

ASSOCIAZIONE «ANTONIO EMMANUELI» RICERCHE VALTARESI
IL TRIDUO
DELLA
CATTIVITÀ
16-17-18 LUGLIO 1944
dal diario di Mons. Carlo Boiardi
Tipolitografia Benedettina – Parma

Nasce a Chiavenna Landi di Lugagnano il 14 luglio 1899, viene ordinato sacerdote a San Lazzaro Alberoni il 7 marzo 1925. Professore presso il Seminario di Bedonia dal 1925 al 1931, in seguito, fino al 1936, è professore di “Storia ecclesiastica” presso il Seminario Urbano di Piacenza. Successivamente viene nominato Parroco della Cattedrale e contemporaneamente Assistente Diocesano del G.P. di A.C.
Dal 30 aprile 1944 è Parroco a Borgotaro fino alla Consacrazione a Vescovo avvenuta il 27 gennaio 1946 nella Chiesa di Sant’ Antonino. Fa il suo ingresso nella Diocesi di Apuania il 24 febbraio 1946 dove rimane fino alla sua morte avvenuta il 24 febbraio 1970. Laureato in teologia collaborò attivamente alla rivista teologica piacentina “Divus Thomas”. Fra i suoi scritti: “La famiglia piccola Chiesa” (1969) e “Il nuovo rito della Santa Messa” (1970). Celebri le sue lettere pastorali, molte delle quali furono pubblicate.
DIARIO
15 luglio, sabato
Stamattina alle 5 siamo stati svegliati da alcuni colpi di cannone, che ci sembrano molto vicini, e ben distinti da altri rumori di bombardamenti. Sono andato alla finestra, e mi sono persuaso che venivano dalla zona di Valdena e San Vincenzo. I colpi di mortaio si ripeterono a rapidi intervalli fino alle sei. Poi un poco di sosta; e ripresero ad intermittenze più larghe verso le otto. Si capì subito che si ripeteva il tentativo da parte dei tedeschi di discendere al Borgo per la via di Guinadi, Bratello, Valdena. Verso le nove mi riferiscono che Bardi è stato rioccupato dai tedeschi e che i partigiani si sono ritirati sui monti. Arrivano notizie che anche ai Due Santi, al Gottero, al Centocroci, al Bocco ci sono colonne di tedeschi in movimento. Ho l’impressione che si sia all’epilogo dell’avventura dei partigiani. Anche in paese si nota un certo movimento sospetto. Nel campo dei partigiani pure si osserva qualche segno di preoccupazione; se ne vede qualcuno passare; interrogato risponde che non è ancora detta l’ultima parola; che si combatterà; ma s’intuisce che la partita è perduta. La gente osserva e dice: «E ancora ieri stampavano un giornale, come se le cose fossero normali e dovessero durare! ».
E ora che cosa succederà? Cosa faranno del paese? Esco di casa per informarmi meglio. Intanto penso che nell’eventualità ormai inevitabile della venuta dei tedeschi, sarebbe bene che qualcuno, dei più rappresentativi, si presentasse al Comando a precisare lo stato delle cose. Incontro il signor Roberto Tosi, Podestà di Compiano; gliene parlo, condivide il mio pensiero, ma non mi assicura di unirsi con me. Lo prego di avvertire il Comm. Calandra ché passi da Intanto incontro il Sig. Alarico Gasparini e gli dico la stessa cosa; egli mi assicura che se occorrerà sarà con me. Verso le 10,30 viene in canonica il Comm. Calandra; gli espongo il mio pensiero e cioè: « Ormai non c’è dubbio, fra poco arriveranno i tedeschi; per salvare il paese è necessario che alcuni di noi si riuniscano e vadano a incontrarli e attraverso la esposizione dei fatti ottengano che il paese sia risparmiato da estreme e irreparabili rovine ».
Ci troviamo d’accordo. Facciamo alcuni nomi: oltre noi due, il Prof. Pierangeli, il Sig. Tosi, il Segretario Comunale Cantarelli, il Sig. Alarico Gasparini. Il Commendatore si incarica di parlarne e si fissa una adunanza per le ore 16 di oggi. Purtroppo lo sfollamento per i bombardamenti ha allontanato dal paese altre persone che in questa occasione avrebbero potuto aiutarci: forse erano ugualmente presenti altre, ma io, nuovo come sono, non so a chi rivolgermi. Del resto penso che anche un gruppetto così può essere sufficiente. A mezzogiorno sono a Brunelli per il pranzo. Non ho ancora finito di pranzare che si annunzia che i tedeschi stanno per arrivare. Io stento a credere che sia così imminente il loro arrivo, perchè dalle nove non si era udito più alcun colpo di mortaio, né si avevano avute notizie di combattimenti. Ma dal movimento e dal passaggio di persone che fuggono, capisco che qualcosa di nuovo deve esserci.
