve essere portato a braccia. Ha infatti degli amici che gli fanno questo servizio. I tedeschi, rilasciandolo, hanno dovuto provvedere al suo trasporto, e sono stati gentili: io li ringrazio. Angella è insegnante. È stato fino a un paio di anni fa nella associazione Parr. 1e Gioventù maschile, da cui è stato molto aiutato; poi ne è uscito per urti, credo, con Don Bernardino. Ho sentito, quest’estate, di lui informazioni molto gravi intorno alla sua condotta mo­rale e alle sue idee. Era allora sfollato a Buzzò. Ho la certezza che è comunista, anzi un fervido propagatore dell’idea comunista. Ma io penso che il sacerdote debba fare del bene a tutti, per amor di Dio. I comunisti introdottisi nelle Brigate- di questa zona un giorno dovran­no pur ricordarsi del clero che, più di ogni altro e in certi momenti difficili, solo esso ha lavorato anche per loro, senza guardare alle loro idee. Angella, fatto discendere di macchina, mi ringrazia e mi promette una visita. Lo faccio raccogliere da alcuni uomini che lo portano via. La giornata iniziata si con questo lieto avvenimento è proseguita invece con molta tribolazione a causa di violento mitragliamento al­le 10,30. Il comando tedesco richiama l’osservanza dell’oscuramento e del coprifuoco. Il Capitano Adam di Ostia mi fa ringraziare di nuovo per la mia opera di pacificazione a vantaggio dei tedeschi e partigiani.

18 novembre, sabato. – Oggi mi reco dal comando tedesco per sollecitare l’invio di medicinali e scarpe e tabacco promessi in cambio del soldato ferito e consegnato dai partigiani. Mi si danno assicura­zioni; ma per ora niente altro. I partigiani di Beretta cominciano a perdere la pazienza, e bisogna che li rimetta in carreggiata. Ho potuto anche incontrarmi oggi con il Professore Poe (Pellizza­ri A.) dal quale mi sono informato su parecchie cose, specialmente su l’indirizzo che stanno prendendo i diversi partiti. Gli ho dichiarato che io non mi occuperò di politica, perché la mia missione è un’altra pur dando incoraggiamento a quell’indirizzo politico che difenderà la Chiesa, la Religione e la morale e dottrina cattolica. Gli ho poi fatto una proposta di essere intermediario tra partigiani e tedeschi per l’in­oltro della corrispondenza dei prigionieri tedeschi alle loro famiglie e per quella dei partigiani o dei civili che fossero prigionieri dei te­deschi. Mi dice di apprezzare molto l’iniziativa e promette il suo ap­poggio, riservandosi una risposta definitiva.

19 novembre, domenica. – Ieri è successo un guaio. Un nostro com­paesano, certo Rampini Luigi, si è presentato al comando tedesco per avere un lasciapassare per andare a lavorare alla Manubiola; ma con sua sorpresa si è visto trattenuto. La ragione? Egli era stato fino al maggio scorso nella milizia, era venuto in licenza e non era ripartito più. Ora il comando della milizia ha mandato al comando tedesco l’elenco dei militari disertori perché vengano ricercati e rimessi al co­mando. Di fatto il comando tedesco si è astenuto dal fare ciò, ma es­sendogli capitato nelle mani proprio un ricercato non può ignorarlo. Stamattina sono chiamato dal Comandante tedesco che mi mette al corrente di ciò. Al suo ragionamento non si può far obiezioni. Si mette in rilievo che il Rampini non era rientrato perché impedito dai partigiani. Il Comandante tedesco però è preoccupato per le ripercus­sioni che il fatto può avere fra i partigiani e per le ragioni di questi. lo faccio una proposta: siccome per i 4 tedeschi consegnati il 2 no­vembre finora è stato liberato solo Angella, si liberi almeno questo Rampini. La proposta piace; e ho assicurazioni che il Rampini verrà sì condotto a Parma, ma che verrà trattato bene e in seguito restitui­to. Insisto su questa intesa e faccio capire che ciò è nell’interesse an­che dei tedeschi, perché non si sa mai! Nel pomeriggio mi si comunica che è giunta una cassa di medici­nali; ma niente tabacco né scarpe.

20 novembre, lunedì. – Oggi altre trattative con il comando tede­sco. Propongo un altro scambio di due o tre tedeschi con una congrua assegnazione di medicinali per la popolazione; poiché ne siamo pro­prio senza. Il Tenente Findersen non è contrario; promette il suo appoggio presso i Comandi Superiori; e a sua volta mi raccomanda di ottenere la liberazione del suo attendente. Faccio anche un’altra proposta: scambio di prigionieri tedeschi con partigiani o civili della nostra Parrocchia internati in Germania. Per questa proposta trovo poco entusiasmo. Il Capitano Adam mi manda a salutare e ringraziare a mezzo di Don Equini parroco di S. Vincenzo, di passaggio a Ostia.

22 novembre, mercoledì. – Il Tenente Comandante insieme con il Maresciallo nel pomeriggio vien in casa mia a farmi visita. Io l’avevo invitato già da qualche giorno. La conversazione si protrae per un paio d’ore. La certezza nella vittoria della Germania è assoluta almeno nelle frasi che usano. Pre­domina nel loro spirito lo spauracchio bolscevico russo, ne sono come terrorizzati; non riesco ad ammettere e neppure a concepire la possi­bilità di una vittoria russa e di una Germania bolscevizzata. Per que­sto si rammaricano che l’Italia era venuta meno. Non riescono a capi­re che cosa sia stato il regime fascista e che cosa sia quello hitleriano. Per Hitler la più assoluta dedizione. Si meravigliano della ostilità del­la gente. lo spiego che fino al maggio u. s. questo stato d’animo di diffidenza non c’era, poiché numerosi tedeschi ancora si trovavano qui a quell’epoca, e io ho visto fraternizzare con la gente. Ciò che ha alie­nato l’animo dai tedeschi sono stati, oltre al maturarsi e precipitare di avvenimenti, i fatti di violenza e di barbarie compiuti dai tedeschi negli ultimi mesi; e ho raccontato loro ciò che fu fatto alla Manubiola, nei rastrellamenti, stragi ecc. «È propaganda nemica, questa!» Mi rispondono «No, dico io: se le cose fossero avvenute a duecento o a cinquecento Km. da qui, si potrebbe anche sospettarlo, ma i morti li ho sepolti io, e i saccheggi io pure li ho visti, così gli arresti di persone innocenti! ». «Allora soggiungo, hanno agito contro gli ordini rice­vuti! » Poi silenzio.

In compenso, pur disprezzando i partigiani e mostrando molta si­curezza, mi pare che tengono soprattutto a una cosa: non essere mo­lestati, essere lasciati quieti, disposti in questo caso a non molestare e a lasciar quieti e noi e partigiani. A questo scopo fanno molto asse­gnamento sull’opera del Clero. Ci lasciamo con molta cordialità. Poiché domani vado a casa mia; mi rilasciano il lasciapassare.

23 novembre, giovedì – Parto per qualche giorno di vacanza per visitare mia mamma, della cui salute ho avuto qualche notizia poco buona. A Porcigatone si fa un ufficio di suffragio per il povero Don Francesco Delnevo, ucciso lo scorso 20 luglio a Sidolo nel rastrellamento. Dopo la S. Messa ne faccio la commemorazione. La gente è scarsa, e ciò mi sorprende e mi addolora, poiché il povero Don Francesco me­ritava più riconoscenza da parte della popolazione sia per la sua morte tragica sia per il bene che in vent’ anni ha fatto a Porcigatone. Ma la gente di Porcigatone mi sembra poco formata… Alle 13,30 ripiglio la strada e passando per il S. Donna e per Comune Stradella arrivo a Bardi alle 16.45. Trovo qui molto fermento, molta eccitazione e preoccupazioni. 1’Arciprete non mi può ospitare perché la notte sfolla; e trovo ospitalità presso una buona famiglia. Il paese è rigurgitante di partigiani. C’è, tra l’altro, convegno di tutti i capi di Brigata e del Comando Unico. C’è in vista un rastrellamento: giungono notizie allarmanti, e diverse persone si meravigliano che io mi metta in viaggio. Invece io ero partito con sufficiente serenità.

24 novembre, venerdì. – Cerco un mezzo di fortuna per arrivare a casa più presto: ricordo che quindici giorni prima il Curato era stato fortunato. Qui c’è veramente una situazione molto diversa da Borgo­taro. La gente è tutta in paese. Qualche bomba è stata sganciata sul ponte Ceno, ma è abbastanza lontano. Non ci sono tedeschi. É zona completamente partigiana. Qui i partigiani sono provvisti di tutto: vi­veri, munizioni, servizi ospedalieri, di segnalazione, di trasporto. Le macchine, gli autocarri sono moltissimi. Le strade Bardi – Lugagnano e Bardi – Varsi sono percorse; nonostante il pericolo degli aerei che mi­tragliano senza sosta, da ogni genere di mezzi di trasporto.

Trovo i Comandanti delle Brigate della Val Taro. Prendo accordi per l’eventualità di un rastrellamento durante la mia assenza: essi pen­seranno a mandarmi subito ad avvertire: non credo a un rastrellamen­to prossimo, sono in buoni rapporti con i comandi tedeschi, e ho avu­to assicurazioni per la incolumità del paese e della popolazione; ma in ogni caso, voglio essere in Parrocchia, sul posto, qualora avvenga qualcosa di nuovo. Verso le 10,30 con una splendida macchina di un comando di Bri­gata sono portato fino al passo del Pellizzone. Poi proseguo a piedi fino a Bore. Qui sono presso parenti, poi un camion mi porta fino a Lugagnano. Di qui a casa una mezz’ora di strada a piedi. Arrivo ver­so le 17. Sento in lontananza colpi di mortaio. Anche qui c’è poca calma!

25 novembre, sabato – 30 novembre, giovedì. – Sono con i miei. Trovo mia mamma invecchiata e un po’ sofferente: mi fa pena, povera mamma! Aveva sognato di stare con me, e invece… mi ha visto venire a Borgotaro con tanto dispiacere: ora teme di non riuscire a venire a vedermi nella mia nuova sede. In casa ci sono sfollati: un medico e la famiglia. Non c’è tranquillità: giungono confuse voci di combattimenti a Bettola, e vi sono scaramucce un po’ dovunque. Anche qui i parti­giani sono ladri, violenti, scriteriati, ambiziosi: ho l’impressione che sono peggiori dei nostri, che c’è meno controllo che da noi: sarà solo impressione? Me l’auguro. Militi e bande nere e tedeschi nelle loro zone moltiplicano alla loro volta le nefandezze. Quale tragedia! Pove­ra Patria! Le tombe si aprono dovunque; si moltiplicano le vittime; ogni sentimento di dignità, di giustizia, di onore è conculcato. Ero venuto per stare un po’ in pace, qualche giorno almeno: ma credo che dappertutto è la stessa situazione! La guerra! e che guerra! «Ma questa non è una guerra!…» esclama e commenta con angosciosa tristezza la povera gente: «É una distruzione! ». «Proprio così! di­struzione morale soprattutto. Anche qui nessun sintomo di ravvedi­mento: i buoni soffrono tanto per questa aberrante apostasia da Dio e dal Cristianesimo. Non riesco e per difficoltà di viaggi, e per mancanza di tempo, ad andare fino a Piacenza: e ne avrei tanto bisogno: una direttiva, una parola di orientamento e di incoraggiamento dei superiori, farebbe tanto bene al mio cuore.

 1° dicembre, venerdì. – Riprendo la via di ritorno a Borgotaro. La­scio la mia mamma indisposta e ciò mi tormenta alquanto. Celebro la S. Messa a Lugagnano: ho occasione così di salutare l’Arciprete Don Francesco Granelli e venire a conoscere le peripezie che egli e il paese hanno trascorso: cose dolorose, dove non c’è da una parte e dall’altra nessuna luce di onore né di giustizia. Mio fratello Arturo mi accom­pagna fino a Vernasca, poi proseguo solo. Una mezz’ora dopo c’è un passaggio di caccia, poco dopo forti esplosioni mi fanno supporre che sia stato bombardato Lugagnano: penso a mio fratello che a quell’ora dev’essere appena appena arrivato. Più tardi da gente che mi raggiun­ge vengo a sapere che è stato tirato al ponte, ma che non vi sono né danni né vittime. Un po’ a piedi un po’ con mezzi di fortuna, arrivo a Bardi dove trovo molti partigiani sbandati provenienti dal Piacentino, dalla Val Trebbia e dalla Val Tidone; incontro anche Don Ugo. Poi proseguo per Cravago dove arrivo a tarda sera. .

dicembre, sabato. – Sono ospite di Don Luigi Squeri, generosis­simo. Mi accorgo che egli è addentro assai nelle cose dei partigiani; mi racconta gli stratagemmi a cui ha dovuto far ricorso per sfuggire alle unghie dei tedeschi nel luglio: l’ha scampata bella anche lui. Par­liamo anche delle pendenze ancora in sospeso; ma egli non ha per ora alcuna intenzione di venire a Borgotaro. Dopo pranzo con il cavallo dell’ Arciprete e con la guida di un uomo pratico parto, e per la via di Osacca, arrivo a Porcigatone. Qui vengo avvertito che c’è una ammalata grave ai Ghirardi che mi desi­dera; allora decido di far sosta qui e di celebrare domani qui a Porci­gatone. Ho modo così di compiere un incarico di .cui mi ha dato noti­zia una lettera di Mons. Vicario Generale trovata a Bardi: annunziare alla popolazione che S. E. Mons. Vescovo invierà un Sacerdote per la cura d’anime, che non sarà né Economo, né Delegato Vescovile, ma semplicemente un sacerdote incaricato, e alla completa dipendenza dell’ Arciprete di Borgotaro. Ai Ghirardi, ottima accoglienza e signo­rile ospitalità in casa del cav. Marchini. Vengo così messo al corrente di quanto è successo in paese. In questi giorni di assenza ci sono stati numerosi bombardamenti e mitragliamenti, dei quali alcuni veramente paurosi, anche su le case del paese: fortunatamente molto spavento senza vittime.

dicembre, domenica. – Celebro la S. Messa a Porcigatone, e an­nunzio alla popolazione del Sacerdote Don Antonio Ragli e raccoman­do di accoglierlo bene, di volergli bene e di aiutarlo in tutto. La gen­te è contenta. Questa di Porcigatone è una popolazione che ha biso­gno di un parroco in gamba, perché mi pare che lasci a desiderare. An­che oggi alla S. Messa poca, troppo poca gente. Dopo la seconda Mes­sa porto il Viatico alla ammalata dei Ghirardi. Ritorno in serata a casa.

dicembre, lunedì. – Al comando tedesco mi viene consegnato del tabacco per farlo pervenire ai soldati tedeschi prigionieri dei partigia­ni. Comunico al Tenente che il suo attendente sarà liberato, come mi era stato promesso a Bardi. Qui io avevo insistito per la liberazione di questo militare, perché l’ufficiale tedesco me l’aveva chiesto come favore personale, e io pensavo che ciò, in caso di rastrellamento, ci avrebbe conciliato qualche riguardo. E di rastrellamento si parla anco­ra con insistenza. L’ufficiale mi dice che il suo attendente gli è già stato rilasciato. Anche Rampini è stato rilasciato; buona notizia. La famiglia è molto lieta. Il comandante mi dice con soddisfazione che la famiglia gli ha fatto pervenire una torta in ringraziamento. In parte se l’è me­ritata; ma se non c’erano i due prigionieri tedeschi già consegnati, il povero Rampini se ne sarebbe andato in Germania! Chiedo perché si possa avere lo scambio della corrispondenza con i prigionieri. Un nostro parrocchiano, sig. Mussi, viene catturato sulla strada Chiavari – Genova dai militi delle Bande «Nere ». Grave dolore per la famiglia!

dicembre, martedì. – Le voci di rastrellamento prossimo si fan­no più insistenti. C’è molto orgasmo in campo partigiano e nella po­polazione. In una visita al comando tedesco, cerco di indagare: il Tenente mi assicura di ignorare; in ogni caso mi dà assicurazioni fidu­ciose.

dicembre) mercoledì. – Scrivo al comando tedesco di Parma per­ché favorisca la mia iniziativa dello scambio della corrispondenza dei prigionieri di ambo le parti.

dicembre) giovedì. – Oggi viene da me il Commissario Politico del Comando Unico on. Pellizzari (Poe) per pregarmi di interessarmi del partigiano Franco. Questi di ritorno da una difficile missione, vie­ne ferito e catturato. Se ne ignorano le condizioni fisiche e il luogo do­ve si trova. Caso pietoso: nel mese scorso suo padre era stato cattura­to a La Spezia e trattenuto molti giorni. Della sua liberazione mi ave­va incaricato il figlio. Ora il padre liberato è giunto per abbracciare il figlio, e questi assentandosi per una missione delicata, è ferito e preso, né può vedere suo padre. Uomo di contatto tra me e il Comando Uni­co è il sig. Andrea Giuffra. Nel pomeriggio vado al comando tedesco per Franco: il Tenente prende nota e promette interessamento.

dicembre – Festa della Immacolata. – Notte burrascosa per violen­to temporale, che si prolunga per tutta la mattinata. In parte sono contento: possiamo fare cosi le nostre funzioni con un po’ di calma. Infatti molti fedeli hanno frequentato la chiesa e i SS. Sacramenti; ap­profittando della calma, molti sono venuti dalla campagna.

10 dicembre, domenica. – Faccio consegnare al Parroco di Caffarac­cia il tabacco che il comando tedesco mi ha dato per i suoi soldati pri­gionieri dei partigiani. Per vari motivi i contatti che ho con il comando tedesco sono di­venuti quasi quotidiani: continuo la mia opera di pacificazione e di tutela del nostro paese e della nostra popolazione. Vado a Gotra per il Triduo delle Quarant’ore, che si chiuderà con la festa di S. Lucia. Il Rettore del Seminario di Bedonia mi prega di tenere la commemorazione del povero Vescovo di Sarsina, Mons. Pallaroni, il giorno 14 c. m.

11 – 13 dicembre, lunedì – mercoledì. A Gotra per le Quarant’ore. Molta gente. Vedo i nostri parrocchiani e le nostre Suore: Figlie del­la Carità e Dorotee. Ho la visita del papà di Franco, a cui comunico le notizie avute dal comando tedesco. Mi fa tanta pena, povero uomo.

14 dicembre, giovedì. – A Bedonia, al Seminario per l’ufficio di Sua Ecc. Mons. Pallaroni: alla fine della santa Messa tengo la comme­morazione: «Quaesivit bona gentis suae, … omnibus potestas eius et nominatum est nomen gloriae suae usque ad terminum terrae ». Buon numero di Sacerdoti del Vicariato di Bedonia e di Borgo Val Ta­ro. Povero Mons. Pallaroni: quale rimpianto in tutti! Aveva amato tanto questo Seminario e questo Santuario: la Madonna lo accolse in cielo il giorno della sua festa, il 9 luglio 1944, festa quest’anno davve­ro in tono minore: noi qui guerra partigiana in pieno svolgimento, povero Vescovo moriva! È corsa voce perfino che sia stato vittima di tedeschi: tanto la sua scomparsa fu improvvisa. L’annunzio della sua morte ci giunse la fine di agosto!

