Nella Bufera della Resistenza ValCeno

Testimonianze del  Clero Piacentino durante  la  guerra partigiana   a cura di  Angelo Porro Memorie  raccolte  da Domenico Ponzini

Valceno

PARROCCHIA  DI  CHIESOLA

DALLACASA DON DOMENICO (1912 – 1976)

Nato a New Jork, mori Parroco di S. Quirico di Albareto (Parma). Giovanis­simo Sacerdote, nel 1939 venne nominato Parroco di Chiesola, ove rimase fino al 1954. Testimonianza di Don Dallacasa su fatti avvenuti durante la resistenza.

 Il 26 luglio 1943 mi trovavo a Spora dove si celebrava, in tale data, la ricorrenza della titolare della parrocchia: S. Anna. Terminato il canto della Messa solenne, si sparse la voce che il giorno pri­ma il Duce era stato costretto a dimettersi, era stato incarcerato e sostituito dal Re Vittorio Emanuele III con la persona del generale Badoglio. La sensazionale notizia ci lasciò lì per lì indifferenti, non perché non me­ritasse la nostra attenzione, ma perché un’enormità simile ci sembrava impos­sibile ed anche perché non avevamo testimonianze ben attendibili in quanto nessuno in parrocchia era in possesso di una radio.

Fino al giorno prima il fascismo era invincibile, il fondatore dell’impero non si era mai piegato davanti a nessuno ed ora si trovava in carcere. Ma chi aveva avuto tanto coraggio da ordinare e compiere un gesto simile? Solo tar­di, nella serata, potei sentire dalla radio della sig.ra Lusardi  Angiolina ad Anzola i particolari che si potevano, più che sentire, intuire, da una voce lonta­na e gracchiosa. La notizia, tanto sensazionale, era ormai certa. Da quel momento, anche nei nostri paeselli di montagna si verificò quello che stava avvenendo in tutta Italia. Se prima il Duce, con il suo fascismo, era parso insostituibile, tanto che, molte persone erano state costrette a prendere la tessera fascista che, per so­pravvivere era diventata più necessaria della carta annonaria, oggi sconfessa­vano la loro fede per timore di rappresaglie. Questi ex fascisti erano additati con disprezzo come i capri espiatori delle angherie che avevano dovuto subire fino al giorno prima.

Il sacerdote, quindi, doveva fare opera di mediazione per calmare gli ani­mi ed indurli a più miti consigli, mostrando che l’odio e la vendetta, che sor­gevano allora spontanei, non potevano portare che mali maggiori di quelli da di cui ci si era liberati. Non pochi, anche nella vallata del Ceno, erano additati come ferventi fa­scisti, specialmente coloro che fino a poco tempo prima avevano soggiorna­to all’estero. Fuori d’Italia erano stati aiutati moralmente ed economicamente dall’allo­ra governo fascista, era quindi naturale, per loro, provare una certa stima, considerazione e riconoscenza verso che li aveva allora aiutati.

Quindi il sacerdote, come persona a cui ci si rivolge per ogni cosa, anche fuori dal campo prettamente religioso, interveniva per sedare gli animi, indu­cendo i propri parrocchiani a non dividersi. La nomina di Pietro Badoglio ci fece supporre che tutto cambiasse, e fum­mo di tale idea fino ai giorni prossimi del fatidico 8 settembre. La notizia dell’armistizio dell’8 settembre ci giunse come una nuova no­tizia di liberazione, di respiro, di sollievo, di gioia.

« Finalmente finirà questa benedetta guerra!!! Avremo finalmente un po’ di quiete, ritorneranno i nostri giovani, i nostri richiamati ». Erano questi i nostri pensieri. Difatti nei giorni seguenti molti giovani, e non più giovani, passavano per i nostri paesetti. . Erano reduci che avevano i loro cari in tutte le parti d’Italia: napoletani, siciliani, pugliesi, romani, toscani, veneti… Erano mal vestiti, affamati. Tutti chiedevano un po’ di cibo, e, verso se­ra poi, anche il permesso di potersi coricare nel fieno delle nostre cascine, ripromettendosi di rimettersi in strada il mattino dopo.      . . La popolazione del luogo, buona e caritatevole, comprendeva le condizioni, non solo fisiche ma, soprattutto morali di questi sbandati e li accoglieva, facendoli partecipi ai loro desinari.

La maggior parte delle volte, specialmente coloro che passavano nei pri­mi giorni di questo viavai, preferivano non entrare neppure nelle case, ma, muti, oppure parlando solo fra loro, mangiavano quanto veniva loro offerto e poi con un « grazie! » che, si vedeva, veniva dal cuore, ripartivano. I parrocchiani, nel compiere questo gesto, dicevano: «Speriamo che in qualche parte d’Italia, dove si trovano i nostri figli anch’essi possano trova­re la carità che ora noi compiamo verso questi sconosciuti ». Questi giovani dimostravano una certa diffidenza verso gli abitanti del luo­go del resto più che giustificabile per la confusione da cui erano scappati e per quella che trovavano per la via.

Questa sfiducia dipendeva anche dal fatto che non conoscevano coloro che li soccorrevano. Potevano essere persone dalla loro parte come persone che potevano de­nunciare alle autorità la loro fuga indicando la direzione del loro viaggio in modo che venissero rintracciati. Quando infine si seppe della reazione tedesca, qualcuno dei fuggiaschi chie­se di potersi fermare, offrendo il proprio lavoro, ancora valido, in cambio di un pagliericcio e di un po’ di cibo, nella speranza di poter presto riprendere il cammino verso casa. In quei giorni si presentò alla porta della mia canonica l’ingegnere Man­giante Daniele di Lavagna accompagnato dalla sua donna di servizio, Sig.ra Beccarelli Maria, per chiedermi se potevo accoglierlo per un mesetto, cioè fi­no a quando a questo caos non fosse seguita un po’ di calma, con il resto della famiglia rimasta a Lavagna. Maria aveva una zia, mia parrocchiana: una buona donna.

E con questa garanzia, cioè l’onestà e la bontà di una zia mi persuasi a non negare quanto mi veniva chiesto, seppure ero cosciente del rischio a cui andavo incontro perché il buon ingegnere mi confessò candidamente che era ricercato in quanto negli anni precedenti, senza pensare troppo alle conse­guenze del suo gesto, aveva fatto parte della milizia fascista, ma solo trasci­nato da alcune circostanze di cui non era stato mai convinto. Dopo aver avuto la mia parola, che avrei aperto la porta alla sua famiglia e, dopo avermi promesso che, qualora mi fosse stato di disagio, avrebbe cer­cato altrove rifugio, l’ingegnere si portò all’abitazione della zia della Maria alle Galere, in attesa che la stessa Maria, ritornata a Lavagna, conducesse a Chiesola il resto della famiglia, cioè: la Sig.ra Ester,: i figli Cipriano di 7 anni, Eugenio di 3 e la bambinaia Borzoni Giuseppina. La famiglia Mangiante fu per me veramente la mano della provvidenza. L’ingegnere fu un ottimo consigliere e sua moglie, Sig.ra Ester, compi varie opere di mediazione e di assistenza che né io né il paese potemmo mai di­menticare.

Di questo sono buoni testimoni i partigiani che trovarono in lei che ten­tava (e riusciva) di supplire alla buona mamma che essi avevano dovuto la­sciare a casa. La cura che essa aveva per loro, feriti e col morale a terra, suscitava in chi ne era l’oggetto, una stima ed una riconoscenza che non si è spenta con la fine della guerra. Anche i paesani trovarono in lei e nel marito delle persone sempre pron­te a correre dove la loro opera era necessaria. Il caso dell’ingegner Mangiante, che per sentirsi più sicuro si era rifugia­to in montagna, non era singolo. In quei giorni, in cui erano ricercati, sia dai fascisti repubblichini che dai tedeschi, tanto i fascisti che avevano tradito la causa, quanto coloro che erano fuggiti dall’esercito dopo 1’8 settembre e soprattutto coloro che non si erano presentati alle armi neppure in seguito ai proclami infuocati del Ge­nerale Graziani, allora ministro della guerra della Repubblica Sociale Italia­na, nei nostri paesetti si videro uomini e giovani ed in qualche caso fami­glie intere, che avevano abbandonato la casa e tutto per ripararsi dalla fero­cia con cui si presentavano le truppe tedesche e repubblichine.

In un primo tempo, quando si trattava di dare un piatto di minestra, un pezzo di pane ed un pagliericcio agli sbandati, l’esiguità delle porzioni della carta annonaria non fermò la carità della nostra gente che si esternava con apertura d’animo veramente cristiana. Quando invece si presentarono questi gruppi di persone estranee che mo­stravano la loro intenzione di volersi fermare non per poco, ma fino alla fi­ne del conflitto, ecco che spuntò il tradizionale animo diffidente del monta­naro. In questi casi l’opera del parroco fu veramente necessaria. Gli sfolla­ti si presentavano a lui, dopo le prime ripulse da parte della gente del luo­go, pregandolo che facesse opera di persuasione perché venissero ospitati. Non era compito facile! Il parroco conosceva i suoi compaesani, ma i nuovi arrivati chi erano? Ci si poteva fidare delle loro assicurazioni che erano gente per bene? Il rischio a cui andava incontro il Sacerdote in questi casi, non era da poco, perché la popolazione locale si fidava molto del ministro di Dio.

Tra l’altro non li si poteva lasciare su una strada! La cara « Madonna di S. Marco» in questi casi mi fu di vero aiuto, tan­to è vero che, tra gli sfollati ed i loro ospitanti sorse una amicizia che, an­che dopo trent’anni, è ancora viva perché, sorta da un gesto di carità, sgor­gata in un momento di comune pericolo. Fra coloro che 1’8 settembre avevano preso la strada di casa, non inten­dendo condividere il destino della Repubblica Sociale Italiana, si trovava an­che un certo Moglia Gianni (Golico-Scarpa). Egli, benché in famiglia bedoniese, si considerava di Chiesiola, avendo qualche anno prima sposato la Sig.ra Moglia Rina, parrocchiana.

Lo incontravo spesso, ed un giorno mi parlò di gruppi di sbandati che, in altre zone, si erano riuniti in squadre, intendendo opporsi al richiamo delle armi, e nello stesso tempo, anche all’azione tedesca e dei fascisti. Egli, d’accordo con qualche altro amico, intendeva fare altrettanto nella zona del Ceno, località dove la guerriglia era possibile per l’asperità del luogo. Non avendo avuto la possibilità di potersi servire, come luogo di ritro­vo, della casa del suocero, che non vedeva di buon occhio queste riunioni se­grete, si rivolse a me per vedere se ero disposto ad accoglierlo con gli amici nella mia Canonica. Accettai, nella speranza che i miei ospiti di Lavagna non avessero nulla in contrario.

Dopo le prime riunioni nella mia cucinetta, un giorno l’ingegner Man­giante mi prese a tu per tu, e mi chiese con gentilezza, quale era lo scopo delle riunioni notturne in Canonica. Con schiettezza, conoscendo la lealtà e la franchezza dell’ingegnere, gli e­sposi il motivo di quei ritrovi. Egli sospettava qualcosa del genere e mi dichiarò la preoccupazione per la sua famiglia. Lo rassicurai che, almeno per allora, di pericolo non ce n’era, anzi, per mostrargli la verità di quanto gli dicevo, gli promisi che avrei chiesto ai ri­belli di permettergli di assistere alle riunioni. Ciò fu accettato anche da Moglia Gianni, il quale riuscì, insieme agli al­tri, a convincere l’ingegnere della bontà della loro causa, per cui da allora fe­ce parte dell’ancora esiguo gruppo di ribelli, mettendo a loro disposizione le sue cognizioni tecniche. Cognizioni che non poche volte sono state di gran­de utilità ai partigiani.

Aumentando notevolmente il numero degli aderenti al movimento parti­giano, si dovette dividerli in squadre.. Squadre dislocate in diverse località della vallata, a capo delle quali fu designato un capo-squadra ed eventualmente un vice. Il compito del comandante generale fu affidato a Gianni Moglia ( Golico – Scarpa). Le squadre furono dislocate a Casalporino (cap. Dragotte), a Tomba (cap. Bill), a Costa d’Azetta (cap. Mario), a Volpara (cap. Istriano), a Fontanin (Cap. Cosimo).

Noto che la quasi totalità degli allora detti ribelli, erano buoni cristiani, anche se poi, in seguito, vennero annoverati fra i partigiani di Brigate Garibaldi comuniste. Fra gli abitanti della vallata, che avevano aderito al partito fascista (al tempo del Duce) vi era anche un mio parrocchiano, certo Moglia Marco. Egli era appartenuto alla milizia portuale di zona e aveva avuto una men­zione onorevole per aver salvato la vita al suo superiore: il seniore Caruso. Trovandosi a casa in licenza, quando scoppiò il fenomeno partigiano, credette più sicuro fermarsi a casa per l’impossibilità, oltre che al pericolo, di ritornare alla base.       .

Il comando partigiano temeva che potesse riferire riguardo il movimen­to in Val Ceno. Disgraziatamente, un giorno Marco dovette recarsi a Volpara per ragio­ni di famiglia. In tale località venne riconosciuto da alcuni che facevano parte della squadra locale. Fu fatto prigioniero e ci volle tutta la mia rino­manza e tutta- quella della Sig.ra Mangiante, che aveva acquisito un certo ascendente sui ribelli per il suo altruismo e per il coraggio che dimostrava, per salvarlo dalla sicura morte. Ci facemmo promettere da Marco che non sarebbe più uscito dal paese se il comando non gliene avesse dato il permesso scritto. Nella parrocchia di Chiesiola si trovava una famiglia formata da: Moglia Lazzaro (capofamiglia), Botti Mary (moglie), Annetta di circa 18 anni, Jean e Luis (figli). I figli erano chiamati col nome alla francese, perché, fino a qualche anno prima si trovavano in Francia, a Claireville. Durante la loro permanenza all’estero, Lazzaro era iscritto al Partito Fa­scista all’estero, e questo per le molte facilitazioni e gli aiuti che il governo italiano, durante il regime fascista, deve ai nostri emigrati che aderivano a tale partito.

Ritornato in Italia, dopo aver liquidato quanto possedeva in Francia, Lazzaro non volle più sapere di rinnovare la tessera, per cui ebbe delle noie da parte del Segretario Politico di Bedonia: Raggi Livio. Ora, quando nella nostra vallata si formarono i primi gruppi di ribel­li, questi sbandati vedevano fascisti e traditori da tutte le parti, e fra que­sti anche il Moglia Lazzaro. Allora, le prime riunioni si tenevano nella canonica di Chiesiola e vi par­tecipavano i pochi ribelli, quasi tutti del luogo, o al massimo di Bedonia e di Borgotaro: Moglia Gianni (Scarpa, che allora si chiamava Golico), Monte­verdi Albino (Mario), Moglia Alfredo (Bill), Moglia Giuseppe (fratello di Bill), Moglia Gianni di Chiesiola (Turco), Solari Giuseppe (Jack) , suo fra­tello Eugenio (Aldo), Squeri Mario (Battaglia), Beccarelli Angelo (Rata) ed altri. Durante un’adunanza Moglia Gianni fece il nome di Moglia Lazzaro co­me fascista e quindi da eliminare con tutta la famiglia. Nonostante l’insistenza di Turco di includere nella lista nera anche Mo­glia Lazzaro, i presenti soprassedettero alla decisione per la loro mancata co­noscenza dell’individuo nei riguardi della politica e preferirono rimandare la decisione sull’interessato alla seguente riunione.

Intanto feci qualche indagine sulla famiglia in discussione scoprendo che i motivi dell’accanimento e della insistenza del Turco erano totalmente per­sonali, infatti, Turco si era invaghito della figlia del Moglia, Annetta, la qua­le lo aveva scoraggiato dal corteggiamento con un no francese chiaro. Questo smacco era troppo per un Don Giovanni come credeva di essere Gianni, per cui divampò in lui un odio che lo portò a volere non solo l’eli­minazione di colei che l’aveva respinto, ma di tutta la famiglia. All’adunanza seguente dei ribelli, dopo diverse cose che erano state mes­se all’ordine del giorno, il Moglia Gianni (Turco) usci di nuovo con la sua richiesta. Chiamato in causa, come parroco, e quindi come profondo conoscitore dei parrocchiani, feci presente la premura che la famiglia aveva avuto nel dare il proprio aiuto ai ribelli e di come era strettamente personale l’odio di Turco verso la famiglia di Lazzaro. La risposta di Gianni fu una forte invettiva nei miei riguardi come di di­fensore di fascisti e minacciandomi che me l’avrebbe fatta pagare cara; Dico sinceramente che nei giorni seguenti ebbi veramente paura in quanto cono­scevo il Turco come tipo violento e vendicativo.

Questo mio stato d’animo durò fino al giorno in cui il povero Gianni per­dette la vita su Colle di Montallegro poco tempo dopo. Il Comandante Scarpa, tramite il comando dei partigiani genovesi riuscì ad ottenere una serie di lanci nella nostra vallata. Il primo lancio ebbe luogo la notte del 21 marzo 1944. Questi lanci era­no preceduti da avvisi trasmessi da « La voce di Londra ». La radio, che do­veva ricevere questi messaggi era installata in Canonica dopo essere stata sot­tratta ad una famiglia di fascisti di Santo Stefano d’Aveto. Ogni giorno sin­tonizzavo la radio con l’onda trasmettitrice e riferivo al Comando. Ricordo che un pomeriggio mentre ero intento ad ascoltare radio Londra sentii ben chiaro: «Promessi Sposi ». Era il segnale per un lancio diretto alla nostra Brigata.

Di corsa uscii di casa per cercare Scarpa, ora intendente (aveva ceduto il comando a Bill), perché avvertisse i Ribelli e preparasse l’occorrente per il lancio. Purtroppo, la Brigata si era trasferita, per esercitazioni, nei pressi di Cornolo. Nei paraggi di Chiesiola non rimanevamo che lui, io ed un certo Restighini Silvain. Tutti e tre allora ci accordammo per ricevere il lancio che doveva avve­nire in una località concava sul monte Orocco, situata tra il territorio delle parrocchie di Spora e di Chiesiola.

Avvolti nell’oscurità giungemmo sul posto ed aspettammo pronti ad accen­dere i fuochi segnaletici. Ad un dato momento sentimmo il rumore di un aereo che si avvicinava. Scarpa allora ci intimò di non fare nessun segnale, perché poteva essere te­desco, il cosiddetto Cicogna, in quanto non era ancora l’ora convenuta. In­fatti fu veramente cosi. L’aereo fece due giri attorno all’Orocco e poi si allontanò dalla parte opposta da cui era venuto. Dopo circa mezz’ora dal passaggio, ecco di nuovo il rumore di un altro aereo. Il ronzio di questo secondo aereo era differente da quello precedente. Scarpa ordinò di accendere i fuochi. Eseguimmo l’ordine. Fatti due giri attorno i nostri segnali si scorsero i primi paracadute scendere piano-piano.

Alcuni caddero poco lontano dal luogo dove eravamo, altri vennero tra­sportati dal vento verso l’abitato di Spora. Una volta eseguito il lancio io mi portai in Canonica mentre Scarpa e Silvain si portarono a Cornolo per avver­tire la Brigata dell’avvenuto lancio. Un giorno si presentò alla mia Canonica un giovane, alto, robusto, di mo­di molto cortesi, in uniforme da alpino. Tale uniforme, in quei giorni, infondeva un certo sospetto, perché una parte degli alpini della Repubblica Sociale Italiana indossava tale divisa. I partigiani lo vollero conoscere bene in quanto chiese loro di poter far parte dei cosiddetti ribelli.

Si presentò come il figlio del Conte Cantelli di Parma, ufficiale caduto durante la guerra. Era di carattere aperto e gioviale, ma ancora giovane ed inesperto. Non metteva in mostra la sua posizione sociale, ma faceva capire che avrebbe accettato malvolentieri la sottomissione ad altri che non la sapessero lunga come lui. L’opera dell’ingegner Mangiante e della sua Sig.ra non solo convin­se il conte a non mettersi in mostra, ma riuscirono a convincere anche i par­tigiani ad accettarlo, almeno in prova, nelle loro formazioni. Le sue capacità, il suo intuito, ed anche la sua conoscenza di altri parti­giani, che si trovavano già nella Brigata, indussero il comandante Bill, in se­guito, non solo ad accettarlo, ma ad affidargli una squadra di partigiani come vice-caposquadra.

Il suo caposquadra era Caramatti Cosimo. Nella squadra di Cosimo si trovava anche un certo Pino (nome di batta­glia) di Monchio. Un tipo strano, tenuto in considerazione per la sua facili­tà di parola, per la sua spregiudicatezza nei pericoli e per la fiducia che si era acquistato tra i componenti della squadra di cui faceva parte. Era ambizioso e desiderava ottenere un posto di comando. L’arrivo del Conte Cantelli e la sua scelta a vice-caposquadra suscitò in lui un senso di avversione nei confronti dei suoi superiori e specialmente verso il conte che, col suo arrivo, gli aveva tolto la possibilità di vedere rea­lizzato un sogno che, da tempo, sperava di poter attuare. Il 4 aprile 1944 avvenne un fatto che mise in crisi un po’ tutta la briga­ta ed in modo particolare il suo comando.

Cosimo, da Tomba, dove si trovava allora, venne mandato col conte Cantelli, a Calice, per scegliere una località da dove si potesse osservare con cu­ra il paesaggio del valico di Monte Vacà, in occasione di eventuali rastrella­menti da parte di tedeschi o fascisti. Per compiere questa operazione Cosimo si servi di un sentiero che con­duceva alla località Calice, senza dover battere la strada che passava per la frazione di Ceni. Nel ritorno, prima di arrivare al punto di attraversare un piccolo rio, dal­la parte opposta partirono alcuni colpi di Sten che lo fecero cadere da caval­lo già cadavere. Chi aveva sparato? È una domanda a cui nessuno non ha mai potuto dare una risposta vali­da e certa.

Il conte Cantelli, spaventato dall’accaduto dichiarò in seguito, di aver vi­sto, in mezzo alle piante di castagno un uomo fuggire. Chi era? Il conte Cantelli aveva visto veramente qualcuno? Constatato che per il povero Cosimo non c’era più nulla da fare, il Cantelli si portò a Tomba, dove allora si trovava il Comandante per avvisarlo dell’accaduto. Il comandante si portò sul luogo e dopo i possibili rilievi, fece traspor­tare la salma a Casalporino.

Chi era stato a sparare? Uno che aveva in odio Cosimo oppure uno che aveva in odio il conte e che, per sbaglio, colpi Cosimo anziché Cantelli? Op­pure fu lo stesso conte a sparare per ottenere il posto da Cosimo? A questi quesiti, che allora si ponevano non solo ai partigiani, ma anche alla popolazione, nessuno ha mai potuto dare una risposta soddisfacente. Il fatto è che il conte venne sospettato del misfatto. Venne destituito da vice-caposquadra e, interrogato a lungo, venne poi tenuto d’occhio giorno e notte.