Discendo rapidamente in paese. Lungo la strada incontro gruppi di gente impaurita che fugge, e si meraviglia come io invece vada giù; mi prega di allontanarmi. Invece sento in me il dovere di andare per essere presente a quanto sta per avvenire. All’ingresso del paese incontro la signorina Teresina Ferrari e un’altra (mi pare la signorina Maria Brugnoli) e poco dopo, arriva il signor Alarico Gasparini, che di nuovo prego di volersi fermare per vedere il da farsi.
Sono le 14 circa. In chiesa si adunano intanto alcune donne e davanti alla statua della Madonna del Carmine, siamo alla vigilia della sua festa e la statua è esposta, rimangono a recitare il Santo Rosario. Faccio un giro per il paese: è il deserto, letteralmente. Presso la Chiesa mi trovo con il signor Gasparini, discutiamo della convenienza non solo di aspettare, ma di andare ad incontrare i tedeschi. Ormai non può essere che questione di ore. Poi giriamo di nuovo per il paese: incontriamo un capo partigiano che ci annuncia che presso Gotra i tedeschi hanno fatto prigionieri due capi partigiani: Zanré e Scagliola.
Noi gli chiediamo se in paese non ci sono più partigiani; egli ci assicura che se ne parte e che non ce ne é più neppure uno. Noi insistiamo che ci dia la garanzia più assoluta ed egli ripete quanto ha detto. Intanto è sbucato qualche altro uomo: cinque o sei in tutto. Io ritorno in chiesa e mi unisco alle donne a pregare. Poco dopo viene il Comm. Calandra per l’adunanza; aspettiamo una ventina di minuti, ma non arriva nessun altro. Usciamo, ci lasciamo con l’intesa che al momento opportuno ci saremmo trovati con il signor Alarico Gasparini per andare insieme.
Non sono passati che una quindicina di minuti, che viene il signor Folli (elettricista) a dirmi: «Se vuole andare, è ora: arrivano dalla parte del cimitero! “. Chiedo al Signore e alla Madonna col pensiero e col cuore, la grazia della necessaria fortezza e prudenza: si tratta di salvare forse persone e case: non ci può essere dubbio sulle intenzioni dei soldati tedeschi, ne avevamo avuto un esempio un mese prima, e allora non si trattava di rastrellamento in piena regola come ora. E’ necessario tentare: la Madonna del Carmine che ha salvato il paese da altre occasioni (mi hanno detto di una peste che avevano arrestato per le preghiere che la popolazione aveva fatto alla B.V. del Carmine, un secolo fa) manifesterà la sua assistenza anche ora, la vigilia della sua festa.
Esco dalla porta principale e sul piazzale incontro il Comm. Calandra ed il Sig. Gasparini. Vediamo là una colonna di soldati discendere per il viale del cimitero; giunta a San Rocco si arresta un momento, e poi si avvia verso il ponte. <<Andiamo?…>>. Il Sig. Gasparini si unisce a me: il Comm. Calandra non si arrischia e ritorna indietro. Col fazzoletto bianco in mano che agitiamo, ci avviamo verso il ponte, e ci portiamo incontro ai soldati. Con le parole e coi gesti, soprattutto con questi, assicuriamo sulla nostra vita che in paese non ci sono né partigiani né armi, e che possono entrare con assoluta sicurezza. Ci chiedono quando i partigiani se ne sono andati, e rispondiamo fin dalla mattinata; e poi vogliono sapere perchè il paese è deserto: «Ciò vuol dire – insistono che tutti sono banditi ». (Banditi è la parola che sanno pronunciare bene, e che usano a tutto spiano!).
Noi spieghiamo che il paese è vuoto perchè i ripetuti bombardamenti hanno fatto sfollare la gente; e i pochi rimasti sono fuggiti per non essere coinvolti in un eventuale combattimento. Le due ragioni che pur sono vere non soddisfano perchè non vedono alcuna casa distrutta e insistono col ritenere tutti banditi. Capisco che questa insistenza è una brutta suonata… Siamo confinati presso il distributore della benzina insieme al mugnaio signor Volta, i panettieri e al signor Saglia di San Rocco che hanno già presi come ostaggi. Intanto fanno segnalazioni con razzi. Sono le 17 circa. Poco dopo arriva un’altra colonna più numerosa. In capo vi è il Comandante, un Maggiore. Ci presentiamo di nuovo e di nuovo diamo le assicurazioni già date e le spiegazioni intorno alla mancanza della gente. Un tasto sempre duro. Per mezzo di un ufficiale che sa parlare latino e con la solita mimica, ci si intende e si viene ad un accordo; la popolazione sarebbe dovuta rientrare, almeno la più vicina, per le ore l0 di domani, e sarebbe stata rispettata nella perquisizione che avrebbero fatto nelle case per vedere se vi erano nascosti partigiani o armi. Noi ci impegnammo a diffondere la notizia nel modo migliore. A questo punto sopraggiunge il Comm. Calandra, il quale riconferma quanto noi avevamo già detto.