Ritorno la sera piuttosto tardi: a Compiano – alla passerella – tro­vo ancora il papà di Franco che mi prega di nuovo di interessarmi del suo figliuolo. Giungo a Pieve di Campi tardi, alle l0 circa, per la via a destra del Taro, in uno stato da far pietà. Poco dopo uno scoppio fragoroso: sono bombe sganciate da «Pippo» verso Porcigatone. Sta­mattina un volo di caccia ha bombardato il ponte sul Ceno a Bardi; og­gi alle 0,15 è stato colpito ancora il ponte e la stazione di Borgotaro.

15 dicembre) venerdì. – Al comando tedesco per avere notizie di Franco: c’è poco da fare: capisco che non ne vogliono sapere: le ri­sposte sono evasive: ignorano la sua sorte, o fingono di ignorarla? La sera si inizia la Novena del S. Natale: nel giorno prima, come usa­no qui al Borgo. Molta gente: si capisce, in proporzione di quelli che sono in paese.

16 dicembre) sabato. – Un tale mi viene a invitare a pranzo all’Appennino, dove ci sarà il Tenente tedesco con il Maresciallo, l’avv. Silva, comunista, di Bedonia e il Commissario di Compiano, certo Mario. Non ci vedo chiaro; non vado. Poiché si insiste, prometto di andarvi verso la fine. Vado infatti alle 15. Cerco di parlare di argomenti in­nocui…: tuttavia non si riesce ad evitare che si parli di Ebrei, di cui i tedeschi hanno un concetto realmente errato, e della Russia di cui i tedeschi paventano il comunismo: il Maresciallo esclama: «Piuttosto che restare sotto il dominio russo, mi uccido! ». Verso le 15,30, ac­compagno i tedeschi fino al ponte di S. Rocco. Il Commissario voleva ottenere aiuto e promessa di viveri da Parma per mezzo del comando tedesco: ma non ottenne che vaghe promesse.

 17 dicembre) domenica. – Arriva notizia che Franco si trovi a Verona, in Ospedale. Tengo le consuete funzioni religiose.

18 dicembre, lunedì. – Viene la mamma di Franco: vuol andare in cerca del suo figliuolo. Mi chiede lettera di accompagnamento. La man­do con un biglietto dal Tenente tedesco perché l’accontenti: egli mi fa rispondere che non può accontentarla; al massimo può rilasciarle un salvacondotto per Parma; ma non può fare nulla presso il comando tedesco di Parma. Mi consiglia di scrivere io una lettera per questo comando presso il quale – egli dice – io sono conosciuto. Faccio quin­di due lettere: una per il comando tedesco di Parma perché le facili­ti le ricerche, e l’altra per S. E. il Vescovo di Verona perché l’aiuti nella assistenza al figlio. Essa parte.

19 dicembre, martedì. – Continuano a pervenire segnalazioni sul comportamento morale dei partigiani e della popolazione sui monti. Purtroppo non c’è da rallegrarsi: balli senza numero e senza control­li! … Si aggiunga la propaganda comunista fra i giovani e fra la popo­lazione: intensa metodica, secondo direttive ricevute. Tale propagan­da, da queste parti, sembra avere sopratutto due centri: Albareto e Bardi. Si pensa con seria preoccupazione al futuro! Per parte mia, specialmente nelle visite alle parrocchie faccio adunanza di uomini, e cerco di spiegare i nostri principi sociali. Vedo che seguono volentieri. Appare sempre più chiaro che bisognerà impostare il nostro ministero su basi e secondo direzioni diverse da quelle seguite fin qui. È un mondo nuovo che si presenta, e di fronte al quale non sappiamo se i sacerdoti e il nostro popolo sia preparato. È un problema di gravità eccezionale.

20 dicembre} mercoledì. – Nel pomeriggio rientrato in parrocchia vengo informato di una grave situazione in cui si troverebbero nume­rosi partigiani della «Julia» e civili, rastrellati in un paese dopo Val­mozzola. Essi saranno fucilati se entro le sei di domattina non si sarà pensato a uno scambio. Vado dal sig. Tancredi, all’ufficio della «Cieli»per sentire informazioni più precise, poi vado al comando tedesco per­ché mi metta in comunicazione con quello di Berceto. Sono senza interprete: con difficoltà mi faccio capire. È già buio. Riesco a convin­cere il maresciallo tedesco ad andare a telefonare con l’apparecchio che i tedeschi hanno alla stazione. Non riusciamo. Lo convinco di ten­tare con quello della «Cieli »; e si viene all’ufficio in paese. Con sten­to ci mettiamo in comunicazione con l’apparecchio della Cieli di Ber­ceto; l’impiegato va al comando tedesco. Dopo molto tempo, circa un’ora e più, parla un tedesco da Berceto. Il maresciallo spiega; io pu­re parlo; non si riesce a comprendere bene; ma con il sig. Tancredi e l’addetto della «Cieli» di Berceto faccio dire che attendano, che farò di tutto per trovare una soluzione, che desidererei in caso recarmi io stesso a Berceto per le trattative; e domani ci rimetteremo in comu­nicazione. Accompagno il maresciallo. Sono ormai le 22 passate. Il maresciallo ci ha reso un segnalato servizio e gliene sono molto grato.

21 dicembre, giovedì. – A Brunelli, un breve ritiro ai seminaristi che sono in Seminario. Ritorno piuttosto tardi nel pomeriggio: mi di­cono che hanno chiamato da Berceto, ma in un’ora diversa da quella convenzionata: verso le 14, mentre dovevano chiamare verso le 16. Cerco di prendere i contatti con Berceto, ma non ci riesco. Sono in pensiero. . Vengo anche a sapere che i tedeschi alla stazione hanno fermato alcuni civili come ostaggi: non ne so il motivo!

Stamattina, molto per tempo è ritornata la mamma di Franco. È affranta! Non ha potuto proseguire per Verona e ricercare il figlio. Peggio: in un interrogatorio svoltosi nel pomeriggio di ieri, dopo uno del mattino, richiesta della carta di identità, ha dovuto rivelare il vero nome, meglio il cognome del figlio: è in preda al terrore! Te­me di aver ormai rovinato il suo figiuolo! La consolo: i tedeschi san­no già che i partigiani hanno nomi falsi; non sarà questo che rovinerà il suo figliuolo! Nessuna notizia ha potuto avere: congedandola le dissero: «Avrà notizie attraverso l’Arciprete di Borgotaro! » Sono Anch’io con il cuore in pezzi! Le prometto il mio interessamento, per quello che potrà valere!

22 dicembre, venerdì. – Stamattina molto per tempo due sorprese. Dal comando tedesco ricevo l’invito di recarmi a Berceto a mezzo di una macchina inviata appositamente: mi avevano preso in parola. L’altra sorpresa: lo stesso comando mi consegna una lettera del comando tedesco di Parma: in termini molto riguardosi, sono pregato di comunicare alla mamma di Franco – con tutti i riguardi necessari ­che il figlio era rimasto ucciso a Bosco di Corniglio nell’azione di ra­strellamento avvenuta diversi giorni or sono! Ora siccome siamo bene sicuri che Franco vive, è segno che i tedeschi lo confondono con un altro. Meglio! Comprendo anche quello che è stato il modo di agire del comando di Parma con la mamma: non vollero darle un così gran­de dolore.

Alle ore 8 parto per Berceto in compagnia di due tedeschi. Arri­viamo verso le l0. È una giornata fredda, ma limpidissima. Vengo av­viato al Comando SS. Dopo qualche tempo, ha luogo il colloquio: due capitani, un sergente (che ho saputo poi essere quello che dirige le azioni contro i partigiani): questi conosce bene l’italiano. Le trattati­ve si prolungano assai: vogliono in cambio due tedeschi per un parti­giano, e un tedesco per ogni civile. Mi oppongo; comunico che i parti­giani hanno anche un maresciallo e che per cambio di questi – in ca­so – vogliono due partigiani. Insomma io insisto perché il cambio si faccia alla pari e i civili siano rilasciati liberi. Dopo lunga discussione si conviene di lasciare liberi senz’ altro die­ci civili fra i più anziani e di fare uno scambio per i partigiani e gli al­tri civili con altrettanti tedeschi con una percentuale maggiore di que­sti. Il cambio, il giorno seguente nel pomeriggio, alla Manubiola.

È quasi mezzogiorno. Vengo condotto dove sono chiusi i prigionie­ri. Sono rinchiusi in un fondo, buio, con un poco di paglia, senz’aria. Ricevo un’impressione penosa. Appena entro, sono circondato dai re­clusi meravigliati che mi scongiurano di affrettare la liberazione. Ven­gono subito messi in libertà i più anziani: una decina: condotti al Co­mando ricevono un lasciapassare e se ne vanno. Cerco di sapere qualche cosa anche per Franco: ma mi accorgo che non vogliono parlarne.

A desinare vengo condotto da un signore che incontro casualmente e mi accompagna da un suo amico in campagna: non li conosco, e non ne ricordo il nome.

Passo a salutare il Parroco e ammiro i lavori di restauro alla bel­lissima Chiesa di Berceto. Alle 16 si riparte. A Ostia sale con noi il capitano Adam, comandante quel presidio, che già conosco. Arriviamo tardi a Borgotaro.

A casa mi giunge una notizia: Dragotte mi fa dire che il cambio non si farà più, perché lo si dovrà fare a Varano di Fornovo. Resto indispettito di questa innovazione, tanto più che avevo avuto pieni po­teri per trattare. Sospetto qualche tiro: a meno che non vi sia qualche altro che consce le trattative. Mi rincresceva fare una meschina figura. E decido di mandare domani, per mezzo del telefono un avviso al co­mando di Berceto.

23 dicembre, sabato. – Mando al comando tedesco di Berceto la co­municazione decisa: informo di quanto mi è stato riferito dai partigia­ni, e dichiaro di ritenere che anche il comando tedesco di Berceto or­mai sarà al corrente di altre trattative riguardanti il cambio di tutti i prigionieri della zona, e che pertanto solo per questo motivo non av­verrà oggi il cambio. Non ho avuto alcuna risposta. Effettivamente – vengo a sapere – ci sono trattative su larghe basi a Parma non solo per lo scambio di prigionieri, ma anche su un modus vivendi che si vorrebbe stabilire fra le parti: chi conduce le trattative per i partigiani è l’avv. Mauri. Porto al comando tedesco della stazione alcuni ricordi e oggetti personali di un tedesco – Kirpal – preso già dai partigiani e morto e sepolto nel cimitero di Albareto: mi sono stati inviati dai partigiani di Albareto con l’incarico di consegnarli.

24 dicembre, domenica. – Vigilia del S. Natale. La Novena si è protratta con sufficientemente larga partecipazione di popolo. Ho distribuito in paese e nelle frazioni la circolare natalizia. Alle 17 celebro la S. Messa solenne e rivolgo al popolo parole di augurio, di conforto e di esortazione: Gesù è venuto per portarci la pace; non Lui ha mancato alla sua missione, ma gli uomini lo hanno respinto. Si confermano le voci dello scambio di partigiani e tedeschi in tut­ta la zona parmense. Scambio di auguri anche con il comandante te­desco.

25 dicembre, lunedì – S. Natale. – Le funzioni si svolgono con tut­ta tranquillità. Il cielo coperto di nuvole inclina alla tranquillità e as­sicura da incursioni aeree. Nel pomeriggio invece diradatasi la nuvo­laglia, ritornano gli apparecchi. La nostalgia dei Natali di pace è pun­gente per tutti.

26 dicembre, martedì – S. Stefano. – Nel pomeriggio si avvertono rumori come di colpi di mortaio. Un poco di allarme. Sono i partigia­ni che su le montagne provano le armi.

28 dicembre, giovedì. – Questi giorni sono passati tranquilli. Sta­sera mentre sto cenando, verso le 20, due soldati tedeschi vengono in canonica, con l’ordine di andare subito al comando. Che c’è di nuovo? Il tenente mi spiega che tre tedeschi sono stati presi dai partigiani e intende che siano restituiti. Chiedo tempo; domani mi informerò. Vengo rilasciato e ritorno che è già tardi.

29 dicembre, venerdì. – Ho appena celebrato la S. Messa che ven­go informato che una squadra di soldati tedeschi gira in paese e ha piazzato le mitragliatrici nei crocevia. Rimango sorpreso e irritato: ave­vo promesso che oggi mi sarei informato e quindi non capisco questa fretta. Esco in paese per vedere che cosa sta avvenendo. Incontro un partigiano che mi assicura che i tre tedeschi sono fuggiti e sono pres­so i partigiani di Dragotte. Sul piazzale davanti all’Appennino, incontro i tedeschi. Il mare­sciallo appena mi vede, viene a salutarmi e mi invita al comando; con un fischio chiama i soldati che, tolte le mitragliatrici, mi prendono nel mezzo e mi conducono al comando. Qui il tenente mi ripete che vuole la restituzione dei tre: io osservo che sono fuggiti e non sono stati prelevati e perciò non assicuro la restituzione se essi non voglio­no tornare. Mi parla eccitato di uno dei tre: Willy e di questo spe­cialmente vuole la restituzione. Non aggiungo nulla. Mi parla di un altro incidente della notte: e vuole la riparazione.

Infatti vengo a sapere che nella notte un maresciallo e un soldato tedesco sono stati aggrediti, feriti e portati via. Questo nuovo inci­dente mi preoccupa assai più del precedente. Non riesco a spiegarmi questi colpi di testa che non arrecano nulla di vantaggio e invece crea­no situazioni gravissime per la popolazione civile: questa non è guer­riglia, ma rasenta la criminalità.  Nel corso della giornata infatti vengo a sapere come si sono svolte le cose. Il maresciallo era stato al Caffè Centrale nella serata. Uscito venne affrontato da Willy e invitato a fuggire; di fronte alla sua re­sistenza, fu colpito, disarmato e condotto, ferito, sui monti: evidente­mente con Willy dovevano essere dei complici.

30 dicembre, sabato. – Continuo le trattative coi partigiani circa gli incidenti di questi giorni. Si chiarisce che Willy è fuggito; gli altri due furono costretti a seguirlo; che il maresciallo è stato veramente colpito e catturato con l’altro soldato. C’è odore di rastrellamento, per l’aria. Riesco a far comprendere la necessità della restituzione, ad eccezione di Willy. Intanto uno dei tre soldati tedeschi della stazione è scappato dalle mani dei partigiani ed è rientrato. Al Comandante del Presidio tedesco dò assicurazione della resti­tuzione dei soldati e del maresciallo, ad eccezione di Willy. Egli fissa un termine: il 10 gennaio; e rinnova la minaccia di rappresaglie. Fac­cio il possibile e ricorro a tutte le astuzie per trovare una conciliazio­ne. Oggi un mitragliamento sul paese. Molto panico: nessun danno.

31 dicembre, domenica. – Nel mattino le solite funzioni. Sul mez­zogiorno mi avvio insieme con il seminarista G. Cacchioli verso Bru­nelli. Appena fuori di paese, un rumore di apparecchi dà l’allarme. Po­co dopo eccone due che salgono a bassissima quota la valle del T aro; subito iniziano un violentissimo mitragliamento sul paese, che conti­nuano risalendo la valle. L’anno 1944 si chiude cosi, nella paurosa tragedia di una situazione che non accenna a modificarsi. Tedeschi da una parte, partigiani dall’altra, anglo – americani dall’altra ancora; que­sta nostra povera Patria piegata e mutilata, divisa e tormentata da odio e passione, geme e agonizza! C’è tanta pena nel cuore! Riprendo la strada. Sono quasi a Brunelli, quando scorgiamo una autoambulanza salire lungo la strada Borgotaro – Brunelli. La attendia­mo con viva sorpresa. Si ferma proprio accanto a noi. È una autoambu­lanza che viene da Berceto. Mi consegnano una lettera di «Mauri»: sono pregato di accompagnare gli autisti ad Albareto, per prendere dall’Ospedale un tedesco ferito, che in base agli accordi stipulati per il cambio avvenuto nelle feste natalizie, deve essere consegnato. È mezzogiorno; una giornata piena di sole. Avventurarsi per la strada, dopo il mitragliamento di poco fa, è una cosa poco simpatica. Ma si va. Si gira la macchina e si parte.

Dopo neppure mezz’ora siamo ad Albareto. Siamo probabilmente stati avvistati dalle vedette partigiane, perché quando arriviamo un ca­po partigiano, «Cartello », ancora in lontananza con la pistola in pu­gno ci intima di fermarci. Ancora qualche metro: poi scendo. Cartello quando mi vede, sorpreso, ripone la rivoltella. Gli spiego, gli do la let­tera di «Mauri». Sono condotto alla villa del Dott. Gottelli, dove è radunato il comando unico: ci sono tutti i comandanti: Arta, Poe, Beretta ecc. Faccio leggere la lettera: sono tutti molto sorpresi che « Mauri» abbia compiuto l’imprudenza di mandare dei tedeschi, pro­prio nel centro della zona partigiana. I tedeschi con la macchina sono rimasti soli, giù in paese, fatti segno allo stupore e alla curiosità. Nel­la testa bollente di qualche partigiano viene l’idea di imprigionare i tedeschi e impossessarsi della macchina: ci sarebbe voluto anche que­sto! Il ferito non è più all’ospedale, è al… cimitero: è deceduto da qualche giorno. Bisogna che dia la notizia agli autisti… Per renderla meno cruda, penso di condurli al cimitero di Albareto, dove sono al­tri tedeschi sepolti e dove le tombe loro sono tenute bene.

Ma è ormai l’una: ripassando presso la canonica, ci fermiamo: l’Arciprete ci vuol dare da mangiare. Mangiamo, tutti, in fretta. Poi accompagnati da «Libero» andiamo al Cimitero. «Libero» indica la tomba ancora fresca; io richiamo l’attenzione dei tedeschi su tutte le tombe dei caduti tedeschi, e su un’altra: quella della mamma di «Li­bero »: voglio fare impressione sull’animo dei tedeschi, i quali… ri­mangono impassibili. Ritorniamo. A Borgotaro, scendo. Ringrazio il Signore, che anche questa avventura si è chiusa… La sera funzione in Chiesa di fine d’anno. «Te Deum »! Può sem­brare un’ironia! Eppure, e lo spiego ai fedeli, nonostante tutto, ci so­no tanti motivi per ringraziare Dio: io li avevo proprio lì, freschi freschi, dopo una giornata avventurosa come quella di oggi!

ANNO – 1945

1ˆ gennaio, lunedì. – Che ci porterà il 1945? Ci darà finalmente la pace? Ecco il pensiero e l’ansia con cui incominciamo l’anno nuovo. E salgono fervide le preghiere ad Dio della pace, perché finalmente abbia pietà di tutti. Ma ahimè arrivano ben presto notizie che ci ri­chiamano alla realtà. A Bedonia vi è un rastrellamento! Sono ritornati gli Alpini della « Monterosa ». Bisogna dunque aspettarli anche qui. In giornata mi viene recata una lettera da parte del Comando te­desco: il maggiore Frosch mi prega di interessarmi perché vengano restituiti alcuni tedeschi che furono catturati alla Cervara presso Gui­nadi mentre stavano contrattando una vaccina: essi dovrebbero esse­re ad Albareto. Faccio avvertire l’Arciprete di Albareto di venire doma­ni a Gotra per il pomeriggio. La sera si riesce ad avere la restituzione dei due tedeschi che mi vengono consegnati alla Costazza: li accompagno dal Tenente: assicu­ro che verrà consegnato anche il maresciallo che ora non era in salu­te. Colgo l’occasione per esplorare e chiedo se è vero che vi sarà ra­strellamento: il Tenente non sa; però mi assicura che qualora vi fosse, il paese sarà rispettato, e non si ripeterà quanto avvenne nel luglio scorso.