Cosimo fu seppellito nel cimitero di Casalporino con gli onori riservati ai valorosi. I capisquadra presero una decisione che, purtroppo, non venne resa pub­blica. Dopo i funerali il conte Cantelli venne mandato a Romezzano accom­pagnato da Pino e due partigiani. Durante il percorso, Pino, che aveva con sé lo Sten, lo spianò e lo sca­ricò sul conte che si trovava davanti. Il conte spirò sul colpo!

Pino spiegò che quello che aveva fatto non era altro che l’esecuzione del­la sentenza che era stata emessa dal comando la sera stessa a Tomba. Il caso della morte di Cosimo e del conte Cantelli è sempre stato avvol­to nel più grande mistero. Era opinione generale della popolazione che il conte fosse innocente, e la figura di Pino, da quel momento prese i contorni di uno dallo Sten facile e dalla coscienza ancora più facile. Poco tempo dopo si ebbe nella vallata un rastrellamento in grande stile. Tedeschi armati fino ai denti invasero la vallata del Ceno prendendo posto in tutte le frazioni e setacciando case, cascine, boschi e cespugli. I partigia­ni dovettero rifugiarsi sul monte Penna. Pino, che in seguito all’accaduto, aveva ottenuto il grado di caposqua­dra, per sfuggire all’accerchiamento dei tedeschi si avviò sul monte Orocco.

Qui, fortemente miope, scambiò un gruppo di uomini che salivano per partigiani, ma purtroppo erano tedeschi i quali scaricarono su di lui ed il suo cavallo le loro armi. Gli abitanti della Val di Ceno videro in questo fatto un gesto postumo della giustizia di Dio. Della morte del conte Cantelli venne in seguito avvertita la mamma, resi­dente a Parma. Terminata la guerra, essa si portò ad Anzola dove chiese del­la morte e della sepoltura del figlio. I resti del conte vennero recuperati e la povera madre li tumulò alla Vil­letta di Parma nella tomba di famiglia. Essa intentò causa contro il comando della brigata per la morte del figlio, ma la citazione non ebbe seguito perché il comandante, che avrebbe dovuto rispondere del fatto, si eclissò trasferendosi negli Stati Uniti.

Si arrivò così al 9 aprile 1944, giorno di Pasqua. Fin dalle prime ore del mattino si sentiva già parlare di scontri armati. Sul mezzogiorno anche a Chiesiola giunsero i primi crepitii delle armi au­tomatiche. A Montevacà avvenne il primo scontro fra partigiani e tedeschi. Lo scon­tro fu accanito e sanguinoso. Tedeschi e fascisti partiti da Bedonia si facevano scudo della corriera di Carpani, guidata dal nostro Lagasi Paolino. In un primo tempo Paolino cercò di evitare di prestarsi per un simile servizio, ma alla fine costretto dalla forza dovette sedersi al volante.

Giunti nei pressi del valico di Montevacà, i partigiani, che attendevano la colonna tedesca, aprirono il fuoco, ma sopraffatti dal numero, dovettero riti­rarsi verso Tasola, dove il combattimento continuò. L’autista, nella confusione del combattimento e tra le pallottole che fi­schiavano da ogni parte, a malapena poté salvarsi con la fuga abbandonando l’automezzo. In tale circostanza ci furono nelle file dei partigiani un morto (Ruggeri Pietro di Porcigatone) e tre feriti (Libero, Battaglia; Pablo). I feriti vennero portati a Drusco, dove si trovavano alcune grotte ed in una di queste, non lontane dall’abitato, ma ben occultata dall’asperità del terreno, vennero ricoverati, curati ed assistiti dal Reverendo Don Agostino Viviani , parroco di Drusco.

Nel 1944 e per circa due mesi trovò rifugio nel territorio affidato alla brigata « Monte Penna» un ufficiale inglese sfuggito ad un inseguimento dei tedeschi. I partigiani lo avevano affidato alla famiglia Moglia Andrea, che dietro raccomandazione della sig.ra Mangiante, gli avevano dato ricetto in un na­scondiglio in casa loro. Spesso veniva in canonica per ascoltare la trasmissione della radio in lin­gua inglese, e così tenersi al corrente di come andavano le cose al suo paese. Venne poi, su sua richiesta, trasferito in altra località. Non ho mai sa­puto come si chiamasse, né dove fosse andato a finire. So soltanto che se ne andò senza neppure dire un grazie alla famiglia che lo aveva per tanto tempo e con proprio rischio ospitato.

Nei giorni 22 – 25 maggio 1944 la Val Ceno subì uno dei più duri ra­strellamenti. Fascisti e tedeschi arrivarono ad Anzola con ben 37 automezzi. I parti­giani, inferiori di numero, ebbero appena il tempo per ritirarsi, mentre la popolazione inerme dovette subire questa invasione per ben quattro giorni. Ogni casa di Anzola, Chiesiola, Casalporino, Spora e Romezzano era la loro, dove entravano, rovistavano nei più remoti buchi, comandavano e si doveva ubbidire per sollecitudine. Credo che l’unica casa che non subì angherie sia stata la mia canonica, e questo forse per il fatto che ivi era stato ospitato un tenente tedesco, uf­ficiale di Stato Maggiore, che comandava l’operazione. In quei giorni l’ingegnere non si trovava a Chiesiola, in quanto, sotto mentite spoglie, si era portato nei pressi di Lavagna per poter sentire dal fratello Dr. Giacomo, cosa si pensasse di lui in riviera. Nel secondo giorno di irruzione venni a sapere da un tenente della Mili­zia che la Parrocchia di Romezzano stava per passare un brutto quarto d’ora. Un gruppo di Miliziani si era presentato al Parroco Don Rocco chiedendo notizie sui ribelli. Questi dapprima si spaventò di quella visita e maggior­mente si impressionò per le domande rivoltegli. Tale atteggiamento fu in­terpretato come una sua connivenza coi partigiani, per cui gli vennero ri­volte minacce a seguito delle sue risposte negative. In ultimo, stanco e spos­sato dal lungo interrogatorio, finì col rivelare che un suo parrocchiano, Mon­teverdi Albino (Mario) era un partigiano.

Non ci volle altro per fare passare tutto il paese come un covo di ribel­li e passare subito alla determinazione di compiere una epurazione fra la popolazione e la relativa distruzione del paese. Contemporaneamente nella Parrocchia di Sopra i militari trovarono in una cascina delle armi abbandonate inavvertitamente dai partigiani fuggiti. Fu sufficiente questo fatto perché anche per Spora fosse decretata la fine già decisa per Romezzano. In un frangente di questa portata fu determinante l’intervento del pic­colo, ma energico Don Davide Mantegari, Parroco di Spora. Questi fece presente all’ufficiale fascista di non avere l’autorizzazione di compiere delle rappresaglie senza prima avere ottenuto il benestare dello ufficiale tedesco che si trovava a Chiesiola anche se questo era un semplice tenente mentre il fascista un capitano.

Interpellato dall’ufficiale tedesco, con l’aiuto di donna Ester, feci inten­dere che se purtroppo era vero quanto il Parroco di Romezzano aveva det­to sul conto del partigiano Mario, pur vero era che la popolazione della par­rocchia non c’entrava anche se qualche volta erano costretti a rifocillare i ribelli. A questo punto giunse a Chiesiola il Parroco di Spora Don Mantegari accompagnato dal chierico Monteverdi Davide. Egli espose con chiarezza, all’ufficiale di Stato Maggiore, come erano le cose e le conseguenze, anche per loro di un gesto come quello di cui si era chiesto l’autorizzazione a procedere. Il permesso non venne dato. Fu solo autorizzato l’incendio della casa di Mario senza che venisse aspor­tato alcunché: né masserizie, né mobili. Il padre di Mario, ormai anziano, dovette assistere, immobile ed impo­tente, alla, distruzione di quanto possedeva.

Non avendo ottenuto quanto desiderato, i fascisti si sfogarono nei ri­guardi del povero Don Rocco, che malmenarono in modo tale che, in segui­to, dovette essere ricoverato in manicomio. Terminato il rastrellamento un tenente della milizia mi chiese gentilmen­te se potevo mettere a disposizione degli ufficiali una stanza onde poter stendere il rapporto di quei giorni. Non potendo fare a meno, misi a loro disposizione la mia cucinetta. Solo più tardi mi accorsi di aver commesso in quei giorni ed ancor più accondiscendendo ai desideri dei fascisti un grave errore. Sull’armadio della cucina, non nascosta, avevo messo la mia rivoltella carica. Nel cassetto del tavolo, di cui si servivano i miei « ospiti », si trova­va una somma che si aggirava sulle 200.000 lire, frutto di un lancio ingle­se effettuato da poco tempo, e l’elenco, però non aggiornato di tutti i partigiani della Brigata con relativi indirizzi, nomi di battaglia, luogo di dislo­camento.

Per me, tutto il tempo della riunione fu un inferno. Non vi sono parole sufficienti per evocare il sospiro che trassi quando vidi, uno dopo l’altro, gli ufficiali fascisti e tedeschi uscire dalla cucina, sa­lutarmi e dare l’ordine di partenza. Dopo qualche giorno vidi nella canonica Scarpa (comandante), Mario, Bill, Istriano, Falco e l’ingegnere. Il fatto di Romezzano aveva eccitato gli animi: chi minacciava rappre­saglie nei riguardi del Parroco, chi faceva dei preti della vallata tutto un fascio…!Su questo argomento non avevo nulla da temere a difesa dei Parroci del luogo dato il contegno tenuto in tale circostanza dal caro e intrepido Don Davide Mantegari. Il calmare gli animi così scossi ed il cercare di farli ragionare non fu co­sa da poco.

Lo stesso Mario, profondamente irritato, ma ancor più amareggiato per il fatto che causa del suo male fosse stato, purtroppo, il proprio Parroco, mi aiutò a calmare i partigiani, in modo che il povero Don Rocco non ebbe seri guai per la sua condotta durante la visita dei fascisti. Durante questo incontro raccontai loro con sincerità e schiettezza la mia grave imprudenza commessa pregandoli di portare in un luogo più sicuro, ed in casa di uno più cauto di me, il materiale che si trovava ancora nel cas­setto.

Essi, all’unanimità insistettero perché conservassi ancora io il tutto. Li ringraziai per la fiducia che portavano in me, ma sottolineai il pericolo che avevano passato, passato anche per i miei ospiti di Lavagna. Infine cedette­ro e portarono denaro e registri a Tomba. Nel giugno del 1944 fu segnalato un posto di osservazione tedesco so­pra Rapallo e precisamente nei pressi del Santuario della Madonna di Montallegro. I comandi partigiani decisero la sua distruzione in quanto ostaco­lava le operazioni dei ribelli genovesi.

Il comando della nostra Brigata incaricò dell’operazione tre nostri par­tigiani: Serventi Pietro, Delmaestro Antonio e Moglia Gianni (Turco) a cui fu affidato il comando del gruppo. I tre partigiani giunsero sul posto il 22 giugno 1944 sull’imbrunire. Si appostarono poco lontano ed attesero la notte. Non conoscendo il numero dei militari che il posto di osservazione ospi­tava fu deciso di lanciare qualche bomba a mano prima di irrompere nella casetta. Al momento convenuto Gianni lanciò una prima bomba a mano che col­pì il muro vicino alla finestra. Fallito il primo lancio, il Moglia tolse la sicura ad una seconda bomba che dopo aver colpito l’inferriata della finestra rimbalzò scoppiando a bre­ve distanza dal lanciatore. Subito Gianni fu soccorso dai due amici che, incalzati dai fascisti, riu­scirono a trasportarlo in una vicina cascina. Li tentarono di tamponare le ferite, ma purtroppo a nulla valsero le cure e dopo pochi minuti il Turco spirò.

Vista l’inutilità del loro operato, il Serventi ed il Delmaestro si cala­rono di corsa lungo il pendio per allontanarsi dalla zona. Il pomeriggio del giorno dopo, 23 giugno, giunsero a Chiesiola e ven­nero in canonica a recarmi la triste nuova. Mi pregarono di assumersi l’incarico di avvertire la famiglia di Gianni, mentre essi si portarono al comando per metterlo al corrente dell’esito del­la loro impresa. La sig.ra Mangiante mi sostituì in questo triste incarico. Nei giorni seguenti la salma di Gianni venne recuperata e tumulata nel cimitero di Chiesiola dopo solenni esequie a cui partecipò un gran numero di fedeli dell’intera vallata e la Brigata al completo. Prima che cominciasse la guerra, si vedeva spesso per i suoi affari un certo Galli Peppino di Bedonia. Era conosciuto da molti e sempre cortese con tutti. Questa abitudine di frequentare la vallata continuò anche durante gli anni di guerra e quelli dell’inizio della guerriglia dei partigiani.

Dopo il primo rastrellamento, riflettendo sul modo con cui era stato con­dotto dai tedeschi, venne il sospetto che fossero stati messi al corrente di tanti particolari da qualcuno che conosceva bene la zona. Il sospetto cadde su Peppino Galli che oltretutto quando ritornava a ca­sa dai suoi viaggi in ValCeno, raccontava ingenuamente quanto ivi accadeva. Tale sospetto si rese ancor più grave per il fatto che suo fratello Arnaldo, era Segretario Politico fascista a Tornolo. Nella mente dei capi tale diffidenza diventò una realtà per cui fu deci­so di toglierlo di mezzo. Galli Peppino venne preso la prima volta in cui, con somma ingenuità, si presentò in vallata e venne condotto a Volpara dove si trovava la squa­dra allora comandata da Rossi Mario (D’Artagnan) di Bedonia. Costui ese­guì l’esecuzione sulla strada che da Volpara porta a S. Stefano d’Aveto e lasciò il cadavere nascosto in una macchia di faggio. Di tutto questo nessuno degli estranei ai partigiani, neppure il sotto­scritto, fu messo al corrente.

Un giorno, un pastorello di Volpara scoprì il cadavere, esposto al caldo d’agosto già da qualche giorno, e spaventato ne parlò coi suoi genitori. Que­sti imposero al figlio di non parlare con nessuno per non avere noie, e ven­nero a Chiesiola per consultarmi. Mi recai a Volpara e chiesi di parlare con D’Artagnan. Questi era un tipo che conoscevo, per essere stato in seminario con me, benché fosse più giovane di qualche anno. Prepotente e menefreghista non volle darmi spie­gazioni. La salma del povero Peppino Galli, ucciso più per la sua ingenuità che forse per il male che poteva aver fatto, fu seppellita nel cimitero di Casalporino. Non sono mai riuscito ad avere dal comandante una prova sicura della colpevolezza da parte del Galli. Durante il mese di luglio, nella nostra vallata giunse l’eco degli scontri armati avvenuti ad Alpe, Strepito e Pelosa, ove, in quest’ultimo, perse la vita il parrocchiano – partigiano Serventi Fortunato (Fortunin). Ferito in mol­te parti del corpo, venne portato nel Seminario di Bedonia, che allora fungeva da ospedale, ed ivi vi spirò fra dolori atroci.

Da qualche giorno era stato preannunciato un rastrellamento di fascisti e tedeschi che dovevano partire da Chiavari per portarsi fino a Bedonia e proseguire quindi per la valle del Ceno. La sera del 16 luglio mi trovavo in chiesa per la recita del S. Rosario quando sentii rumori all’esterno della chiesa in direzione della canonica. Terminata affrettatamente la funzione mi precipitai fuori per vedere di che cosa si trattasse. Appena fuori dalla Chiesa, mi trovai davanti ad un ufficiale tedesco che con un italiano appena intellegibile, mi disse che dovevo, a tutti i costi, dare cena ed alloggio ad almeno tre soldati tedeschi durante il rastrellamen­to che era iniziato allora.

Davanti ad un’azione così perentoria dovetti adattarmi a mettere al cor­rente della situazione i miei ospiti di Lavagna. Durante la notte un forte scampanellio alla porta ci svegliò. Subito bal­zai dal letto, mi infilai la talare e corsi da basso, mentre sentivo nella stan­za accanto i tre tedeschi che destatisi stavano parlando tra di loro. Era Bill, il comandante della Brigata, che durante il giorno era andato a dare una mano alla Brigata «Beretta» per un’azione di sabotaggio nei pressi di Bertorella.

Avvisati i ribelli del pericolo li invitai a lasciare il paese onde evitare guai per loro e per la popolazione. A questa mia raccomandazione Bill coi suoi si allontanò con un «ciao» sussurrato. Risalii le scale, mentre i tedeschi continuavano nel loro parlottare in­comprensibile. Per fortuna non diedero importanza alla cosa. Il mattino seguente si presentò in canonica l’ufficiale tedesco accompa­gnato da un subalterno e da un fascista, che doveva fungere da interprete, chiedendomi di poter salire sul campanile per servirsene come punto di os­servazione.

Dopo aver raccontato alcune scuse onde evitare tale ordine, l’ufficiale mi ribadì tale disposizione e quasi con la forza dovetti accompagnarli ai piedi del campanile.   . .. Salirono fino alla cella campanaria, ma fortuna volle che in quel giorno ci fosse molta foschia, per cui scesero, si scusarono con me dicendomi che veramente il campanile non era di nessuna utilità per loro e tra l’altro le scale erano veramente malsicure per portare sulla sommità i loro strumen­ti di osservazione. Ero contento di questo inconveniente fosse andato a buon fine quando, ritornato in canonica e congedo l’ufficiale, la Maria di Sante e l’Annetta di Lazzaro bussarono alla mia porta portandomi ciascuna un fagotto. Mi chie­sero: «Ci fa il piacere di portare da mangiare a Marco (fratello di Maria), a Louis e Jean (fratelli dell’Annetta) e a Tognin (cugino dell’Annetta) ».

In un primo tempo non capii tale richiesta, poi mi spiegarono che que­sti si trovavano nel soffitto della chiesa, dove si erano rifugiati in fretta e furia la sera prima durante l’occupazione dei tedeschi. Non mi ero ancora ripreso completamente per i fatti occorsimi durante la notte che questa mi sembrava addirittura enorme. Spavento che oltretutto era determinato dal fatto che l’ufficiale, per salire sul campanile, aveva dovuto sfiorare la porticina di accesso al soffitto dove i giovani si erano ri­coverati a mia insaputa.

Ormai la cosa era fatta. Presi con me i fagotti e senza farmi scorgere salii in soffitta. Giuntovi chiamai sottovoce i partigiani che mi risposero so­lo ad una mia seconda chiamata. Diedi loro i fagotti avvertendoli che una mia prossima venuta sarebbe stata, se mi era possibile, preceduta dal suono dell’armonium. Raccomandai poi di non fare il minimo rumore per non farsi scoprire. Il giorno dopo, nell’imminenza della partenza, i fascisti si erano riuniti nel piazzale della chiesa. Erano sdraiati per terra in attesa dell’ordine di partenza, quando ad un certo momento uno di essi gridò: «Chi è che tira i sassi? ». Gli altri negarono di essere gli autori di tanto delitto. Dopo pochi minuti lo stesso fascista ripeté la domanda. Non riuscivo a capire quando, con mio orrore mi accorsi che alcuni sassi colpivano effetti­vamente il milite non provenienti dai suoi commilitoni, ma bensì da un fo­ro, a forma di croce, posto nella facciata della chiesa.

Erano i miei «ospiti» che si trovavano nel solaio della chiesa, e che stavano scherzando col pericolo di farsi scoprire proprio all’ultimo momento. Compresi la situazione e, non sapendo cosa fare, rivolgendomi ad un bambino che giocava alla fontana e stava spruzzando d’acqua un amichetto, gridai: « O la pianti o vengo su e te la faccio smettere io ».I fascisti credettero mi rivolgessi a quel bambino, ma per fortuna gli abi­tanti della soffitta compresero e sospesero il loro gioco pericoloso. A questa scena assistette, senza che io me ne accorgessi, anche un uffi­ciale fascista che da Spora aveva condotto a Chiesiola i suoi militi. Egli aveva visto donde provenivano i sassi e subito si recò in canonica chiedendo di me alla Signora Mangiante per ottenere la spiegazione del fatto a cui aveva assistito.

La signora, che sapeva dei quattro, non negò la loro presenza, ma prese la loro difesa adducendo alla giovane età e al fatto che non erano partigiani. Quasi annichilito dalla foga della signora Mangiante, l’ufficiale uscì dalla canonica e incontrandomi nel piazzale mi disse: «Se a lei ed al suo paese è andata bene lo deve a sua cugina ». A queste parole cascai dalle nuvole. Dopo pochi minuti venne dato l’ordine di partenza. Giunto in canonica riferii le parole dette dall’ufficiale e solo allora venni a conoscenza della scena avvenuta pochi minuti prima, e dagli occhi ancora rossi e dell’emozione della signora compresi chi era mia cugina. In paese questa invasione di tedeschi e fascisti, e la loro permanenza, portò molto spavento.

Rovistarono da capo a fondo, in tutte le case, per vedere se c’erano par­tigiani o documenti e una volta partiti i paesani si accorsero che dai comò  erano stati sottratti catenelle d’oro, orologi ed altri oggetti di valore. In mancanza dei partigiani, i fascisti pensarono di portare con sè qual­che cosa a ricordo di quel pacifico rastrellamento. Dopo circa un mese dal rastrellamento, un pomeriggio, mi vidi capitare in casa Don Nino Rolleri, Cappellano del Comando Unico di Parma. Dopo i primi convenevoli mi disse che voleva parlarmi a tu per tu. Ci ritirammo nella mia cucinetta e lì mi chiese come si era svolta l’occu­pazione fascista. Terminata la mia esposizione Don Rolleri mi avverti che tutto coinci­deva col rapporto tedesco stilato in Chiesiola, e precisamente nella mia Canonica, e sottratto a questi durante un’imboscata.

La presenza di Don Rolleri non era casuale, ma voluta dal Comando Unico di Parma per un più profondo accertamento. Dopo un veloce spuntino Don Rolleri mi lasciò diretto verso S. Stefano d’Aveto. Da qualche giorno si era sparsa la voce che truppe di tedeschi e di Mon­goli si trovavano nei pressi di Cornolo quando la mattina del 31 luglio, dopo la celebrazione della Messa, si avverti il rumore di colpi di moschetto e raffiche di mitra. Antonio Moglia (Putareu) arrivò di corsa sul piazzale della chiesa e tutto trafelato gridò: «Arrivano i tedeschi». Le donne si ritirarono in casa coi bambini, mentre io con i giovani scap­pavamo in direzione del bosco. Era la prima volta che mi allontanavo dalla parrocchia durante un’in­cursione, e fu anche l’ultima. Durante il tragitto fummo bersagliati da raffiche di mitra che grazie a Dio non colpirono nessuno.