Intanto in pochi momenti impiantano la radio e i servizi necessari, e poiché qualche soldato aveva cominciato a sfondare le porte, viene richiamato. Mentre il Sig. Gasparini accompagna un gruppo di soldati in paese in cerca di un albergo e trova aperta 1’osteria di Pellacini sul Viale Bottego, io rimango col Comandante e cogli altri ufficiali e soldati che vanno sempre più aumentando. Il Comandante riprende il discorso sull’assenza della gente e io insisto sulle ragioni addotte ed insisto anche sulla distinzione delle responsabilità dei partigiani da quelle della popolazione che già ha avuto una ventina di vittime, ha subito una decina di bombardamenti, due saccheggi ed è disarmata. Il Maggiore allora mi dice testualmente così: << Io ho piena facoltà di distruggere il paese ma no lo farò se voi farete opera leale di pacificazione» e sottolinea la parola leale, che mi viene ripetuta in francese: loyale. Io rispondo così: << Per questo sono venuto ad incontrarmi, per fare opera leale di pacificazione ». E ci diamo la mano come ce l’avevamo data prima, per l’accordo già accennato, come per ratificare un “accordo”.
Poi mi chiesero dove era il “tunnel”, ossia la galleria e se vi erano partigiani; e vollero che vi accompagnassi una squadra di soldati. E così andai verso la stazione: evidentemente avevano voluto che li accompagnassi perchè non si fidavano, per avere quindi un parafulmine, poiché alla stazione vi si trovavano già altri soldati. Qui fui licenziato e lasciato libero. Venne pure lasciato libero un uomo di Valdena o S. Vincenzo, non ricordo bene; così come erano stati lasciati liberi i primi ostaggi. Ritorno con l’animo pieno di riconoscenza alla Madonna, perchè pare che le cose non si mettano male. Vado a casa e per mezzo di un soldato, mando alcune bottiglie di vino ai Comandanti. Sono ormai le 20.
Poco dopo, sono richiamato al Comando; il Maggiore ordina che per le 22 siano preparate 400 razioni di pastasciutta. Noi diciamo che siamo sprovvisti di pasta e di condimento, ed è la verità; ma non vuole sentire ragioni e dichiara responsabili Gasparini, me ed il Comm. Calandra che è pure presente. Poi ci chiede informazioni su Bedonia e Pontolo, il chilometraggio della strada, raduna la truppa e via verso Pontolo. Noi ci guardiamo in faccia stupiti e impacciati. Raccogliamo alcune signore e signorine, chiediamo aiuto alle Suore dell’ Asilo, andiamo all’Appennino, dove fortunatamente è rimasto uno dei padroni, il Sig. Orlando Pacini: ma si constata la impossibilità di preparare quanto ci è stato chiesto. Andiamo al pastificio, sfondiamo la porta, ma non vi è pasta pronta. Si decide di preparare 400 razioni di pane e carne; si va ad un negozio di carne, che pure sfondiamo, (stiamo per imparare il mestiere anche noi!…) e all’Appennino si prepara. Le ore passano, passano; viene la mezzanotte e poi l’una e ancora nessuno si fa vedere. Intanto dal Sig. Gasparini vengo a sapere che, mentre io sono andato alla stazione, è giunto un gruppo di prigionieri tedeschi fatti dai partigiani, tra cui il Capitano di Pontolo e della Manubiola, laceri, sporchi, che fanno – specialmente il Capitano, che mostra le cicatrici delle percosse – una descrizione ostile del trattamento avuto, ed il Maggiore ne è rimasto molto gravemente sdegnato.
Il ritardo e quest’episodio mi fanno nascere dei sospetti. Resto a dormire qui all’Appennino: sono le 1,30.
IL TRIDUO DELLA CATTIVITA’
16, 17, 18 luglio ’44
Stamattina, festa della Madonna del Carmine, mi reco subito dall’Appennino alla Chiesa per dare i segnali della prima Messa. Vedo qualche soldato qua e là all’incrocio delle vie. Suono l’Ave Maria, alle 5,30, apro la Chiesa e subito dopo incomincio a sentire colpi alle porte, come di chi voglia sfondarle. I primi sospetti cominciano a delinearmisi realtà. Mi affaccio sulla via Cesare Battisti, e un soldato mi vede e mi grida: «Al Comando! Al Comando! ». Poi ne trovo altri, che ugualmente mi ripetono la stessa cosa e mi segnano la direzione: in capo al ponte di San Rocco. Mi avvio. Giunto, vi trovo già il signor Gasparini e altre due o tre persone; e vedo quattro soldati di guardia, verso il ponte, verso la strada di destra e di sinistra e verso Porta Portello.