  1. gennaio) martedì.– Gli alpini sono giunti anche qui a Borgota­ro: non si capisce bene quello che intendono fare. In paese c’è allar­me: si attende un nuovo rastrellamento; voci che giungono anche dal di fuori confermano. Gli alpini si sono disposti dalla Bertorella fino a Bedonia e lungo la valle del Taro fino a S. Maria. Nel pomeriggio vado a Gotra per l’appuntamento con l’Arciprete di Albareto: lo prego di prendere informazioni su quanto mi scrive il Maggiore Frosch e di riferirmi al più presto. Ritrovo, appena fuori di Borgotaro, un Capitano degli alpini, che avevo incontrato nell’agosto scorso.

gennaio) mercoledì. – I partigiani non hanno ancora restituito il maresciallo: sono preoccupato. Bisogna che trovi il modo di tranquil­lizzare il Comando Tedesco: prendo il pretesto di riferire intorno alla missione avuta dal maggiore Frosch, e mentre assicuro di avere già iniziato le ricerche, scuso i partigiani della mancata consegna del ma­resciallo, adducendo la presenza degli alpini: il Tenente dice di non saper nulla quanto al rastrellamento; eppure, aggiunge, se fosse in corso, qualcosa dovrebbe sapere: quanto agli Alpini, non sa dire nul­la, perché non dipendono da lui. Mi assicura di nuovo che ha dato buone informazioni della popolazione di Borgotaro, e in ogni caso, il paese sarà rispettato; solo i partigiani trovati in armi saranno presi di mira. Insiste per riavere il maresciallo, io, pur non avendo alcuna si­curezza, dò formale assicurazione che sarà restituito. A questi e si­mili stratagemmi debbo continuamente fare ricorso: se sapessero i par­tigiani di quanti guai, di quante pene e pericoli sono causa, non per le loro azioni di guerra, ma con le loro azioni balorde, con i loro col­pi di testa, spesso di individui irresponsabili, che agiscono di loro ini­ziativa!

gennaio, giovedì. – Finalmente stasera, dopo d’aver atteso pa­recchie ore, alla Costazza, insieme con Paolo Capitelli, viene accom­pagnato il maresciallo. Il Sig. Capitelli lo accompagna al Comando. È un sollievo. Gli alpini non si sono fermati: sono ritornati a Bedonia. L’Arciprete di Albareto mi riferisce intorno all’episodio della Cer­vara: l’ufficiale tedesco è morto e mi manda una relazione fatta dal Comando della Divisione Berretta.

gennaio, venerdì. – Stanotte da Pontremoli sono giunti molti te­deschi: il temuto rastrellamento ha inizio. In mattinata, nonostante la neve che scende abbondantemente, pattuglie di tedeschi si sono di­sposte, qua e là in paese, in capo al ponte a S. Rocco, e ai crocicchi delle strade che conducono al paese. La relazione del fatto di Cervara e i relativi documenti mi offrono buona occasione per recarmi al Comando tedesco per vedere cosa suc­cede. Trovo infatti viva animazione. Nella sala d’ufficio del Tenente trovo riuniti molti ufficiali: sembrano molto allegri. Non v’è più dubbio: giorni gravi ci attendono. Intanto i tedeschi hanno fatto alcune perlustrazioni: hanno subito scoperto il magazzi­no viveri dei partigiani: segno evidente che avevano qui degli infor­matori sicuri; hanno preso al mulattiere Capitelli i suoi muli: e ho dovuto lungamente insistere col Comandante tedesco perché fossero restituiti: me ne danno assicurazione, ma intanto se li portano via! Qua e là vengono acquartierate le milizie e stesi i fili del telefono.

L’allarme in paese è vivissimo. Io diffondo la voce delle assicura­zioni avute al rispetto al paese: è bene che i partigiani tentino di rientrare nelle case: sui monti come potrebbero resistere con tante ne­ve se fossero costretti a fuggire? Le famiglie dei partigiani sono pro­fondamente impressionate per i loro cari. È un continuo venire da me di persona. per chiedermi che cosa debbono fare. Che rispondere? Io consiglio di non avventurarsi nella neve, ma piuttosto di tenersi nasco­sti. Ma non si conoscono i progetti dei tedeschi: si azzarderanno ad affrontare la bufera sui monti? Si limiteranno, in caso, a camminare per le strade principali, .oppure allargheranno le loro insidie e la lo­ro azione anche per le vie secondarie, di casolari sparsi per la campa­gna? Chi può saperlo? .Con questa incertezza nel cuore vado su e giù per il paese in cerca di indizi.

L’Epifania si annunzia come una Epifania di lacrime e di sangue!

gennaio, sabato. – La neve è caduta abbondante ancora per tut­ta la notte; anche durante la giornata non è cessata. Stamattina presto, ancora nel buio, le truppe tedesche, mimetiz­zate con ampi soprabiti bianchi, dotate di armi leggere, sono partite verso Porcigatone e Caffaraccia. Nessuna notizia e nessun segno fino verso le 1l. Poi si cominciò a sentire il canto delle mitragliatrici, dal­la valle Vona. Lassù verso Caffaraccia dunque si combatteva. Gli animi sono sospesi. È ancora vivo e bruciante il ricordo del rastrella­mento del luglio: le mamme pensano a che cosa sarà dei loro ragaz­zi. In paese le restanti truppe non circolano se non rare. I partigiani – il gruppo che rimane in paese per i collegamenti – non vogliono che gli spartineve si mettano in moto a sgomberare le strade: pensano di impedire il passaggio o l’afflusso dei tedeschi. Nessuna molestia è fat­ta alle persone, che del resto molto guardinghe se ne stanno riparate. Ho chiesto – onde evitare gli incidenti dello scorso luglio – se posso far suonare le campane per le funzioni: nessuna difficoltà.

gennaio, domenica. – Siamo ancora senza notizie dell’andamento del rastrellamento. Circolano voci: ma non si sa nulla di preciso. Nevischia ancora. Per le vie del paese si aprono viottoli fra la neve. Nel pomeriggio vado al comando tedesco: ma non riesco ad avere notizie. Di ritorno, di fronte a un edificio dove sono acquartierati diversi tede­schi, mi sento salutare da un tedesco – un maresciallo – che sta spa­lando la neve. Mi parla in latino, e mi dice di essere un monaco del Monastero di Beuron. Facciamo una lunga conversazione in latino: ci si intende sufficientemente bene. Mi chiede di poter celebrare la S. Messa: glielo concedo volentieri: verrà all’ora che potrà.

gennaio, martedì. – Si è fatto un sereno splendido con molto freddo. Si hanno le prime notizie. Nel pomeriggio arriva Don Domenico Meschi di Caffaraccia. È impressionatissimo. Mi racconta che ve­nerdì notte e sabato mattina appena giunta notizia del rastrellamento, i partigiani avevano invasa la canonica e portato le mitragliatrici sul piazzale della Chiesa: di li si domina la vallata. Al, primo annunzio dell’avvicinarsi dei tedeschi egli con la mamma e la sorella si era al­lontanato e si era andato a rifugiare in una casa più su a monte, dove era rimasto nascosto tutto sabato e domenica e il lunedì. Intanto una furiosa battaglia era avvenuta il giorno dell’Epifania: la canonica ave­va subito danni. I partigiani dopo violenta resistenza erano dispersi in mezzo alla neve su per i monti; i tedeschi erano arrivati in paese, si erano in parte sistemati in canonica, avevano perlustrato le case, razziato animali ecc.: tuttavia non avevano preso ostaggi. Un parti­giano – magg. Farinacci – era rimasto ucciso: degli altri, nessuna no­tizia. I tedeschi erano ripartiti il lunedì: la canonica era stata saccheg­giata, non dai soli tedeschi. Egli, Don Domenico, era rientrato dopo molti stenti; non si sentiva più di rimanere: aveva sentito dire che i tedeschi avevano chiesto di lui, che avevano trovato una giubba da partigiano presso il forno e temeva di essere ricercato, e poi non ave­va più nulla in casa. Voleva ritornare a casa sua, a S. Maria del Taro.

Io lo sconsigliai; gli promisi che avrei fatto indagini presso il co­mando tedesco; partendo avrebbe forse peggiorato la sua situazione. Non riuscii a persuaderlo, e se ne partì: m’ha tanto impressionato! Gli promisi che lo avrei tenuto informato. Oggi due bombardamenti!  L’interessante diario di S. E. Mons. Carlo Boiardi termina qui. Co­me si può spiegare una interruzione così brusca? Forse l’autore non ha avuto il tempo di riordinare e continuare la narrazione degli avve­nimenti più importanti fino al giorno della liberazione, come gli ri­sultava da qualche agenda o quaderno personale.

PARROCCHIA DI BRUNELLI

GIUBELLINI DON LUIGI

Vivente e residente a Bedonia, ove è nato il 22 Agosto 1899. Fu Curato a Borgotaro, poi Parroco di Caffaraccia e, dal 1935 al 1974 a Brunelli di Borgotaro, ove ospitò, durante il periodo finale della guerra Mons. Boiardi, Arciprete di Bor­gotaro e i Sacerdoti della medesima Parrocchia, fu anche Economo Spirituale di Porcigatone dopo l’uccisione di Don Francesco Delnevo. Testimonianza di Don Giubellini

PARROCCHIA DI CAFFARACCIA

MESCHI DON DOMENICO (1910 – 1975)

Morto Parroco di Cortina di Alseno. Dal 1936 al 1946 fu Parroco di Caffa­raccia di Borgotaro.

Lettera di accompagnamento alla relazione del 15 febbraio 1946.

Attestato dell’opera svolta da Don Meschi a favore dei prigionie­ri tedeschi rilasciato dal comando tedesco.

1946, febbraio 15 – Caffaraccia

Relazione di Don Meschi in risposta alla circolare della commis­sione Cardinalizia dell’A. C. del agosto 1945.

 

CAFFARACCIA IL MOVIMENTO PARTIGIANO

Il paese di Caffaraccia a sette chilometri a nord di Borgotaro, alla altezza di 800 m., sulla strada che porta nel Bardigiano, si presentava per una attrazione di partigiani. E invero, dal primo movimento par­tigiano sino alla conclusione della guerra, questi si sono attendati nel­le vicinanze e nel paese stesso. La totalità dei giovani erano nelle for­mazioni partigiane. I partigiani hanno trovato nella popolazione quel­la ospitalità e quella solidarietà che ha favorito ogni loro azione. Per questo il paese è stato per ben quattro volte oggetto di ra­strellamento da parte del nemico; particolarmente sentito quello del 6 gennaio 1945, effettuato dopo una battaglia di cinque ore contro i tedeschi che avanzavano sul paese, col terreno coperto da oltre 50 cm. di neve. Le conseguenze non furono disastrose come si prevedevano, se si eccettuano rotture di vetri della Chiesa e della canonica, e razzie di alcune case, principalmente della canonica, la quale era stata im­provvisamente abbandonata per la battaglia accentrata si attorno ad es­sa. Ad onor del vero in tutti i rastrellamenti il Parroco era sempre fuggito, perché cercato positivamente sotto l’accusa di favorire i Par­tigiani.

Ma se Caffaraccia fu trattata tanto duramente dai tedeschi, la po­polazione si è mostrata verso il nemico quanto mai deferente. A qual­che ora dal paese vi era il campo di concentramento dei prigionieri te­deschi e repubblicani. Furono visitati più volte dal Parroco di Caffa­raccia, il quale, rilevato il loro bisogno di vestiario, promosse una rac­colta di indumenti. E la popolazione, non esclusi gli sfollati, offriro­no quanto poterono, specie oggetti usati di lana, confezionarono pan­tofole e calze, con un amore come se si trattasse di lavorare per i fra­telli. Tali indumenti furono portati dal Parroco come dono natalizio. Anche da Borgotaro, per interessamento delle donne di A. c., fu­rono mandati indumenti ai prigionieri, sempre a mezzo del Parroco di Caffaraccia; mentre il comando tedesco della stazione di Borgotaro inviava tabacco, tramite il Parroco di Caffaraccia.

L’attestazione inviata dal comando tedesco mostra quanto abbiano apprezzato il trattamento praticato ai loro connazionali prigionieri da parte della parrocchia di Caffaraccia.

Meschi Don Domenico Parroco di Caffaraccia

1975, luglio 29 – Caffaraccia

Testimonianza di Don Meschi su fatti avvenuti durante la resistenza

PARROCCHIA DI PORCIGATONE

DELNEVO DON FRANCESCO

Fucilato a Sidolo di Bardi (ove si era rifugiato, fuggendo da Porcigatone a causa del rastrellamento) il 20 luglio 1944, assieme a Don Giuseppe Beotti ed al Ch. Subacchi. Di lui si parla ampiamente in questo libro e molti sono i docu­menti dell’Archivio della Resistenza che ne fanno memoria.

PARROCCHIA DI MARIANO

TERZONI DON MARIO

Nato a Fontana Pradosa nel 1909. Dal 1957 è Parroco a Verano di Podenzano. Ordinato Sacerdote nel 1936, dagli inizi del suo ministero, fino al 1951 fu Parroco a Mariano di Valmozzola.

Relazione di Don Terzoni in risposta alla circolare della commis­sione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

Ossequiente alla voce dei miei Superiori Ecclesiastici scrivo que­ste modestissime pagine scegliendo alcuni drammatici episodi crono­logicamente esposti con la speranza che servano alla causa della verità, di utilità generale nelle attuali contingenze dell’Italia, di maggior ri­conoscimento da parte dei nemici del Clero e della Chiesa per i sacri­fici, gli eroismi e l’opera svolta dai Sacerdoti in generale e dai Parroci di montagna in particolare. Colui che scrive questa breve storia è un umile Parroco sperduto sull’alta montagna Parmense, che ha vissuto giorni di trepidazione, che ha visto diversi rastrellamenti – puntate – rapine, vessazioni fat­te a famiglie inermi ed innocenti, a cui risuonano ancora alle orecchie la stonatura dei gutturali e lugubri Rauss, Kommen e dei Caputt, spe­ra che tornerà gradito ai lettori il sapere come e quando fu fatto per Iddio e per la Patria.

 

BREVE PROSPETTO DELLA SITUAZIONE

 

Anno 1924-’36      Periodo preparatorio allo Studio ed alla Disciplina Ecclesiastica.

Anno 1936-’45      Periodo pacifico politicamente, economicamente, religiosamente.

 

Anno 1940-’45    Periodo di eccezionali movimenti nazionali e mon­diali, pieno di chiamate militari, ricorsi, denunce, do­mande, interrogazioni da parte delle autorità civili-mi­litari provinciali e comunali; clima di tesseramenti, di grande preoccupazione per tutti; di profondo dolore per moltissimi Italiani e per non pochi cittadini di Val­mozzola. I vari generi alimentari anche localmente so­no piuttosto scarsi. La miseria cresce sempre più. Nu­merosi sono gli Apuani e gli Spezzini, comitive di don­ne e di macilenti bambini, che vagolano sulle nostre montagne di paese in paese alla ricerca di miglior for­tuna. Non mancano tuttavia gli accaparratori e gli approfittatori della cri­tica situazione. Valmozzola Alto (Mariano – Castello Corieri) ottimo rifugio per i partigiani. Lontano dai centri e dalle numerose strette mu­lattiere, non vide bombardamenti, né mitragliamenti, ma fu fatto se­gno a dolorose puntate ed a brutali rastrellamenti.

A Valmozzola, il più piccolo tra i Comuni della provincia di Parma, privo di strade che allaccino ogni frazione fra il loro, bisognoso in tut­to di scuole decorose, di un importante telegrafo e telefono, di una farmacia indispensabile, paese dai molteplici problemi comunali, si è posta la fiducia in un uomo acclamato come Segretario Politico. Lo scrittore di mistica fascista apprezzato dagli amici nei rioni Parmensi non trova nessun appoggio in questi valligiani, che reputa saturi dell’ epoca religiosa del Clero locale. Mentre usa una tattica ipocrita coi Sacerdoti, d’altra parte suggerisce una persecuzione latente contro i ministri del Signore con ordine deciso e perentorio dato ai suoi fedeli spalleggia tori. Stavo leggendo Radiosteria a titolo di curiosità e come passatem­po serale con i giovani di A. C. quando ricevo l’invito di recarmi ad un funerale nella vicina Parrocchia. Accetto e rispondo affermativa­mente al collega. All’indomani tutt’intorno spira pace.

È una mattinata d’oro. Cammin facendo i teoremi di Pitagora, i dilemmi di Aristotele e i persuasivi e convincenti sillogismi del Santo d’Aquino ritornano insistenti alla mia mente cosicché, dopo aver per­corso un’ora di cammino su strada mulattiera, arrivo al Molino «Soz­zi », dove il signor S. G. mi ferma e mi apostrofa a bruciapelo: «Do­ve va, Reverendo? ». «Perché, avete bisogno?» «No, no!» «Debbo recarmi a S. Martino per un ufficio di deposizione! ». Ride. Chiedo al mio interrogatore il motivo della sua curiosità ed egli allora mi ri­vela un ordine avuto segretamente dall’attuale Segretario Politico «di vigilare diligentemente la condotta dei parroci, di pedinarli, di osser­vare dove vanno, cosa fanno, cosa dicono, con chi vanno perché rite­nuti soggetti disfattisti e pericolosi ». Segue un atto di meraviglia ­taccio – dopo un breve esame di coscienza rilevo soddisfatto di non aver fatto nulla di male; lo ringrazio dell’avviso avuto in confidenza e continuo imperterrito la mia strada.

Debbo sinceramente confessare che di cinque fratelli ancora viven­ti con diverse primavere sulla schiena sull’esempio del babbo che fu sempre senza partito tuttavia amato e stimato da tutti per la sua illi­mitata prudenza e per il suo ammirevole senno, nessuno di noi ha cal­deggiato per i partiti; il nostro ideale «è di vivere e di lasciare vivere in pace tutti quanti ». In questo frattempo so di essere stato pedi­nato, sorvegliato, e spiato, controllato in tutti i miei viaggi eccezional­mente numerosi per i lavori in corso della Chiesa e per i disbrighi dei miei Parrocchiani presso gli uffici cittadini. «Male non fare e paura non avere », cosi un proverbio antico. M’accorgo ben presto di aver dinieghi e rifiuti in alcune mie domande – per fortuna assai limitate ­da persona rivestita d’autorità e d’essere circondato da qualche ne­mico solo per il fatto d’essere prete, ma non tremo e cercò di compie­re degnamente e diligentemente le opere del mio ministero. Le parole di Cristo mi sono di sprone e d’incoraggiamento: «Se hanno perse­guitato Me, perseguiteranno anche voi! ».