Rimasi lontano da casa fino a circa le quattro del pomeriggio quando il papà di Silvio mi rintracciò e mi avvertì che i pochi fascisti e mongoli del mattino si erano accontentati di raccattare il pane, salame, polli, vino. Nel loro giungere ad Anzola i fascisti avevano colpito con una raffica ad una gamba Federici Pietro che non si era fermato alla loro intimazione. Il Federici rimase per molto tempo degente a letto e la gamba gli rimase diritta. Rimasto in tutta la vallata con la sola compagnia del Parroco di Calice, Don Clemente Boccardo, ormai anziano e gracile di salute, sentivo la necessità di potermi intrattenere con qualche altro confratello. Un giorno sentii bussare la porta della Canonica e mi si presentò davanti la figura alta e paterna di Mons. Paolo Checchi, Arciprete di Bedonia. Davanti a questa apparizione rimasi senza parola. Mi sembrava un secolo di non aver visto il mio venerando Monsignore.

Purtroppo, si trattenne poche ore; era venuto per sapere come andavano le cose nelle nostre parrocchie, mi chiese dei partigiani e volle sapere i particolari della morte di Peppino Galli. Lo presentai ai miei ospiti, che lo salutarono cordialmente, ed a cui rivolse parole di incoraggiamento e di conforto. L’Arciprete di Drusco, Don Agostino Viviani, aveva accettato l’impe­gno di cappellano della Divisione «Bisagno» nel genovesato, per cui ri­mase per molto tempo lontano dalla parrocchia, dove faceva solo qualche capatina. Il Parroco di Romezzano, Don Rocco, poco coraggioso, dopo il tratta­mento che aveva avuto dai fascisti in un drammatico rastrellamento, non si muoveva mai dal paese. Don Luigi Pilla, Parroco di Casalporino, alle prime avvisaglie del peri­colo che portava la presenza dei ribelli nella zona, un giorno mi pregò di assumermi la cura della Parrocchia per sottoporsi ad una operazione di appendicite.

Non lo si vide più in zona se non dopo parecchi mesi dalla fine della guerra per il trasporto del suo mobilio alla parrocchia di Trebecco, a cui nel frattempo era stato assegnato come Parroco. A sostituirlo, in seguito, venne come Parroco, Don Davide Monteverdi, nativo di Romezzano, sacerdote ordinato durante la guerra. Questo giovane sacerdote si prestò durante il conflitto con abnegazione, generosità e pericolo. Durante l’assenza dei parroci sopraddetti avvenne un fatto che portò morti, feriti e rovine a Drusco. Il 5 agosto a Volpara, frazione di Casalporino, che avevo avuto in con­segna da Don Pilla, si doveva celebrare la festa della Madonna della neve con la celebrazione della S. Messa alle ore 11.

Alle ore 8 circa mi trovavo sul piazzale della Chiesa di Chiesiola quando vidi spuntare nel cielo, nella direzione di Bardi una formazione di aerei che si dirigeva in direzione del monte Tomarlo. Il fatto non mi impressionò perché simili formazioni solcavano spesso il cielo. Quando però la formazione sorvolò l’abitato di Drusco scorsi gli apparecchi lasciare cadere qualcosa. A questo gesto seguirono rombi e scoppi nell’abitato di Drusco e lungo tutto il percorso fino a Volpara, che non era visibile da Chiesiola, e ivi cessarono. A quella vista, con l’ingegnere che era uscito precipitosamente di casa, comprendemmo che il disastro che era successo richiedeva il nostro aiuto. Ci mettemmo di corsa nella direzione di detta frazione assieme a Marco Moglia.

Fortunatamente Volpara non era stata colpita. La bomba che credevo destinata a detta località era scoppiata a circa un chilometro di distanza tra Volpara e Selvola. Ci recammo cosi a Drusco. La vista di questo paese ci fece profonda impressione. Case sventrate, lamenti e grida da tutte le parti. Assieme al Dott. Squeri Angelo cercammo di portare tutto il nostro aiuto. Fu pure d’aiuto Don Clemente Boccardo, Parroco di Calice, che, benché anziano e malaticcio, cercava di supplire Don Viviani assente. Più tardi col chierico Monteverdi Davide celebrai la Messa per i parrocchiani di Drusco. Il 25 agosto 1944 giunse la nuova che alcune compagnie di fascisti sa­rebbero arrivate a compiere un rastrellamento. Era il tempo in cui Scarpa era intendente e Bill il comandante della Brigata. Nella mia Parrocchia, e precisamente nella frazioncina denominata « Montà» abitava la moglie di Scarpa: Moglia Rina con i due figli: Gabriele e Giuseppe, quest’ultimo di pochi mesi.

Giunsero le truppe fasciste che occuparono Chiesiola, Anzola, Fornolo e Casalporino. Una volta insediatisi nelle case e nelle cascine, di fatto non fecero nulla; di giorno gli ufficiali chiacchieravano del più e del meno, e verso sera sten­devano uno sbarramento attraverso la strada nel timore di un assalto not­turno da parte dei partigiani. In Canonica non era alloggiato nessuno, ma, di giorno, venivano a mangiare, un tenente della milizia, un tenente medico e qualche volta un sergente ed un caporale. Il Tenente-medico era la persona più pericolosa. Conosceva troppe cose e fatti della zona. Più volte cercò con abili domande a tranello di farmi parlare. Più volte mi chiese della moglie di Scarpa il cui marito aveva cono­sciuto durante un periodo di prigionia, da me però non seppe nulla. Solo il terzo giorno, al momento della partenza mi rivelò: «Ora so chi è la moglie di Scarpa, ma non tema per lei e per i figli, non mi voglio mostrare ingrato per il trattamento che ho avuto da Scarpa durante la mia prigionia ».

Rimasi di stucco a quelle parole; ci demmo una forte stretta di mano e ci separammo. Seppi poi, più tardi, che questo tenente-medico era caduto in una im­boscata tesa dai partigiani alla sua compagnia durante un successivo ra­strellamento. Nei primi giorni del 1945 fummo sottoposti ad un nuovo rastrella­mento. Gli Alpini provenivano da Chiavari; setacciarono quasi tutti i paesi che si trovavano sulla strada, da Chiavari a Bedonia. Il l0 gennaio, alle ore 11 circa, di ritorno da Spora, dove avevo cele­brato la S. Messa, mi vidi capitare in casa Volpini Don Riccardo, Parroco di Strepeto, che era fuggito di casa sua con un gruppo di parrocchiani ri­cercati dagli alpini. Attraversando il monte Orocco che, per fortuna, in quei giorni non era coperto di neve, si era portato verso Chiesiola per andare poi a finire a Retorto dove aveva intenzione di fermarsi.

La sua fuga repentina mise in allarme gli abitanti di Chiesiola e della vallata e preparò i paesani a quella psicosi che precedeva sempre un ra­strellamento. La mattina del 3 gennaio vedemmo arrivare le prime colonne degli Alpini. Una parte di essi si portò nelle parrocchie di Spora, Romezzano e Casalporino. Questo rastrellamento fu però molto calmo in quanto gli alpini, ufficiali e truppa, una volta sistemati, non fecero che tenere lunghe chiacchierate ed interminabili tombole nelle case in cui si trovavano. Prima della venuta degli Alpini quattro miei parrocchiani si rifugiarono in un bosco a circa mezzo chilometro dalla chiesa.

Il mattino successivo all’occupazione vennero da me i familiari di alcuni di questi onde poter fare loro pervenire un po’ di cibo. Il pericolo era molto grave non solo perché il farsi vedere in giro con fagotti poteva destare sospetto, ma anche per il fatto che durante la notte erano caduti circa dieci centimetri di neve e le orme che si lasciavano sui sentieri potevano essere buona traccia per gli alpini per arrivare al rifugio dei ribelli. D’altronde non si poteva far morire di fame quella povera gente. Avuta la roba, ne feci un unico pacco, ispezionai attorno alla Canonica per vedere se potevo allontanarmi senza essere visto e dopo aver avvisato i miei ospiti che mi dovevo recare a Spora onde preparare la chiesa per la vicina festa dell’Epifania, mi inerpicai per un sentiero già segnato da chi si era recato ad una stalla, di buon mattino, per accudire alle bestie. Stavo avvicinandomi al rifugio indicatomi dai familiari quando scorsi davanti a me due alpini che transitavano per una stradetta in diagonale col mio sentiero.

Non mi mossi e mi abbassai il più possibile perché la mia tonaca nera era troppo visibile sul bianco della neve. Passarono senza scorgermi. Allontanatisi i due, mi avvicinai a ritroso al rifugio che intravedevo, consegnai il fagotto dei viveri e, senza fermarmi minimamente, feci ri­torno a casa. Di questo rastrellamento voglio sottolineare il caso di un giovane alpino comandato a vigilare la porta della mia Canonica per paura di un’incur­sione da parte dei partigiani. Un giorno, questo giovanotto si aprì con me raccontandomi di aver ve­stito il grigio-verde per paura che venisse fatto del male alla sua famiglia. Mi mostrò tutto il suo interesse ed il suo desiderio di unirsi ai partigiani, ma la diffidenza mi spinse a non cogliere tale volontà.

Nei giorni successivi più volte tornò sul discorso, ma la diffidenza mi spinse ad essere prudente. Anche prima della partenza mi disse: «Reverendo, mi tenga qui con lei, voglio andare coi partigiani ». Ci si poteva fidare? Qualche giorno dopo la partenza delle truppe ci giunse la notizia che gli alpini si erano scontra ti con uno sparuto gruppo di partigiani. Vi erano stati dei morti e dei feriti e dalla descrizione avuta, posso essere quasi certo che fra i caduti di quello scontro c’era anche il mio giovane alpino. Per il comportamento che ha tenuto in questa circostanza non posso, né voglio giudicarmi, spero davanti a Dio di non avere colpa. Le forze alpine che avevano invaso le nostre case si unirono in Valceno con altre forze provenienti da S. Stefano d’Aveto.

Davanti a questo spiegamento di forze i partigiani si portarono, attra­verso il Pelpi, verso Cereseto dove una nevicata abbondante impedì il mo­vimento regolare del gruppo. In questa località il 6 gennaio lasciò la vita il giovane Bresadola Bruno, parrocchiano di Chiesiola e uno dei primi iscritti alla formazione parti­giana del monte Penna. Allontanatisi gli Alpini, la salma venne portata a Bedonia dove insie­me con gli altri caduti fu sepolta nel cimitero locale. In questa circostanza non pochi partigiani, fortemente provati dal fred­do, ebbero i piedi congelati, ad essi i paesani prestarono la loro opera di soccorso. Durante la guerra era obbligatorio da parte dei contadini consegnare il bestiame ai periodici raduni nella quantità fissata dall’autorità.

In cambio di questo conferimento veniva consegnato un «buono» che di fatto non era buono a nulla. Chi non aderiva a questi raduni aveva noie a non finire da parte dei Segretari e fiduciari politici fascisti. Quando invece nei nostri paesi subentrarono i partigiani, i concittadini si azzardarono a non consegnare più il quantitativo di carne richiesta isti­tuendo nei paesi una specie di cooperativa, con cui il bestiame veniva ma­cellato in loco e distribuito fra le famiglie dei diversi paesi, anche perché fino ai nostri paesi, dispersi sui monti, non arrivava il condizionamento che già così scarsamente era annotato dalla carta annonaria. Anche a Chiesiola veniva macellato a turno, qualche capo di bestiame. Accudiva a questa occupazione Serventi Pietro, che abitava a poche decine di metri dalla chiesa. In compenso del suo lavoro aveva facoltà di tenersi la pelle della bestia macellata che poi rivendeva. Si avvicinava la Pasqua del 1945. Un giorno mi recai a Drusco dall’ Arciprete Don Viviani, cappellano del­la Divisione «Bisagno ». Gli chiesi il suo aiuto per poter far fare Pasqua con la Comunione generale a tutta la brigata «Monte Penna ».

Si offri volentieri ed insieme ci recammo a Tomba dove in quel periodo si trovava Bill, il comandante, col comando. Bill acconsentì e si decise di celebrarla all’aperto ad Anzola, località di facile accesso per le diverse squadre. Celebrò la S. Messa Mons. Primo Moglia, Parroco di Allegrezze, assi­stito da Don Viviani. Come assistente del celebrante notai che durante la distribuzione della S, Comunione, il commissario Politico «Dodo» (Dott. Braga) fu uno dei pochi a non accostarsi a ricevere l’ostia santa. Interpellato, mi disse: «Don Domenico, lei sa che io non credo. Non sono contrario a certe cerimonie, di cui apprezzo l’utilità in determinate circostanze come le attuali. Ma lei, sapendo come la penso, avrebbe prefe­rito vedermi compiere un gesto di cui non ero convinto o no? ». Non potei che stringergli la mano e dirgli: «Bravo! Hai fatto bene a comportarti come hai fatto ». Il 6 aprile 1945 lasciai la Parrocchia per portarmi con Don Paolo Botti a Casaliggio dove egli si trovava come Curato di mio zio Don Pietro Delchiappo.

Don Paolo, a piedi, da Casaliggio, si era portato fino a Chiesiola per mettermi al corrente dell’aggravamento del male che da tempo affiggeva lo zio. Prima di partire, non potendo abbandonare la Parrocchia, perché gli unici Parroci in loco, oltre al sottoscritto, erano il Rev. Don Alfredo Lusardi di Spora e Don Davide Monteverdi di Casalporino, chiesi a Don Romualdi Gazzola, vicedirettore del Seminario di Bedonia, di provvedere alla mia sostituzione per il tempo che mi era necessario fermarmi a Casaliggio. Egli accettò questo impegno di buon grado. In questo tragitto, compiuto fino alle Moline con Don Paolo Botti e poi da solo, venni fermato e poi rilasciato prima dai tedeschi nelle vici­nanze di Rivergaro e poi dai partigiani presso Rivalta. Dallo zio Arciprete mi sorprese la notizia della resa del 25 aprile.Il giorno dopo (lo zio intanto si era ripreso) feci ritorno in Parrocchia. Una volta ritornata la tranquillità i signori Mangiante desiderarono tor­nare a Lavagna.

Si fermarono ancora qualche giorno, indi, nel mese di maggio, partirono. Volevano andare via dal paese senza fare sapere nulla a nessuno, però non vi riuscirono perché tanto il signor ingegnere quanto la signora Ester ave­vano fatto troppo, in venti mesi di permanenza nella Canonica, a favore e per la salvezza dei parrocchiani. Quando partirono la Canonica fu per me vuota e squallida. La pace e la tranquillità che seguì al 25 aprile 1945 permise di tirare un sospiro di sollievo. Sollievo che però era costato lacrime e sangue sia da parte dei parti­giani che da parte dei civili. Il loro sacrificio non deve essere dimenticato anche se assai di frequente si cerca di non ricordare quello che ci ha portato sofferenza.

Perché a noi ed ai posteri fosse un richiamo alla pace, alla concordia e all’amore di patria, sul Monte Penna, da cui il nostro gruppo partigiano aveva preso il nome, ai piedi dell’imponente statua di bronzo della Ma­donna di San Marco venne posta una lapide con i nomi di tutti i caduti partigiani e  civili della Val Ceno. Il 12 agosto 1945 venne inaugurato questo segno di riconoscenza ai nostri caduti ed alla Madonna di San Marco con una S. Messa in suffragio e di ringraziamento celebrata dal sottoscritto come primo Cappellano del Gruppo Monte Penna seguita da un breve discorso commemorativo tenuto dal Dott. Carlo Squeri, partigiano.

PARROCCHIA DI SPORA

 

MANTEGARI DON DAVIDE (1905 – 1978)

            Dal 1933 fu Parroco di Spora.

 

1946 gennaio 24 – Vigolo V.N. di Bettola.

Lettera di accompagnamento della relazione di Don Mantegari.

 

Spett. Commissione,

Mi decido finalmente a spedire la relazione sull’opera svolta dal sottoscritto nella sua ex-parrocchia di Sopra. Nessuna meraviglia se le tragiche circostanze mi hanno spinto ad imprese che sembrano su­periori alle mie forze. Si sa che l’Alta Valceno è stata una delle più martoriate dalle rap­presaglie nazifasciste, come tutta la montagna Bedoniese. Finora mi ha trattenuto l’estrema (per quanto malintesa) ripu­gnanza di dover parlare di me stesso, ma sono convinto che sia un’ope­ra buona, per l’onore del clero. In insipientia dico.

Comunque per esprimermi più liberamente parlerò in terza perso­na. Però ho cercato di essere oggettivo, per quanto un pò fiorito. Te­stimonianze di conferma se ne possono trovare dappertutto nell’Alta Val Ceno, nelle due parrocchie di Spora e Romezzano (soprattutto nell’Economo Spirituale di quest’ultima parrocchia, il M.R. Don Davide Monteverdi, Bobbiese). Avrei materia per sviluppare altri due punti (a favore dei parti­giani e degli ebrei) ma mi sembra cosa inutile, perché comune in tante parrocchie. Penso che parecchi sacerdoti avranno più campo di me.

Quindi per ora mi limito all’opera svolta durante il rastrellamento del maggio 1944. Non occorre dire che la Commissione può disporre come crede del mio manoscritto.

           Ossequiando Don Davide Mantegari, Prevosto

1946 gennaio 24 – Vigolo V.N. di Bettola.

Relazione di Don Mantegari in risposta alla circolare della com­missione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

Rastrellamento dell’Alta Valceno (Maggio 1944)

La mattina del 23 maggio 1944 il sac. D. Davide Mantegari Pre­vosto di Spora s’incamminava per M. Anzola diretto a Bedonia. Ma alla carrozzabile, invece dell’autocorriera, trova una lunga fila di camions tedeschi. Che c’era di nuovo? I tedeschi, avevano buttato im­provvisamente un’intera divisione nella valle per un grande rastrella­mento.Era noto a tutti come le prime formazioni partigiane avessero pre­so posizione sui monti Penna ed Orocco, alle sorgenti del Ceno, nel territorio di Sopra e Romezzano (Bedonia). Il detto Sacerdote come parroco di Spora, covo di partigiani, era indiziato presso i nazifascisti. Che fare? Svignarsela? No, preferisce ritornare in parrocchia, già asse­diata dai tedeschi, a condividere i pericoli coi suoi parrocchiani.

A mezzo cammino due sentinelle gli chiedono la carta d’identità che si scusa di non averla perché si trova nel territorio della sua par­rocchia. Giunto in parrocchia s’incontra col resto dei tedeschi che armati di tutto punto stavano già perlustrando il paese in cerca di partigiani e giovani di leva. Don Mantegari per prima cosa spalanca la porta della chiesa per allontanare da essa ogni sospetto; e poi fa un giro in paese tra i tedeschi, per incoraggiare i parrocchiani e all’ occorrenza ammansire quelle belve con opportune delucidazioni. Ritornato in canonica trova un sottufficiale fascista che sta perqui­sendo la casa, frugando sino nella più piccola scatola. Non trovando nulla di compromettente esce dicendo al parroco: «Per me basta co­sì; ma Lei, Rev.do, avrà molte noie in questi giorni ». Nonostante que­ste parole così poco rassicuranti Don Mantegari pensa di non muo­versi; il suo posto – egli pensa – è tra i suoi parrocchiani. E risponde al milite: «Sono pronto per ogni eventualità; la mia casa è sempre aperta a tutti ».

Qualche ora dopo passa un tenente della milizia a chiedere ragioni dell’ assenza degli uomini. Il parroco la giustifica colla piccolezza del paese e le esigenze di guerra (militari, prigionieri, dispersi). Però la quasi totalità era a casa. È vero che la popolazione in preda al terrore voleva darsi alla fuga, perché già conosceva i metodi brutali della sol­dataglia tedesca; ma il parroco aveva raccomandato a tutti che, eccetto i giovani, nessuno si allontanasse, per non avere la peggio, come inse­gnava l’esempio degli altri paesi danneggiati. E difatti nessuno in casa fu toccato, se non tre da far da guida ai monti per tre giorni. L’ufficiale esce senza aggiungere altro. Più tardi ancora entra col suo seguito un sottufficiale tedesco coll’ordine di arrestare il parroco perché risultava esserci in paese il quar­tiere generale dei ribelli. Don Mantegari dopo una serena e non breve discussione riesce a convincerlo a desistere dal proposito violento.

Intanto la pattuglia di perlustrazione aveva terminato la sua ope­ra con risultato negativo. I partigiani prima di fuggire e i padroni del­le case avevano provveduto ad una pulizia generale. Quanto ai giovani di leva si erano sottratti alla caccia umana nascondendosi nelle cantine e nei solai: qualunque più remoto ripostiglio era prezioso in quei momenti. Pochi fuggirono per i boschi, dei quali uno rimase vittima. Dopo la perquisizione delle case quei diecimila nazifascisti si spar­sero per i monti. Per due giorni continui frugarono l’Orocco e il Pen­na cespuglio per cespuglio. Tutta la valle fu sottoposta ad una vera tempesta di mitraglia: ovunque rombi sinistri che incutevano spaven­toI partigiani forestieri furono costretti a sgomberare la zona. Infine le orde tedesche, imbestialite dalla perdita di tempo, dalla fatica inutile su per i dirupi del Penna, fatica sproporzionata alle po­che vittime tra i partigiani, sfogarono la loro rabbia contro la gente inerme che incontrarono: tre pastori che andavano in cerca del be­stiame disperso; un adulto ferito gravemente e reso invalido; due giovani sorelle di cui una ferita gravemente e l’altra morta.

Non solo. Il terzo giorno di rastrellamento feroce il Comando delle SS. prende la brutale decisione di dare alle fiamme i due paesi. Già avevano incendiato una casa (dove l’ultima volta avevano per­nottato i fuggitivi) presi alcuni ostaggi, sequestrati parecchi capi di be­stiame che tenevano nella chiesa di Romezzano trasformata per l’occa­sione in magazzino e stalla (orrore!) mentre il parroco del luogo dopo averlo sacrilegamente malmenato, lo costrinsero a letto in una casa privata.

Non ancora sazi quei tedeschi lorchi (direbbe il nostro Dante, Inf. XVII) si appigliano ai loro soliti metodi sbrigativi e selvaggi: incen­diare! Ora fosca per i due paesi: sotto l’ansia più inquieta per l’arbitrario terrorismo di quella gente perduta. Momento estremamente delicato. Che fare? Rassegnarsi e tacere? Chiesa e canonica l’avrebbero risparmiata; ma gli altri? Don Mantegari prende una risoluzione eroica: affrontare il Coman­do. Noncurante del mortale pericolo (come vittima già designata), ac­compagnato da Don D. Monteverdi, allora Diacono ora Parroco del luogo, si presenta al comando di Chiesiola e chiede di conoscere le di­sposizioni militari per la zona. «Bruciare paesi se i ribelli resistono o se trovate armi o renitenti; altrimenti no ». – Perché il Comandante di lassù vuol assolutamente bruciare? – fa osservare il sacerdote.

«Noi non sapere».

Da Chiesiola si reca immediatamente a Romezzano sede della guar­nigione delle SS. che avevano preso quella barbara decisione. Si pre­senta al Colonnello che lo riceve con sguardo truce e atteggiamento minaccioso e gli dice subito in italiano-tedesco: «Di voi fare caput ». Con questo poco bel complimento comincia il drammatico dialogo tra l’ufficiale tedesco e il sacerdote che deciderà della sorte dei due paesi. Riassumo. Ad ogni minaccia del tedesco il sacerdote ribatte so­stenendo cortesemente sì, ma sempre animatamente la causa della giu­stizia e delle carità. Comincia il tedesco: «Avere cantato i ribelli nella vostra chiesa ». (Due giorni prima per una festa votiva avevano formato coro distinto). – In chiesa han diritto tutti di pregare -. «Voi e parrocchiani aver dato alloggio e vitto ai ribelli ». – È programma di noi cattolici dare alloggio ai pellegrini e un boccone a qualsiasi affamato -.