Sono in trappola. Sono le 6. Adagio adagio altri giungono isolati o a gruppi; poco dopo arriva anche il Curato disceso da Brunelli e il collegiale signor Luigi Galluzzi. Ci guardiamo in faccia e ci interroghiamo a vicenda: <<Che succede? >>. Si sentono ovunque porte sfondate, già si osservano da coloro che stanno arrivando, negozi svaligiati. Ormai non c’è più dubbio: un nuovo svaligiamento in piena regola. Il gruppo delle persone va crescendo: uomini, donne, vecchi, bambini: tutti quelli che vengono trovati per le strade e nelle case. Non c’è un ufficiale: non si riesce a sapere il motivo di tutto ciò. Non si era fatto un accordo ieri? Dai paesi vicini a cui già era arrivata la notizia di rientrare, la gente stava venendo; ma non appena venne a sapere ciò che stava succedendo, ritornarono indietro e si nascosero, e gli uomini si diedero ai monti.
Si dice che fra poco arriverà il Comandante e saremo liberi. Passano le ore lunghe, angosciose, piene di ansia e di tribolazione. Il Comandante non arriva mai, quindi l’incertezza grava penosa sugli animi. Le donne piangono, i bambini strillano. Così quest’anno la nostra Festa della Madonna del Carmine… Molti me ne parlano; mi descrivono la solennità, lo sfarzo degli anni scorsi: è senza dubbio la festa più solenne di Borgotaro in cui essa dava sfogo al suo sentimento religioso e al suo colore folcloristico. E ora? Io dico loro che forse non abbiamo mai passato una festa della Madonna del Carmine più preziosa, perchè mai così tribolata. Cerco di far coraggio e confidare. E anch’io spero ancora di poter almeno celebrare la S. Messa. Ma verso le 11,30, non cambiando le cose, chiedo di andare a dare un’ occhiata alla Chiesa.
Vengono con me Don Mario, il P. Giuseppe Giornelli Lazzarista, e il collegiale Galluzzi, accompagnati da una guardia tedesca. In Chiesa ci comunichiamo e chiediamo a Gesù e alla Madonna la forza della rassegnazione e della fiducia. Era ora. Infatti ritornati, dopo venti minuti, vediamo la gente raggruppata intorno al Comandante, che sta parlando e dando disposizioni. Ci affrettiamo e finalmente! Ora quasi mi rincresce di aver fatto la S. Comunione, poiché spero che mi liberino. La donne vengono messe in libertà; così pure i più anziani oltre i 65 anni. Quando ciò venne fatto, il Comandante a mezzo dell’interprete dice, rivolgendosi al Sig. Gasparini, a cui io mi sono messo a fianco: «Voi ieri avete dato garanzia su la vita che in paese non vi erano armi: ora invece sono state trovate molte armi e gran quantità di munizioni: perciò voi pagherete con la vita!… ». Non capisco se ciò lo dica al solo Gasparini o anche a me: comunque non c’è da farsi illusioni. Poi rivolto si agli altri uomini, prosegue: << dei nostri soldati mancano ancora 150: finché non saranno tutti restituiti, voi sarete trattenuti, e dei mancanti risponderete con la vita >>. Dal gruppo delle donne si levò un urlo di dolore, e in tutte uno scroscio di pianto. Poi si alzò un coro di proteste da parte degli uomini e dalle donne; si fece osservare che combattimenti avvennero anche in luoghi molto lontani di qui, e per essi non era giusto che si pagasse noi.
Il Comandante allora dice: << Dieci donne, con un nostro lasciapassare, potranno andare per i monti a ricercare i prigionieri tedeschi; entro due giorni!… >>. Molte donne si offrono per questo: una bella gara di fraternità. Noi uomini, cinquanta in tutto, siamo incolonnati e rinchiusi nel recinto della casa Mangora, presso il ponte. Le donne potranno venire a portare da mangiare. Sono le 12,30. Ore amare! Tutte le eventualità passano per la nostra mente; tutte le possibilità vengono esaminate; in tutti una grande angoscia. Che proprio ci debbano mandare tutti all’altro mondo, non ci si crede proprio; ma che ci facciano fare un viaggio fino in Germania, o, per lo meno, che ci abbiano a tenere per parecchio tempo, tutto questo rientra nelle probabilità. I saluti che vengono mandati ai Partigiani si possono immaginare. Il Sig. Gasparini e io siamo insieme con gli altri: pare quindi che se ne condividerà la sorte, e che quanto è stato minacciato, resterà una minaccia: ma… chi lo può sapere?
Alle quindici siamo di nuovo incolonnati e condotti all’Albergo Roma, nei locali occupati dalle Suore Dorotee, sfollate; e distribuiti in quattro piccole stanze al secondo piano, e guardati da sentinelle armate. Ci si comunica che quando saranno liberati i prigionieri tedeschi tenuti dai partigiani anche noi saremo messi in libertà. Non ci rimane che adattarsi alla nostra sorte. Si rimane così tutto il pomeriggio, tutto il lunedì seguente e il martedì. Si dorme come si può; da un piano superiore hanno portato tre materassi, alcuni guanciali e sotto pedane: ci si arrangia! I parenti, alle ore fissate e cioè alle otto, dodici e diciotto, mandano da mangiare. Molti riescono ad avere anche oltre il necessario, specialmente il vino. Ogni stanza diventa una… camerata; cessano le distinzioni sociali e si fraternizza con molta cordialità. Ciò serve a diminuire la pena.