Al balcone di Piazza Venezia il duce dà una data storica il I0 giu­gno 1940 dichiarando guerra agli alleati. Alla voce prepotente del de­spota innumerevoli spose e madri piangono addolorate nel vedere tra poco sacrificare i fiori più belli d’Italia. Alle parole rispondono ordini draconiani. Infatti è un continuo affluire all’Ufficio Postale di Valmozzola di cartoline – precetto che ven­gono distribuite con direttissima, cosi i figli del nostro popolo e diver­si padri di famiglia un dopo l’altro dopo essersi raccomandati alla Ma­donna, ordinano funzione impetratoria, partono più luminosi per la guerra. Valmozzola, comune eminentemente agricolo, nel vedere par­tire i suoi figli migliori alla difesa della Patria è ferita nel suo ganglio vitale, cosicché i lavori agricoli sono completamente trascurati, i cam­pi abbandonati totalmente, per cui:

  1. a)laSituazione Economica 
  2. diviene precaria. Il problema della fame cresce a dismisura, infatti gli anni 1942­1943 sono gli anni della fame. Quanti miei parrocchiani e forestieri non furono soccorsi da me. Confesso sinceramente che nessuno parti dalla canonica senza avere prima ricevuto l’obolo della carità. Oh! Le ricordo quelle tristi giornate in cui vi vedevo, o mie care pecorelle, a fare la spola di parecchie ore di strada a piedi col sacchetto bianco sulle spalle per ritirare il contingentato. Alla crisi crescente del vivere si aggiungono difficoltà:
  1. b)d’ordine«Civile e Politico ».

Le autorità locali fanno correre la popolazione per qualsiasi ine­zia al Municipio: ora per fare denunce sopra denunce – della semi­na, del raccolto, dei terreni, delle aree, delle abitazioni – creando cosi una confusione incredibile, ora per fare domanda di esoneri che saran­no interminabili e senza alcun risultato, ora per il ritiro della scheda di macinazione. Non manca il motivo della solidarietà nazionale. Da tutti viene corrisposto con simpatia e con calma alle «Giorna­te Pro Tubercolosi» e «Pro Assistenza Indigenti» 29 dicembre 1943. Non furono cosi sereni gli abitanti di fronte all’obbligo di conse­gnare gli utensili di rame 14 aprile 1941-22 settembre 1942; la la­na 24 aprile 1942; il pacco coloniale per i nostri valorosi combattenti 29 luglio 1942 ed alcuni chilogrammi di frumento raccomandati indi­spensabilmente e voluti indistintamente da tutte le famiglie per ri­cordare la Settimana dèl Sacrificio, mangiando solamente patate (feb­braio -Marzo 1943). Politicamente a Valmozzola non si è troppo ardenti per il partito o tre eccettuati quei due o tre che troppo zelanti non in fatto di religione, fanno perdere così facilmente la Messa precettiva della Domenica ai giovani di leva.

 Religiosa A causa del sonnecchi amento, del temporeggia­re e delle risposte enigmatiche da parte di alcune autorità i parrocchia­ni, stanchi d’ogni loro rifiuto, ricorrono con frequenza alla canonica per essere aiutati e difesi. Io mi presto assai volentieri e mi faccio in quattro per aiutarli. I ricorsi fatti ad alte personalità ottennero felice esito: esoneri, pensioni e multe condonate. Così ricorrono al Parroco, i richiamati e quelli di leva: prima della partenza si avvicinano ai Sacramenti, salu­tano il loro Sacerdote. Ad essi, dopo aver indirizzato brevi parole in­fuocate di fede e d’incoraggiamento, dono come ricordini un’ immaginetta della Madonna di S. Marco e il minuscolo libro di preghiera «Quando la Patria ti chiama ».

Le numerosissime lettere e cartoline che provengono dalla caser­ma sono piene di affetti, di ringraziamenti e di santi propositi. In Parrocchia si inizia una catena speciale di preghiera fatta solo per i soldati in guerra. Ogni giorno sono ricordati al Signore. Tutte le famiglie hanno giovani e anziani in armi. Incomincia a risplendere la lampada votiva. In ogni domenica dall’ inizio delle ostilità fino ad oggi si tengono funzioni religiose « pro soldati », per il loro felice ritorno e la pace di tutte le Nazioni. La pa­rola pace non piacque ad alcuni del partito fascista; non ebbi noie e continuai come il solito a pregare. Le famiglie prive del loro congiunto sono piene di speranza in vi­cino accomodamento delle Nazioni belligeranti, ma al protrarsi invece della guerra decantata da tutti lunga e dura incominciano a vacillare nella fede, insorgono qua e là calunnie contro il Papa «che ha stipen­diato la guerra, che ha voluto la guerra », ma vengono sfatate portan­do come argomento di confutazione il pensiero genuino dei Sommi Pontefici di santa memoria circa la pace; Benedetto XV per scongiu­rare la catastrofe offrì la sua vita per la pace nel mondo. Pio XI di f. m. per ben due volte offrì la sua vita per la pace nel mondo, marcò il suo augusto desiderio scrivendo alle Nazioni «che la miglior garanzia di tranquillità non è una selva di baionette, ma la muta fiducia ed ami­cizia ». E Pio XII, l’attuale Pontefice, nella sua Enciclica o mirabile mes­saggio di pace al mondo intero esprimeva il suo desiderio ardente: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra ».

Lamenti contro la Divina Provvidenza «che non dovrebbe permet­tere i bombardamenti sulle città indifese ed inermi; che è ingiusta perché colpisce i buoni e non i cattivi e colpevoli!… ». Sapienti risposte fatte con argomenti convincenti le potei ricava­re dagli scritti apparsi su «Gioventù Nova », dalle Pastorali di molti Vescovi e dal buon senso pratico. I calunniatori si eclissano una volta per sempre. Rifiorisce la vita religiosa; il ballo in questo tempo è sterilizzato e stroncato radical­mente; la bestemmia è meno frequente; da tutti con devozione e con trasporto vengono ricevuti i S. Sacramenti. Il termometro spirituale è alto ed invidiabile.

Intanto, fra sospiri, speranze e paure si giunge al 25 luglio 1943: data storica piena di ricordi e peripezie. La caduta di Mussolini è ap­presa con sollievo; gli animi sentendosi liberi dal duro giogo dittato­riale vogliono fare scomparire perfino le minime impronte del fasci­smo, rompendo con gusto ogni stemma.

 Si respira un po’ meglio da tutti. L’annunzio poi dell’armistizio  8settembre 1943 provoca una vera esplosione di gioia. Tutti sono contenti: da tutti si crede la fine della guerra. Si suonano le campane a festa; le vie rigurgitano di una folla allegra, che con canti e con ab­bracci passa gli ultimi momenti del giorno, che muore lasciando dietro di sè impronte di pazza gioia. Ma questa dura poco per la liberazione del grande prigioniero e per la notizia che il duce ha proclamato la Re­pubblica Sociale Italiana, eleggendosi insopprimibile Capo.

1.b)Durante l’occupazione tedesca e il Governo della Repubblica Sociale avvennero su questi monti tra puntate e rastrellamenti sette inaspettate comparse delle truppe nazi – fasciste

1.c)Nei giorni di emergenza per il trapasso dell’occupazione tede­sca a quella degli alleati, non ci siamo neppure accorti del passaggio del fronte.

 

OPERA DEL CLERO

L’opera del Parroco a beneficio:

1) Delle famiglie dei richiamati. Mi interesso con entusiasmo dei miei soldati presso i comandi militari, al Ministero della Guerra; per molti ottengo l’esonero, giorni di licenza e pensioni.

2) Sinistrati. Per i sinistrati mi sono interessato per il risarcimen­to dei danni, compilando loro le domande, corredandole dei documen­ti necessari, il tutto fatto da me gratuitamente. Cosi favoriti anche i danneggiati procurando incartamenti.

3) Sfollati e orfani grazie a Dio non ne ho avuti.

4) Perseguitati non ne ebbi; solo i Comandanti partigiani di Bri­gata e del Comando Unico operato della Provincia di Parma.

5) Funzioni religiose, disposizioni e iniziative varie efficaci ecc. Obbediente all’invito del S. Padre e dell’amatissimo Ordinario invitai sempre la popolazione a stare attaccata alla fede. Furono fatte le S. Missioni, la settimana della purezza e giornate di preghiere. Non man­cai di tuonare contro il malcostume; dalla maggior parte fui diligente­mente ascoltato e seguito.

6) Contributo dato dal Clero a favore dei prigionieri di guerra italiani e stranieri. L’esercito italiano intanto si sfascia; i soldati sbandati passano a gruppi. Sono veneti, bergamaschi, bresciani, piacentini che in nume­ro stragrande vengono assistiti con frutta, pane, formaggio dai parroc­chiani e dal sottoscritto. Molte mamme piangono i loro figli lontani. Qualche giorno seguente incominciano a comparire alte e bionde fi­gure: sono i prigionieri inglesi e slavi evasi dai campi di Fontanellato, Cortemaggiore e di Montalbo Piacentino. Trovano presso tutti cor­diale ospitalità. Molti vengono assistiti presso alcune famiglie della Parrocchia fi­no a un mese prima del passaggio del fronte alleato, aprile 1945.

Ad onor del vero tutto il paese di Mariano Valmozzola, data la sua topografica posizione, favorevole ai prigionieri di guerra, perché lon­tano dai centri, merita un elogio riservatissimo, degno di memoria e di gratitudine. Anche la Casa – Canonica fu sempre aperta a tutti. Per i prigionieri inglesi feci di tutto, li ricevetti in casa, diedi loro del da­naro, da mangiare, da dormire, libri per leggere, indicai loro le strade, itinerari, li assistetti spiritualmente e moralmente confessandoli e comunicandoli.

Circa i Reduci. – Li ho radunati in canonica dopo avere svolta una funzione di ringraziamento per la scampata morte dei Campi di Ma­thausen e di Dachau o presso civili; parlai loro del dovere di ricostru­zione come cittadini italiani e Cattolici; li incoraggiai di costituire il fronte della Gioventù, di lavorare con fede e con alacrità per il trino­mio Dio – Patria – Famiglia. Tenni appositamente per loro una festicciola.

Internati. – Molti parrocchiani trepidano per la sorte dolorosa toc­cata ai propri figli; essi sono stati catturati dai tedeschi e condotti in Germania. Si fanno affannose ricerche dirette alla Segreteria di Stato di S. S. ed alla Croce Rossa non solo per i prigionieri, ma ancora per gli Emigrati delle Americhe, dell’Inghilterra e della Francia. Le rispo­ste sono abbastanza celeri e degna di ogni superiore encomio è la Se­greteria di Stato di Sua Santità Pio XII felicemente regnante. Ho escogitato ogni tentativo per i due prigionieri in Russia, ma di definitivo non si sa ancora nulla. Scrissi al Cappellano Capo Don Arrigo Pintonello presso Comando 8a armata P. M. 170, al Padre Claudio Enrico Bianchini C. S. I. 8° Reggimento. Alpina Battaglione «Tolmezzo »(1).

7) Ho sempre messo in maggior luce l’opera del S. Padre facen­do vedere come tante volte calmò i cuori in tempesta.

(1) Al Ministro Interni Ufficio notizie alle famiglie dei militari alle armi. Roma, ma invano. Il tutto fu sempre fatto da me gratuitamente. Continuo ancora le ricerche per i due prigionieri in Russia. Arrivassi a consolare i cuori di due famiglie addolorate!…

8) Partecipazione alla lotta partigiana. – Da tutti si spera la ces­sazione completa o la resa incondizionata da parte dei Governanti. Pio XII parla a tutto il mondo, ma gli uomini di Stato e d’armi sono troppo egoisti e cattivi. e non praticano le parole di verità, di giustizia e di pace del Dolce Cristo in terra.

Il Natale 1943 oltre averci portato il discorso pontificio, conforto e sollievo dell’universalità credente, ci arrecò un’inaspettata sorpresa. Quello che si sentiva decantare con meraviglia ed incredulità di molti del suo croato, diviene realtà anche presso di noi. Quegli uomini ar­mati di rivoltelle, schioppi da caccia, con la barba fitta lunga e nera da assomigliare figure primitive cavernose, vestiti alla bella meglio, coi capelli lunghi sono i «banditi », i «ribelli », i «fuori legge », i no­stri «partigiani o patrioti », sono i figli della città e delle nostre mon­tagne, che stanchi di combattere con il secolare nemico si sono rifu­giati ai monti per avere salva la vita. La popolazione dapprima è presa da paura, poi subentra nell’ani­mo di tutti la simpatia. Sono cuori d’italiani che vibrano sprazzi di patriottismo. Si incomincia a parlare con loro e si viene a sapere il luo­go del loro accampamento. Una misera capanna sperduta sui monti aperta a tutti i venti, ecco la loro casa. Di questo segreto se ne parla tra amici, ma con molta prudenza. L’occasione di conoscere il tenente dei partigiani mi si presenta facilmente. Mi recavo da un’ammalata quando durante la strada fui fermato per un’informazione da un uo­mo sulla quarantina, sagoma snella, sanguigna. Chi era? Mario Betti, colui che resterà famoso per aver assalito in capo a pochi uomini arma­ti ardimentosi ed audaci il treno – passeggeri a Valmozzola.

Il tenente carrista addestrato alle fatiche ed ai ghibli dell’ Africa sa ora coraggiosamente affrontare i sacrifici indispensabili della mon­tagna. Dopo alcune risposte lo congedo salutandolo. La conoscenza e l’amicizia ormai è iniziata. A questo tempo hanno inizio le Puntate.

 Siamo il 13 febbraio 1944: bellissima giornata. I fedeli ritornano a casa da Messa, quando alzando lo sguardo alla montagna dominante vedo con meraviglia una moltitudine di persone che discendono in fi­la indiana il monte e percorrono il sentiero che conduce in paese. «Sono partigiani! », dice l’uno. «Vi sono borghesi ed una don­na », risponde l’altro. «Sì, sono partigiani armati », replica un terzo. «Ebbene attendiamo e vedremo chi sono! ».

Il crocchio attende ansioso la colonna in marcia. Non l’avesse mai fatto! Quale inaspettata sorpresa vedersi davanti tedeschi e repubbli­cani. Costoro, dopo aver incendiato la casa dei partigiani, catturata la padrona, percossi e maltrattati civili anziani, legati alcuni partigiani presi a tradimento che erano di guardia, discesero dal monte Pianelleto convinti di prendere in trappola a Mariano il restante del distac­camento partigiano, ma si sbagliarono di grosso, perché i patrioti era­no andati ad assalire il nuovo Segretario Politico di Valmozzola che doveva fare in quel giorno la sua prima comparsa. Si sa che non do­veva essere tanto gradito e desiderabile vedersi trattato in quel modo. Puntato il mitra allo stomaco si gridava forsennatamente dalla truppa rastrellatrice: «Fuori i documenti! in alto le mani! ».

Furono frugati tutti i presenti, trovati in regola, furono tutti la­sciati liberi. Qualche casa fu visitata, ma nulla di nuovo. Anche il sot­toscritto in quest’occasione ebbe visita. Dopo aver appena rotto il digiuno domenicale, mi ero messo al ta­volino per scrivere alcune lettere di certa importanza, approfittando della presenza del portalettere, quando il mio garzone mi venne ad av­vertire che vi erano i fascisti.  Non mi mossi, in breve mi vidi entrare in canonica, dopo essere stata tutta circondata, tre tedeschi, il cui tenente mi saluta con la sini­stra, mentre la destra che stringe una grossa rivoltella, mi punta l’ar­ma allo stomaco e mi domanda in un cattivo italiano «Trat-to-ria! ». Mi alzo e indico la strada della trattoria. Anche qui un’altra revisione degli accertamenti. Mio fratello riformato della classe del 1914 fu lasciato libero, mentre un certo De Felice Vitalino di Sparanise soldato fuggito dopo 1’8 settembre, venne fermato. Se ne servirono per farsi indicare varie strade; dopo un’ora fu rilasciato.

Il maresciallo tedesco percuotendomi affabilmente alle spalle disse: «Fortunato voi, Reverendo. Sappiate che un vostro collega è stato sva­ligiato dai partigiani ». La prima che sentivo. . Un soldato tedesco avrebbe attaccato discorso, ma un ordine serio del comandante capo stroncò ogni conversazione; solo fece in tempo a dirmi: «Memento, Patre, in orationibus vestris ». Il Betti vistosi rovinata la casa del primo mito partigiano decide il marzo 1944 di discendere il monte, si stanzia coi superstiti presso l’osteria del paese, ove è instancabile giorno e notte alla ricerca di aiu­ti e d’armi per la sua squadra composta di spezzini che s’ingrossa di giorno in giorno.

Dal periodo 2 – 12 Marzo 1944 parecchi assalti vengono fatti ad alcune famiglie di Valmozzola. Il guaio incomincia anche per il paese, il quale deve assistere in tutto la squadra arrivata dappoco. Per qualun­que necessità il tenente Betti è alla canonica, dalla quale partono quo­tidianamente sacchi di pane – pasta – riso. Volle, pochi giorni prima del famoso attacco al treno, medicinali – cartucce – cannocchiali. La cassetta farmaceutica serve a medicare parecchi feriti sia partigiani che militi.

Il giorno marzo la prima visita viene fatta dal Betti al M. S.. Il capo partigiano aveva deciso di bruciare il palazzo, quando il figlio del Sozzi venne a raccomandarsi vivamente. Mi interposi presso il Betti, perorai la causa del Sozzi, che ebbe salva la casa dall’incendio per mia speciale raccomandazione. Per ora nessuna ricompensa.

Il marzo altro assalto in Municipio ove fu asportato: articoli di cancelleria, fucili da caccia, rivoltelle e munizioni.

Alle prime ore del 12 marzo 1944 il Betti s’impadronisce della Co­operativa prendendovi farina, riso, zucchero, sigarette. Alle ore 1l del 12 marzo è in stazione Valmozzola la sua energica volontà è di libera­re (dopo aver fermato il treno) i tre partigiani presi la sera innanzi. Infatti si slancia come un leone con i suoi uomini per il fermo della locomotiva, si apre il fuoco d’ambo le parti. Dopo una nutrita e san­guinosa sparatoria la milizia si arrende lasciando sul treno cinque mor­ti e numerosi feriti e 22 prigionieri tra cui due tedeschi. Dopo questo attacco il Betti non si vide più. Alcuni, lo vogliono ucciso sul treno, altri lo vorrebbero vivente. Di sicuro non si sa e regna tuttora il mi­stero. I due prigionieri stranieri che dovevano essere uccisi immedia­tamente in paese, Mariano, non furono grati al loro salvatore, perché due giorni dopo la loro liberazione (anche questa avvenuta per mio interessamento) vennero in canonica non per ringraziarmi, ma per con­dannarmi con calunnie che furono da me controbattute. Bella ricono­scenza! È proprio vero che il lavar la schiena all’asino si prendono calci .

L’azione al treno e la fucilazione di sette militi in un bosco di una parrocchia limitrofa portò a maggior vendetta di sangue da parte dei rivali ed una spaventosa e dannosa puntata sul paese di Mariano. Uni­ca mira teutonica era il distruggere totalmente il nido partigiano or­mai individuato e di bruciare tutto il paese se non avessero trovati i due tedeschi prigionieri. Il Signore vegliava su di noi. I partigiani scapparono col favore della notte senza attaccare il nemico incalzante, cosicché il paese fu la­sciato in balia della burrasca che si faceva sempre più nera di ora in ora e i due tedeschi furono rilasciati con tutti gli onori nella desidera­ta libertà. I partigiani compirono un vero gesto cavalleresco.