«Là quartiere invernale dei ribelli» e indica un gruppo di case sopra a Spora dove realmente i partigiani avevano passato l’inverno. – Sono case non abitate aperte a tutti -. Tanto è vero che essi stessi vi avevano pernottato due volte, e dietro precisa indicazione del parroco, per potere eventualmente chiu­dere loro la bocca; e il mattino seguente lo avevano ringraziato dell’alloggio procurato.

«Voi, pastori, potete e dovete convincere gente ». (In quei tempi, specialmente nei piccoli centri di montagna, il par­roco era responsabile di tutto, anche dell’ordine pubblico). – Noi facciamo uso della forza persuasiva della parola non delle armi. Noi predichiamo a tutti la legge di Dio che proibisce di ucci­dere, rubare… invece tanti continuano a uccidere… -. « Voi essere più ribelle dei ribelli. In Piemonte avere ucciso set­tanta Pastori… BRUCIATE TUTTE LE CASE perché essere tutti ri­belli» .

A tali crude parole il sacerdote, pur sapendo a quale mortale pe­ricolo era esposto, reagì con fierezza e dignità, richiamando l’ufficiale al senso umanitario della vita. – È un delitto che grida vendetta presso Dio distruggere interi paesi innocenti. Ne avreste rimorso per tutta la vita. Invece un’opera buona attirerà su di voi la benedizione di Dio, di cui avete bisogno anche voi tra tanti pericoli di guerra. Il coman­dante di Chiesiola mi ha garantito che l’ordine di bruciare non è asso­luto ma è condizionato alla resistenza dei ribelli; ora essi non hanno resistito -.

Difatti i partigiani in numero di trecento (e non migliaia come cre­devano i nazifascisti) rifugiatisi sui dirupi del Penna, s’erano ritirati nel Genovesato. «Saper niente voi. Essere io capo non a Chiesiola ». – Il Comandante di laggiù dice che siete pari in autorità (a Chiesiola erano truppe regolari, a Romezzano erano SS.). Comunque anche voi avete i vostri superiori, come io ho i miei. Perciò mi ritengo auto­rizzato ad accertarmi meglio presso i vostri superiori sull’ordine che voi dite di aver ricevuto -. A tali franche parole il Colonnello, con sfrontatezza sacrilega, pre­se irosamente per il collare e per il petto il sacerdote e lo scosse ner­vosamente con minaccia di metterlo al muro e farlo finito. Don Mantegari rimase calmo ed imperturbabile. Ormai la sua vita era giocata. Sua unica preoccupazione era di salvare ad ogni costo i due paesi dalla distruzione.

L’Ufficiale per calmare la bile si era diretto verso il fienile che a pochi passi una trentina di SS. stavano incendiando. Don Mantegari, per nulla intimorito, lo segue, deciso di giungere ad una conclusione. Per questo era accorso generoso, per questo reagiva con tanta energia. Tra le SS. riconosce il sottufficiale che il giorno precedente era passato in canonica a Spora con l’incarico di catturarlo e che poi aveva lasciato libero. Il sacerdote gli fa un sorriso, gli rivolge un complimen­to ed attacca discorso. Il sottufficiale, per timore del superiore irritato, si limita ad uno sfuggevole sorriso e continua a testa bassa il suo la­voro di buttar fascine nel fuoco.

Ma il colonnello accortosi di tutte quelle mosse, chiama a sé il suo milite e gli parla in segreto. Momento decisivo. Gli avrà chiesto le sue impressioni su quel sacerdote, informazioni più precise sulla sua visita a Spora. Penso che gliele avrà date buone quel bonario sottuf­ficiale, perché dopo il segreto colloquio il Colonnello chiama a sé Don Davide e gli dice: « Vedere voi essere onesto. Per questo concedere grazia. Non bruciare paesi       bruciare soltanto una casa » Deo gratias! A Don Davide sembrava di sognare. Si permette an­cora di domandare un’assicurazione formale perché potesse tranquilliz­zare la popolazione tremante sotto l’incubo del loro tragico imminen­te destino.

Risponde subito l’ufficiale: «Noi garantire questa volta perdonare; un’altra volta non perdonare più ». La partita dunque era vinta. La promessa era fatta e fortunata­mente venne mantenuta. La stessa sera (25 maggio) se n’andarono e non tornarono più se non alla spicciolata; e i due paesi sono salvi. Dopo una lunga e intelligente opera di persuasione il sacerdote era riuscito a far loro deporre il pensiero della rappresaglia. Per il suo contegno eroicamente fermo nel difendere la causa della giustizia (ed anche per il suo schietto sorriso fatto ad un avversario) riuscì ad im­porsi alla considerazione delle stesse SS., a tutti note per la brutale crudeltà.«Quel Pastore essere intelligente! » avevano detto ad alcune don­ne presenti. Fu il loro giudizio conclusivo sul conto di quel sacerdote che aveva avuto l’indomita fierezza di opporsi ai loro insani e sangui­nari progetti.

Questo è uno dei tanti esempi di eroismo compiuti dal clero in quell’eccezionale periodo storico; esempi che dimostrano come il clero sia sempre rimasto all’altezza della situazione, sia pure nello sgretola­mento di tante istituzioni e di tanti spiriti. I sacerdoti si sono mantenuti, come sempre, uniti al loro popolo, specialmente a coloro che erano più esposti ai pericoli, ai danni, alle sofferenze della guerra. Lo hanno assistito e coraggiosamente difeso affrontando le più terribili responsabilità, resistendo impavidamente alle sopraffazioni dei nemici della patria e della chiesa. Hanno realiz­zato il programma evangelico del buon pastore di anime che è sempre pronto a sacrificare la vita per il suo gregge. E molti l’hanno realmente sacrificata, cadendo vittime espiatori per le presunte colpe degli altri (o per aver dato mano ai patrioti o per essersi esposti a difesa dei loro fedeli). Questa parte luminosa ed eroica compiuta dal clero durante il periodo oscuro della resistenza valga a dissipare le calunnie di certa propaganda orale e scritta, e confermare i buoni.

È un fatto che il popolo italiano, nell’immane catastrofe che lo ha colpito, ha trovato nella sua fede cattolica la più ricca sorgente di for­tezza e di conforto. Non dimentichi che quelle energie spirituali sem­pre inesauribili sono anche ora indispensabili al risorgimento civile della patria. La constatazione che la fede del popolo è uscita dalla tre­menda prova non indebolita ma piuttosto rafforzata, sarà per i sacer­doti la più ambita ricompensa ai loro sacrifici.

[f.to] Don Davide Mantegari

PARROCCHIA DI SPORA

 

MANTEGARI DON DAVIDE (1905 – 1978)

            Dal 1933 fu Parroco di Spora.

 

1946 gennaio 24 – Vigolo V.N. di Bettola.

Lettera di accompagnamento della relazione di Don Mantegari.

 

Spett. Commissione,

Mi decido finalmente a spedire la relazione sull’opera svolta dal sottoscritto nella sua ex-parrocchia di Sopra. Nessuna meraviglia se le tragiche circostanze mi hanno spinto ad imprese che sembrano su­periori alle mie forze. Si sa che l’Alta ValCeno è stata una delle più martoriate dalle rap­presaglie nazifasciste, come tutta la montagna Bedoniese. Finora mi ha trattenuto l’estrema (per quanto malintesa) ripu­gnanza di dover parlare di me stesso, ma sono convinto che sia un’ope­ra buona, per l’onore del clero. In insipienti dico.

Comunque per esprimermi più liberamente parlerò in terza perso­na. Però ho cercato di essere oggettivo, per quanto un pò fiorito. Te­stimonianze di conferma se ne possono trovare dappertutto nell’Alta Val Ceno, nelle due parrocchie di Spora e Romezzano (soprattutto nell’Economo Spirituale di quest’ultima parrocchia, il M.R. Don Davide Monteverdi, Bobbiese). Avrei materia per sviluppare altri due punti (a favore dei parti­giani e degli ebrei) ma mi sembra cosa inutile, perché comune in tante parrocchie. Penso che parecchi sacerdoti avranno più campo di me.

Quindi per ora mi limito all’opera svolta durante il rastrellamento del maggio 1944. Non occorre dire che la Commissione può disporre come crede del mio manoscritto.

           Ossequiando

[f.to] Don Davide Mantegari, Prevosto

 1946 gennaio 24 – Vigolo V.N. di Bettola.

Relazione di Don Mantegari in risposta alla circolare della com­missione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

 

Rastrellamento dell’Alta ValCeno (Maggio 1944)

 

La mattina del 23 maggio 1944 il sac. D. Davide Mantegari Pre­vosto di Spora s’incamminava per M. Anzola diretto a Bedonia. Ma alla carrozzabile, invece dell’autocorriera, trova una lunga fila di camions tedeschi. Che c’era di nuovo? I tedeschi, avevano buttato im­provvisamente un’intera divisione nella valle per un grande rastrella­mento. Era noto a tutti come le prime formazioni partigiane avessero pre­so posizione sui monti Penna ed Orocco, alle sorgenti del Ceno, nel territorio di Sopra e Romezzano (Bedonia). Il detto Sacerdote come parroco di Spora, covo di partigiani, era indiziato presso i nazifascisti. Che fare? Svignarsela? No, preferisce ritornare in parrocchia, già asse­diata dai tedeschi, a condividere i pericoli coi suoi parrocchiani.

A mezzo cammino due sentinelle gli chiedono la carta d’identità che si scusa di non averla perché si trova nel territorio della sua par­rocchia. Giunto in parrocchia s’incontra col resto dei tedeschi che armati di tutto punto stavano già perlustrando il paese in cerca di partigiani e giovani di leva. Don Mantegari per prima cosa spalanca la porta della chiesa per allontanare da essa ogni sospetto; e poi fa un giro in paese tra i tedeschi, per incoraggiare i parrocchiani e all’ occorrenza ammansire quelle belve con opportune delucidazioni.

Ritornato in canonica trova un sottufficiale fascista che sta perqui­sendo la casa, frugando sino nella più piccola scatola. Non trovando nulla di compromettente esce dicendo al parroco: «Per me basta co­sì; ma Lei, Rev.do, avrà molte noie in questi giorni ». Nonostante que­ste parole così poco rassicuranti Don Mantegari pensa di non muo­versi; il suo posto – egli pensa – è tra i suoi parrocchiani. E risponde al milite: «Sono pronto per ogni eventualità; la mia casa è sempre aperta a tutti ». Qualche ora dopo passa un tenente della milizia a chiedere ragioni dell’ assenza degli uomini. Il parroco la giustifica colla piccolezza del paese e le esigenze di guerra (militari, prigionieri, dispersi). Però la quasi totalità era a casa. È vero che la popolazione in preda al terrore voleva darsi alla fuga, perché già conosceva i metodi brutali della sol­dataglia tedesca; ma il parroco aveva raccomandato a tutti che, eccetto i giovani, nessuno si allontanasse, per non avere la peggio, come inse­gnava l’esempio degli altri paesi danneggiati. E difatti nessuno in casa fu toccato, se non tre da far da guida ai monti per tre giorni.

L’ufficiale esce senza aggiungere altro. Più tardi ancora entra col suo seguito un sottufficiale tedesco coll’ordine di arrestare il parroco perché risultava esserci in paese il quar­tiere generale dei ribelli. Don Mantegari dopo una serena e non breve discussione riesce a convincerlo a desistere dal proposito violento. Intanto la pattuglia di perlustrazione aveva terminato la sua ope­ra con risultato negativo. I partigiani prima di fuggire e i padroni del­le case avevano provveduto ad una pulizia generale. Quanto ai giovani di leva si erano sottratti alla caccia umana nascondendosi nelle cantine e nei solai: qualunque più remoto ripostiglio era prezioso in quei momenti. Pochi fuggirono per i boschi, dei quali uno rimase vittima.

Dopo la perquisizione delle case quei diecimila nazifascisti si spar­sero per i monti. Per due giorni continui frugarono l’Orocco e il Pen­na cespuglio per cespuglio. Tutta la valle fu sottoposta ad una vera tempesta di mitraglia: ovunque rombi sinistri che incutevano spaven­toI partigiani forestieri furono costretti a sgomberare la zona. Infine le orde tedesche, imbestialite dalla perdita di tempo, dalla fatica inutile su per i dirupi del Penna, fatica sproporzionata alle po­che vittime tra i partigiani, sfogarono la loro rabbia contro la gente inerme che incontrarono: tre pastori che andavano in cerca del be­stiame disperso; un adulto ferito gravemente e reso invalido; due giovani sorelle di cui una ferita gravemente e l’altra morta.

Non solo. Il terzo giorno di rastrellamento feroce il Comando delle SS. prende la brutale decisione di dare alle fiamme i due paesi. Già avevano incendiato una casa (dove l’ultima volta avevano per­nottato i fuggitivi) presi alcuni ostaggi, sequestrati parecchi capi di be­stiame che tenevano nella chiesa di Romezzano trasformata per l’occa­sione in magazzino e stalla (orrore!) mentre il parroco del luogo dopo averlo sacrilegamente malmenato, lo costrinsero a letto in una casa privata.

Non ancora sazi quei tedeschi lorchi (direbbe il nostro Dante, Inf. XVII) si appigliano ai loro soliti metodi sbrigativi e selvaggi: incen­diare! Ora fosca per i due paesi: sotto l’ansia più inquieta per l’arbitrario terrorismo di quella gente perduta. Momento estremamente delicato. Che fare? Rassegnarsi e tacere? Chiesa e canonica l’avrebbero risparmiata; ma gli altri? Don Mantegari prende una risoluzione eroica: affrontare il Coman­do. Noncurante del mortale pericolo (come vittima già designata), ac­compagnato da Don D. Monteverdi, allora Diacono ora Parroco del luogo, si presenta al comando di Chiesiola e chiede di conoscere le di­sposizioni militari per la zona. «Bruciare paesi se i ribelli resistono o se trovate armi o renitenti; altrimenti no ». – Perché il Comandante di lassù vuol assolutamente bruciare? – fa osservare il sacerdote.

«Noi non sapere». Da Chiesiola si reca immediatamente a Romezzano sede della guar­nigione delle SS. che avevano preso quella barbara decisione. Si pre­senta al Colonnello che lo riceve con sguardo truce e atteggiamento minaccioso e gli dice subito in italiano-tedesco: «Di voi fare caput ». Con questo poco bel complimento comincia il drammatico dialogo tra l’ufficiale tedesco e il sacerdote che deciderà della sorte dei due paesi. Riassumo. Ad ogni minaccia del tedesco il sacerdote ribatte so­stenendo cortesemente sì, ma sempre animatamente la causa della giu­stizia e delle carità.

Comincia il tedesco: «Avere cantato i ribelli nella vostra chiesa ». (Due giorni prima per una festa votiva avevano formato coro distinto). – In chiesa han diritto tutti di pregare -. «Voi e parrocchiani aver dato alloggio e vitto ai ribelli ». – È programma di noi cattolici dare alloggio ai pellegrini e un boccone a qualsiasi affamato -. «Là quartiere invernale dei ribelli» e indica un gruppo di case sopra a Spora dove realmente i partigiani avevano passato l’inverno. – Sono case non abitate aperte a tutti -.

Tanto è vero che essi stessi vi avevano pernottato due volte, e dietro precisa indicazione del parroco, per potere eventualmente chiu­dere loro la bocca; e il mattino seguente lo avevano ringraziato dell’alloggio procurato. «Voi, pastori, potete e dovete convincere gente ». (In quei tempi, specialmente nei piccoli centri di montagna, il par­roco era responsabile di tutto, anche dell’ordine pubblico). – Noi facciamo uso della forza persuasiva della parola non delle armi. Noi predichiamo a tutti la legge di Dio che proibisce di ucci­dere, rubare… invece tanti continuano a uccidere… -.

« Voi essere più ribelle dei ribelli. In Piemonte avere ucciso set­tanta Pastori… BRUCIATE TUTTE LE CASE perché essere tutti ri­belli» . A tali crude parole il sacerdote, pur sapendo a quale mortale pe­ricolo era esposto, reagì con fierezza e dignità, richiamando l’ufficiale al senso umanitario della vita. – È un delitto che grida vendetta presso Dio distruggere interi paesi innocenti. Ne avreste rimorso per tutta la vita. Invece un’opera buona attirerà su di voi la benedizione di Dio, di cui avete bisogno anche voi tra tanti pericoli di guerra. Il coman­dante di Chiesiola mi ha garantito che l’ordine di bruciare non è asso­luto ma è condizionato alla resistenza dei ribelli; ora essi non hanno resistito -.

Difatti i partigiani in numero di trecento (e non migliaia come cre­devano i nazifascisti) rifugiatisi sui dirupi del Penna, s’erano ritirati nel Genovesato. «Saper niente voi. Essere io capo non a Chiesiola ». – Il Comandante di laggiù dice che siete pari in autorità (a Chiesiola erano truppe regolari, a Romezzano erano SS.). Comunque anche voi avete i vostri superiori, come io ho i miei. Perciò mi ritengo auto­rizzato ad accertarmi meglio presso i vostri superiori sull’ordine che voi dite di aver ricevuto -.

A tali franche parole il Colonnello, con sfrontatezza sacrilega, pre­se irosamente per il collare e per il petto il sacerdote e lo scosse ner­vosamente con minaccia di metterlo al muro e farlo finito. Don Mantegari rimase calmo ed imperturbabile. Ormai la sua vita era giocata. Sua unica preoccupazione era di salvare ad ogni costo i due paesi dalla distruzione. L’Ufficiale per calmare la bile si era diretto verso il fienile che a pochi passi una trentina di SS. stavano incendiando. Don Mantegari, per nulla intimorito, lo segue, deciso di giungere ad una conclusione. Per questo era accorso generoso, per questo reagiva con tanta energia.

Tra le SS. riconosce il sottufficiale che il giorno precedente era passato in canonica a Spora con l’incarico di catturarlo e che poi aveva lasciato libero. Il sacerdote gli fa un sorriso, gli rivolge un complimen­to ed attacca discorso. Il sottufficiale, per timore del superiore irritato, si limita ad uno sfuggevole sorriso e continua a testa bassa il suo la­voro di buttar fascine nel fuoco. Ma il colonnello accortosi di tutte quelle mosse, chiama a sé il suo milite e gli parla in segreto. Momento decisivo. Gli avrà chiesto le sue impressioni su quel sacerdote, informazioni più precise sulla sua visita a Spora. Penso che gliele avrà date buone quel bonario sottuf­ficiale, perché dopo il segreto colloquio il Colonnello chiama a sé Don Davide e gli dice: « Vedere voi essere onesto. Per questo concedere grazia            Non bruciare paesi       bruciare soltanto una casa ».

Deo gratias! A Don Davide sembrava di sognare. Si permette an­cora di domandare un’assicurazione formale perché potesse tranquilliz­zare la popolazione tremante sotto l’incubo del loro tragico imminen­te destino. Risponde subito l’ufficiale: «Noi garantire questa volta perdonare; un’altra volta non perdonare più ». La partita dunque era vinta. La promessa era fatta e fortunata­mente venne mantenuta. La stessa sera (25 maggio) se n’andarono e non tornarono più se non alla spicciolata; e i due paesi sono salvi.

Dopo una lunga e intelligente opera di persuasione il sacerdote era riuscito a far loro deporre il pensiero della rappresaglia. Per il suo contegno eroicamente fermo nel difendere la causa della giustizia (ed anche per il suo schietto sorriso fatto ad un avversario) riuscì ad im­porsi alla considerazione delle stesse SS., a tutti note per la brutale crudeltà. «Quel Pastore essere intelligente! » avevano detto ad alcune don­ne presenti. Fu il loro giudizio conclusivo sul conto di quel sacerdote che aveva avuto l’indomita fierezza di opporsi ai loro insani e sangui­nari progetti.

Questo è uno dei tanti esempi di eroismo compiuti dal clero in quell’eccezionale periodo storico; esempi che dimostrano come il clero sia sempre rimasto all’altezza della situazione, sia pure nello sgretola­mento di tante istituzioni e di tanti spiriti. I sacerdoti si sono mantenuti, come sempre, uniti al loro popolo, specialmente a coloro che erano più esposti ai pericoli, ai danni, alle sofferenze della guerra. Lo hanno assistito e coraggiosamente difeso affrontando le più terribili responsabilità, resistendo impavidamente alle sopraffazioni dei nemici della patria e della chiesa. Hanno realiz­zato il programma evangelico del buon pastore di anime che è sempre pronto a sacrificare la vita per il suo gregge. E molti l’hanno realmente sacrificata, cadendo vittime espiatori per le presunte colpe degli altri (o per aver dato mano ai patrioti o per essersi esposti a difesa dei loro fedeli). Questa parte luminosa ed eroica compiuta dal clero durante il periodo oscuro della resistenza valga a dissipare le calunnie di certa propaganda orale e scritta, e confermare i buoni.

È un fatto che il popolo italiano, nell’immane catastrofe che lo ha colpito, ha trovato nella sua fede cattolica la più ricca sorgente di for­tezza e di conforto. Non dimentichi che quelle energie spirituali sem­pre inesauribili sono anche ora indispensabili al risorgimento civile della patria. La constatazione che la fede del popolo è uscita dalla tre­menda prova non indebolita ma piuttosto rafforzata, sarà per i sacer­doti la più ambita ricompensa ai loro sacrifici.

[f.to] Don Davide Mantegari

PARROCCHIA DI S. GIUSTINA DI VAL LECCA

 

CAVACIUTI DON ANTONIO

Dal 1949 è Arciprete di Groppallo. Durante la guerra fu Parroco di S. Giustina. Val Lecca e dovette soffrire la prigionia a causa degli aiuti da lui offerti ai partigiani e ai perseguitati. È nato a Morfasso 1’8 Ottobre 1913.

 1975 febbraio 26 – Groppallo. Testimonianza di Don Cavaciuti

 La resistenza a S. GIUSTINA Val Lecca

 

I primi partigiani a S. Giustina Val Lecca, dov’ero parroco, apparvero, in spicciolata, nel settembre 1944. Nell’ottobre 1944 fu costituito un distaccamento, dipendente dalla for­mazione «Val Taro – Val Ceno », di cui era comandante il Sig. Moglia, oriundo di Bedonia, che era anche il «fondatore» e che portava come no­me di battaglia « Bill ». Bill aveva la sede di comando a Cornolo; a Cornolo, a Calice di Bedo­nia, c’erano altri distaccamenti con il loro comandante e commissario.