L’animo è come un’altalena… secondo le notizie… vere o supposte, che arrivano attraverso le finestre dalle donne, che ogni tanto giù fanno la ronda e cercano di mettersi a contatto con qualcuno di noi: così vi sono momenti di ottimismo anche accentuata, ai quali non di rada succedano altri di pessimismo non meno acuto. Altre volte a produrre questi alti e bassi sono le visite dei comandanti tedeschi, il loro atteggiamento, i loro gesti, le loro parole, a il gesta e le parole della guardia: quando le corde sono tese, anche il tocco più lieve serve a farle vibrare. Sono stato per tre giorni a contatto con i miei uomini: e ne sono stato contento. Se a me fosse stata data la libertà ed essi fossero stati trattenuti, avrei sì lavorato per la loro liberazione, ma ne sarei stato molto malcontento. Invece l’aver condiviso con essi la stessa sorte mi fa molto piacere. Mi sono trovato a contatto con uomini di ogni condizione, poveri e ricchi, operai e impiegati e professionisti, e ho potuto misurare e controllare i loro sentimenti.
Ho notato un grande affetto alle loro famiglie: esse stavano al vertice dei loro pensieri e dei loro affetti, ripetevano che non si preoccupavano di sé, ma di loro soltanto e parlavano delle loro spose e dei loro figli e della loro mamma in modo da commuovere veramente; non li ho sentiti mai bestemmiare, salvo qualche imprecazione lieve, e tutti la sera recitavano insieme con me il S. Rosario, anzi, fu proprio qualcuno di essi a chiedermi di recitare il S. Rosario, sebbene io avessi già in animo di far loro la proposta. Due volte ho avuto qualche momento di libertà: la domenica sera, per andare a chiudere la Chiesa, e il lunedì sera per andare a dare i Sacramenti a una povera inferma e a fare i funerali alla povera Sig. Vietti, morta già da quattro giorni. Ogni volta sono stato accompagnato da una guardia, a vista. In queste occasioni le poche persone che erano in paese, donne soprattutto, mi si sono affollate intorno per confortarmi. La commozione mi ha sorpreso ogni volta, specialmente, quando dovendo rientrare, si mettevano in ginocchio e mi chiedevano e volevano la benedizione. Povera la mia gente!…
Invece non sono riuscito mai ad aver il permesso di celebrare la S. Messa; purtroppo! Il martedì hanno chiesto chi fosse iscritto al Partito Repubblicano fascista; questi sono stati rilasciati nel pomeriggio presto. Poi hanno chiesto la professione: ciò ha un po’ insospettito. Nel tardo pomeriggio finalmente tutti siamo stati convocati fuori, davanti all’Albergo e finalmente ci è stato comunicato che ci si darebbe un lasciapassare e saremmo stati messi in libertà, fatta eccezione per due o tre che dovevano far da guida il giorno dopo alle colonne che sarebbero andate su per i monti: poco mancò che Don Mario e Galluzzi non fossero fra questi. Un episodio: la sera della domenica è stato rinvenuto nel piano superiore un catino di munizioni. E’ stato un momento di spavento per noi; io poi ho pensato alla responsabilità delle Suore. Allora il lunedì mattina mi sono deciso a manifestare al Comandante quanto avevano fatto prima di partire, in quel luogo, i capifascisti, i quali allo scopo di difendersi contro eventuali attacchi dei Partigiani, e nonostante le proteste delle Suore alle quali anzi imposero il segreto più assoluto, avevano accumulato armi e munizioni all’ultimo piano, nel sottotetto; e dopo di eservisi rifugiati per un paio di notti, se ne erano andati lasciando lì parecchie munizioni. Sapevo però che le Suore avevano fatto togliere tutto. Temevo tuttavia che qualche cosa fosse stato dimenticato. Queste cose ho detto al Comandante. Ma nella mattina del lunedì sono venute le Suore, a cui ho potuto parlare e ho accennato tutto. Mi hanno detto – ed è stato confermato dall’interprete – che nella mattinata di domenica, era stata fatta dai tedeschi, alla loro presenza, una minuta perquisizione e non si era trovato nulla. La cosa non ha avuto seguito. Ciò mi ha convinto che è stato un trucco preparato dai tedeschi, e che non ha avuto seguito, per le rivelazioni fatte da me. Se no!..
Avuto finalmente il lasciapassare, siamo usciti: sono le 18,30; dopo esserci intesi di ritrovarci il giorno dopo alle 19 per una funzione di ringraziamento in Chiesa. Un gruppetto di persone ci attende lì davanti all’Albergo. Quando usciamo, ci vengono incontro, ci festeggiano calorosamente e poi ci accompagnano fino alla Chiesa, dove diamo la benedizione. La nostra cara Madonna del Carmine non ha mai ricevuto tante preghiere ardenti e fiduciose come in questi giorni in cui tutti hanno pregato tanto per me. Mi si dice infatti che dovunque i nostri parrocchiani sfollati hanno tanto pregato e tanto sofferto. lo sento di dover tanto all’assistenza del Signore e della Madonna e delle preghiere dei miei cari parrocchiani. I vincoli che mi uniscono con loro diventano sempre più intimi nella comune sofferenza e nel pianto comune.