Di ritorno dal treno ore 16 del 12 marzo 1944. Chi può immagina­re i momenti angosciosi provati dal mio cuore in questa giornata; non li può descrivere se non colui che li ha passati. Il numero considerevo­le di prigionieri fu gettato in un campo del paese lontano dalla Chiesa Parrocchiale un 300 metri. Si parlava di sommaria esecuzione. Man­dai allora una persona di fiducia e molto prudente al neo – tenente dei partigiani, affinché rispettasse i prigionieri. Fu trovato molto agitato e diede risposte incerte. Tuttavia in paese non venne nessuna uccisio­ne, ma era sicuramente candidato alla rappresaglia. Che colpa si dove­va attribuire al paese, se vi erano i partigiani? Mariano più che colpe­vole, era infelice e disgraziato!…

Infatti alle ore della mattinata del 13 marzo 1944 i puntatori sono alla canonica. Sono ancora a letto ma confesso che per tutta la notte non chiusi occhio. Si battono duri colpi col calcio del fucile all’uscio di casa, mi vesto alla meglio, apro la finestra e dico loro: «Ab­biate pazienza, ancora 5 minuti! ». I maleducati ripetono ancora i col­pi e raucamente gridano: «Polizia tedesca! ». Discendo in un attimo le scale, apro l’uscio ed entrano in casa cinque ufficiali. Fui interrogato circa il numero, le armi dei partigiani; diedi loro risposte prudenti. L’interprete allora mi disse: «Meno male! Il primo che ha detto la verità! Stia a casa, tra poco dovrà passare una seconda pattuglia: dica ad essa che noi abbiamo proseguito il cammino! » «Va bene, farò quan­to mi dice ». Condussi fuori i mattinieri visitatori e sentii salutarmi da tre giovani miei parrocchiani; perorai la loro causa presso un te­nente italiano, che mi assicurò la :libertà solamente dopo essere stati interrogati a Varsi (Parma). Mi tranquillizzai, ma m’accorsi ben presto d’essere stato giuocato, perché i giovani, invece di ritornare in paese, furono gettati nelle car­ceri militari di Cittadel1a (Parma).

Il 14 marzo 1944 un’altra visita in paese e breve permanenza in canonica. Fui interrogato anche questa volta; la conversazione si sa­rebbe protratta se raffiche di mitragliatrice non l’avessero stroncata. Alcuni soldati germanici avevano sparato a giovani fuggiaschi sui mon­ti; per quel giorno non fui più disturbato.

Il 15 marzo 1944. Visita dolorosa. La pattuglia del giorno prece­dente si presenta di nuovo alla canonica con due personaggi in più. Il capo tedesco mi domanda se li conoscessi; io rispondo di no. Allora la belva interroga i due prigionieri tedeschi (salvati da me dalla morte) ed anch’essi rispondono di non avermi mai visto. Ordina quindi di circondare Chiesa e canonica ed inizia così una minuziosissima perqui­sizione: in canonica, in Chiesa, in Sagrestia, sulla volta della Chiesa, sul Campanile. Osservarono scritti, immagini, medaglie, fotografie personali e fa­miliari. Un drappo rosso fu ritenuto segnale per i partigiani e per i socialisti (questo drappo l’avevo preso in occasione della S. Visita pastorale nel 1941); semenza di barbabietole fu creduta cosa perico­losa, si dovette ricorrere all’interprete per avere schiarimenti, una giubba di mio fratello da tempo abbandonata nella vigna del Benefi­cio P. ed intrisa di sangue, fu creduta come indumento partigiano e ci volle del bello e del buono per cavarcela. I paramenti della Chiesa e la biancheria, i confessionali e tutte le statue furono fatti passare co­me il riso. Vedendomi così trattato chiesi all’aguzzino tedesco il moti­vo di questa rabbinica perquisizione; questi arrogantemente rispose:

«Tu sei persona molto sospetta per le armi, per i banditi e per gli in­glesi! ». Tre quindi furono i capi d’accusa per cui mamma, fratello ed il sottoscritto fummo arrestati per quattro ore. Si vede che la spia di stazione Valmozzola non avrà colpito bene, perché, dopo avere osservato tutto, i signori tedeschi non trovarono nulla, non perché avessi nascosta la roba nei rifugi che non esistevano ancora, ma perché ero stato accusato falsamente. Il tenente tedesco gongolò di gioia quando scoprì su un notes di vecchia data (1937 – 38) alcuni nomi scritti in inglese. Erano indirizzi di alcuni parrocchiani che si trovavano nelle Americhe, a cui avevo scritto raccomandandomi alla loro cooperazione nell’erigere le 20 co­lonne della Chiesa. Mi difesi da queste e da tante altre accuse infon­date. Vista la nostra innocenza, ci tolsero l’arresto, ma mi condanna­rono a non potere più uscire dal Comune. L’ordine luciferino non fu ascoltato da me, poiché dovetti andare per ragioni di ministero pochi giorni dopo fuori dal Vicariato. L’allegro vociare dei bambini degli altri giorni quando ritornavano dalla scuola per venire al Catechismo non fu sentito; ebbi occasione di esporre il capo fuori di casa e vidi tutti bambini del Catechismo ra­strellati e custoditi gelosamente sul sagrato da alcune guardie. Molti piangevano dalla fame; molte mamme non potevano avvicinarsi, ché erano con forza ricacciate indietro dalla soldataglia. I quindici razzia­tori dopo avermi svaligiato totalmente quello che c’era di buono nella cantina (tutto il salame e il vino in bottiglie) ubriachi se ne andarono per il paese a spogliare altre famiglie. Così passò la tragedia, ma mi sentivo moralmente stanco.      . In questo frattempo la compagnia «Betti» dà un assalto all’am­masso grano di Valmozzola. Il grano preso viene distribuito ai più bisognosi della vallata. Quest’azione piacque poco ai nemici, i quali so­no disposti ad un’altra puntata sul paese di Mariano. Non manca il giorno.

Il 30 aprile 1944 consacrato alla Patrona d’Italia S. Caterina ci porta una sgraditissima sorpresa. Anche questa volta siamo trovati a letto dalla truppa rastrellatrice proveniente da Pisa con sei camioncini, mitragliatrici, bombe a ma­no incendiarie. Passano in tutte le case, tutti gli uomini sono rastrel­lati e condotti in una sola località. Pure questa volta vengono a disturbare il Parroco, anche questa volta perquisiscono minuziosamente la canonica, Chiesa, Sagrestia. Un sergente tedesco dopo aver guardato la biancheria pulita della Chiesa mi disse soddisfatto: «Biancheria bella come quella di San Pietro a Roma ». «Perché, voi avete visto S. Pietro?» «Sì », risponde l’ospite. Uscito dalla Chiesa riferì tutto al tenente, il quale mi proibì di suona­re le campane. Celebrai la prima S. Messa alle 8 come il solito; la chiesa era deserta.

Tutti gli uomini, compreso mio fratello riformato con le carte in re­gola, furono condotti alla Villa – Castello, ove furono messi al muro con le armi puntate; interrogati singolarmente circa i partigiani, furo­no rilasciati solo dopo 4 ore di dolore e di martirio. Momento tragico. Un giovane di 16 anni fu messo al muro, dopo minacciose interroga­zioni fu rilasciato libero. Vedendosi condannato fra pochi istanti alla morte s’impressionò e incominciò ad impallidire ed a tremare. I vi­gliacchi allora con riso beffardo lo lasciarono libero! l’avevano giuocato, ma due giorni dopo il giovanetto si mise a letto ammalato se­riamente. Anch’io corsi grave pericolo d’essere fucilato. Prima di celebrare, due loschi soldati m’obbligarono di portare la mitraglia e le munizio­ni fino al Cimitero; mi rifiutai; allora uno dei due (diavolo in carne ed ossa) si mise a bestemmiare orrendamente in italiano. Lo calmai; mi puntò la rivoltella allo stomaco; sarei stato fucilato se non avessi obbedito al diabolico ed irreversibile ordine. Tutto il paese in questa puntata fu nuovamente danneggiato. Fu una vera razzia di soldi, ve­stiti, scarpe, cibi.

Molti corsero pericolo d’essere mitragliati, ma il Signore ha veglia­to sugli innocenti. Col mese di maggio terminava la proroga che il governo repubbli­chino aveva fissato agli sbandati dell’esercito per presentarsi alla Re­pubblica Sociale Italiana. Allo spirare di essa la clemenza del Duce sarebbe diventata dolorosa applicazione della giustizia fascista. Tale disposizione finì per fare ingrossare le file dei partigiani che ormai so­no padroni della catena del Barigazzo.

13 maggio 1944. – Tre dei miei giovani presi dai nazifascisti al 13 marzo 1944 riuscirono a scappare da una casa bombardata e raggiun­gere il paese natio. Alle 3 di notte vennero alla Chiesa per soddisfare al precetto Pasquale e ringraziare il Signore della grazia ricevuta.

25 maggio 1944. – Sono a Branzone per l’ufficio di Campagna, quando mi vedo arrivare un invito del comandante di Brigata « Giorgio » che desidera la mia presenza sul Barigazzo. Obbedisco. Saluto i colleghi funzionanti e mi incammino verso la meta fissata.

Giunto alle falde del Monte Barigazzo una pattuglia partigiana mi condusse dal vice – comandante Pablo che mi ricevette con squisitezza. «Si tratta, Reverendo, di seppellire un nostro valoroso giovane! ». Con un fischio si radunarono attorno al loro comandante, indi si iniziò la mesta cerimonia di sepoltura. Mentre la salma del partigiano Eugenio Bellugi di Grotta Salso­maggiore calava nella fossa preparata con passione dai compagni d’ar­mi raffiche di mitraglia salutarono per l’ultima volta l’eroico soldato. A funzione terminata Pablo mi chiese modalità e informazione per il prossimo trasporto del caduto, lo soddisfeci; cercò di pagarmi il di­sturbo (avevo fatto 20 Km. a piedi quasi digiuno), non volli nulla. Mi costrinse ad accettare un’offerta per i poveri della parrocchia, che accettai e volentieri la distribuii subitamente.

Numerosi allarmi vengono a disturbare la quiete dei nostri monti. Per fortuna parecchi sono allarmi falsi; finché si arriva al giugno: la situazione è oscura. A luglio il temporale sta per scoppiare fragorosa­mente: insistente è la voce di un prossimo grande rastrellamento e la voce diviene penosissima realtà. Il 9 luglio battono i mortai nella valle del Ceno; il 13 luglio nella Val Taro. È una settimana d’inferno: i cannoncini fanno sentire la lo­ro persistente voce. Da tutti si teme; si ingrossano le dicerie, i fatti si rendono oscuri.

La catena dei monti di Berceto lascia salire per parecchi giorni fu­mo: sono vari paesetti in fiamme. Giorni di isolati movimenti sono il 19 – 20 luglio 1944 nella valle di Valmozzola. Una nutrita raffica è l’indizio che i rastrellamenti sono ormai giun­ti in paese. Anche parecchie cannonate caddero in paese per fortuna senza arrecare danno. La mia popolazione è spaventatissima, cerco di calmarla. Gli uomini fuggono alla ricerca di un sicuro rifugio. Arriva­no pertanto notizie nere di sacerdoti massacrati, di moltissimi cattu­rati e portati via dai tedeschi. Una mia parrocchiana piangendo mi pregava di scappare e nascondermi; non volevo: ero posto in un bivio tormentoso. Come avrebbero trattato la canonica e la mia mamma? Cosa avrebbero fatto alle donne, ai vecchi e ai bambini, che ormai era­no avvolti nella bufera? E se m’avessero preso, che mi sarebbe acca­duto? La preghiera insistente dei parrocchiani e della mamma di fug­gire, mi costrinse a rifugiarmi insieme ai miei uomini in tana. M’accor­go di appagare un grande desiderio, vedo sul volto di molti segni di soddisfazione; scelgo la fuga verso il nascondiglio preparato, che ri­chiedeva non piccoli sacrifici.

Si poteva a stento stare seduti. Le diverse schioppettate di Tampun alle capre pascolanti, la mitraglia che cantava una dolente nota con la bocca rivolta ai monti, dove nascosti, vagolanti e fuggenti erano centinaia di persone, il pensiero tormentoso di avere qualche ferito o morto in paese, mi disposero ad invocare particolarmente S. Giovan­ni Bosco e i Santi del giorno S. Girolamo Emiliani e S. Vincenzo de’ Paoli. Fui esaudito. Passato il duro rastrellamento, uscimmo dalle no­stre tane, ma a stento si poteva camminare. La vista aveva sofferto enormemente e le gambe non reggevano più; si era egualmente conten­ti, perché si era salvata la vita. Grazie a Dio non si ebbero danni molto gravi, però le solite rapine e i maltrattamenti incivili sono all’ordine del giorno. I santi invocati da me, mi escaudirono perché il paese non vi rimasero né morti, né feriti, né catturati, né ostaggi né incendi.

Il 29 luglio 1944 sono chiamato d’urgenza da una compagnia di partigiani sulla Tagliata. I miei colleghi presi nei giorni tristi del ra­strellamento sono tuttora lontani dalla loro Parrocchia. Ho un momento d’esitazione, ma dopo avere sentito il loro raccon­to mesto, diedi loro la mia parola d’onore. Mi presentai al posto indi­cato, con sorpresa potei controllare l’uccisione del giovane partigiano Renato Dessalles, figlio dell’avvocato milanese Carlo Dessalles d’ Epinoise. Con alcuni miei fedeli composi la cassa e dopo le preghiere li­turgiche d’occasione fu seppellito con tutti gli onori. Apparteneva al­la 31ª Brigata «Garibaldi» Distaccamento «Betti ».

Il 15 agosto 1944. – Altra improvvisa chiamata. Anche questa vol­ta sono due della Brigata «Garibaldi» del Distaccamento «Betti»che reclamano la mia presenza sulla Tagliata. Il giovanotto diciotten­ne Lorenzo Biondini di Ermenegildo di Viarolo di Trecasali (Parma) è rimasto ucciso da arma mortale. Mi interessai per la cassa che fu fat­ta in legno di castagno e per il trasporto nel piccolo Cimitero, che av­venne il 17 agosto 1944 dopo un ufficio funebre fatto con la presenza dell’intero distaccamento. Mantenni per una settimana i quattro pa­renti del defunto partigiano; il tutto fu fatto gratuitamente. Ora do­po tanti interessamenti per i familiari del Biondini fu trasportato cir­ca il 6 dicembre 1945 nel Cimitero di Viarolo di Trecasali (Parma). Apparteneva alla 31ª Brigata «Garibaldi» Distaccamento «Betti».

Il 26 agosto 1944. – Un avviso di urgente necessità mi proviene dal Generale dei partigiani Pablo che in questo frattempo si trovava in una piccola località X. Stavo confessando. Era giorno di sabato vi­gilia della sagra in un paese limitrofo. Il biglietto era portato da un partigiano a cavallo. Lessi lo scritto del Generale Pablo ed intuii di che si trattava. Invitato a cavalcare il cavallo, vi salii e via di corsa al posto destinato.  Arrivato con mia grande sorpresa mi trovai davanti ad una schie­ra di giovani che dovevano essere severamente puniti. Il comandante stesso (il nobile Giacomo di Crollalanza) lesse i capi d’accusa ad ogni singolo colpevole; ad uno lesse la sentenza di morte emanata dal Tribunale militare dei partigiani. Supplicai allora insistentemente Pablo ad avere pietà e misericor­dia, di togliere al giovane la fucilazione ed infliggergli altri castighi ma non fui ascoltato. La sentenza capitale del partigiano Lupo era ir­removibile. Mi misi con animo a confessarlo e a prepararlo con tran­quillità al passo tremendo della morte. Gli raccomandai di ricordarsi nell’altra vita dei suoi cari genitori e del sottoscritto. Pareva rassegnato! Dopo alcuni istanti un colpo di rivoltella alla nuca lo rendeva esanime.

Lo raccomandai al Signore, provvidi per il trasporto nel Cimitero di V…, diedi ai pochi presenti rimasti alcuni ordini, indi fui di ri­torno alla Parrocchia. Erano già le undici di sera; la mamma pensava malamente del suo figlio Sacerdote e si rasserenò solo quando mi vide apparire. Per quella sera e per tutta la notte non chiusi occhio. L’im­pressione avuta nel veder uccidere una persona, mi rimase addosso per un anno ed ora quando sento colpi di rivoltella o quando devo passare in quel luogo doloroso, non mi dimentico di ricordare al Si­gnore il mio assistito.  In questo frattempo fui fatto segno di encomio speciale da parte dei capi partigiani. Uno di loro il prof. Mauri mi presentò al colonnel­lo Ottavio dicendo: «Questo sacerdote è dei nostri! È stato finora il prete più disturbato della montagna!» Elogiato risposi: «Quello che feci l’ho fatto per il Signore! » Questa zona ritenuta «nido parti­giano» di tanto in tanto viene disturbata dalle forze armate tedesche. Il Signore sempre ci protesse. I partigiani furono sempre prudenti a non attaccare; subodorato il pericolo essi fuggivano lasciando il paese nell’ansia più temibile. La squadra tedesca, che all’entrare in paese era quasi sempre feroce e crudele, bene ricevuta ed ospitata dalla popolazione si ammansava ma lasciava quasi sempre tracce del, suo vandali­smo.

Di tanto in tanto i patrioti vanno e vengono. I valorosi giovani ritornano dai duri attacchi del Manubiola, dalla Strada provinciale che tennero liberata per qualche mese. Si sono fatti molto onore. È la squadra partigiana Borgotarese la lª Brigata «Julia» Distaccam­ento Piscina comandata dal tenente Ras e il comando della Brigata col capo Dragotte, che si stanzia in diverse case del paese. Sento do­po qualche giorno che un partigiano è rimasto ferito accidentalmen­te, vado a vederlo, è consolato; quella giornata stessa visito anche Ras che è a letto con febbre procurata dagli strapazzi. Stringo amici­zia con i nuovi ospiti.

Da tutti sono visti con simpatia ed aiutati. Generoso è stato il popolo nel dare indumenti di lana con recapito alla canonica. Seguono parole di ringraziamento per la preziosa raccolta da par­te del tenente Ras. Tengo sul tavolino di studio la fotografia e la let­tera piena di espressioni cordiali e gentili di ringraziamento del par­tigiano Rita ucciso sul Santa Donna nell’ultimo rastrellamento del gennaio 1945. La morte del caro giovane che amavo come un fratello, bravissimo nell’accompagnare coll’Harmonium le sacre funzioni, mi procurò non poco dolore. Lo ricordai al Signore con un ufficio fu­nebre con la numerosa presenza di amici napoletani. Continuo anche ora la relazione epistolare con i suoi familiari, basata sulla rassegna­zione cristiana, sulla fede e sulla stabile speranza di poterlo vedere e riabbracciare in Paradiso.

Da qualche giorno il comando unico operativo dei partigiani ha abbandonato questi alpestri luoghi per portarsi più da vicino alle truppe alleate. La scelta è più comoda, ma è più pericolosa per gli agguati. Infatti dopo una settimana arrivano in paese voci oscure sulla sorte toccata al comando unico: il generale Pablo e il Contino Picedi di Arcola di Sarzana sono rimasti uccisi a Corniglio del Bosco. I tedeschi guidati da un uomo col favore della nebbia fitta e densa riuscirono a circondare la casa, che ospitava i superiori dei partigiani e procurarono non lieve perdita. La ferale notizia giunse anche a Ma­riano con tutti i suoi minimi particolari; gli animi furono tutti scossi.