A S. Giustina era comandante «Chiesa» (ex seminarista) e commissa­rio Squeri (lui pure ex seminarista). Il gruppo dei «ragazzi» del distacca­mento di S. Giustina risiedeva in una casa tanto vicina alla casa parrocchia­le; per questo ci si scambiava spesso le visite vicendevoli: canonica – casa dei partigiani; tra loro e don Antonio c’era cordialità ed affettuosità ed era un gruppo di «buoni ragazzi »; ascoltavano i suggerimenti, ascoltavano pu­re i rimproveri. Facevano con certa frequenza irruzioni verso S. Stefano d’Aveto, dove c’erano i fascisti, i tedeschi ed anche, aggregati ai fascisti e tedeschi, gli al­pini della « Monte Rosa ». Ho sempre raccomandato loro di non farsi pren­dere, di non ammazzare; se avessero preso qualche alpino, fascista, di portarselo pure con loro ma con rispetto, con riguardo perché anche loro ave­vano il papà, la mamma che: «aspettavano e speravano il loro ritorno ». Mi ascoltavano e non mi hanno mai detto di aver fatto quello che non si do­veva fare.

In un rastrellamento fatto dalle parti di S. Stefano d’Aveto sono riusci­ti a catturare due alpini della Monte Rosa: Benvenuto Lanfranchi di Casnigo (Bergamo) e Fernando Lorenzetti, sergente della Monte Rosa, di Pesaro (via Palestro, 11). Li portarono nel loro appartamento – caserma e diventa­rono uno di loro: amici! Al Lanfranchi fu dato il nome di battaglia «Bergamo » e gli fu affidata la cura dei muli. Un giorno capitò il fattaccio: i te­deschi ed i fascisti presero due partigiani e li fucilarono. Il comandante Bill, come rappresaglia, diede ordine ai comandanti dei distaccamenti di S. Giustina, Cornolo, Calice di fucilare gli alpini catturati. Mi pare fosse il 14 ottobre 1944, verso le 18 venne da me (ero nello stu­dio) il comandante Chiesa a dirmi di andare «a confessare Bergamo ed il sergente ». Gli dissi: «Perché?»

« Perché », rispose, « abbiamo l’ordine da Bill di fucilarli perché ci han­no ucciso, i tedeschi e i fascisti, due partigiani ». « È diventato matto (testuali parole) Bill? » gli dissi. «Faccia presto », continuava il comandante Chiesa, «perché alle ore 7(= 19) abbiamo l’ordine di ammazzarli ». Con il cuore in tumulto sono andato subito spossato, fiaccato, irritato sono andato nella caserma dei partigiani. Ho trovato i due giovani Lanfranchi, Lorenzetti singhiozzanti al tavolo con un pezzo di carta davanti, una penna e vicino il comandante Chiesa che diceva loro: «Scrivi, scrivi alla tua mamma per l’ultima volta »!

Gli dissi: «Finisci di fare lo stupido! » Ho preso nella testa i due ra­gazzi ed ho detto loro: «Non piangere! Non ti ammazzeranno! » Poi mi sono rivolto a quel gruppo di buoni ragazzi: «Ma li volete ammazzare? » « No! », mi hanno risposto in coro. « Allora », ho continuato, «facciamo così: due devono andare a Cornolo e portare un mio biglietto a Bill e noi aspettiamo qui la risposta ». «Ci vado io, ci vado io»

«Fate presto! » ho detto loro. E due bravi ragazzi di Bedonia hanno preso il mio biglietto che rim­proverava la iniquità che voleva commettere, gli diceva che con questo mo­do di agire imitava proprio bene i tedeschi e i fascisti ecc. Abbiamo aspettato per tre ore di angoscia il ritorno dei latori dei mio biglietto a Bill e la sua risposta. Sono arrivati alle 22 circa con questa risposta: «Bill ha detto di sospen­dere l’esecuzione ». Un urlo! tutti hanno abbracciato i due salvati. Abbia­mo passato la notte con loro: bevendo, cantando. Il giorno dopo sono ve­nuti ad ascoltare la S. Messa di ringraziamento.

Il Lanfranchi tutti gli anni, a Natale, mi scrive con la sua famiglia; il Lorenzetti mi ha scritto una sola volta; poco importa ma si è salvato! Nella casa parrocchiale di S. Giustina hanno trovato alloggio, nel gran­de rastrellamento invernale 1944 – gennaio 1945 (montagne di neve e stra­de chiuse al traffico proprio per l’abbondanza di neve, mai vista così abbon­dante), il Comandante unico delle formazioni partigiane, deceduto recentemente, il Commissario politico, il capitano Inzani, preso dai tedeschi nel rastrellamento del gennaio 1945 a Rompeggio e quivi fucilato e tanti altri di cui, a distanza di anni, mi sfugge il nome.

Tre mongoli aggregati a formazioni partigiane ed uccisi in combattimen­to a fuoco con altre formazioni partigiane sono stati, per mia preoccupa­zione, sepolti nel cimitero di S. Giustina; non ho potuto segnarne i nomi perché sui loro cadaveri intrisi di sangue (un mare di sangue) non ho potu­to trovare documenti. Nella casa parrocchiale di S. Giustina hanno trovato alloggio gli amma­lati – partigiani che si trovavano nel Preventorio (reso ospedale allora) di Bramaiano nel rastrellamento tedesco del gennaio 1945 ed i feriti della im­boscata Guselli di Morfasso; per dare posto a loro con la sorella ci siamo accontentati di sedere e dormire su seggiole.

Don Antonio Cavaciuti, parroco

PARROCCHIA DI PIONE

 

RAFFI DON AGOSTINO (1903 -1949)

Fu Parroco a Pione dal 1930 al 1947. A causa dei maltrattamenti subiti dai Tedeschi e Fascisti si ammalò gravemente e dovette rinunciare alla Parrocchia. Trasferito nella piccola comunità di Pontetidone, vi moriva due anni dopo. Id. – Pione. Testimonianza di Don Raffi sui rastrellamenti del luglio 1944 e del gennaio 1945.

PARROCCHIA DI SIDOLO

BEOTTI DON GIUSEPPE

Una delle vittime illustri della feroce rappresaglia scatenata dai Tedeschi e dai Fascisti sulle montagne dell’Alta Val Ceno e in Val Taro. Nato a Campremoldo di Sotto il 26 Agosto 1913, fu ordinato Sacerdote nel 1938. Dapprima fu Curato a Borgonovo Val Tidone, inviato Parroco a Sidolo di Bardi, vi portò l’esuberanza del suo carattere e la prontezza della sua mente ricca di iniziative, soprattutto per i giovani e per i bisognosi. Fu vittima della sua carità eroica nei confronti degli sbandati della guerra. Fu trucidato barbaramente nella sua Parrocchia il 20 luglio 1944. Di lui trattano molti documenti di questo volume.

1944 luglio 21 – Bardi.

Lettera di Don Longinotti a Mons. Menzani (?) comunicante l’av­venuta esecuzione di Don Beotti e di Don Francesco Delnevo da parte dei nazi-fascisti.

PARROCCHIA DI CAMPELLO DI BARDI

BONGIORNI DON GIUSEPPE

s.d.

Relazione di Don Bongiorni in risposta alla circolare della com­missione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

Campello di Bardi – Parma

8 settembre 1943 – 25 aprile 1945

Subito dopo 1’8 settembre 1943 radunavo in Canonica giovani mi­litari perché non fossero presi dai tedeschi. Furono fermati diverse volte per istrada i giovani e interrogati della mentalità del parroco. Non contenti delle risposte, vennero ad origliare sotto la mia finestra, mentre io spiegavo ai giovani la lezione della 2ª declinazione latina. Nonostante i ripetuti e minacciosi avvisi dell’allora Podestà di Bar­di (Mazzadi Giovanni) di fare ritornare i giovani al servizio militare tedesco, sempre mi opposi. Trovandosi in licenza fino al 12 settembre il mio parrocchiano Fecci Ettore Vice-Brigadiere in servizio a Ovada, temendo per sé, i genitori anziani, moglie e figli, tanto feci da man­darlo ai monti coi primi partigiani.

17 luglio, lunedì di buon mattino 1944 massiccio e spaventoso bombardamento di Bardi. Terrore generale, perché tutti ignari di tale pericolo; fu mia premura, correre in tutte le case per vedere, incorag­giare e rappacificare tutti esortando uomini e giovani a nascondersi perché il pericolo era grave e vicino. Dal febbraio 1944 al 25 aprile 1945 tantissime volte con 2 ore di cammino mi recavo a Comune Stradella con pericolo di essere catturato o rastrellato; molte altre volte arrivando i tedeschi improvvisamente a mio rischio e pericolo nascon­devo i parrocchiani in Canonica. E questo fu 17 – 18 – 19 luglio 1944, Novembre 1944, 3 febbraio sabato 1945, e ancora diversi giorni nel gennaio 1945.

 

Giovedì 20 luglio 1944 ore l0 ingresso ufficiale in parrocchia dei tedeschi. Intervistate all’ennesima potenza Canonica – Chiesa – Campa­nile – Cimitero, hanno rubato quanto poterono, e fui in casa mia loro prigioniero. Fuggii miracolosamente alla fucilazione, quando alle ore 16 mi vennero avvisare che a Comune Stradella i tedeschi uccisero un uomo, e si doveva associare la salma alla chiesa e al Cimitero. Venerdì 21 luglio 1944 ore 8 mi prelevarono dalla Canonica, e, a piedi allineato con alcuni partigiani catturati nei boschi, insultato, de­riso, maltrattato dai tedeschi mi condussero a Gravago, da dove alle ore 17 tra mucche e pecore con un sole cocentissimo sempre a piedi mi condussero a Bardi per 11 chilometri di strada accompagnato da una immensa nuvola di polvere. Come prigioniero mi fecero riposare sui vetri infranti dal lunedì 17 per il bombardamento, e qui rimasi fino alle ore 4 di sabato 22 luglio quando fui svegliato a colpi di calci, e partito su un automezzo della capienza di 15 persone, noi eravamo 40 esattamente. Protestai coi tedeschi perché alcuni soffrivano per man­canza di ossigeno, ma inutilmente.

La sera di venerdì 21 luglio volli rimanere insieme ai 39 rastrel­lati e pernottare con loro, mentre buone famiglie di Bardi mi avreb­bero alloggiato in casa loro coll’obbligo di essere presente la mattina di sabato, pericolo la fucilazione di uomini, se qualcuno mancasse. Ri­sposi apertamente ai tedeschi: «liberate gli altri e me». I tedeschi avvisarono la popolazione di Bardi della nostra partenza circa le ore 8 di sabato 22; la buona popolazione alle ore 7 fu sul po­sto con ogni bene di Dio per noi prigionieri e noi fecero partire subito dopo le ore 4. Volli rimanere prima a casa mia, e poi qui con i rastrellati per assistenza spirituale per chi abbisognasse. Giungemmo così molto infelicemente al Campo Concentramento di Rubbiano nella mattinata di sabato; poi a Fornovo e a Parma da dove con ogni disagio (in piedi sul ponte del Parma) per molte ore ele­mosinando un autotrasporto fui accolto alla casa del Clero di Piacenza circa le ore 17 di domenica 23 luglio 1944. Spesso arrivavano notizie allarmanti circa la incolumità dei rastrellati. 17 sacerdoti rastrellati, tutti in Germania; alcuni dovranno essere impiccati sulle piazze delle città italiane, perché si sappia che i Sacerdoti sono i responsabili del Partigianato. Permanenza in città di Piacenza alla Casa del Clero da domenica 23 luglio al mercoledì 2 agosto 1944 quando vi fu la partenza a piedi fino a S. Protaso di Fiorenzuola; pernottamento e poi a piedi fino a Campello (86 chilometri).

Il ritorno era condito da paura dei tedeschi, fame, sete, stanchez­za, da bontà e dalle derisioni dei cittadini; un pauroso acquazzone rin­frescò l’atmosfera tra il Pellizzone e Bardi, e arrivo a Campello ore 20.30. Dal 21 luglio al 3 agosto 1944 la mamma sola, malata, preoccupatissima, provata estremamente da ogni sofferenza e privazione, tutto con molta fede soffrì e superò. Dal 12 settembre 1944 a fine guerra molti furono i bombarda­menti sul Ponte del Ceno; fui sempre presente per rendermi conto della situazione dei miei parrocchiani, e se necessitasse la mia opera sacerdotale. Sabato 6 gennaio 1945 ore 21, il terreno è coperto da 70 centime­tri di neve, continua nevicare con vento molto impetuoso, mi giunge l’avviso che i tedeschi sono in arrivo da Gravago; pernottai alzato e feci nascondere per molti giorni sul tetto della Chiesa 34 uomini per evitare loro rappresaglie tedesche; esortai le famiglie ad aiutare quei 34 individui con viveri, indumenti indispensabili. Solo il freddo, la grande nevicata, la strada impraticabile vietò la visita dei tedeschi tan­to inattesa quanto punitrice, e il maggior responsabile sarebbe stato il parroco.

Sabato 27 gennaio 1945 ore 16 circa pure con abbondantissima neve e per il cammino di un’ora corsi alla frazione Spiaggere per fare nascondere gli uomini dalla venuta dei tedeschi; fui avvistato dagli stessi tedeschi, mi spararono, ma…tutto bene. 1- Comunione Pasquale ai Partigiani. Diverse volte radunai i par­tigiani in Chiesa per la S. Pasqua; segnalavo a loro nascosti sui monti colle luci accese in Canonica nel cuore della notte che tutto era calmo; essi scendevano e in Chiesa adempivano cristianamente il loro dovere Pasquale. Tutto questo dovevasi fare con somma attenzione e pruden­za per evitare le visite poco gradite del tanto famoso «Pippo» che, scoperta una quasi inesistente luce, bombardava inesorabilmente, e il maggior responsabile era sempre il parroco. Tutto questo avvenne per­ché la Val Ceno era ritenuta la «Rocca Forte del Partigianato» (era­no nascosti 8000 partigiani in zona in quei giorni) e si attribuiva ai

Sacerdoti la causa principale. Brillò in modo convinto e esemplare l’apostolato Sacerdotale coa­diuvato dai buoni cittadini. Il Clero venne ucciso, imprigionato, sot­toposto a qualunque disagio e sacrificio, unicamente mosso dal bene delle anime. Su tutti e sempre vegliava la Divina Provvidenza che mai abbandona i suoi figli, massime i continuatori della missione di Gesù Salvatore e coloro che anche oggi colla santità della vita possono in­segnare la bontà ad ogni credente.

s.d. Testimonianza anonima su Don Beotti.

PARROCCHIA DI BARDI

 BIONDA DON ORESTE

Nato nel 1917 e attualmente Parroco di Saliceto di Cadeo. Le sue memorie riguardano il territorio di Bardi ove, nel periodo bellico, e precisamente dal 1943 al 1946, fu Curato.s.d.

Testimonianza resa oralmente da Don Oreste Bionda e registrata su nastro.

PARROCCHIA DI PIETRARADA

 

CERIATI DON GIOVANNI

Nato a Cadeo il 3 Agosto 1908. Arciprete di Campi dal 1955. Durante la guerra fu Parroco a Pietra Rada. Catturato dai Tedeschi nel rastrellamento del luglio 1944, fu barbaramente seviziato. 1.d. Testimonianza di Don Ceriati su avvenimenti relativi al rastrella­mento del luglio 1944.

PARROCCHIA DI ROCCANUOVA – V ARSI

 

MAGISTRALI DON UBALDO

Nato a Montalbo nel 1915, dal 1961 è Parroco di Ottavello. Negli anni 1940­1947 fu Parroco a Roccavarsi Nuova. Si distinse soprattutto per l’assistenza ad una famiglia di Ebrei, che salvò dalla persecuzione nazifascista con gravissimo pe­ricolo della sua vita. s.d. Testimonianza di Don Magistrali.

Ai primi giorni di giugno del 1940 fui mandato come Parroco a Rocca­nuova. Da circa dieci anni era stata costituita questa nuova parrocchia; ma nes­sun parroco vi era stato ancora nominato: il sottoscritto fu il primo. Poiché un sacerdote era atteso e desiderato da tanto tempo e con tanta ansia da quella buona popolazione, io ne ebbi tutto l’affetto e la devozione. Roccanuova si trova in comune di Varsi (prov. di Parma) da cui dista circa l0 Km.

La chiesa (che ha il titolo di Santuario conferitole da Mons. Scalabrini) è isolata: soltanto la scuola elementare è vicina; le altre case, alcune sono riunite in gruppi (Cerreto – Ferrara – Scaffardi) altre, sono sparse su per il monte o in vallate. Fino al 25 luglio 1943, in quella zona non ci fu niente di eccezionale: tranne il dolore per la partenza di chi andava a fare il soldato, e che colpi­va non solo le famiglie interessate, ma tutta la parrocchia. La guerra c’era sì, ma la si sentiva lontana.

Dopo il 25 luglio 1943 le cose cambiarono. Vi fu il passaggio di molti militari sbandati che cercavano di tornare a casa; molti Inglesi, già prigio­nieri a Montalbo, Rezzaello e a Veano, fuggendo passavano in canonica per avere indicazioni di strade, per superare il fronte; diedi a loro tutte le car­te geografiche che possedevo (essendo socio del Touring Club, ne avevo ac­quistate molte). Tre soldati però si fermarono nella villa chiamata Cerreto e diedero ori­gine alla prima formazione di partigiani in quella zona; da Rocca poi que­sta formazione si spostò a Tosca.

Come parroco, durante la settimana andavo a visitare le famiglie delle varie frazioni e delle case isolate. C’era una famiglia che abitava una delle case più distanti dalla chiesa (Casa del Riccio). Era formata da papà, mamma, quattro figli e due ra­gazze. Uno dei figli diventò poi missionario saveriano: Padre Mario Cordani. Un altro figlio, Giulio diventò capo partigiano. Questa famiglia vi­veva a mezzadria sul fondo che lavorava. La figlia primogenita, Maria, per guadagnare qualche cosa e dare un aiu­to, era andata a servizio a Salsomaggiore. Nell’albergo dove prestava la sua opera conobbe una famiglia di Ebrei, composta di dodici persone.

Il capo-famiglia si chiamava Fargion Elia: era rabbino e aveva un’alta carica nel governo della Libia. Era già anziano e aveva anche la moglie con sé. Il primo figlio: Clemente che era stato a contatto col principe Umberto. Il secondo figlio: Angelo, studente di medicina. La prima figlia, Linda, sposata a un Treves, e i loro quattro bambini. La seconda figlia ancora signorina: C’era anche la mamma del Treves che era sorella della moglie di Fargion Elia. Erano a Salsomaggiore in cura, ma abitavano a Milano.

Per un po’ di tempo rimasero a Salso, poi essendo essi ricercati in mo­do particolare, perché era stata ordinata la fucilazione per loro, ovunque fossero stati trovati, e anche per coloro che in qualunque modo li avesse­ro aiutati, non si sentirono più sicuri in quel luogo di cura. La mia parrocchiana, Maria, suggerì loro di rifugiarsi a Roccanuova, e li accompagnò a casa sua. Forse non precisarono nemmeno alla famiglia che li ospitava la loro vera identità. Per alcune domeniche i due giovani Fargion e il Treves parteciparono alla Messa parrocchiale guidati dal fratello della Maria, Giulio. Dalla Ma­ria seppi vagamente che erano ricercati dalla polizia e per mezzo suo offer­si loro il mio aiuto di parroco, pur senza sapere con esattezza chi erano. Andai a visitarli; la prima volta rimasero molto diffidenti. Rassicurati pe­rò dalla famiglia sulla mia retta intenzione e mia bontà d’animo, diventam­mo amici. Ma non mi dissero ancora chi erano. Io non chiesi nulla sulla loro identità, sapendo che era mio dovere aiutare chiunque avesse bisogno. Qualche sera, accompagnati da Giulio, gli uomini scendevano anche in ca­nonica per giocare a carte.

Nel frattempo a Varsi arrivò un drappello di militi. (Seppi dopo che erano stati mandati da Parma per cercare quegli sfollati). Comandava que­sto drappello un tenente (mi sembra si chiamasse Mazzieri) che non era sempre presente in caserma. Praticamente funzionava come comandante un sergente, certo Pelagatti (tristemente famoso per la sua crudeltà contro i renitenti alla leva, prima, e contro i partigiani dopo). Questi militi facevano spesso puntate nella mia parrocchia (specialmen­te di notte) per trovare quegli sfollati perché a Salsomaggiore avevano sa­puto che si trovavano nel territorio di Roccanuova, e anche per scovare i primi partigiani che cominciavano a fare parlare di sé.

Cercai di instaurare un certo rapporto di amicizia con il sergente Pelagatti che era venuto da me per sbloccare l’apparecchio radio per impedire di ascoltare radio-Londra; in seguito tutte le volte che saliva in parrocchia per trovare quei ricercati passava in canonica per sentire anche se c’erano partigiani nei dintorni. A Varsi però c’era un carabiniere di Tosca che riu­sciva ad avvertire quando i militi sarebbero venuti, in modo che i ricercati si chiudevano in un nascondiglio preparato nella casa della Maria. Qualche notte, quando c’erano notizie allarmanti gli uomini venivano a dormire in canonica perché non si sentivano sicuri in quel nascondiglio. Un mattino io partii per Piacenza e rimasi assente qualche giorno. Nel tornare, a Parma, (alle ore 17) mentre stavo salendo in corriera, alla stazione Pilotta, trovai il sergente Pelagatti. Domandai a lui che cosa ci fosse di nuovo a Varsi e a Roccanuova poiché ero assente da un po’ di tempo. Egli mi disse: «L’altra notte – (io ero partito il mattino) – siamo saliti alla Casa del Riccio per scovare quegli ebrei, ma non c’erano più. Abbiamo portato via la Maria e suo padre e li faremo parlare».

Arrivato a Varsi con la corriera, impensierito e preoccupato, corsi a ca­sa ove arrivai col cuore in gola quando c’era già buio. Bussai, mia sorella venne ad aprire: vidi la sua faccia stravolta. Spaven­tato domandai che cosa fosse accaduto. «Quegli sfollati sono tutti e dodici in canonica» mi disse, «si sono rifugiati qui la sera del giorno che parti­sti perché avevano saputo che nella notte, dietro una segnalazione precisa, i militi avrebbero fatto irruzione nella casa del Riccio per sorprenderli ». Mi disse ancora che i militi, non avendo trovato quelle persone che cerca­vano avevano portato via con loro il padre e la figlia Maria, per interro­garli con più calma e obbligarli a dire dove si erano rifugiati i ricercati. Mia sorella mi disse ancora che due notti dopo, mentre io ero ancora assente, e mentre gli ebrei erano in canonica in una stanza al primo piano, i militi irritati perché la notte prima non li avevano trovati, passarono anco­ra per andarli a scovare, e quando furono vicini alla canonica bussarono coi calci del fucile violentemente alla porta, e lei, terrorizzata e spaventata al pensiero di ciò che poteva succedere non ebbe la forza di muoversi e non riuscì ad aprire; i militi non insistettero e proseguirono per la loro strada.