Hanno pensato e lavorato più per noi che per loro stessi e per la loro roba. Il saccheggio infatti delle case è stato totalitario: carri e camion pieni zeppi di roba, di ogni sorta, sono andati chi sa dove. La roba consumata e distrutta vandalicamente è ancora più di quella portata via. Non è immaginabile lo scempio, anche delle cose più belle, più preziose, più sacre, che è stato fatto nelle case. Nei dintorni il bestiame è stato depredato in quantità enormi senza riguardo alcuno: così le biciclette, le radio, i vestiti e ogni cosa insomma, utile o no, così per il gusto di rubare e di distruggere. Io credo che i danni subiti da Borgotaro in questi pochi giorni ascendano a una decina di milioni di lire; e credo di non esagerare. Ringrazio il Signore che la Chiesa non è stata profanata, in nessuna maniera. Anche la canonica è stata risparmiata: forse l’essere la casa più lurida di tutto il paese, l’ha salvata!…
Finalmente posso celebrare la Santa Messa: è una Santa Messa di ringraziamento e di riconoscenza. Ci poteva capitare molto peggio. Faccio un giro in paese. Quale desolazione! Altre informazioni mi vengono riportate su le infamie compiute in questi giorni. Certe cose se non si fossero viste non si crederebbero. Vengo invitato a visitare una casa dove è passata la bufera: tutto è stato devastato, sciupato, i mobili, biancheria, vestiario, libri, e tutto gettato alla rinfusa sui pavimenti. E’ uno spettacolo orrendo! Sono state compiute certe ignominie da non credere. In quasi ogni casa; dopo una prima squadra n’é passata una seconda, e poi una terza: e quella che non ha fatto l’una ha fatto l’altra. I negozi, le cantine sono state svaligiate da capo a fondo; specialmente le cantine sono state prese di mira. E tutto questo sotto gli occhi degli ufficiali. Per fortuna che ci avevano date delle assicurazioni!
Stamattina alcune colonne di tedeschi sono finalmente partite: verso Porcigatone e per Vona distribuendosi un po’ dappertutto, sparando in tutte le direzioni, in tutti i canali, in tutte le macchie e cespugli, e gettando lo spavento. Gli uomini sono già fuggiti; sono rimaste le donne. Le case sono invase, si pretende di tutto, pane, uova, vino, soprattutto vino. Le bestie vengono portate via; alcune stalle sono spogliate totalmente. Galline, maiali, conigli: tutto serve e tutto è rubato. Gruppi di soldati pretendono da mangiare, e non sono mai sazi. Sono di una ingordigia e di una voracità incolmabili e insaziabili. Di queste violenze e di queste ruberie giungono notizie da ogni parte. Le notizie poi si infoltiscono e sono spesso le più strane, le più contraddittorie: ma spesso, quasi sempre, un fondo di vero c’è. Ciò che più fa soffrire sono le notizie di altri ostaggi che vengono fatti lungo il cammino.
Ci si dice che anche nel Bedoniese avviene qualche cosa di simile. Notizie più gravi giungono dal Pontremolese e ci parlano di molti sacerdoti arrestati e di alcuni uccisi. Si direbbe che è l’ora delle tenebre. Sono veramente i giorni del terrore. Alle 19 facciamo la funzione di ringraziamento. Gli uomini liberati ci sono tutti. Dopo la Benedizione rivolgo loro alcune parole, e li invito a ringraziare il Signore e la Madonna del Carmine, li ringrazio del buon esempio e della edificazione che mi hanno dato, e ringrazio le buone donne che tanto si sono affaticate nella ricerca dei prigionieri.
20 luglio, giovedì
In Borgotaro sono rimaste soltanto poche pattuglie ancora di tedeschi. Si vedono però passare branchi di buoi e mucche e carri di merci che vengono dal bedoniese: altra roba saccheggiata. Continuano a circolare voci e notizie disperate sulla situazione di Bedonia. Si dice che molti ostaggi sono rinchiusi in Seminario tra cui molti preti. E’ arrivata in Borgotaro una Compagnia del battaglione “Luppo” della flottiglia Mas: dalla padella alla brace! Essa assume il Comando di Presidio. Decido di presentarmi al Comandante: sono italiani, per lo meno parlano la nostra lingua e ci si dovrebbe intendere.