Il 23 ottobre 1944 popolazione e partigiani del distaccamento «Piscina» col bravo comandante Ras parteciparono alla Messa Can­tata da Requiem a suffragio di Pablo. Trasportatasi la lª Brigata «Julia» sulle montagne del Bedoniese, venne ad occupare l’abitazione la 2ª Brigata «Julia» col Distacca­mento «Bazan» e col comandante del Comando – Brigata: maggiore Umberto Milanese. Faccio conoscenza col Cappellano Don Carlo, il quale, con vero spirito di sacrificio: di fede, è l’anima dei suoi solda­ti, incoraggiandoli animandoli, curandoli. I partigiani, venuti dagli attacchi sanguinosi del Montagnana, so­no stracciati e sporchi. Occorre cooperazione. Si fa una seconda rac­colta di indumenti di lana, che consegno al Commissario politico Mino. Dopo qualche giorno mi vedo arrivare una lettera (29 dicembre 1944) piena di ringraziamenti.

Bisognosi in tutto sono per qualunque cosa alla canonica. La ca­sa mezzadrile è data per tre mesi al Distaccamento «Bazan» ed al comando della 2ª «Julia ». Non sto a descrivere l’immenso lavoro e disturbo procurato dai patrioti. La cassetta dei documenti segreti, le macchine da scrivere, le pagnotte di pane riscaldate giornalmente in canonica prima di essere infornate ed altra merce importavano preoc­cupazione, lavoro e paura non poca di essere trovati in fallo, impri­gionati o di aver bruciata la casa. Puntate di cattivo genere si ebbero in questi momenti nelle Par­rocchie vicine che procurarono a noi eccitazione nervosa.

Il lavoro allora per pulire la casa dove alloggiavano i patrioti di­ventava assiduo, finché giunta la voce che i tedeschi se n’erano an­dati calmava i nervi troppo tesi. Questo fatto si avvera assai spesso, per cui il sonno viene stroncato a metà. Si ha per un dato tempo un periodo di tranquillità che viene ben­ presto interrotta dalla voce poco simpatica del rastrellamento che av­viene il 6 – 10 Gennaio 1945. Le tane in questa occasione sono la nostra salvezza. Moltissime sono le munizioni, le armi che vengono nascoste provvidenzialmente sotto la neve alta. Grande è la paura d’essere scoperti, il Signore vigila.

Passa la burrasca, con qualche lieve danno alle famiglie. Passa­to il pericolo i patrioti ritornano ai loro vecchi luoghi. Facce nuove sono tra noi. È la Missione Americana che attende un lancio attiguo alla Chiesa. Oltre l’interessamento materiale e il de­naro consegnato ai patrioti, assisto i patrioti anche spiritualmente. In­fatti per la Pasqua 1945 confessai i tre distaccamenti «Bazan – Camo­scio – Orso », li visitai dicendo loro parole di fede e di aiuto nel Signo­re. Parecchi elementi Comunisti furono ospitati da me, mangiando e dormendo in canonica senza esigere neppure un centesimo. Un polac­co fu curato  per un mese: lo guarii da una lunga ferita ad una gamba, riconoscentissimo scrive sovente ringraziando. Ebbi occasione di co­noscere anche russi partigiani che mi portavano un’affezione speciale: tutte le domeniche venivano alla S. Messa. Trattai in ultimo affabil­mente anche i prigionieri tedeschi che rasserenandosi al vedermi con loro cortese mi dicevano tutte le loro cose… Fu provvidenziale l’ucci­sione del maggiore tedesco avvenuta a Tiedoli per opera di soldati germanici. Costui aveva l’intenzione di radere al suolo Mariano, ma i suoi soldati, stanchi d’ogni vendetta e d’ogni rappresaglia e più ancora del cammino fatto a piedi per tre giorni, se ne liberarono  con un col­po di mitra mandandolo al Creatore. Negli ultimi giorni del passag­gio del fronte che avvenne tra aprile e maggio fu ospitata gentilmen­te in canonica l’infermeria della «Garibaldi» per una settimana, il tut­to fu fatto gratuitamente. Nessuna vittima fu lagrimata in paese, all’in­fuori di tre giovani soldati prigionieri in Russia e in Germania di cui non si sa nulla di preciso. Ora che è passata molt’acqua sotto il ponte ricordo ancora tutti coloro che vagolanti sulla nostra montagna hanno sacrificato per la Patria ciò che di più caro avevano al mondo. Quanti personaggi non furono avvicinati da me in tutto il tempo del partigianato che durò da noi dal Natale del 1943 fino all’aprile 1945.

Una preghiera per i valorosi rimasti uccisi sul S. Donna, per il te­nente Betti, per Moroni di Cremona detto Farinacci, per Pablo e per Penola Contino d’Arcola. Ai vivi un ricordo e un saluto dalla Patria ri­conoscente e da me. Mi passano tutti davanti alla mia mente: Tullio tenente del distaccamento «Betti» 31ª Brigata «Garibaldi », Renzo e Roda Commissario della 31ª Brigata «Garibaldi» che ho avvicinati in momenti dolorosi. Ras tenente del Distaccamento «Piscina» 1ª Brigata «Julia », Mino, Bazan, Vampa Franco, Oreste, il maggiore Umberto, Aramis, Poppy comandanti della 2ª Brigata «Julia », Libero, Trasibulo, Camoscio, Mantova, il prof. Mauri, avvocato Savani di Par­ma, Orto Prefetto attuale di Parma e Poe prof. della Cattedra univer­sitaria di Genova, Orror Pellizzari, Don Tito, Don Nino, Don Carlo, quest’ultimi carissimi colleghi nel Sacerdozio nelle peripezie e nelle fughe, (però io non fui cappellano dei partigiani) e degni d’ogni stima ed onore sotto ogni riguardo.

Non posso dimenticare gli uomini valorosi del comandante Prati: Peveri, Sidoli e Maccagni ed il patriottico anziano Lorenzi Severino di Pontremoli, di cui allego un suo documento. Allego gli scritti di Bazan, e di Mino 2ª «Julia, l’invito di Pablo della 31ª «Garibaldi» e di Ras 1ª «Julia ». Fui troppo minuzioso nel descrivere, ma i miei autorevoli Superio­ri faranno come le api ricavando ciò che torna utile.

Nutro fiducia che questo mio scritto non sia destinato a suscitare odio e rancore, ma perdono a tutti i colpevoli. Voglia il Signore per i sacrifici provati da tanti italiani dare alla nostra Patria tranquillità e pace.

PARROCCHIA DI VALMOZZOLA

SBUTTONI DON GIUSEPPE (1905 – 1973)

Fu Arciprete e Vicario Foraneo di Gusaliggio di Val Mozzola dal 1932 ai 1948, quando passò alla Parrocchia di Castelnuovo Val Tidone.

1939, settembre 10 – Valmozzola

Lettera di Don Sbuttoni al Cappellano dell’Ospedale Militare di Verona.

1945, febbraio 16 – Pieve

Lettera di Don Sbuttoni al dotto Aldo Sozzi) presidente del C.L.N.

di Valmozzola.

1945, febbraio 18 – Valmozzola

Lettera del Comitato di Liberazione di Valmozzola a quello di Par­ma con la richiesta di allontanamento del partigiano Italo) reo di aver instaurato un regime di prepotenza e di sopraffazione nel paese.

1945, febbraio 18 – Valmozzola

Lettera del Comitato di Liberazione di Valmozzola al Commissa­rio Politico pro/. Pellizzari per lo stesso motivo.

1945, marzo 6 – Valmozzola

Lettera del Comitato di Liberazione di Valmozzola al Capitano Abba per lo stesso motivo.

1945, marzo 13

Lettera di A. P. del Comitato di Liberazione di Parma a Don Sbuttoni in cui si consiglia un’opera di mediazione nei confronti di Italo.

Istruzioni del C. U. O. della Provincia di Parma sulla costituzio­ne del Comitato di Liberazione nel Comune di Valmozzola.

 

  1. d. – Gusoliggio Valmozzola

Relazione di Don Sbuttoni in risposta alla circolare della commis­sione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

1) Breve prospetto della situazione.

Alle ore 14 del 10 giugno 1940 un messo del segretario politico del fascio locale mi porta l’ordine di mettere a disposizione della po­polazione l’apparecchio radio, perché tra breve il Duce avrebbe parla­to al popolo italiano. Una vampata di sdegno mi prese, ma poi annuii, essendomi ben già noto che cosa mi sarebbe valso un rifiuto. Non mancai tuttavia di esprimere anche a parole il mio disappunto per ciò che prevedevo sa­rebbe stato l’argomento del discorso: la guerra. Infatti qualche ora do­po la radio trasmetteva la dichiarazione di guerra di Mussolini agli Al­leati. Il discorso, lo dichiarai subito, mi suonò come una condanna a morte per un numero incalcolabile di italiani. Alcune mamme e spose presenti piangevano. Erano le prime lagrime della guerra.

Cominciarono presto ad arrivare degli sfollati (rifugiatisi presso pa­renti) provenienti da Torino, fatta bersaglio ripetutamente dalle incur­sioni aeree inglesi. Ogni sera all’Ufficio Postale affluiscono cartoline ­precetto di richiamo di soldati. Tutte le famiglie vedono giorno per giorno partire i loro uomini migliori. Siamo nel colmo dei lavori agri­coli. Questi subiscono perciò un dannoso arresto, per cui la:

  1. a) Situazione economica diventa sempre più precaria. Valmozzola, comune dell’ Appennino Parmense povero quant’ altri mai, non vive che dell’intenso e faticoso, benché poco redditizio, lavoro agricolo dei suoi valligiani. Sottratti questi per il servizio militare, non rimangono che donne disorientate, vecchi impotenti e fanciulli ignari.
  2. b)Per colmo d’ironia le autorità civili e politiche che fan tutt’uno, sembrano in gara per far correre ogni momento in municipio, ora per far denuncie (che continueranno poi ad essere richieste a getto conti­nuo), ora per far domande che non sortiranno mai alcun buon esito, ora per far portare offerte e pacchi per i combattenti.

Mancano le strade e il misero servizio di corriera, che va dal Mu­lino Sozzi alla Stazione ferroviaria fa sempre più compassione, finché poco dopo cessa tutto. Si ricorre per il ripristino del servizio alla Prefettura, al Segreta­rio Federale di Parma, al Circolo ferroviario di Bologna, al Ministro delle Comunicazioni a Roma; ma nessun ricorso è preso in considera­zione. La popolazione si lamenta e le autorità se ne infischiano. Allora per ogni necessità si comincia a bussare alla canonica, sia da quei che sono a casa, come dai richiamati. Il Parroco diventa un po’ il segretario di tutti. Non passa giorno che non spedisca lettere su let­tere o di risposta ai richiamati, o ai Comandi per invocare l’invio in licenza di qualcuno, indispensabile per la casa, o, persino, al Ministe­ro della Guerra e al Duce, in cui espone casi pietosi e situazioni spe­ciali reclamanti un trattamento di favore.

Non basta.

A brevi intervalli il Governo, per tener alto il morale del popolo, viene emanando disposizioni per esoneri di particolari categorie di agri­coltori, o per licenze agricole. Per esperire le varie pratiche occorrono sempre montagne di documenti, da richiedersi presso il Municipio, pres­so il comando RR. Cc. di Borgotaro, presso la Prefettura o la Confe­derazione degli agricoltori e l’Ispettorato dell’ Agricoltura di Parma. I numerosi viaggi vengono, in pratica, rimessi al Parroco perché gli interessati non se la vedono di passare in tanti uffici, nei quali esaurireb­bero il loro patrimonio in mance e non riuscirebbero a nulla. Il sotto­scritto va con franchezza e, ordinariamente, viene a capo di quanto chiede, senza tante anticamere! appena si presenta agli sportelli la sua ormai nota sagoma di prete, lo si sbriga subito, per non averlo forse tant’oltre fra i piedi. Cosi per una ventina di miei parrocchiani riesco ad ottenere l’eso­nero agricolo a e riaverli a casa.

 

  1. c)Non debbo tacere che ogni partenza di militare è preceduta dal saluto al Parroco e dalla visita alla Chiesa con l’accostamento ai sacra­menti.

Durante la seconda metà del 1940, tutto il 1941 e 42, ogni fun­zione religiosa per la pace, per i soldati… è frequentatissima. Dopo questo periodo invece vengo a notare una certa diserzione. La guerra si fa troppo lunga. Cominciano a turbinare mille «perché» all’indiriz­zo della Provvidenza, che non dovrebbe permettere tanti disagi, tante stragi, tanti dolori… che colpiscono anche innocenti… Buone risposte a simili lamenti mi vengono suggerite dalla lettura de «La Civiltà Cattolica» che propone ottimi orientamenti in tutte le questioni di attua­lità.

Sopraggiunge frattanto il 25 luglio 1943. La caduta di Mussolini è appresa con vivo senso di sollievo. Finalmente. È una corsa generale per cancellare ogni stemma o ricordo del fa­scismo e a sopprimere ogni effige del dittatore.

1 A)L’annuncio poi dell’armistizio, 1’8 settembre 1943, provoca una vera esplosione di gioia. Lo si prende per la fine della guerra. Ma la gioia dura poco, soppressa, tra l’altro, dalla notizia della liberazione di Mussolini e dall’altra, più fresca ancora, che egli ha proclamato la Repubblica Sociale Italiana e vi si è insediato a capo. Intanto l’esercito si sfascia e i soldati sbandati passano a gruppi O meno numerosi, bisognosi di tuttoLa popolazione si presta in quello che può. La canonica non resta indietro. Passano anche i prigionieri inglesi, pur essi sbandati, per rifugiar­si chi nei boschi, chi presso privati (qualcuno è poi rimasto parecchi mesi fino a 13, presso parrocchiani e vi ha infine anche preso moglie), oppure nel tentativo di passare il fronte. Il mio apparecchio radio è ad ogni ora assediato per rilevare la voce di Londra.

1B) La cosa arriva all’orecchio di uno zelante mio parrocchiano, che si fa in quattro per raccogliere capi di accusa contro di me. Ap­profitterà specialmente dell’occasione in cui, dopo 1’8 settembre, ritor­nati a casa parecchi militari, io li raduno per una funzione religiosa di ringraziamento per la scampata prigionia e li esorto a star attenti a non farsi prendere né dai tedeschi, né dai fascisti. Lo zelante, di cui sopra, vede nella mia esortazione una manovra anti – tedesca e anti – re­pubblicana; inoltre viene a sapere che in canonica si ascolta radio Londra e transitano prigionieri inglesi, e m’accusa al riguardo presso la commissione comunale per il confino. Il podestà, sig. Giovanni Molinari, non accetta l’accusa e il tentativo cade. (È il terzo).

Con 1’8 settembre molti parrocchiani militari vengono fatti prigio­nieri dai tedeschi e non s’hanno più notizie di loro. Incomincia così l’affannosa richiesta di conoscere quale fine abbia­no fatto e si scrive, a mezzo mio, alla Segretaria di Stato di S. S., alla Croce Rossa. Oltre ai prigionieri di cui non si sa nulla, vi sono anche gli emigrati, per questi ci si rivolge anche al Ministero della Cultura Popolare. L’ufficio parrocchiale è sempre aperto per ogni richiesta. Continua­mente partono buste contenenti messaggi di richieste di notizie o di risposta.

Intanto ci si inoltra nell’inverno.

All’affacciarsi del 1944 si ha sentore dei primi movimenti dei così detti «ribelli» o «banditi» o «partigiani ». Sono i nostri «Patrio­ti ». Tutti ne parlano e con simpatia. I fascisti mordono rabbiosamente il freno; più di tutti il nuovo se­gretario politico, sig. Dante Mazzetti. Lo incontrai il l° febbraio 1944 in un mio viaggio di ritorno dalla Stazione. Scambiammo alcune pa­role in tono scherzevole. Ad un certo punto mi venne fatto di accen­nare che, nelle presenti condizioni, c’è da tribolare. «Sta bene, rispose, che abbiate da tribolare voialtri preti, se vo­lete andare in paradiso! » «Ma il paradiso c’è anche per voi », soggiunsi. «Oh io non ci vado », ribatté in tono ironico e riprese la strada.

Egli era stato alla sede del fascio a prendere le consegne e proba­bilmente era stato informato, da quel certo zelante, sul conto mio e for­se gli era già entrato in animo di farmi tribolare. Il fatto si è che sul mezzogiorno dell’8 febbraio entra in canonica una pattuglia di quattro agenti della Questura di Parma e sorprendono mia sorella, che regge­va i piatti che dovevano servirci per il desinare. Glieli afferrano e li contano e chiedono quanti siamo in casa. «In due », si risponde. Intanto mi permetto di chiedere il perché di quella scena. Mi si risponde che, da lettera ben circostanziata perve­nuta alla Questura, risulta che io tengo in casa un ufficiale inglese ex­ prigioniero e ch’essi erano venuti per perquisire la canonica.

Accolsi la notizia con una spontanea risata e mi proffersi di accom­pagnarli a visitare tutti i buchi della canonica e se avessero trovato l’ufficiale inglese, l’avrei loro regalato. I tre si finsero paghi delle mie parole. Uno insistette di voler compiere la visita. Lo volli accompagna­re per tutta la canonica e la chiesa. Non fu trovato nulla di nulla e nes­suno. Dovette così dichiarare di aver fatto inutilmente il lungo e assai disagiato viaggio, a piedi, fin quassù e comunque, rivolti a me, conclusero: «Meglio per voi ». Io accolsi di buon grado la conclusione e li salutai. Volli anzi fare il cortese e li accompagnai alla vicina osteria. Era passato mezzogiorno. Avevo fame e sete.

Rientrando in casa, ripensai alla frase: «Sta bene che abbiate da tribolare voialtri preti, se volete andare in Paradiso… ». L’8 febbraio era martedì. La domenica seguente, 13, corre voce di buon mattino, che duran­te la notte un buon contingente di «patrioti» aveva assalito la casa del Mazzetti, che aveva dichiarato di volersi disfare di tutti i «partigiani» e dei loro simpatizzanti, ed egli con la moglie, per sfuggire al­la cattura, saltò dalla finestra della propria camera, fratturandosi però gambe e costole. Non avendolo potuto prender sano, i partigiani lo la­sciarono, dopo avergli tuttavia svaligiato casa e bottega, in cui, tra l’altro, trovarono casse di bombe a mano, fucili mitragliatori e vari generi di merce destinata al mercato nero.

Non potei trattenermi dall’esclamare: «Il Signore, anche sta vol­ta, pensa Egli a difendere i suoi preti! ». Mazzetti fu trasportato con la moglie all’ospedale di Parma e cosi Valmozzola rimase libera da un vero nemico. Per breve tempo purtrop­po, perché, ristabilito in salute, con tutta probabilità fu lui a provo­care le varie puntate dei nazi – fascisti, che disturbarono tante volte tutto il Comune, specialmente la frazione di Mariano nei mesi di mar­zo e aprile.