Tutta la notte lei e gli ebrei tremarono per lo spavento subito, e an­che per il timore che la Maria o suo padre avessero svelato qualche cosa. Essi però non confessarono nulla; e in seguito furono lasciati liberi. Compresi allora la gravità della situazione; cercai di calmare la sorella ma dovetti palesarle quello che avevo saputo a Parma, e cioè che quelle persone erano ebrei e che c’erano pene severissime per chi li avesse aiuta­ti. Decidemmo con mia sorella sul da farsi. Salii al primo piano dove erano ancora tutti tremanti e impauriti, per cercare di trovare un modo di siste­marli altrove, in un luogo più sicuro. Quando mi videro entrare mi si but­tarono tutti davanti in ginocchio, supplicandomi piangendo, di non allontanarli, ma di tenerli nascosti in canonica. Quando vidi quella scena e udii pianti delle donne e dei bambini che si raccomandavano in quel modo a me, non potei resistere e ricordo d’aver detto a loro proprio queste parole:

« Se dovremo morire, moriremo insieme », e li tenni in canonica. La popo­lazione sapeva che a casa del Riccio c’erano questi sfollati, perché la Maria andava nelle varie famiglie a comperare polli, uova, formaggi per loro. Ave­vano saputo che in quella notte erano andati lassù i militi per prenderli; avevano saputo anche che non li avevano trovati; sapevano che a casa del Riccio non c’erano più; ma non sapevano dove erano andati a rifugiarsi. Poiché la scuola era vicina alla canonica e spesso l’insegnante veniva a par­lare con mia sorella, essendoci del movimento fuori del normale, dovetti metterla al corrente di ogni cosa. Questo lo feci qualche giorno prima di partire per Piacenza. Essa fu di una segretezza eccezionale; non solo, ma fu anche di aiuto. Il giorno seguente la notte nella quale i militi vennero a bussare alla porta, mia sorella trovandosi sola, e non sapendo che cosa e come fare, chiamò un uomo fidato della parrocchia. Gli svelò ogni cosa, per­ché stesse attento e l’informasse di ogni minimo movimento che succedes­se e di ogni parola o discorso che sentisse in giro. Qualche giorno dopo (ero arrivato a casa anch’io) quell’uomo venne a riferirci che in parrocchia si dubitava che quelle persone si fossero rifugiate in canonica. Ero sicuro che nessuno dei miei parrocchiani mi avrebbe tradito; ma temendo che quelle chiacchiere arrivassero all’orecchio della polizia, cercammo di trovare un’altra via di salvezza. Inoltre le ricerche da parte dei militi diventavano sempre più intense e pericolose, per cui si decise di trovare un altro nascondiglio più sicuro. Giulio sapeva di una casa isolata sperduta nei monti in comune di Valmozzola.

Era abitata da una famiglia: padre, moglie e due bambini. Egli pregò quell’uomo di nascondere in casa sua quegli sfollati, senza però svelare a lui che erano persone ricercate, ed egli accettò. Una notte gli ebrei furono accompagnati da Giulio e da quell’altro parrocchiano in quella casa. Passa­rono l’inverno rifugiati lassù, due volte la settimana facevamo arrivare a lo­ro, sempre di notte, il cibo necessario. Quando seppi però da Giulio che non aveva svelato l’identità dei rifugiati a quell’uomo, non mi sentii tran­quillo in coscienza e lo mandai a chiamare per informarlo di tutto. Lo av­vertii del pericolo che correva lui e la sua famiglia; egli accettò il rischio senza molto preoccuparsi. Durante l’inverno morì la mamma del Treves: la seppellimmo sotto un portico tra quattro tavole. All’inizio della primavera la situazione generale peggiorò.

Erano ormai numerose le bande di partigiani che disturbavano e ostaco­lavano le azioni e i movimenti dei tedeschi. Questi, insieme ai militi, ef­fettuavano spedizioni punitive sui monti contro i partigiani, per snidarli e catturarli. Queste squadre di tedeschi e militi, molte volte nei loro spostamenti si avvicinavano anche a quella casa; per fortuna non vi entrarono mai. Il padrone cominciò ad avere paura; gli scontri tra partigiani e tede­schi – militi avvenivano sempre più frequentemente: il pericolo era grande; si parlava anche di un prossimo rastrellamento in grande stile. Gli ebrei allora pensarono di salvarsi in Svizzera. Per mezzo di Maria chiamarono un contrabbandiere che andò da loro; contrattarono per l’espatrio. Il contrabbandiere avrebbe preparato i documenti falsi e io avrei dovu­to trovare una persona fidata e che non destasse sospetti per andare a Sal­so a ritirarli, nella pensione Daccò dove un individuo sconosciuto, li avreb­be consegnati. Non fidandomi di nessuno, e non volendo esporre nessuno al rischio di essere fucilato dissi a mia sorella se volesse portare il termine lei quell’im­presa, ad essa per aiutarmi, accettò.

Era necessario partire alle quattro del mattino da casa, per arrivare a Varsi in tempo per prendere la corriera che passava alle sei. Ebbi paura di mandarla sola; pregai la maestra di accompagnarla: anche lei accettò pur sapendo tutto ciò che poteva accadere. Per andare a Parma era indispen­sabile il permesso scritto e firmato dal Comandante del Presidio della Mi­lizia di Varsi. Era ancora buio quando esse vi arrivarono sotto la pioggia e il nevischio che rendevano ancora più disagevole il viaggio e più pauroso quel compito. Fu lo stesso Pelagatti che firmò a loro il permesso; le accompagnò alla corriera e fece il viaggio con loro fino a Parma. A mia sorella diedi una lettera per il curato di Salso: Don Dino Merli, perché la potesse aiutare. Egli non c’era. Si rivolse al Parroco Mons. Prati che giustamente raccomandò molta prudenza, perché Salso era piena di tedeschi, di militi e di spie: un passo falso, sarebbe stato fatale. Furono momenti di dolorosa incertezza. Si recò dalla signorina Daccò, la padrona della pensione; si fece conoscere e vaga­mente le disse che era andata a Salso perché doveva incontrare un certo signore che non aveva mai visto né conosciuto, ma che l’aspettava. La si­gnorina Daccò non poteva e non voleva essere troppo precisa. Disse che ave­va bensì in pensione delle persone, ma che al momento non era in casa nessuno, e fece accomodare mia sorella in salotto.

Dopo un po’ di tempo arrivò un signore che chiese alla Daccò, se non fosse giunta una persona da Varsi (senza precisare altro). La Daccò affermò che una persona proveniente da Varsi c’era effettiva­mente e che si trovava nel salotto; senza aggiungere altro. Il signore entrò in salotto; e a mia sorella che stava impaurita e incerta chiese chi fosse e cosa volesse. Ogni parola poteva essere compromettente. Lei ingarbugliò qualche parola e qualche mezza frase. Il signore che dava l’impressione di essere molto svelto e padrone di sé, e abituato al rischio le si avvicinò; tolse dal suo portafogli una foto che coperse con la mano e che poi scopriva adagio adagio, chiedendo insistente: «Conosce questa per­sona? ». Era la foto di uno degli ebrei. E con un filo di voce mia sorella disse: «Sì, la conosco ».

« Lei è la sorella del parroco che ha salvato questi ebrei? » Rispose an­cora di sì sempre col timore che fosse una spia; invece per fortuna era pro­prio quel contrabbandiere che cercava. Le consegnò i documenti che lei na­scose nel doppiofondo delle calze, la maestra non assisté a questo incontro, ma l’aspettava da basso. Fu una giornata tremenda per mia sorella e la fu anche per me che non riuscivo a stare tranquillo pensando a ciò che avrebbe potuto succedere. Fi­nalmente a sera tardi arrivarono a casa. Feci avere i documenti agli interes­sati. Si combinò per la loro partenza; e si fissò il giorno. Stabilimmo di trovarci a Parma in un bar poco lontano dalla stazione. Le donne sarebbe­ro scese da Valmozzola in corriera; gli uomini invece, col treno sempre per quella vallata; mentre io sarei arrivato a Parma da Varsi, portando con me due grosse valige contenenti i vestiti e i loro effetti personali indispensabili.

Mi feci accompagnare e aiutare fino a Varsi. Con le due grosse valige andai in caserma, dove sempre il Pelagatti mi firmò il permesso di viaggio: anch’egli scendeva a Parma; e proprio lui mi aiutò a sistemare sopra la corriera i due bagagli; al bar trovai gli uomini (le donne erano già in treno) consegnai ciò che avevo, li salutai; salirono anch’essi in vettura e partirono sotto la guida del contrabbandiere che at­traverso passi a lui conosciuti li portò salvi in Svizzera. A guerra finita tornarono tutti e undici salvi. Gli uomini vennero a Roc­ca per riprendere le loro cose che noi avevamo nascoste. Ricordammo i do­lorosi momenti vissuti e oramai passati. Esumammo la salma della decedu­ta che portammo nel cimitero di Parma. Poi ci lasciammo: si stabilirono a Milano, dove si trovano tutt’ora, ripresero la loro attività commerciale. Questa in succinto la storia di quel fatto.

Ho tralasciato tanti episodi marginali per non appesantire il racconto: come per esempio la difficoltà di nascondere e salvare tutti i documenti re­lativi al loro commercio: numerammo i fogli di tutti i registri e li strap­pammo. Quando io fui preso durante il rastrellamento mia sorella dovette bruciare tutti i libri di preghiera del rabbino scritti in ebraico, bruciò le fimbrie che indossava durante le preghiere che faceva con la famiglia. Quan­do erano ancora in canonica mentre passavano i tedeschi e i militi, essi rac­colti in una stanza pregavano in ginocchio per ore e ore.

Anche quando non era facile trovare cibo per loro, non vollero mai mangiare carne di maiale. Rimasi edificato nel vedere il digiuno completo senza mangiare né bere, per una giornata intera, che facevano tutti, bambi­ni compresi. Quando tornarono in canonica per riprendere i loro averi chiesi a loro un giudizio sulla nostra religione. Essi mi dissero: «Non avremmo mai pen­sato che un sacerdote cattolico potesse e volesse fare quello che ha fatto lei ».

Questo non è un elogio per me, ma per molti sacerdoti cattolici che persero addirittura la vita per salvare tanti Ebrei perseguitati. Tengo anche a precisare che non ho mai chiesto a loro se pensassero di farsi cattolici; mi sarebbe parsa una crudele violenza morale. Mi ha fatto tanto bene al cuore il constatare la loro rettitudine umana e l’assoluta fedeltà alla loro religione.

Ogni anno, per Natale, ci scambiamo sempre gli auguri, e quando vado a Milano ci facciamo spesso lunghe telefonate.

PARROCCHIA DI PESSOLA

CALDA DON VINCENZO

           Nato a Piacenza nel 1916. Dal 1953 è Parroco a S. Bernardino di Bettola.

Negli anni 1943 – 1953 fu Parroco a Pessola di Varsi.

1.d. – Pessola Relazione di Don Calda in risposta alla circolare della commissio­ne cardinalizia di A. C. del agosto 1945. Pessola, s. d.

L’opera del parroco e della popolazione di Pessola (Varsi) nella lot­ta di resistenza (Aprile 1944 – Maggio 1945). Il sottoscritto può attestare che nella sua parrocchia (Pessola di Varsi) i primi partigiani si videro nell’Aprile 1944, circa 40, numero che giorno per giorno crebbe tanto da arrivare certamente ad un com­plessivo di 200 uomini. Le Brigate che si fermarono a Pessola, come loro dimora abituale sono due: 1) La 31ª  Garibaldi – comunista, alme­no nei suoi capi, e 2) La 2ª  Italia – democristiana.

Per i primi otto mesi, questo è indiscusso, il parroco e la popola­zione fecero di tutto per mantenere questi giovani, privi di tutto, e si diede loro pane, indumenti, scarpe. Non furono rari esempi di fami­glie che in un giorno hanno fatto il pane per ben tre volte, per assi­stere i partigiani affamati. Per un certo tempo, la Canonica ospitò ammalati, come infermeria, ovvio il dire poi che era la residenza dei capi, p. e. Pablo, Trasibulo, Taros, nomi conosciutissimi. Anzi si può affermare che la prima adu­nanza partigiana fu fatta in Canonica, la presiedeva Dario. Come la Canonica, così tutte le case di Pessola, con spirito di abnegazione del­le famiglie, furono ospitaliere per i partigiani e per gli Inglesi, scap­pati 1’8 Settembre 1943.

Tutti si collaborava nell’aiutarli e nell’informarli, quando vi erano notizie poco belle. Venne il rastrellamento – Luglio 1944 – terribile per Pessola! I partigiani della 31 ª Garibaldi, nascosero le loro armi e munizioni nei pressi del monte Dosso e poi via….. Le armi furono scoperte, causa spia partigiana, ed allora Pessola passò il suo terribile Calvario! Le armi essendo minate, nell’atto di es­sere prese scoppiarono, uccidendo della brigata nera. Per rappresa­glia, furono uccisi due padri: i fratelli Giordani di Mario, padri di cin­que bambini, poi incendiarono buona parte del paese e passando di famiglia in famiglia asportarono via tutto quello che trovavano, be­stiame, biancheria. Il parroco poi fu portato via pure lui, messo nel campo di concentramento di Rubbiano, e per 26 giorni gli fu proibito di tornare in parrocchia. La causa, perché si era presentato a Varsi dal Comando Tedesco, per proteggere la sua popolazione. La bufera pas­sò! Deo gratias! Passarono alcuni mesi ed eccoci al secondo grande rastrellamento.

Gennaio 1945. I rastrellatori fortunatamente erano tutti italiani, e furono più umani, forse perché comprendevano ormai la loro pros­sima fine! Si fermarono in paese circa sei giorni, tutti in Canonica, circa 80 uomini. Questa volta la causa fu l’attacco tra partigiani e Alpini delle brigate nere. Anche qui, nel discioglimento completo delle brigate partigiane, la popolazione offerse pane e rifugi, appositamente fatti per salvare gli uomini.

È poi da dirsi che il paese manteneva diverse famiglie, venute a Pessola, famiglie di partigiani già ammogliati, dando loro il necessario per vivere e l’abitazione. L’opera del parroco fra i partigiani, come at­tività spirituale, fu quasi nulla. La 31 a Garibaldi, non ne voleva sa­pere, la Italia al contrario, frequentava la Messa domenicale e fece Pasqua. . I partigiani poi, cominciarono ad avere il necessario dai loro Co­mandi e la popolazione cominciò a respirare fino al maggio 1945 che vide l’esaltazione del coraggio partigiano e l’annientamento del nemi­co nazifascista.

in fede di quanto sopra

Don Vincenzo Calda} parroco di Pessola

PARROCCHIA DI V ARSI

 ROLLERI DON GIUSEPPE (1894 – 1956)

            Dal 1931 al 1956 fu Arciprete e Vicario Foraneo di Varsi. Si distinse per i suoi sentimenti antifascisti ed antitedeschi.

1945 dicembre 3 – Varsi.

Relazione di Don Rolleri in risposta alla circolare della commissio­ne cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

 

 

Per la zona di Varsi l’inizio cruciale della Guerra coincide colla da­ta dell’armistizio 8 Sett. 1943, periodo in cui colla disgregazione dell’ Esercito vennero a formarsi sulle montagne i primi nuclei di sban­dati costituiti in maggioranza da elementi della Bassa Italia che per non poter superare la linea del fronte dovettero di necessità cercare riparo e difesa negli anfratti delle località più impervie. Frequenti puntate segnarono per parte dei Tedeschi e dei Neofa­scisti Repubblicani gli assaggi iniziali che dovettero sospendersi coll’oc­cupazione del Paese fatta dai Partigiani il 10 giugno 1944.

Giornata terribile questa sostenuta da ambe le parti con fuoco micidiale per la mancata capitolazione della G. N .R. che alle intimazio­ni di resa continuò a rispondere con energici contrattacchi. Appena sospeso l’attacco intervenne il Parroco presso i Coman­danti sia per l’amministrazione dei S. Sacramenti ai colpiti e moribon­di che per mitigare e calmare gli animi accesi e prevenire vendette e sangue che già sgorgava copioso da tante parti. Aderirono in parte i Capi e la prima adunata tenuta in Canonica dai Capi stessi ed alla pre­senza del Parroco valse non poco a superare difficili momenti ed appli­cazioni di sanzioni e vendette che non sarebbero state poche. E fu questa l’occasione in cui il Parroco usando di grande magnanimità di fronte ad un’inveterata inimicizia che teneva lontano l’allora Podestà Sig. Bianchi Democrito per false calunnie e sospetti mal concepite e peggio digerite nei confronti del Parroco stesso, questi poté nonostante i tanti capi di accusa che avevano ripetutamente compromesso il sul­lodato Signore, poté ripeto intervenire direttamente ed attraverso una forma plebiscitaria suscitata di mezzo alla popolazione che pur lo vo­leva morto salvargli la vita risparmiando un’enorme catastrofe alla Fa­miglia e suggellando in altri, sentimenti che nei confronti di terzi sa­rebbero stati di vendetta e cagione di nuovo sangue.

A due che dovevano essere in breve giustiziati ottenne il benefi­cio di poter morire confortati ed assistiti dal Sacerdote. Non si di­menticherà mai la scena di questi due disgraziati che già vittime di crudeli sevizie chiesero prima di morire il conforto di una visita in tale stato a Gesù Sacramentato in chiesa, favore che venne loro accor­dato dietro interessamento del Parroco. Tutte le vittime della Guerra di qualunque parte vennero nelle lo­ro salme convenientemente riesumate dai loculi provvisori e composte nel Camposanto in rispettive bare subito fornite dalla carità della po­polazione suscitata dal Parroco dopo quelle celebrazioni rituali che di volta in volta venivano permesse.

Durante tutto il periodo di occupazione l’opera di prevenzione di rappresaglie, di perquisizione e di trattamento equo ai detenuti fu sem­pre illuminata e sostenuta in gran parte dal Parroco seguito in questo unanimemente dalla popolazione tutta. E cosi ancora se all’arrivo delle truppe Tedesche in operazione di rastrellamento il 17 luglio 1944 fu risparmiata alla popolazione la strage ed al Paese l’incendio credo che possa essere comprovato dall’opera di persuasione fatta presso le truppe Partigiane a non voler commettere atti aggressivi inutili di fronte a forze preponderanti, par­te questa sostenuta sia direttamente dal Parroco che in collaborazione a quanti aveva scelto per la nobile impresa tra le persone più influenti e capaci. Da notarsi che a detta delle Autorità Repubblicane di Parma, Varsi, quale centro tra i più attivi e importanti delle formazioni Parti­giane, doveva essere distrutto e i suoi uomini tutti deportati in Germania.

Coll’arrivo delle truppe di rastrellamento termina l’opera del Par­roco perché subito preso con altri parrocchiani e trattenuto quale ostag­gio per 48 ore e quindi allontanato dalla Zona. Da notarsi che il Par­roco all’ arrivo delle truppe era eclissato provvisoriamente e avrebbe potuto comodamente mantenersi occultato se il desiderio di poter even­tualmente tornar di giovamento spirituale e materiale alla popolazione non l’avesse spinto a ritornare          e purtroppo inutilmente perché su­bito fermato e poi inviato a concentramento dopo essere stato tratte­nuto ostaggio. Di particolare rilievo durante il periodo di occupazione Partigiana anche l’opera benefica ed assistenziale svolta dal locale Asilo e dalle Suore trasformate in Infermiere. .

Altra opera benefica l’assistenza prestata in concorso colla popo­lazione agli sfollati di Chieti e Pescara che in buon numero si trova­vano tra noi: armadio del Povero – Cesta della Carità – Pane e Latte ai Piccoli – Frumento distribuito, ecc….. E tutto questo modestamente ed unicamente a gloria di Dio e non sarebbe mai stato documentato se non da Lui se la richiesta del S. Pa­dre per un bene che deve ridondare a giusto onore del Clero non mi avesse costretto a rendere pubblico il poco fatto e potuto fare. Il Signore perdoni le manchevolezze perché i generosi comprendo come abbiano saputo dare qualche cosa di più       La vita.

            Con ossequio mi professo:

della S.V. m. ma e Rev. ma [f.to] D. Giuseppe Rolleri s.d. Testimonianza di Don Rolleri.

 

UN RICORDO E UN MONITO ALLE GENERAZIONI VENTURE

 

Noi che siamo spettatori e attori nella tragedia più immane che mai abbia colpito la povera umanità ci sentiamo in dovere di premu­nire le generazioni future contro il ripetersi di simili errori. Non a torto giudico che le terribili giornate vissute da questa po­polazione nel disgraziatissimo corso dell’ anno 1944 siano da annove­rarsi tra quelle più infauste di tutta la storia che compendia la vita di un millennio di Varsi. Orrori esecrandi, spietati, perpetrati dalla ferocia di emissari irre­sponsabili e crudeli che alla nativa selvaggia enclita di un Popolo di Nibelungi che tramanderà nei secoli in una parodia festosa di epoca insensata le prodezze infami degli Unni, Goti e Ostrogoti aggiunge la raffinatezza di un secolo di scoperte, di studi e di invenzioni rivolta a determinare il capovolgimento di ogni forma civile e cristiana per il predominio di una razza che volendo vantare privilegi di sangue non agognava che ad un dominio dispotico universale.

La nemesi storica che nell’infinita e benefica Provvidenza Divina presiede allo svolgimento degli eventi umani ancora una volta si è dichiarata presente e sulla barbara presunzione di una vittoria senza nome, giustizia Divina che ventenne strazio addensato fortemente rom­pendo le dighe alla tirannide ne sperperò il covo, par vendette addi­tando a chi osasse imitarlo. Ma si sarebbe potuto pensare che «l’homo homini lupus» potesse trovare seguaci ed addestra tori più esperti dei Nazi-fascisti. Sì, anche e specialmente di quest’ultimi che all’incoscienza bestiale aggiunsero la criminalità facinorosa di gente perduta che pur di prolungare una situazione egoistica interessata non dubitarono di ripeter l’errore della rovina della Patria con l’aggravante di un servilismo stupido e infau­sto e ridicolo oltre che al mondo agli stessi amici vili e traditori. La guerra è purtroppo una espiazione generale e noi ci siamo illusi di an­darne esenti; solo si pensava dai più di un riflesso di eventi e calami­tà, invece un bel giorno come chi per vari giorni sente il rumore, lontano di un uragano che freme abbattendo e squassando ogni osta­colo e finalmente si avvicina ed arriva in un parossismo di vendette e distruzioni, così in un’avvicendarsi di azioni prima periferiche e con­centriche e finalmente in colpo risoluto il terribile uragano scroscia la sua tempesta nefasta, devastatrice, terribile.

Le prime avvisaglie segnano la data del 9 luglio, giorno di Do­menica: il giorno è scuro, tetro: una folta nuvolaglia copre il cielo che di quando in quando si risolve in pioggerella minuta, insistente, ca­pricciosa. Il popolo raccolto in parte in Chiesa per la soddisfazione del pre­cetto Domenicale ha un unico pensiero, un’unica preghiera: «Domine salva nos perimus ». Rivivere l’ora di trepidazione angosciosa è cosa inadatta alla più fervida fantasia: un dolore vivo punge il cuore, il fi­sico ancora si abbatte, la memoria langue e solo un singulto che ancora a stento si raffrena dà adito ad una lagrima che segna lo sfogo di una rinata angoscia mai spenta.