L’accoglienza non è festosa; anzi tutt’altro. Sono guardato con una certa aria e mi si rivolgono parole apertamente ostili. Il Comandante però, il Ten. Dettoni, nonostante tutto, mi sembra ragionevole. Si dichiara contento che sia andato poiché nessuna autorità si era fatta vedere. Gli espongo un pò la nostra situazione; ci ritiene egli pure tutti ribelli poiché tutti sono scappati. Insisto nel dare le spiegazioni e gli consegno una copia della circolare inviata ai parrocchiani, così come avevo fatto anche coi tedeschi. Mi promette di leggerla. Intanto mi incarica di invitare qualcuno della popolazione per una adunanza. Gli propongo di tenerla in Canonica e lo invito a cena. Accetta. L’adunanza è fissata per le 19. Ma all’ultimo momento mi manda ad avvertire che non può venire per impedimento.
Nel tardo pomeriggio mi giunge fulminea la notizia dell’uccisione di Padre Umberto Bracchi e del Parroco di Strela, Don Alessandro Sozzi, avvenuta ieri mattina a Strela. Non voglio credere a tanta sciagura e a sì orrendo delitto. Padre Bracchi dovrebbe trovarsi ai Ghirardi, dove si è recato da una settimana. Ritengo sia una delle solite notizie sensazionali, quali girano tutti i momenti. Ma poco dopo mi portano una lettera del Cav. Marchini dai Ghirardi, che purtroppo mi conferma la dolorosa notizia, e mi dà i primi particolari. Il P. Bracchi da alcuni giorni era ai Ghirardi, ospite come spesso avveniva, del Cav. Marchini.
Lunedì, quando seppe della nostra cattività, era andato a Strela, con !’intenzione di recarsi a Bedonia per pregare Mons. Checchi di interessarsi di noi. Giunto a Strela non ritenne opportuno di proseguire e invece a Bedonia andò lo stesso Don Sozzi, il quale ritornò assicurando dell’interessamento dell’arciprete di Bedonia. Questi di fatto con un calesse andò ad un comando tedesco che era a Gotra, e fu derubato del calesse e del cavallo, e l’uomo che accompagnava fu fatto ostaggio. Gli riuscì tuttavia di riavere il calesse e il cavallo, di liberare l’uomo e ritornare a casa con buone speranze. Il P. Bracchi ritornava alla sera ai Gherardi. Ma aveva avuto da Don Sozzi così buone informazioni che aveva convenuto di ritornare da lui. Ai Gherardi trovò una situazione di allarme continuo per le notizie che arrivavano. E così il mattino seguente, si alzò alle 4,30, celebrò e poi si recò di nuovo a Strela sperando di trovarvi un asilo più sicuro. Invece il mercoledì mattino verso le 8 giunse un gruppo di soldati tedeschi (alcuni hanno detto militi della San Marco), che senza ascoltare giustificazioni condusse i due sacerdoti presso il Cimitero e li uccise: era il giorno di San Vincenzo, il fondatore della sua Congregazione. Povero Padre Bracchi!
Era una figura notissima di sacerdote, amato e stimato a Borgotaro, dove ha fatto tanto del bene. Anima zelantissima, ardente e generosissima. E’ un dolore grande per tutti. Per me anche che lo ricordo come mio direttore di Camerata nei moralisti, al Collegio Alberoni. Anche Don Sozzi era un sacerdote di grande zelo e che ha sacrificato se stesso e dato i suoi beni per la sua Parrocchia di Strela. Lui pure conoscevo bene e stimavo fin da quando fui a Bedonia. L’uccisione di Padre Bracchi e Don Sozzi è un episodio di quanto è avvenuto a Strela, dove le vittime furono una ventina e un gran numero di case venne bruciato.
Io temo che altre notizie dolorose arriveranno.
21 luglio, venerdì
Celebro la Santa Messa di suffragio per i due poveri sacerdoti. In mattinata viene da me il Comandante, Dettoni, della Compagnia S. Marco. Abbiamo un lungo colloquio dove vengono trattate questioni locali e altre più generali. Mi pare che abbia idee più chiare intorno alla nostra situazione; mi dice di aver letto con piacere la circolare che gli avevo lasciato; mi assicura che tratterà bene la popolazione, che non farà rappresaglie, che assicurerà i viveri alla popolazione: anzi mi prega di radunare per il pomeriggio un medico, un panettiere, un macellaio, qualche padrone o mezzadro. L’adunanza ha luogo in canonica alle 16, e vi partecipa anche il Segretario Comunale, Sig. Cantarelli. Ci vengono fatte molte promesse; ma mi viene il dubbio che siano troppo generosi.
Mi intrattengo anche, all’occasione, con i soldati; hanno già cambiato tono con me; in fondo l’animo non è cattivo: li rende cattivi la situazione e soprattutto quell’inoculare continuo di odio nei loro animi. La sera le strade sono letteralmente deserte. Un’altra gravissima notizia mi arriva: la morte del Parroco di Porcigatone, Don Francesco Delnevo, e di altri quattro borgotaresi: Bozzia Francesco, Benci Gaetano, i due fratelli Brugnoli, avvenuta a Sidolo, dove erano fuggiti presso il Parroco Don Beotti, che venne pure fucilato con essi e con un Suddiacono di Parma. Anche stavolta la notizia è così grave che mi ripugna l’animo a crederla, eppure non vi è da dubitare.