In questo periodo ci furono gli assalti dei partigiani al Mulino Soz­zi 1’8 marzo e al Municipio il 9, ma ebbero, si può dire, carattere priva­to. Il 12 diedero l’assalto al treno, facendo vari prigionieri, alcuni dei quali furono fucilati poi in quel di Branzone. Pochi giorni dopo il Bat­taglione «San Marco », per rappresaglia, viene a fucilare in Stazione sei giovani, sorpresi nei boschi del pontremolese e ritenuti partigiani. Il 30 aprile, domenica, una colonna di sette camions carichi di tedeschi armati si spinse fino al Mulino Sozzi, e nei dintorni piazzò cannoncini e mitragliatrici, mentre il grosso delle truppe prosegui per Mariano alla caccia dei partigiani. Alla fine della giornata però tutti si ritiraro­no senza aver catturato nessun partigiano e piuttosto carichi di quanto avevano razziato nelle famiglie di Mariano, Sozzi e Campora. Con il mese di maggio terminava la proroga che il governo repubblicano aveva fissato agli sbandati dell’esercito, per presentarsi alla Re­pubblica Sociale Italiana. Allo spirare di essa la «clemenza del duce»sarebbe diventata rigorosa applicazione della giustizia fascista.

Tale disposizione fini per fare ingrossare sempre più le file di parti­giani, che ormai sono padroni della catena del Barigazzo. Qualche ap­parizione la fanno anche a Gusaliggio, per reclutare nuovi elementi. In questo lavoro trascorre tutto giugno. Intanto però l’atmosfera si fa sempre più buia; arrivano nuovi sfollati, tra cui l’avv. Giuseppe Scaffardi con la famiglia. Il 29 giugno m’arriva, in cerca di salvezza Padre Pier Paolo Monti proveniente dal convento di Fiorenzuola D’arda.  Ai primi di luglio corre insistente la voce di un prossimo grande rastrellamento e la voce diventa presto tremenda realtà, sensibile a tutti, quando si ode il continuo tuonare dei mortai che battono, il 9 luglio, nella Valle Ceno, Vianino, Contile… e nella Val Taro, il 13, Corchia, Bergotto, e, il 15, Lozzola; e si vedono le enormi colonne di fumo che indicano come detti paesi siano in fiamme.

Assistiamo ad un continuo ed angoscioso transitare di profughi. La domenica, il 16 luglio, vado a celebrare la seconda Messa a San Martino. È la sagra, la Madonna del Carmine. Vado anche per una visita al Parroco Don Costantino Cardinali, ammalato da vari mesi ed ora assai aggravato. Sarà l’ultima mia visita. Morirà infatti il 30 luglio, mentre io sarò sotto custodia. In chiesa trovo poche donne con i segni dello spavento in volto. Ogni quarto d’ora giunge notizia dell’approssimarsi dei rastrellatori. È una vera agonia. Sulla sera, mentre ritorno a Gusaliggio, incontro la signora Chimenti, moglie del sotto capostazione, che riferisce che i tedeschi sono in Stazione e che le operazioni di rastrellamento dureranno una setti­mana. Corro, per recare la notizia con i vari dettagli ai parrocchiani. Li trovo in gran numero presso la chiesa. Vi sono anche parecchi par­tigiani, che non sanno che via prendere. Valendomi delle informazioni raccolte, impartisco ordini e istruzioni: «Non si spari assolutamente neppur un colpo, per nessuna ragione… Nascondete le armi. Nascondete voi stessi… Se, per disgrazia dovessero scoprirvi, sia­te disarmati e non in divisa da partigiani ». Evitando gli spari, erano scongiurati gli incendi ai casolari, e non trovando uomini armati, veniva ovviato al pericolo di fucilazioni.

 I giorni più amari.

Si apre ora una serie di giorni penosissimi, caratterizzati dalla mia cattura da parte dei tedeschi, che con me prelevarono altri venti par­rocchiani. Il Signore permise che Padre Pier Paolo sfuggisse miraco­losamente alla cattura, altrimenti la parrocchia sarebbe rimasta priva di ogni assistenza religiosa.

 L’invasione.

Mercoledì, 19 luglio, verso le ore 10,30, vengo avvisato di uno strano movimento di uomini e di quadrupedi lungo la stradale che co­steggia il torrente Mozzola. Sono proprio i tedeschi con il materiale già razziato altrove. Alle 13, 15 invadono anche Pieve di Gusaliggio. Vado loro incontro e la popolazione è con me nell’ accoglierli come ospiti (benché affatto desiderati) e nell’offrire i doni dell’ospitalità. Quattro accettano di venire in canonica. Sono cortesi. M’accorgo presto che due di essi, sotto spoglie teutoniche, sono italiani. Dei due tedeschi uno è cattolico, l’altro luterano. Conversiamo amichevolmente. Ad un certo momento entrano altri quattro tedeschi con porta­mento villano. Sul tavolo vi è un fiasco di vino e uno, senza attendere il bicchiere, se lo applica alla bocca, ma poi lo toglie perché quel vino non gli piace. Scambiano poche parole con i primi venuti e poi escono. I rimasti li definiscono: «Tipi poco simpatici ». Entra a questo punto un italiano (l’autentico tipo del venduto), che si finge tedesco e vuole cinque galline. Va nel pollaio, ne prende due nel nido (stan covando), e altre ne avrebbe rapite, se uno dei tedeschi non glielo avesse proibito.

Finalmente se ne vanno tutti, salutando gentilmente, meno il raz­ziatore di galline. Sono le 15. Minaccia un acquazzone. Mi prendo l’ombrello e corro a Mariano, per vedere cos’è avvenu­to colà. Trovo la mamma e la cognata abbastanza tranquille. Finora non è andato tutto male. Ritorno senza brutti incontri a Pieve. Lun­go il tragitto trovo chi insiste perché mi nasconda onde evitare il pe­ricolo di essere rastrellato. Non mi lascio convincere. Mi pare che per i miei parrocchiani sia un conforto sapermi tra loro negli attuali frangenti di grave pericolo e di pena.

 Prigioniero.

La mattina del venti luglio mi alzo alle sei, ora legale. Alle 6,30 i tedeschi, non più quelli di ieri, ma un’altra batteria di 180 uomini, co­mandata dal tenente Fricke, hanno già invaso la Pieve e stanno rovistan­do ogni casa. Mentre mi avvio verso la chiesa, son richiamato dal campanello della canonica. Un tedesco vuole del latte. Non ne ho; offro vino. Non gli piace e se ne va. Ne entra subito un altro e mi ordina di presentar­mi al comandante. «Ci siamo! » dico tra me. Vado. Il comandante è un uomo di statura alta, con folta chioma, bionda assai burbero. Mi chiede da quanto tempo sono in Parrocchia. Gli ri­spondo. Fa un gesto di disappunto. Poi mi infila un discorso in ostro­goto, di cui non intendo un’acca. Interviene l’interprete, che mi dice che c’è l’ordine di prelevare anche i parroci e perciò io pure debbo andar con loro.

Chiedo se posso celebrare la S. Messa prima di partire. Il coman­dante interrompe bruscamente il mio dire, avvertendomi in tono re­ciso e in un pessimo italiano che mi lascia dieci minuti di tempo, per prendermi una coperta e i viveri per tre giorni, e, scaduti i dieci mi­nuti, se non son pronto… qui riprende a parlare in tedesco e io… ca­pisco… che non c’è tempo da perdere. Corro a svegliare mia sorella, perché mi prepari una valigetta con le provviste; m’infilo gli scarponi, prendo una coperta, saluto, stordi­to, mia sorella, e parto. Il comandante mi chiama. Vuole che io faccia da guida (è la mia fortuna perché così evito di essere caricato di munizioni e di parare le bestie razziate). Mentre mi porto in testa alla colonna, vedo tra i cat­turati i parrocchiani: Sozzi Antonio fu Pio e il di lui mezzadro Rondi Emilio. Ne provo vivo dispiacere. Partiamo compagni di sventura. A noi s’uniscono poi altri: un ferroviere toscano e un borgotarese, cer­to Baudassi, fermati a Castoglio di Branzone. «Eppure », ci diciamo, «nessuno di noi è né partigiano, né renitente alla leva ».

Il corteo, poco simpatico, si snoda. I parrocchiani, che mi vedono custodito da tanti sgherri, mi accompagnano con lo sguardo, mentre dai loro volti traspare dolore, smarrimento, indignazione. Passo davan­ti al cimitero e con indicibile tristezza saluto tante croci affioranti da terra. Proseguo. Ogni tanto il comandante mi chiede informazioni sul­la strada, sui paesi che s’incontrano, sui monti che s’ergono di fronte a noi. Rispondo nel modo più preciso. Non m’è permesso dire neppu­re mezza parola oltre le informazioni domandate, altrimenti il ceffo ir­ragionevole di quel cerbero si fa ancor più scuro e minaccioso. Nei pressi di Castellaro si sosta per mezz’ora; poi ci giunge l’ordi­ne di raggiungere Marsaglia, frazione di Pessola. Bisogna passare tra rovi, cespugli, spineti inestricabili. Quando Dio volle si giunse nel bo­sco di Marsaglia. Proprio qui mi si offre la sorpresa più disgustosa. Mi chiama il comandante. Lo raggiungo. È circondato dal suo sta­to maggiore, con cui gesticola furiosamente all’indirizzo dei sei giovani, ch’io vedevo per la schiena. Sono stati trovati nella boscaglia disar­mati. Mi chiede in tono prepotente e sprezzante se li conosco. Mi permet­to di affermare che se non li veggo in faccia non posso pronunciarmi.

Li fa tutti voltare.

Ne conosco tre. Due sono miei parrocchiani: Boselli Giuseppe e Livornetti Giovanni; l’altro, Feci Angelo, è sfollato da Borgotaro in mia parrocchia. Ora mi tormenta il dubbio: farò bene o male a dire di conoscerli? Essi rilevano la mia ansietà e mi fanno capire che è be­ne ch’io dia prova di conoscerli. Mi pronuncio perciò affermativamente per i tre. Mi si chiede se sono partigiani. Lo nego recisamente. Il comandante s’infuria e urla al mio indirizzo, poi dà l’ordine di proseguire. Veniamo disposti a due a due e passiamo alla parte del bosco dove verrà piantato l’accampamento. Durante il tragitto i presunti partigiani mi confidano di volersi confessare, temendo di finir fu­cilati. Tento in ogni modo di tranquillizzarli.

Innalzate le tende, vien scelto uno spazio sgombro in mezzo all’ac­campamento dove a distanza di due metri l’un dall’altro, vengono po­sti i sei catturati con l’ordine di togliersi le scarpe e la proibizione di parlare con noi. Mentre fervono i lavori d’impianto dell’accampamen­to, con i miei compagni di sventura mangio un boccone. Non tarda a scoppiare un temporale. Veniamo distribuiti uno per tenda, tranne i sospetti partigiani, che si prenderanno tutto l’acquaz­zone. Quando si rischiara, li rivedo fradici e tremanti dal freddo. Mi pregano di ottener loro un riparo. Mi reco in tenda del comandante, ma dorme saporitamente. (A lato gli scorgo un altro vaso di vetro che contiene dello zucchero. Lo riconosco. É stato asportato dall’apparta­mento del sig. Giuseppe Sozzi fu cav. Paolo di Pieve, saccheggiata dai rastrella tori in mattinata).

Non oso svegliarlo. Invito i poverini a pazientare. Quando quel cerbero si sveglia, mi chiama per informazioni sull’itinerario del do­mani. Lo accontento e intanto approfitto per chiedergli di lasciare an­dare al sole quei poveretti e di far anzi accendere il fuoco, perché non abbiano a morire. Per una risposta mi fa segno di tornarmene al mio posto. Di fat­to però, dopo un quarto d’ora, fa eseguire quanto avevo suggerito.

 Sotto la tenda.

Non ero mai stato sotto la tenda, nonostante gli oltre venti mesi di vita militare trascorsi tra il 1920 e 1922. Oggi debbo far conoscen­za anche con la tenda e, per giunta, tedesca. Sul far della sera cominciano a entrare nell’accampamento le pat­tuglie rastrellatrici, recanti, non partigiani o renitenti alla leva, ma lar­ghe provviste di uova, galline, bottiglie, salame, lardo… Nonché un rilevantissimo bottino di buoi, vacche, vitelli, cavalli, asini e muli. Ogni tanto, povere donne piangenti, vengono a supplicare il co­mandante di restituir loro qualche capo di bestiame, ma gli urli con i quali le licenza fan fede dell’irrevocabile rifiuto.

L’accampamento non tarda a diventare un bivacco.

In ogni angolo s’accendono focherelli per friggere le uova; non me­no di otto o dieci a persona, e non come rancio, già distribuito e fatto d’una strana specie di amido di patate e carne, largamente innaffiate con il vino delle bottiglie rapinate. Le uova erano un semplice comple­mento. Tanta profusione però non c’era per i rastrellati (noi eravamo semplici testimoni) e neppure per i soldati italiani aggregati. Per que­sti (me lo confidarono essi) vi erano le fatiche e i lavori più gravosi e le umiliazioni più piccanti.

Venne l’oscurità. I presunti partigiani non furono posti sotto la tenda ma lasciati all’addiaccio; fu: solo permesso loro di buttarsi addos­so un po’ di fieno. Rientrai sotto la tenda. Un tedesco che parlava malissimo l’italia­no, si trattenne con me per chiedermi se i sei uomini presi erano par­tigiani. Lo negai nel modo più reciso. Una simile domanda mi fu ri­volta, durante la notte, un’infinità di volte. La sempre uguale mia risposta nettamente negativa, penso, risparmiò loro la fucilazione. (Se l’essere stato anch’io rastrellato non avesse portato altro effetto, ne sa­rei arci soddisfatto ) . .

Quando furono stanchi di rivolgermi sempre la stessa domanda e di udire immancabilmente sempre la stessa risposta, usci uno a dire: «Popolo italiano non essere popolo intelligente ». « Perché? » chiesi io con una certa vibrazione di voce. «Perché non lavorare. Noi girato tanto e mai trovare uomini in ca­sa. Troviamo solo donne, vecchi, bambini ». Non volli dargli le ovvie spiegazioni. Mi limitai a dirgli che gli uo­mini erano assenti, perché militari e prigionieri o internati in Germania. Parve persuadersi. Più tardi venne una commissione di subalterni mandata dal coman­dante, nuovamente per raccogliere dati sull’itinerario, che tracciai sulla loro carta militare. Finalmente si fece silenzio. Nella mia mente muli­navano tutte le idee più contrarie a farmi prender sonno.

 Di nuovo in marcia.

Il mattino del 21 luglio, appena dileguata l’oscurità, tutto l’accam­pamento riprese vita e con ritmo man mano più febbrile. In breve tutto fu pronto per riprender la marcia. Fui chiamato in testa al gruppo, in mezzo a due marescialli, non del tutto orsi, tuttavia mi tornò spesso in mente l’immagine del Mae­stro divino tra due ladroni. Il comandante partì a capo di una pattu­glia, incaricato di rastrellare tutte le pendici del monte Dosso. Fui con­tento di non vedermelo più accanto. Coi i miei custodi fu possibile conversare. Essi seguirono alla lettera i miei suggerimenti circa la stra­da da percorrere, e così, passando per Roccavarsi, alle 9,30 si giunse alla borgata di Varsi. I sospetti partigiani furono avviati verso la sede del comando tedesco; noi all’albergo Fontana. Sperammo di ristorarci. Ne avremmo avuto effettivo bisogno.

Non trovammo invece che qualche boccale d’acqua. Pensai di man­dare un’ambasciata alla sorella del sig. Arciprete (questo era già sotto custodia dei tedeschi) che prontamente mandò due bottiglie di ottimo vino. Furono la nostra salute. Poco dopo il comando ci interrogò brevemente sulla nostra prove­nienza e sul luogo della nostra cattura. Furono mostrati i documenti di riconoscimento. Il tono insolitamente gentile con cui fummo tratta­ti ci aprì il cuore a buone speranze. Invece poco dopo fummo fatti pas­sare in piazza, dove già stavano schierati, e con le mani legate dietro la schiena, i presunti partigiani, e, dopo aver attraversato il paese, fum­mo fatti scendere in un largo prato, dove pascolavano varie centinaia di capi di bestiame razziati come noi. Ci fu assegnato un ristretto spa­zio, discosto da una decina di metri dai poveretti legati.

Il sole di luglio ci bruciava. Il calore rendeva le bestie quanto mai inquiete. Avevamo il nostro serio impegno ad impedire che esse cal­pestassero e schiacciassero quelli legati. Costoro, poveretti, non avevano ancora rotto il digiuno, erano tor­mentati dalla sete, afflitti dalla legatura troppo stretta ai polsi; ogni tanto invocavano pietà, ma inutilmente. Ricorsero a più riprese a me. Intervenni, ma sempre con esito negativo, riscuotendo anzi ripetute minacce di rappresaglie. All’entrata del campo si presentò un gruppo di donne. Le riconob­bi per mie parrocchiane. Erano mamme, sorelle e spose dei presunti partigiani. Recavano viveri e abiti per i loro cari. Furono respinte nel modo più bestiale. Ritornarono. Ebbero un nuovo rifiuto. Trovarono un’altra entrata. Si videro puntata contro una mitragliatrice. La loro eroica costanza ottenne finalmente che un po’ di cibo giun­gesse ai loro prigionieri, che poterono ristorarsi.

Di nuovo in viaggio.

All’entrata del campo stava pronto un camion. Fummo aiutati a salire. Le mie parrocchiane tentarono di darmi delle valige con abiti e viveri per i legati, ma mi furono violentemente strappate di mano. Buone signore lanciarono susine, che raccolsi, divisi a metà portando­le alla bocca man mano dei legati. Il camion accennò a partire. Il distacco fu di quanto più amaro mi fu dato di provare in vita mia. Nei ritenuti partigiani serpeggiava lugubre il timore della fucila­zione. Tentai in tutti i modi di rassicurarli, che tutt’al più sarebbero stati deportati in Germania e non altro. Ma io stesso credevo poco alle mie parole. Avrebbero desiderato ardentemente di confessarsi, ma era impos­sibile. La sentinella tedesca, che ci sorvegliava, schizzava già fuoco e fiamme contro di me, non solo perché rispondevo a tutti, ma anche perché mi ero prestato a ripulire le labbra e la faccia di due nuovi ra­strellati, che trovammo già sul camion e che dovevano essere stati ben maltrattati, perché facevano sangue dal naso e dalle labbra. Nel con­tempo avevo anche portato alle loro labbra una bottiglia contenente del latte, che si era riusciti a portare con noi, e cosi poterot1o ottenere un po’ di ristoro. (Questi due poi dal ponte di Vianino furono ricon­dotti a Varsi, fucilati, impiccati e per più giorni i loro cadaveri rima­sero esposti al pubblico).

Mentre il camion proseguiva la strada, suggerii, tra i denti, a tutti di fare un generale atto di pentimento e di recitare per bene l’atto di dolore, ché impartirei l’assoluzione in massa, avvertendoli che alla pri­ma propizia occasione facessero la loro completa rituale confessione. Diedi difatti l’assoluzione a tutti. La rabbia dalla sentinella minacciò di esplodere. La sua rivoltella puntò direttamente su di me. «Ormai ho finito!» dissi. «Si, riprese; dire sempre finire e mai avere finito ».