«Vianino è occupato e in fiamme» questo il laconico terribile te­legramma che accoglie il Popolo uscente dalla Casa di Dio chi in preda ad un panico fatto di terrore e preoccupazioni grandi ricerca le proprie abitazioni, raccoglie le ultime spoglie da salvare, richiama gli ammonimenti più gravi e solenni e così sotto la pioggia come ognuno meglio può cerca la fuga, il riparo, la salvezza. Dove?… La campana a lenti rintocchi come mossa da una mano invisibile diffonde nell’aria greve e silente l’ultima nota di rimpianto, di ammonimento ai ritarda­tari che ancora non sanno decidersi nella nostalgia di una casa che de­vono lasciare nella visione di non ritrovare o ritrovare Dio sa! in quali mutate condizioni. Tutti fuggono, spingendo avanti gli ultimi armen­ti, caricati delle poche masserizie, provvisti delle indispensabili ciba­rie     alla volta del monte, del rifugio, del bosco, della macchia, della casa ospitale meno esposta e più rassicurante che possa non dico garan­tire,  ma solo offrire un dubbio di sicurezza. Invece quella fu la gior­nata che seguì il martirio della povera frazione di Vianino: la quale di fronte a questa razza insensata non aveva avuto che un torto: quel­lo di trovarsi alla periferia della zona di combattimento coi Partigiani e quindi di avere nei vari scontri dei giorni precedenti raccolto le pri­me vittime della furia nemica. Purtroppo la rappresaglia fu spietata, inesorabile; parecchie vittime trucidate senza discriminazioni di re­sponsabilità tra i primi incontrati Occasionalmente ed il Paese dato in preda alle fiamme che avrebbero avuto ragione di tutto se l’intervento pronto e clandestino dei pochi rimasti con pericolo della vita non avesse cercato di circoscrivere, limitare e spegnere il vasto incendio che però ebbe ragione di una buona parte dell’abitato mettendo sul lastrico tanto povere famiglie innocenti.   I

Il nostro Paese ebbe la fortuna momentanea di non vedere subito l’arrivo sadico di quei forsennati e dei loro degni compagni d’armi, i criminali venduti del neo-fascismo male imperante. E così per altri ot­to giorni la Popolazione terrorizzata anche dai primi racconti partico­lareggiati di tutti i soprusi, le angherie, estorsioni, ruberie, saccheggi, perquisizioni, sevizie, impiccagioni e stragi senza numero e qualità con­tinua ad abbandonare il lavoro dei campi, lasciare isterilire i frutti pendenti e a cercare scampo e riparo lontano dall’abitato nella vana illu­sione che una semplice visita al Paese sarebbe bastata a convincere quei bastardi irriducibili che Varsi non era mai stato un covo di ribel­lioni e molto meno una roccaforte di resistenza Partigiana. Era invece semplicemente rimasta la sentinella avanzata che ave­va raccolto generosamente fra le sue braccia allargate a scudo e prote­zione la povera vera Patria scarmigliata, ferita a morte, nuda e pez­zente che percossa, tradita da tanti suoi figli degeneri rivedeva final­mente spuntare in un manipolo di Prodi e coraggiosi che chiedevano armi, munizioni e addestramento l’alba del secondo risorgimento che le dovevano ridare volto e dignità fra i Popoli giustamente sospetti e in agguato.

Questa la vera gloria di Varsi, che mentre il suo nome infamato, calunniato e tenuto in conto di partigianeria faziosa era additato a tutta la Provincia come il covo di tutte le sedizioni ribelli, oscure, e nefaste; invece nella comprensione lungimirante, paziente, laboriosa e onesta dei suoi concittadini preparava, sosteneva, alimentava e difen­deva il primo nucleo di Partigiani, che poi come valanga sarebbe pre­cipitato a valle a vincere, abbattere e stritolare col nerbo delle forze Alleate ogni ostacolo per la cacciata definitiva degli odiati oppressori. Ritornando dopo la breve parentesi all’argomento principale, la Domenica era divenuta da tempo nell’osservatorio climaterico di guer­ra la giornata che presentava i massimi di temperatura rigida e per questo si era imparato che le retate favorite studiate venivano cercate nelle adunate tranquille e raccolte e religiose del Popolo orante: tutto serviva a quei profanatori di Dio della sua Chiesa e dei suoi Santi ed ogni fine giustificava pienamente i mezzi giudicati più in acconcio.

Per questo la Domenica del 16 luglio 1944 era stata preventiva­mente in sospetto e fin dal primo mattino le campane squillanti a festa ogni Domenica non avevano chiamato il Popolo a raccolta nella sua Chiesa a chiedere nella compartecipazione al sacrificio Divino la forza per affrontare il momento divenuto cruciale. Il Cuore Divino di Gesù invocato e propiziato taumaturgo a tanti mali incombenti troneggiante nel centro della Chiesa e benedicente nel segno delle sue mani espanse dalla votiva ara improvvisata, accom­pagnava ogni fuga, ogni invocazione, ogni lamento, sosteneva e riac­cendeva ogni fiducia.

I nostri Santi formanti corona al Mediatore Universale intercede­vano per noi: ne avevamo sicurezza dalle loro nicchie nella Chiesa ri­masta deserta anche dal Prigioniero Divino fatto esule col suo Popolo a salvaguardia di profanazioni che sarebbero state orrende. Alle ore 9 del mattino il sibilo metallico dei primi colpi di can­none che annunciavano l’assaggio di sfondamento e sparati da piccoli calibri da montagna dal tratto di strada tra Ponteceno e Vianino e a largo raggio sul tratto del Dosso stendentesi tra Specchio e la cima del monte. Lo scoppio fragoroso ripercosso dall’eco in tutti gli anfratti ed accresciuto dal crepitio insistente della mitraglia e della fucileria ac­cresce in ogni cuore lo sgomento ed il terrore per tanti che possono essere vittime sotto l’obbiettivo di tiro che dura per alcune ore e ri­prende nel pomeriggio con uguale insistenza per dare finalmente luogo ad una breve tregua notturna che possa ritemprare gli animi a soste­nere l’incognita della giornata seguente; tiene in sospeso per tutta la durata del combattimento uomini e cose.

Se il Principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi fu perché aveva prestabiliti tutti i suoi piani, di­rebbe il nostro Manzoni, ma noi invece non si sapeva altro se non che l’indomani sarebbe stata una giornata terribile e quindi la notte tra­scorse per tutti angosciosa. Difatti il primo apparire dell’alba fu segnato in cielo da un rom­bo, nuovo, stridente, ferruginoso che arrivando da Nord-Est in breve ci portò sopra una due quattro parecchie «Cicogne» che oc­cupando la lunghezza della vallata si distese fino a Bardi e nei due di­stinti raggruppamenti che ne seguirono non nascosero le loro sinistre intenzioni che gli obiettivi stavolta erano precisamente Bardi e Varsi. Oh le prodezze di questi conquistatori di inermi, vecchi, donne, fan­ciulli e ammalati non saranno mai sufficientemente celebrate!….. per­ché dovranno trovare un rapsodo che esca dalla cerchia dei popoli più barbari.

Non ho mai assistito ad una scena più terrificante!… e l’ho fatto da un poggio elevato a sud del Paese sulla strada per Roccavecchia mentre il sole indorava le vette più alte del Carameto, del Ragola e del Maggiorasca: la scena quindi si svolgeva a ventaglio sopra il mio sguardo. Volteggiando a guisa d’Arpie schifose e velenose a cerchi sempre più concentrici ed in repentine picchiate che ridonavano quota risalendo dalla parte opposta i terribili strumenti di morte cominciarono a caracollare la loro nenia funebre sganciando a riprese intermit­tenti il loro carico di ordigni micidiali e devastatori. Non si riuscirà mai a comprendere come individui che appartengo­no alla famiglia umana siano capaci di concepire un odio mercenario dettato da puro convenzionalismo senza riflesso all’ amore di Patria e la cosa è tanto più inesplicabile quando questi individui oltre che ap­partenere alla famiglia umana appartengono alla stessa progenie, allo stesso Popolo.

Intanto la prima bomba sganciata su Varsi ha colpito l’abitazione del sig. Berni Carlo andando proprio a colpire il tetto soprastante la stanza da letto e seppellendo sotto le macerie lui e la moglie, che an­cora riposavano. Rinvenuto dal primo stordimento e sanguinante per la larga ferita riportata sotto il mento ebbe ancora il coraggio e la for­za di estrarre dalle rovine la moglie e così salvarle la vita. Una seconda bomba fu lanciata pochi metri a nord della torre e questa fortunata­mente non arrecò che danni materiali ai vetri prospicienti quando avrebbe potuto colpire parecchie persone di sfollati di Chieti e Pescara che alloggiavano nel Salone Parrocchiale.

Il motivo di questi due obbiettivi? Nel primo si è voluto forse colpire il Sindaco in carica eletto dai Partigiani e nel secondo appare ancora più evidente la ragione: co­munque il Signore volle tutto e tutti risparmiati. Ancora diverse raf­fiche delle mitragliatrici a bordo e poi come Iddio volle si allontana­rono. In breve un fumo nero, spesso e diffuso ricoperse gran parte della zona colpita a Bardi così a distanza appariva letteralmente coper­to. Dimentichi del pericolo incombente per l’arrivo imminente delle truppe di rastrellamento Nazi-fasciste, molti si precipitarono in Paese per prestare le eventuali opere di soccorso, ma ben presto dovettero rientrare alla base di partenza perché i colpi precorritori di fucileria ormai si precisavano a Golaso.

Il paese presentava l’aspetto più deserto mai visto: quasi tutte le porte e finestre chiuse, nessun movimento in contrada, i pochissimi vecchi, donne e bambini rimasti rintanati in casa, un silenzio sepol­crale e i cuori che battendo a pulsazioni accelerate presagivano le con­seguenze più nere e non capivano come avevano potuto rimanere di fronte alla preveggenza dei più che avevano scelto la via migliore. Per quanto uno sia preparato e rassegnato all’arrivo di un incubo doloroso che da tempo lo teneva in agitazione, pure il momento deci­sivo sospende il battito del cuore, l’animo si sente venir meno e l’an­goscia opprimente diventa agonia, morte. Tale l’attimo terribile a cui siamo arrivati con la nostra storia.

Un carro armato staffetta esploratrice ha così fatto il suo ingresso in Paese, seguito da varie camionette, camions ecc. e i soldatacci ener­gumeni in atteggiamento che spaventa si precipitano alle prime porte che vedono aperte e all’incontro violento dei primi malcapitati citta­dini. In un momento vogliono intuire un mondo di cose… dove so­no i cittadini? dove sono i banditi?…perché tutti scappati? si sa­rebbe potuto rispondere: per rendervi più solenne il ricevimento, ma prudenza insegna che col prepotente si tace e non si discute. A colpi di ariete vengono sfondate le porte chiuse, infranti i vetri, messo a ruba quanto capita sotto mano e da ignoti e insaziabili Teutoni «quorum Deus venter est» eccoli darsi alla ricerca di quanto può meglio adescare il loro appetito formidabile e così quelle scarse e pre­ziose rimanenze che ogni famiglia si era riservata per i momenti più difficili, lardo, salumi, strutto, condimenti in genere, vini migliori ecco tutto divenuto in un attimo preda di quel saccheggio empio e bestia­le. La prima spavalderia brutale ben presto cede il posto al timore ed allora sotto minaccia di presentarsi gli assenti frena la distruzione del­le case e degli averi, effettivamente si mira ad avere in mano i primi ostaggi che assicurino la pelle a questi valorosi pavidi eroi da cartello. In breve uno spettacolo nuovo, perché animato e vorrebbe parere fe­stante se non fosse dettato da misure conciliative e prudenziali, è of­ferto dallo scendere per le diverse viuzze e sentieri che dal monte scendono in Paese da donne, bambini e qualche uomo che agitando segnali bianchi di resa ritornano all’invito che non ammette tergiver­sazione.

Ricorderò sempre lo spettacolo desolante della Canonica che è stata una delle prime prede di quegli arrabbiati manigoldi: potrei ripe­tere la scena descritta dal Manzoni al ritorno di Don Abbondio dopo la visita dei Lanzichenecchi, in più qui vi era la persistenza di quei ceffi intollerabili che dimostravano di non essere ancora soddisfatti del­la quantità del bottino fatto. Umiliante la parte dovuta subire nel con­fronto di due di essi che portati si alle stanze superiori della casa Ca­nonica a mia vista e dispetto passarono cinque materassi dal letto alla piazza per le finestre. L’episodio è indicativo delle capacità morali e sociali di cui disponevano su larga scala a vantaggio di tutti. Passata la notte come Iddio volle con un dispositivo militare di blocco a tutti gli angoli ed entrate principali del Paese il mattino del 18 luglio attua­va nella mente degli occupanti il piano precauzionale di difesa e di offesa.

I Parroci di Varsi, Tosca, Pessola e due Rocca venivano fermati con una ventina di parrocchiani tutti di Varsi e trattenuti nei locali del «Caffè della Fontana» Casa Coppellotti per tutta la giornata e la not­te seguente – in attesa di che cosa? – Dobbiamo ringraziare la Prov­videnza che non un colpo venne sparato in alcun scontro anche di mi­nima importanza effettuato, che diversamente se le operazioni di rastrellamento fossero state non dico contrastato, ma solo disturbate, i fermati non avrebbero sostenuto le spese. Per tutta la giornata fu un via vai continuo di Tedeschi, parenti ed amici che venivano questi ul­timi a commiserare la nostra sorte e sostenerci moralmente; alme­no apparentemente fummo anche oggetto di qualche riguardo da parte dei primi, ma data l’ipocrisia subdola e manifesta nessuno ne fece mai conto veramente.   .

Dopo averci fatto riposare su materassi messi in terra e averci con­cesso il tempo strettamente necessario «ai Sacerdoti per la celebra­zione della S. Messa» fummo tutti caricati su camions e diretti alla volta di Rubbiano. Dagli interrogatori fattici in gruppo il giorno precedente dal Co­mandante la guarnigione a mezzo d’interprete avevamo dovuto com­prendere che il motivo principale del fermo e conseguente deportazio­ne di noi Sacerdoti era insito nell’atteggiamento apparentemente in­differente ma interpretato ostile della grandissima maggioranza del Cle­ro Italiano nei confronti della propaganda nazi-fascista e nell’accusa specifica che facevano al S. Padre ed ai Vescovi Italiani di favoritismo e cortigianeria alle truppe e Comandi Alleati in Italia. È inconcepibile che a fianco dell’ammalato venga interdetto il medico come sarebbe violenza inaudita che un padre non potesse assistere i figli moribondi e crudeltà ineffabile l’impedire un ristoro a chi fosse afflitto da inedia diuturna, eppure tutto questo languisce di fronte all’incoscienza crimi­nale di chi osa distogliere e rendere irreperibile il Sacerdote in una Parrocchia e in un Vicariato nel momento più tragico della sua esisten­za. E i Sacerdoti del nostro Vicariato vennero tutti allontanati o co­stretti a farlo per incompatibilità di coesistenza «Non coutuntur Judaei et Samaritani…» con qualche cosa di peggio. Povere nostre Parrocchie abbandonate alla discrezione di capaci di tutti gli eclettismi morali, politici e sanguinari!

Era naturale che dovesse così avvenire perché la sola presenza del Sacerdote poteva essere un richiamo solenne mentre la iena doveva assaporare indisturbata il pasto feroce che l’ha nutrita ed il Popolo in aggiunta a tutte le privazioni e spogliazioni doveva gustare anche que­sta per misurarne tutta la preziosità. La quale si fece subito sentire in un Paese che al deserto della terra univa ormai quello del cielo!… Po­vero mio bel campanile che ironicamente, dopo che ti hanno reso mu­to anche del battito delle ore che sono troppo lugubri, lasci agitare dal vento l’obbrobriosa croce uncinata di cui ti hanno contaminato! Anche tu come M. Liguor dover essere investito da Re di burla! «Haec est potestas tenebrarum… et hora ves tra ».

Intanto come una carovana di zingari trainata a lento percorso tra colonne interminabili di bestiame rastrellato che al nostro compa­rire si addensa, si sbanda per malamente ricomporsi spinto, contenuto lungo la Provinciale che scende per Fornovo da altri più mal capitati compagni di sventura ben più umiliati di noi; il nostro automedonte procede a sbalzi, a scatti verso quella che sarà la prima tappa del no­stro calvario: Rubbiano. Desolante la prima scena che si offerse al nostro sguardo al primo arrivo al campo di smistamento di Rubbiano: una trentina di persone più nude che vestite nell’aspetto mortificate, digiune, affrante e con ancora stampate nelle membra le lividine delle percosse ricevute, va­gavano incerte, desolate per il campo completamente assolato, senza tappeto verde, ma con poche stoppie bruciate dal sole che avevano così malamente fornito guanciali a quelle povere membra indolenzite.

PARROCCHIA DI VILLORA

ROLLERI NEGRI CAV. UFF. DON NINO

Nato a Pione di Bardi il 7 agosto 1916 e ordinato Sacerdote il 20 giugno 1943, nel medesimo anno fu nominato Parroco di Villora di Varsi. Dopo 1’8 set­tembre si prodigò con vero spirito sacerdotale nei confronti dei soldati italiani sbandati e di prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento, che accolse e nutrì nella sua canonica, a rischio della propria vita, e che aiutò a varcare il fronte o a rifugiarsi in Svizzera.

Dal luglio 1944 entrò a far parte delle formazioni partigiane, animato dagli alti ideali della Resistenza, ma con il preciso compito di svolgere la sua azione sacerdotale fra i tanti giovani che si erano dati alla montagna. Nel terribile ra­strellamento del luglio 1944, che portò distruzione e morte in Val Taro e Val Ceno, si adoperò per ottenere una tregua che permettesse di seppellire i morti e perché fosse risparmiata la popolazione civile. Fatto egli stesso prigioniero, fu processato e minacciato di fucilazione. Imprigionato, dopo una lunga odissea da Varsi, a Pellegrino, a Parma, a Salsomaggiore e Tabiano, ottenne la libertà a pat­to che ricercasse e restituisse ai tedeschi un loro ufficiale prigioniero. Nel set­tembre 1944 fu nominato Cappellano del Comando Unico delle formazioni par­mensi. Come tale si adoperò alacremente per scambi di prigionieri, alcuni anche di grande spicco, come ad es. Mons. Ugo Civardi, delegato vescovile per l’assi­stenza a tutte le formazioni partigiane. Altamente umanitaria fu la sua preziosa assistenza ai feriti e ai prigionieri tedeschi. Dall’inverno 1944 – 45 al 25 aprile assolse al compito da Cappellano militare della Divisione «Val Ceno» a cui era stato nominato dall’autorità superiore. Dopo il 25 aprile si dedicò ad un’intensa opera di stabilizzazione di quegli ideali che la Resistenza aveva perseguito. Que­sta sua opera fu osteggiata dalle autorità fasciste e tedesche, la sua casa paterna a Cereseto fu saccheggiata, la canonica di Villora devastata. Ebbe anche nume­rosi ed ambiti riconoscimenti. I prigionieri inglesi da lui salvati contribuirono a riedificare la chiesa e la canonica di Villora, e lo proposero per la « Military Cross », ricevette la medaglia d’argento al Valor Militare, ed ebbe il titolo di Cavaliere Ufficiale e Commendatore Grande Ufficiale. Attualmente è Parroco a Specchio di Solignano e ricopre la carica di Cappellano Nazionale dell’ Associazione Partigiani Cristiani.

L’archivio della Curia Vescovile possiede una vistosa documentazione della sua infaticabile opera.

1944 settembre 24.

Lettera di Don Rolleri alla curia attestante l’opera da lui compiu­ta per ottenere il rilascio di prigionieri, tra cui Mons. U go Civardi.

Ven. le Curia Vescovile – Piacenza

Godo di notificare alla Curia che il Comando dei Partigiani ha an­cora fatto capo a me per il cambio degli ostaggi d’ambo le parti. Ma ancora sono lieto perché nel prossimo cambio di venerdì 29 c.m. potrò portare in libertà Mons. Don Ugo Civardi insieme a 11 altri ostaggi quasi tutti dal Piacentino. Ho qui presente nelle condizioni proposte per il cambio, chiesto a me dal Comando Germanico di Parma, tramite la Curia di Parma, tutti i nominativi, ma mi riservo di notificarli ap­pena il cambio sarà fatto perché non vorrei precipitare le cose. Comunico alla Curia che io faccio ciò, come già fatto in preceden­za, solo per sentimento umanitario e per espressa richiesta di collabo­razione del Comando Germanico di Parma a cui sono già noto pei pre­cedenti cambi; a suo tempo produrrò le prove.

Intanto che lavoro nella fiducia delle parti mi faccio premura sol­lecitare dalla Ven. le Curia la lista di preti, prelati o persone che po­trebbero essere poste come condizione per successivi cambi. Credo che sia il momento di salvare il salvabile e togliere ad ogni costo dalla con­dizione di ostaggio o detenuto chiunque vi si trovi senza badare se un individuo può essere più o meno pregiudicato ponendolo tra gli ele­menti proposti per gli eventuali cambi. Nutro fiducia che la Ven. le Curia Vescovile saprà valutare questa mia opera intenta a salvaguardare l’esistenza di tanti poveri innocenti o comunque di qualsiasi vita umana, e troverà eco presso i miei superiori come già presso la Ven. le Curia di Parma e Mons. Colli nonché presso lo stesso Comando Germanico di Parma e presto anche quello di Piacenza.

.In attesa di quanto chiesto saluto e ringrazio della possibilità che mi vorrete dare di fare un po’ di bene.Obb. Dev.

 Don Nino Rolleri

PARROCCHIA DI VIANINO

SQUERI MONS. GIUSEPPE

Nato a Bedonia nel 1902 ed ivi ora Arciprete. Negli anni 1936 – 1954 fu Par­roco di Vianino, ove condivise con quella popolazione gli orrori della guerra, cul­minati nella distruzione del paese.1.d.

Relazione di Don Squeri in risposta alla circolare della commis­sione cardinalizia di A. C. del agosto 1945.

Il 9 settembre 1943 un proclama del Re annuncia l’armistizio, ma la Germania libera Mussolini dalla prigionia, Gran Sasso, invade l’ Italia e il nostro esercito, di fronte alle truppe tedesche, si sfascia. Molti soldati vengono fatti prigionieri. . Molti nostri soldati, protetti dai civili, riescono a raggiungere le loro famiglie. Si dichiara decaduta la Monarchia e si instaura la Repub­blica e Salò. Si tenta di richiamare alle armi i militari sbandati, ma la gran parte non risponde all’appello e vengono nascosti nelle case, nel folto dei boschi, nelle tane, cercati dalle Brigate Nere e dalla Polizia. Anche i giovani (della nostra parrocchia di Vianino) vivono randagi.