Il mio compito di sacerdote era in realtà esaurito, perciò mi rac­colsi in silenzio, trattenendomi a guardare con una certa indifferenza quella rivoltella ostinatamente puntata al mio petto. Al ponte crollato sul Ceno nei pressi di Vianino ci fece scendere. Come passeremo li fiume? Abbiamo una sentinella davanti e una dietro. Tengono ambedue la rivoltella spianata; ci fanno senz’altro se­gno di entrare in acqua. Non ci resta che ubbidire, senza fiatare, e pas­sare a guado con l’acqua che sorpassa il ginocchio. Gocciolanti raggiun­giamo un vicino fabbricato, una volta osteria, per sostarvi durante la notte, ch’è ormai prossima.

Nella stessa stanza che mi viene assegnata trovo altri due miei par­rocchiani: Boselli Aurelio e Livornetti Alberto, ciascuno dei quali ha il proprio figlio tra quelli legati giunti con me. I due padri sono muti. Statue di dolore. Il Boselli Aurelio, vedendomi entrare interamente bagnato fin ol­tre il ginocchio, mi offre insistentemente un suo paio di calze nuove. Accetto di buon grado; sono la mia salute. Si fa notte. Propongo a tutti i presenti di recitare il Rosario. Tutti accettano, persino un certo maiuscolo bestemmiatore. Tutti recitano il Rosario in modo commovente ed edificante.

Quando stiamo per coricarci sul fieno steso sul pavimento, mi giunge un’altra penosa notizia. È arrivato un altro camion di rastrella­ti. Ognuno di questi, man mano che scende, vien legato per le mani dietro la schiena. Vi riconosco in mezzo i fratelli Giovanni e Giuseppe Dellapina e Silvio e Alberto Bondi, altri miei parrocchiani. Quale schianto al cuore! Non basta. Vengono legati anche alcuni altri, tra coloro presi con me, che fin qui erano giunti sciolti. Così finisce la giornata. Ormai è notte fonda.. La stanchezza è opprimente, ma il disagio morale è tale, che è inu­tile aspettare il sonno. La fantasia galoppa, spaziando nelle regioni più impervie e più nere.

  Verso il confino.

Nelle prime ore del 22 luglio mi vedo raggiungere da Baudassi che mi consegna tutti i suoi valori, perché egli pensa che io potrò ritorna­re, ma lui non spera più. Sozzi Antonio fa lo stesso. Li accontento. Il nodo più amaro mi serra la gola. Appena siamo tutti in piedi, veniamo caricati su due camion già pronti. Si parte. Per dove? Non si sa. Nessuno fiata. Si oltrepassa Vianino, che ha tutte le case bruciate, Serravalle, Varano Melegari. La no­stra meta sarà forse Parma? No. Si svolta per Rubiano. Quivi discen­diamo. Quelli legati sono avviati da una parte, gli sciolti dall’altra. Io vengo fatto scendere dalla scarpata della strada e lasciato in un breve tratto pianeggiante dominato dall’ombra di un noce.

Qui trovo l’Arciprete di Ferriere Don Luigi Molinari, il prevosto di Campello Don Giuseppe Bongiorni, e un seminarista di Caorso di nome Pietro Marchettini, arrivati poco prima da Bardi. Ci abbraccia­mo fraternamente, quali «in passione socii ». Quello è il campo di concentramento di Rubiano. Vi rimaniamo poco. Dopo circa un’ora, veniamo chiamati noi Preti. Saliamo sulla stra­da. Un tedesco ci dice: «Voi adesso andare Cardinale Parma ricevere ordini. Ricordare, non potere ritornare vostre case; altrimenti, se pre­si, ritenere come prigionieri comuni ».

Partiamo per Parma.

Non ci par vero di non sentire più rintronare al nostro orecchio i suoni fastidiosamente gutturali e contorti della parlata tedesca. Non ci par vero di essere ritornati quasi liberi; di non avere più al nostro fian­co le aborrite sentinelle tanto armate. Corriamo verso Fornovo. Siamo in cattivo arnese, sudati e impolverati. La popolazione, gli operai che ci vedono, intuiscono che non sia­mo in una situazione normale e ci interrogano. Noi rispondiamo. Tutti han compassione di noi, ci offrono quel che possono, e imprecano con­tro i rastrellatori, ché almeno i preti dovevano lasciarli stare. È pronto il tram elettrico. Di ferrovia non se ne parla neppure. La situazione di Fornovo e tutta la linea è una distesa enorme e infor­me di rovine causate dai bombardamenti aerei. Alle 13,10 partiamo per Parma, anch’essa martoriata dalle bom­be. S. E. Mons. Colli, vescovo per Parma, ci accoglie paternamente e compiange la nostra situazione. C’invia a Piacenza con un suo bigliet­to del seguente tenore:

«Parma 22 luglio 1944

Il Vescovo di Parma, autorizzato dal Comando delle Forze Ger­maniche di Parma, permette al Reverendo Don Giuseppe Sbuttoni, ap­partenente alla Diocesi di Piacenza, fermato dalle Forze Germaniche nelle operazioni di rastrellamento, di recarsi al Seminario di Piacenza dove rimarrà sotto la responsabilità del proprio Vescovo.

In fede

  1. to– Evasio Colli Vescovo di Parma ».

Con mezzi di fortuna, poiché la ferrovia è in condizioni pietose, la domenica 23 luglio, partiamo per Piacenza, dove rimarremo finché non giunga l’autorizzazione di ripartire. Speriamo che non si faccia at­tendere tanto. Il nostro pensiero corre alle nostre parrocchie e alle nostre famiglie prive di nostre notizie, come noi lo siamo delle loro. L’accogliente ambiente del Pio Ritiro Cerati allevia sensibilmente la nostra stanchezza fisica. La partecipazione alle nostre pene da parte di tutti, specialmente la paterna comprensione di Mons. Vicario Ge­nerale Don Italo Sgorbati, ci commuove e ci conforta oltre ogni dire. Ora siamo contenti di aver dato anche noi un po’ del nostro contribu­to di sofferenze.  Valesse per affrettare il ritorno della pace!

 

Lunedì 24 luglio, ho sostato parecchio anche a causa di continui al­larmi nella basilica di S. Sisto. Ho ammirato le meravigliose pitture specialmente del presbiterio: il martirio di S. Sisto e di S. Lorenzo, la Strage degli Innocenti ecc. Ho riflettuto: la vita della Chiesa è lotta, combattimento, martirio. Non mi meraviglio perciò se io, ministro del­la Chiesa, ho dovuto subire un piccolo saggio di sofferenze. E penso ai Confratelli: Don Giuseppe Beotti arciprete di Sidolo; Don Francesco Delnevo Arciprete di Porcigatone; Padre Umberto Brac­chi della Congregazione della Missione; Don Alessandro Sozzi ultimo curato di Gusaliggio e attualmente prevosto di Strela; e il seminari­sta di Parma Subacchi, che durante il presente rastrellamento, hanno subito la fucilazione per l’unica loro colpa di essere Sacerdoti degni del Nostro Signore Gesù Cristo.

Finalmente liberi.

Verso il mezzogiorno del 10 agosto corre voce che è giunto il per­messo di rimpatrio. Tutti ne esultano: siamo 32 sacerdoti e 8 semi­naristi. Alle 16,30 Mons. Vicario Generale distribuisce le autorizza­zioni a rientrare in Parrocchia, confortandoci con buone parole. Ecco il testo dell’autorizzazione mia:

«Militaerkommandantur 008                    Parma, den 31.7.1944

 Ausxeis

Nach Nebernnuefung del Lage des Pfarrers Sbuttoni Don Giuseppe ist describe berechtigt, in seine Pfarrei Valmozzola zur Ausuebung seines Berufes zurueckzukehren. Er hat sich verpilichtet, sich jeder politishen Taetigkeit zu enthalten.

Oberstleutnant U. – Kommandant. »

 

Traduzione dell’autorizzazione: «Dopo l’esame della situa­zione del Parroco Don Giuseppe Sbuttoni questo è autorizzato di tornare nella sua parrocchia di Valmozzola per esercitare la sua professione. Si è impegnato di astenersi da ogni attività poli­tica ». La mattina del 2 agosto si parte. Con un primo mezzo di fortuna raggiungo Fiorenzuola e finalmente Parma, dove pernotto al Conven­to della SS. Annunziata presso i buoni Frati Minori, che mi ospita­no tanto gentilmente. Alle 6,50 del 3 agosto con il tram elettrico riparto per Fornovo; di qui a piedi mi avvio verso Pieve di Valmozzola. Com’è lunga la strada! com’è faticosa!

Ma la smania di ritornare ai miei monti, di dire a mia mamma, a tutti i miei cari, ai miei parrocchiani, che sono sano e salvo, mette le ali ai miei piedi pur tanto malconci e destinati a rimaner cosi, causa il rastrellamento finché campo. Quanti incontro si rallegrano del mio ritorno.

Quando comincio a rivedere i miei parrocchiani, sono accolto con la più grande festa. Sono costretto a far brevi soste a Casale, a Valfiorana. Tutti corrono a stringersi e baciarmi la mano e a tempestarmi di domande. Verso le 20 sono alle prime case di Pieve. In breve rimango addirittura assediato dai primi che mi vedono. Il sig. Avv. Scaffardi mi requisisce senz’altro, per avermi a casa sua a cena. In un batter d’occhio la sala da pranzo è gremita. Tutti si con­gratulano con me e ascoltano avidamente il racconto della mia doloro­sa odissea. Mi raggiunge, qui, festante anche mia sorella.

Finalmente mi congedo. Ho smania di rivedere la mia Chiesa e ca­nonica. Ma sulla scala del sagrato m’attende un’altra folla di parroc­chiani, che mi salutano esultanti e vogliono anch’essi udire quanto m’è accaduto e accennarmi alla pena da loro provata nei lunghi giorni di mia forzata assenza. Questo incontro così cordiale con la mia famiglia parrocchiale m’ha fatto tanto tanto bene. Quasi ho dimenticato le sofferenze e le fatiche del tempo or ora trascorso. Entro, dopo tanto, nella mia Chiesa per il S. Rosario e la Benedi­zione di ringraziamento. Sono le ore 23,30. Ai piedi di Gesù Sacra­mento chiudo la giornata e termino la mia forzata assenza.

 Incontro ai nuovi eventi.

Il 26 settembre prende stanza nell’abitato di Pieve il distaccamen­to dei partigiani denominato «Zanr» della 1ª Brigata «Julia ~. Il l° ottobre un improvviso allarme ne determina lo sganciamento. Riappa­re sulla fine d’ottobre e vi rimane fino al l0 novembre. È costituito nella maggioranza di Borgotaresi. Bravi figlioli ma bestemmiatori sboc­cati e, in poche parole, maleducati. La loro partenza genera un diffuso senso di sollievo. In Municipio frattanto s’è installato un certo «Italo », che si auto­dichiara Commissario della lª «Julia » e che intitolando i suoi editti con le parole « Volontari della Libertà» intende di fare il bello e il cattivo tempo nel comune.

I parrocchiani ricorrono spesso a me per difesa contro le minacce sue di punire, requisire, di multare, di far uso della forza. Quando un giorno mi riesce di averlo presente, a quattr’occhi, lo acconcio per le feste. Venuto per fare di me il suo umilissimo servo, in pubblica pre­dica, esorto, (lui è tra gli uditori) a guardarsi da coloro che ci vengo­no innanzi in nome della libertà (cfr . Volontari della Libertà) per far­ci schiavi e in nome della giustizia (altra parola continuamente strom­bazzata nell’ altra frase da voi abusata «Giustizia e libertà») per por­tarci via quanto è sacrosantamente nostro. Rimane allibito. Tutti i presenti in chiesa automaticamente si volgono verso di lui. Da quel gior­no, siamo alla metà di dicembre, ingaggia contro di me una lotta sen­za quartiere, ma non la spunta. Tutta la popolazione è compatta con me. Finalmente riesco a far costituire il Comitato di Liberazione Na­zionale e così deve suo ogni malgrado sloggiare.

Nuovo rastrellamento.

Il 6 gennaio 1945 giunge improvvisa la notizia di un nuovo ra­strellamento. Con Padre Pier Paolo penso, sollecitato insistentemente anche dai miei parrocchiani, di ritirarmi in un rifugio approntato da alcuni giovani. Vi rimaniamo la notte dal 6 al 7 gennaio. La domenica, 7, celebro per tempo. Sono solo in chiesa. Nevica e in terra già ci so­no 50 centimetri di neve. Una staffetta corre a dirci che i rastrellatori sono a San Martino e Cascina e nelle vicinanze di Mormorola. Ve ne sono pure a Oppiedolo e Ennova. Con il Padre Pier Paolo corro nuovamente nel rifugio; ma è pieno. Risolvo di abbandonarlo e di rifugiarmi sopra il soffitto del Battistero. Faccio arrivar lassù due materassi e coperte e con il Pa­dre Pier Paolo passo lassù la notte. Il lunedì mattina, 8 gennaio, ragaz­ze coraggiose escono in perlustrazione e poi vengono a segnalare i va­ri movimenti.

Sul far della sera una colonna nuova da Ennova verso la Chiesa. Ma nei pressi del cimitero volta verso Castellaro. Respiriamo. Se non che poco dopo eccoli di ritorno. È quasi not­te. La neve eccessivamente alta non ha permesso loro di proseguire e ripiegano su Pieve. Mi si assicura che di tedeschi non ve ne sono e allora con Padre Pier Paolo abbandono il soffitto del Battistero e muo­vo ad incontrarli. Sono bersaglieri. In sei mi chiedono di ospitarli in canonica. Accondiscendo. Sembrano statue di neve. Provvedo a far somministrare loro un po’ di brodo caldo, ad ac­cendere bene la stufa. I sei ragazzi, tra cui il loro tenente, certo Remozzi, mi ringraziano e iniziano le più esplicite maledizioni a chi li ha costretti a cotesta vitaccia e concertano di passare tra le file dei partigiani, come poi fanno pochi giorni dopo. Nel pomeriggio di martedì partono per incontrarsi a Castellaro con il grosso dei tedeschi e dei mongoli, provenienti dai monti e dalla val­le di Ceno. Mercoledì, tedeschi e mongoli, passano per Rovere, rag­giungono la carrozzabile e se ne vanno; i bersaglieri ripassano a Pieve e, rifacendo la strada dei giorni precedenti, rientrano a Casaselvatica, loro base senza aver sparato un colpo e catturato nessuno.

Perquisizione notturna.

La notte del10 gennaio, verso le 3, vengo svegliato bruscamente. Una compagnia di bersaglieri accampati a Cascina hanno già perquisito le case di Pieve, ora sono in canonica, per prelevare l’avv. Scaffardi. Li rassicuro che non c’è. Si persuadono; mi chiedono del pane e se ne vanno. Cosi termina anche codesto rastrellamento.

Otto giorni dopo abbiamo di nuovo i partigiani. Sta volta più nu­merosi.

CAPPELLANO DEI PARTIGIANI

32ª Brigata «Monte Penna»

LODOLINI PADRE UBALDO

Nato a Bedonia nel 1911. Appartenente ai Frati Minori. Attualmente Par­roco di Codogno di AIbareto. Nel periodo bellico fu incaricato dell’assistenza spirituale ai Partigiani.

Relazione di Padre Lodolini al Cappellano capo, Mons. Civardi.

 

Sono entrato fra le Formazioni Partigiane ai primi di Gennaio del corrente anno. Ho poi continuata la mia missione, esclusivamente religiosa, per tutto il tempo decorso dal Gennaio alla fine delle ostilità.

Zona di impiego. – Ambiente. La mia attività interessava la zona di unione tra l’alto Parmigiano e l’alto Genovese. Assistevo la 32ª Bri­gata «Monte Penna» comandata da Bill. Tale Brigata contava com­plessivamente 300 uomini, alquanto trascurati dai precedenti Cap. per necessità Parrocchiali, desiderosi quindi di ottenere un Cap. che potes­se seguirli e assisterli continuamente. Erano uomini – salvo poche ec­cezioni – di buoni sentimenti religiosi, privi per necessità di cose, di spirito, di ordine e di disciplina. Dispersi in lontani distaccamenti po­tevo, con molta difficoltà, solo raramente avvicinarli (ogni settimana); raramente, per il loro bisogno.

Assistenza spirituale. – Quotidianamente celebravo la S. Messa o al campo o in qualche chiesa parrocchiale con la partecipazione dei par­tigiani. Più spesso celebravo ove più lontana era la chiesa; e a tutte le Messe tenevo una breve spiegazione di Vangelo. Dopo la Messa te­nevo una istruzione specializzata per i partigiani. Spesso pure tenevo una istruzione a dialogo, con vivissima partecipazione di tutti gli ele­menti a me affidati.

Ho sempre cercato di avvicinare i miei ragazzi ovunque la mia dignità di Sacerdote mi permetteva (nelle osterie, nei ritrovi, nei cir­coli, ecc. ecc.), ottenendo i buoni risultati che la presenza di un Sacer­dote porta necessariamente con sé. A volte sono riuscito a impedire feste da ballo agendo presso i ca­pifamiglia a che non mandassero le loro ragazze, invocando a pretesto la questione morale o anche la malattia di qualche mio partigiano. So­no pure riuscito a fare allontanare alcune donne dalla Brigata, benché esse cercassero di sfuggirmi portandosi in distaccamenti lontani da quello in cui io mi trovavo. Ogni errore ho cercato di correggere sempre con carità e con bon­tà, guadagnandomi l’affetto dei capi e dei gregari. A Pasqua infatti ho avuto la gioia di vedermeli tutti alla S. Comu­nione (escluso uno protestante e un altro).

Prigionieri. – Mia grande cura è stato sempre il buon trattamento dei prigionieri. E in mia presenza posso dire che mai essi sono stati maltrattati. Ad essi pure io distribuivo le sigarette che mi facevo dare dai miei ragazzi, i quali brontolavano un poco di ciò, ma ne erano contenti: sempre infatti hanno continuato a darmi parte delle loro sigarette. Ho fatto sì che gli innocenti fossero lasciati in libertà e tutti fos­sero trattati con fraternità. A Cornolo, v.g. ho trovato, fra gli abitanti, pure martoriati dai rastrellamenti, gli indumenti per cambiare 25 pri­gionieri Tedeschi. A tutti ho dato di quei pochi soldi che avevo, ri­nunciando alla elemosina della S. Messa coi meno abbienti. Al chiudersi delle ostilità, ciò che prima facevo per i prigionieri ho preso a farlo per i carcerati, cercando di frenare l’impeto della ven­detta e difendendo gli innocenti. I miei ragazzi, che erano chiamati ribelli e delinquenti, li avreste veduti, prima e dopo la mensa, segnarsi col segno della S. Croce e li avreste sentiti recitare le preghiere, tutti indistintamente.

Tanti sono scesi in città con al collo una medaglia e tutti si sono diportati molto bene anche nella febbre della reazione. Ho la gioia di dirvi che i principi Evangelici richiamati e spiegati con fraternità di amore hanno avuta la infrenabile capacità di rendere buoni e più umani anche i cuori più lontani da Cristo. E voglio ringraziare Voi che avete saputo organizzare l’assistenza spirituale in mezzo a quei cari e bravi figlioli, dando a me e soci la possibilità di compiere tanto bene.

Vostro devot. mo

P. Ubaldo Lodolinio.f.m.

 

 

 

 

 

 

 

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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