Di notte, stanchi della solitudine dei boschi e delle tane, raggiungono le loro famiglie o le canoniche, dove il parroco li accoglie e li con­forta. Molte volte, nel cuore della notte, il parroco attraversa con loro, con precauzione, il paese; raggiunge l’Oratorio a S. Rocco adibito a Chiesa Parrocchiale, amministra loro il sacramento della confessione e la Comunione e confortati dal Pane dei Forti ripartono per i monti e per le loro tane prima che li raggiunga il bagliore dell’alba. Intanto sulla zona si organizzano le prime pattuglie di Partigiani.

 Tragico episodio

Il giorno 31 maggio 1944, il parroco di Vianino Squeri Don Giuseppe, circa le ore 17, torna da Carpadasco dove ha avuto luogo l’Ufficio di campagna. Sta attraversando il ponte Ceno, quando incontra un uomo di Varsi su di un baroccio trainato da un cavallo che lo avverte che stanno arrivando i tedeschi. Il parroco ritorna indietro e si ripara nel bosco attiguo al ponte, ma all’improvviso esce dal nascondiglio, ripassa il ponte e si dirige verso l’osteria in località «La Baracca». L’ha appena raggiunta che sente un colpo di fucile. È sparato da un partigiano nascosto nel fieni­le di rimpetto alla «Baracca» contro due camions portanti una cin­quantina di Tedeschi e ne ferisce due, uno gravemente e l’altro leggermente (uno è morto).

I Tedeschi iniziano una sparatoria spaventosa. Il parroco di Vianino si  ripara   nell’osteria, si precipita in cantina dove in un bugigattolo trova rifugiata la famiglia dell’oste: Borella Costante con alcune altre persone che si trovavano casualmente nell’osteria. Poi rifà la scala e, mentre infuria la sparatoria, si presenta sulla strada. Un soldato tedesco, appena lo scorge, gli è addosso e lo prende a calci e a pugni e lo butta per terra e con una bomba tedesca munita di manico, gli vibra sulla testa un colpo che poteva essere fatale se non l’avesse prontamente parato con il braccio.

Viene messo al muro assieme alle persone che si trovano nell’oste­ria. Intanto viene ucciso il partigiano che ha sparato dal fienile. Il Co­mandante Tedesco, ucciso il colpevole, sospende l’esecuzione delle po­vere vittime, che, terrificate, attendono la morte. Il parroco viene pre­so come ostaggio, viene caricato di un pesante pezzo. Precede i cin­quanta tedeschi che partono sparando, per Robbiano di Vianino, per­suasi di trovare in quei casolari munizioni e partigiani. Dopo mezz’ora di dura salita, sotto il terrore di una incessante sparatoria, si raggiun­gono le case che vengono ispezionate minuziosamente senza trovarvi alcuna traccia di quanto cercavano. Il parroco viene liberato dal pe­sante fardello. Gli abitanti di quelle corti, che simulano calma e sere­nità, offrono agli indesiderati ospiti un bicchiere di vino. L’ostaggio, insieme ai Tedeschi, riprende la via del ritorno in una atmosfera di maggiore fiducia. Si raggiunge così la «Baracca ». All’oste viene aspor­tato tutto il vino in bottiglie. Il parroco interviene perché non siano bruciati le stalle e il fienile da cui era partita la sparatoria del parti­giano ucciso; poi… esso viene lasciato libero. I tedeschi proseguono per Varsi e il parroco, ancora sotto l’incubo di tanto terrore, inforca la bicicletta e vola la strada per raggiungere Vianino. Il giorno dopo vie­ne sepolto nel cimitero l’insensato partigiano, un certo Molinari Attilio di Chiaravalle della Colomba di Piacenza.

           I partigiani occupano Vianino

 Il 19 giugno 1944 i Partigiani, sull’imbrunire, invadono Vianino. In località «la volta» presso l’ammasso di grano tenuto dal proprieta­rio Dallara Giuseppe si riforniscono di grano, e le giacenze vengono distribuite alle popolazioni di Vianino e dei paesi limitrofi. Viene così asportato dall’ammasso tutto il frumento, circa 700 quintali. Vorrebbero compiere atti di violenza contro alcune famiglie del paese reputate fasciste. Il parroco interviene e distoglie da questi atti alcuni partigiani scalmanati. Atti di violenza sono invece compiuti a Ponte Ceno in località «Casa del Caseificio» di proprietà di Chiesa Carlo. Il proprietario viene cercato a morte. Riesce ad evadere ed al­lora viene messa a soqquadro la casa, scassinando porte, finestre, tutto rovinando.

partigiani fanno saltare i ponti

Il giorno dopo, l0 giugno 1944, i partigiani (nonostante le ripetu­te istanze del parroco a desistere) fanno saltare i ponti. Alle ore sei quello di «Rio Sanello»; alle ore otto quei dei «Rabboni» ai «Pianelli»; alle ore undici quello di Vetrione o Ponte Ceno. Quest’ultimo vuole la sua vittima: un partigiano della parrocchia di Metti, un certo Campana Antonio, ottimo giovane; durante l’esplo­sione e la distruzione del Ponte Vetrione viene colpito a morte da un sasso.

Otto luglio 1944 – Triste Vigilia – Scontro tra Partigiani e Tedeschi.

 Vigilia di gravi avvenimenti per il paese di Vianino. Il paese è pre­sidiato dai Partigiani. La vedetta scorge sulle adiacenze della località «La Volta », una trentina di tedeschi: dà l’allarme, si ingaggia una for­te sparatoria da entrambe le parti. Viene ucciso il tedesco addetto al­la mitraglia pesante. Privi della micidiale arma, i tedeschi, meno uno che riesce ad evadere, sono fatti prigionieri. In quella trova la morte un partigiano di Metti, a cui esplode fra le mani una bomba. I tedeschi fatti prigionieri, ammoniscono per il giorno dopo una terribile rappre­saglia. I partigiani intanto abbandonano il paese portando con loro i prigionieri  sui monti, prestando cure ai feriti. La popolazione, indifesa, viene presa dal panico e, ad eccezione di alcune donne e qualche vecchio, (che non cedono alle pressanti esor­tazioni del parroco), abbandona in massa il paese cercando rifugio e ospitalità nei casolari sulla sponda destra del Ceno, specialmente nella Villa della «Massari» dove anche il parroco pernotta.

 La tragedia di Vianino

9 luglio 1944 – È domenica, festa della Madonna di S. Marco. La popolazione a Vianino, sotto l’incubo di gravi avvenimenti, atten­de smarrita sulla sponda destra del Cenonascosta fra i cespugli o ri­parata nelle case ospitali dei Massari, Barbieri, Trabucco, Ziboli, Sel­va, Carpadasco, ecc.. Il parroco è incerto se ritornare in paese per ce­lebrarvi la S. Messa, ma mentre osserva dai Massari la zona circostante (specialmente la strada provinciale) e contempla il suo paese quasi de­serto, scorge provenire da Casa Contini, da Serravalle, qualche camion. Si sente qualche colpo di fucile: sono i Tedeschi. Raggiungono i « Ronconi» e vi appiccano il fuoco. Poco dopo viene incendiata la « Volta» e la «Marena» e «Costa» di Specchio. Il parroco, con la popolazione, lascia i Massari e si dirige verso Contile.

Piove… si sta salendo il sentiero accorciatoio attiguo a Contile quando appaiono i primi incendi a Vianino. In breve tempo Vianino è un fuoco solo. La carovana costernata ristà e con il cuore infranto, sotto la pioggia, contempla in silenzio il triste e spaventoso spettacolo. È la festa della Madonna di S. Marco. Vengono innalzate alla Madre di Consolazione fervide e angosciose preghiere. Per tutto il giorno, alimentate dalla ferocia dei tedeschi le fiamme ardono, mentre il cielo con la sua pioggia incessante sembra volerne smorzare l’ardore. Le poche donne e i pochi vecchi rimasti alla custodia del paese, passano ore di terrore. Compiono atti eroici e, incuranti del pericolo e delle minacce degli invasori, cercano nelle loro case di salvare il sal­vabile. Vengono barbaramente uccisi 4 uomini e, dopo l’uccisione, vie­ne loro spaccato il cranio con il calcio del fucile. Le vittime sono: Iselli Alberto di Oreste di anni 36, mezzadro del Sig. Leoncini Gio­vanni sul fondo Riosonello; egli, ignaro del pericolo, viene sorpreso nei campi di Costa Pelata e ucciso in Vianino; Astorri Egidio fu Luigi, di anni 72, ucciso nella sua casa di abitazione; Biscaglia Francesco fu Ferdinando, di anni 51, viene trovato morto nel campo di Bertocchi Carla, vicino al Ceno; Bazzini Andrea fu Carlo, ucciso nelle vici­nanze della casa nuova di proprietà di Bertocchi Franco e Severina. Le poche persone superstiti vengono rinchiuse nell’Oratorio di S. Rocco che sostituisce la chiesa parrocchiale diroccata e, sotto lo sguar­do materno dell’Immacolata, ai piedi del Tabernacolo Santo, vi pas­sano la notte. Alle ore 20 di quel triste giorno, i tedeschi lasciano Vianino. Qualcuno dei più coraggiosi, a tarda notte, passa cautamente in paese che divampa e si accerta dell’assenza dei tedeschi. Nelle pri­me ore del giorno 10 se ne dà notizia agli interessati.

I primi soccorsi

Il mattino del giorno 10 luglio 1944 il parroco, con alcuni giovani suoi parrocchiani, insieme al comandante dei partigiani Pablo, perso­na molto seria, ed alcuni partigiani, parte da Contile e si raggiunge Vianino sul mezzogiorno. Si organizza una squadra di giovani, di don­ne, di uomini e si attinge acqua dalle fontane e dai pozzi e, aiutati da Pablo e alcuni partigiani, ci si affanna a isolare il fuoco che sta divo­rando il paese.

I nostri coraggiosi giovani, pur di riuscire nell’intento, mettono in pericolo le loro vite. Si vive sotto il terrore di essere sorpresi dal ne­mico e, per evitare di essere colti di sorpresa, sul campanile un attento osservatore osserva tutto intorno ogni movimento, pronto a dare l’allarme. Sopraggiunge la notte e non è più prudente passare il paese. Il parroco con alcuni giovani pernotta alla meglio in casa Carpena Paolo.

 Tregua di 48 ore

L’Il luglio 1944 il parroco di Villora Rolleri Don Nino, viene a parlamentare con i tedeschi ed ottiene una tregua di 48 ore. In paese non si vive; il fetore del bestiame abbruciato nelle stalle è insoppor­tabile. Si provvede a seppellire i morti e il bestiame già in decom­posizione.

Il ritorno degli incendiari di Vianino

Nel pomeriggio del giorno 15 luglio 1944 i Tedeschi ritornano. Si fanno precedere da alcuni colpi di cannone che terrorizzano coloro che, stanchi della vita randagia, ritornano al loro paese. I medesimi tedeschi che il giorno 9 avevano incendiato Vianino, sbucano da diver­se parti del paese. Il parroco con alcune donne va ad incontrarli e of­fre loro vino. Non fanno del male a nessuno e, dopo una breve scosta, i tedeschi lasciano il paese.

 Il rastrellamento

Il 17 luglio 1944 Vianino viene raggiunto dal rastrellamento che semina desolazione e paura in tutte le nostre montagne. Infatti nel pomeriggio sopraggiungono automezzi che trasportano soldati tedeschi. La nostra gioventù, i nostri uomini vivono nascosti nel folto dei boschi e sui monti. In paese ritornano il parroco, le donne e i vecchi. Il parroco accoglie come meglio può gli indesiderati ospiti. Una donna, Sig.ra Bertocchi Severina fu Ercole, tiene in mano una bandierina bianca. I tedeschi tale simbolo lo considerano una segnalazione ai parti­giani. Si vuole ucciderla. Il parroco interviene presso il Comandante e la salva. Si passa una notte di spavento, disturbata da continui colpi di fucile e di mitragliatrici.

 Il parroco prigioniero

Mentre il parroco il 18 luglio 1944 è intento a preparare il pran­zo in canonica agli Ufficiali Tedeschi, viene prelevato da due soldati armati e rinchiuso per alcune ore nella casa di Uccelli Arturo. Per in­teressamento delle donne del paese il Comandante dispone che venga trasferito nella casa nuova degli eredi di Bertocchi Ercole e vi rimane rinchiuso tre giorni.Intanto si procedeva al rastrellamento del bestiame: viene lasciato un capo di bestiame per stalla. Campo di concentramento del bestiame è la corte di Uccelli Antonio. Vengono messe a soqquadro le poche case superstiti e viene asportato tutto quanto può interessare.

Il parroco di Contile prigioniero

Il parroco di Vianino, nella casa di reclusione dove si trova, viene raggiunto dal parroco di Contile, Maggi Don Carlo, fatto esso pure prigioniero La sagrestia a S. Rocco viene occupata dai soldati tedeschi. Dalla casa dove è rinchiuso, il parroco avverte questo sconcertante inconve­niente: teme sia profanato il SS. Sacramento. Ottiene il permesso di raggiungere l’Oratorio adibito a chiesa parrocchiale, con il parroco di Contile. Alla presenza di alcune donne i parroci si fanno a vicenda la S. Comunione e consumano il Santissimo. Al soldato di guardia il par­roco raccomanda di rispettare la sua chiesa: è un buon cattolico austriaco. Lo assicura e tutto viene rispettato.

Il parroco di Vianino in campo di concentramento

Il giorno 20 luglio 1944 alle ore 10 il parroco di Vianino e quello di Contile vengono prelevati e per benigna concessione del Comandan­te Tedesco si risparmia a loro il lungo viaggio a piedi e vengono fatti salire su di un camion. La popolazione, angosciata per la partenza dei suoi pastori, dai quali era stata difesa e confortata, saluta in silenzio e rispettosamente i partenti. Al parroco di Vianino dal Comandante Tedesco viene rila­sciato un biglietto che gli potesse giovare in campo di concentramento. La sorte dei 2 parroci, descritti come capi-banditi, è segnata: languire in un duro campo di concentramento in Germania. Si viene trasportati come prima tappa a Rubbiano di Solignano. Là si pernotta pigiati in una stanza insieme a tanti civili catturati. La popolazione porta agli sventurati prigionieri quel poco di cui può disporre: pane, latte, uova… Si dice che nel frattempo il Vescovo di Parma e di Reggio Emilia abbiano avuto un colloquio a S. Andrea Bagni con il Capo delle Forze Armate Tedesche in Italia Kesserling e abbiano ottenuto che il clero at­tuale, anziché essere deportato in Germania, stesse assente dalle rispet­tive parrocchie e vivesse sotto la vigilanza e la responsabilità dei rispet­tivi Vescovi.

Il viaggio da Rubbiano a Piacenza

Infatti il parroco di Vianino e di Contile il giorno 21 luglio 1944 abbandonano Rubbiano e con mezzi di fortuna raggiungono Piacenza al­le 18,30. Si rimane ospiti insieme agli altri sacerdoti delle diocesi cat­turati, del pio Ritiro Cerati dal 21 luglio al 2 agosto 1944. Nelle parrocchie, prive del loro pastore, terrore e desolazione. La popolazione è alla mercé dei capricci delle soldataglie tedesche ed ita­liane che gareggiano con quelle tedesche nell’… Anche le campane partecipano al lutto della loro popolazione e ri­mangono mute dall’8 luglio al 20 agosto. Da esse sono stati asportati i battagli e le corde.

Ritorno del parroco in Vianino

Il 3 agosto 1944 alle ore 16 il parroco raggiunge Vianino. La po­polazione sconcertata gioisce per il ritorno del suo parroco e lo acco­glie commossa.

 Sganciamento di spezzoni su Vianino

Il 2 settembre 1944 alle ore 22 vengono sganciati su Vianino spez­zoni che provocano la frattura ai vetri e molto panico.

La mitragliatrice

Il l0 settembre 1944 apparecchi a bassa quota mitragliano i caso­lari del «Trabucco» e provocano l’incendio di un pagliaio e sulla stra­da provinciale, in località «variante» viene mitragliato un camion ca­gionando ferite ad un partigiano. L’l1 settembre 1944, in località «va­riante », un apparecchio mitraglia una pattuglia di partigiani causando la morte di l0 di loro e 5 feriti più o meno gravi. Il parroco di Vianino, accorso sul posto, riesce ad amministrare l’estrema unzione ad un moribondo.

Il 3 ottobre 1944 al fronte «Riosanello» scontro fra partigiani e tedeschi. Vengono catturati 3 tedeschi.

 Barbara uccisione di 17 giovani

Il giorno 9 gennaio 1945 sopraggiungono a sorpresa, in Vianino, alcuni tedeschi, circa alle ore 17. Vi pernottano e ripartono alle ore 6 del giorno seguente. In località detta «ruppina» catturano 17 giova­ni del nostro comune e li uccidono barbaramente in località detta «La Dardia ». In quel rigido inverno la popolazione alimenta numerosi par­tigiani che vivono randagi nelle nostre campagne.

 Visite poco gradite

Il giorno l0 gennaio 1945 il paese di Vianino è invaso da circa 300 tedeschi fra tanti Mongoli che ripartono dopo una sosta per Pel­legrino P.se. Il giorno 18 gennaio 1945 sull’imbrunire, alle ore 17, un gruppo di tedeschi, provenienti da Pellegrino, sorprende Vianino. Si trovano in canonica alcuni giovani e si riesce a nasconderli. Durante la strada hanno catturato di sorpresa 71 fra giovani e uomini nostri. En­tra in canonica il Comandante. Ha cattive intenzioni; è venuto per perquisire armi, catturare uo­mini e saccheggiare. A casa Azzani ha ferito una donna. Il parroco lo accoglie con bontà e gentilezza e gli offre da bere. La belva diventa agnello e si mostra riconoscente di tante attenzioni. Si procura ai soldati alloggio e vitto. Il Comandante promette di ripartire il mattino seguente alle ore sei, di non saccheggiare e di rilasciare i prigionieri e mantiene la pa­rola.

 Prepotenze

Il giorno 31 gennaio 1945 alcuni partigiani di stanza a Vianino escono dai loro nascondigli e commettono alcuni atti di prepotenza con­tro alcune persone di Vianino accusate di atti ostili ai partigiani. Ad uno vengono tolte le scarpe e viene costretto a tornare a casa a piedi nudi; un altro viene schiaffeggiato. E la popolazione è al capriccio del primo che capita.

           Prodezze della Brigata Nera

Il 20 febbraio 1945 una trentina di Italiani appartenenti alla Bri­gata Nera piombano su Vianino provenienti da Pellegrino. Hanno cat­turato diversi nostri giovani sorpresi nelle loro case. Sono orgogliosi della preda che desiderano consegnare al Coman­dante Federico. Il parroco insiste presso il Comandante e lo convince a desistere dal saccheggio e a rilasciare i prigionieri destinati in Germania ai campi di concentramento. . Siamo italiani: domani dovremo andare insieme per ricostruire que­sta nostra povera Patria così martoriata. Figli di una medesima terra, aiutiamoci a vicenda e amiamoci. Questa predica sembra salutare: si convince a pranzare in canonica da buoni amici e, deposte le idee bel­licose, dopo il pranzo avrebbero fatto ritorno a Pellegrino. Tutto è pronto. Una buona e abbondante pasta asciutta fuma sulla tavola, quando i partigiani di stanza sulla sponda destra del Ceno, nelle fra­zioni di Barbieri – Massari ect… sparano imprudentemente colpi di fu­cile.

Il parroco è ritenuto dagli ospiti un traditore, come avesse voluto trattenerli ospiti per dare tempo ai partigiani di farli prigionieri. Vie­ne catturato e, insieme ai suoi giovani già catturati, si parte per Pelle­grino. A alcune donne (perorano) la causa a favore del parroco che de­ve essere ucciso a Pellegrino. Assicurano la sua innocenza e riescono a liberarlo, ma il parroco vuole seguire la sorte dei suoi giovani. Gli viene promesso che saranno liberati ai Lusignani dove avreb­bero deposto il bottino depredato nelle case. Mantengono la parola e qualche ora dopo il parroco ed i suoi giovani mangiano quella famo­sa stra-cotta pasta-asciutta rimasta sulla tavola.

Gli ordigni farfalla

Nella notte del giorno 6 aprile 1945, nei pressi di Parola Bianca vengono sganciati numerosi ordigni. Ignari del pericolo, alcuni giova­ni vanno a molestarli. Per l’esplosione di un ordigno trova la morte il giovane Taddei Luigi di Alberto della classe 1923 di Vianino. L’l1 aprile 1945, di notte, nei pressi della chiesa vecchia a Vianino vengo­no sganciati 12 spezzoni.

Sfasciamento dell’ esercito Tedesco

Il 27 aprile 1945 si vive sotto un incubo angoscioso. Le truppe tedesche si sfasciano. In fuga dalla Liguria si ammassano nei dintorni di Fornovo. Si teme un’invasione sui nostri monti. A Fornovo 17.000 tedeschi si arrendono.

liberatori

Le truppe alleate il 29 aprile 1945 raggiungono Varano Melegari ­ Grande giubilo.

Ricostruzione di Vianino

Terminata la guerra il parroco Don Giuseppe Squeri, si mise subi­to in relazione con il benemerito Dott. Seno Giuseppe Micheli per ot­tenere i contributi dallo Stato per la ricostruzione di Vianino. Il pae­se di Vianino, prescindendo dai danni di guerra, era già stato rovinato dalle condizioni malsicure del terreno su cui poggiava. Il terreno fria­bile aveva distrutto l’ampia e bella chiesa parrocchiale e fortemente le­sionato la canonica e le case adiacenti, tanto che le autorità competen­ti le avevano dichiarate inabitabili. In data 20 marzo 1937, dietro vi­vo interessamento del parroco Don Luigi Marchini, era stato emesso un decreto ministeriale (n. 602, pubblicato al n. 103 della Gazzetta Ufficiale) che includeva l’abitato di Vianino fra quelli «da trasferirsi a cura e spese dello Stato». Terminava il decreto dicendo che doveva essere applicato a Vianino un trattamento uniforme a quanto era sta­to fatto nel comune di            in provincia di .., .

Il Seno Giuseppe Micheli interessava in merito il ministro Romi­ta, ministro dei Lavori Pubblici perché una Commissione di Tecnici esaminasse il problema. Commissione che non venne mai inviata. Il problema di Vianino si presentava irto di difficoltà. Dove ricostruire Vianino? Secondo un vecchio progetto del Genio Civile di Parma, il paese doveva essere trasferito a valle sulle sponde del Ceno, nelle adia­cenze della località «Molisso» insieme alla strada provinciale. Lo spo­stamento di un intero abitato avrebbe importato una spesa ingente e di difficile attuazione. Bisognava presentare allo Stato un programma preciso e attuabile. Dopo la guerra, in conseguenza dei danni subiti, si deliberò col Capo del Genio Civile Ing. Giulio Chiodarelli di ri­costruire il paese nelle medesime località, onde limitarne le spese e rendere attuabile l’immediata ricostruzione come da lettera inviata in data 13 ottobre 1946 dal Capo del Genio Civile di Parma al Sen Mi­cheli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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