Don Francesco Delnevo, borgotarese, era da vent’anni a Porcigatone, dove era venuto da Pontenure, ove era stato curato per oltre dieci anni. Era ben voluto e stimato; curava molto la sua Chiesa, e la Parrocchia, ove ha fatto notevoli lavori e aveva migliorato anche il Beneficio. Era riuscito a farsi restituire il concerto di campane, perché ricordo dei caduti. Il compianto dei suoi parrocchiani, mi si dice, è veramente sentito e generale. Lascia ancora la madre, che ora ha il tormento di essere stata la causa della sua morte, perchè fu per le insistenze veramente eccessive di essa e della sorella che egli si era deciso ad allontanarsi da casa. Tuttavia egli pure da diversi giorni era gravemente preoccupato per quanto stava avvenendo. Eppure a Porcigatone anche in Canonica è venuta una squadra di tedeschi, moderata di sentimenti, e non volle che fosse occupata la camera del Parroco, perchè come era stato loro detto con una pia bugia, era dovuto andare da un ammalato lontano. Andò invece a
Sidolo, dove passò la squadra indiavolata, che già a Strela, a Cereseto aveva fatto tanti massacri e tante distruzioni e rovine! Giungono continuamente notizie contraddittorie e allarmanti intorno a Mons. Checchi di Bedonia e al Seminario; ai Parroci del Bardigiano e del Pontremolese, ecc. Invece si salva Albareto, dove, per iniziativa specialmente della Sig.na Gotelli prof. Angela, e poi dell’Arciprete Don Romeo Caldi, e del Sig. Polledri, si giunge ad un accordo tra Partigiani e tedeschi di reciproco rispetto!
Gli altri sacerdoti del Vicariato, fatta eccezione di Don Giuseppe Beccarelli di San Martino, che non vide arrivare neanche un tedesco, chi più e chi meno ebbero a soffrire violenze, soprusi, malversazioni, violazioni di domicilio, furti di roba, e profanazione della Chiesa, come a Rovinaglia dove venne aperto il tabernacolo, tolta la pisside, versate le Santissime particole sull’altare, e derubata la pisside; e a Brunelli ove, riusciti a rintracciare la chiave del tabernacolo lo aprirono senza fare null’altro fortunatamente. Don Luigi Brugnoli di Pontolo fu preso, caricato di un pesantissimo carico di armi e di roba rubacchiata e costretto a portarlo alla sede del Comando abbastanza lontano; è corsa voce che sia stato condotto a Parma e visto lungo la strada di Berceto a guidare le mandrie di bestie (cosa che toccò davvero a diversi sacerdoti, ma non di questo Vicariato), ma oggi la notizia che invece si trova a casa, libero, dopo l’avventura del carico.
Si incontrano continuamente persone che o piangono o sono preoccupate, o gemono, e gli uomini sono scappati e non sono ancora tornati tutti: ogni tanto si ha notizia dell’uno o dell’altro che è stato preso e condotto via; ieri è passato un camion di uomini condotti chissà dove: la mancanza di notizie, o !’intrecciarsi di notizie discordanti crea un disordine, una confusione, e uno sconforto nelle famiglie che non è possibile immaginare. Oh! quali giornate di angoscia! Queste povere donne vengono continuamente da me a espormi il loro dubbio, le loro pene, le loro angustie: e io debbo consolare, smorzare certe notizie, dissipare certi dubbi che pure non sono infondati, fingere di non capire o di ignorare o di sapere, secondo i casi, promettere di interessarmi, ecc. E in realtà mi interesso presso i Comandi, ma ho l’impressione che si riesca a sapere poco e a ottenere ancora meno. Ciò che addirittura spaventa è lo spauracchio di essere condotti in Germania. Certo, se i tedeschi hanno sempre avuto poca simpatia presso la gente, quello che è stato fatto in questi giorni e nei giorni scorsi, dimostra che non hanno cuore, e hanno gettato nell’animo di questa gente un genere di avversione che non potrà essere superato facilmente. Se ciascuno potesse parlare o scrivere avrebbe da narrare la sua avventura; un’avventura di tale folle spavento e di tale temibile rischio che i figli o i nipoti non vi crederebbero. E non è ancora tutto finito!
TESTIMONIANZE” Martini ” Armando Angella
Carattere apparentemente chiuso. Una volta avvenuto il contatto si scopre una interiore ricchezza umana che tanto arreca di sollievo all’interlocutore per quella disponibilità imprevista e non più sospettabile. A distanza di alcuni decenni, seppure i miei incontri si limitino a quello della liberazione dalla prigionia avvenuta, con scambio di soldati tedeschi, tramite, appunto, l’allora Arciprete Monsignor Carlo Boiardi, il 17 novembre del 1944 e ad altri pochi, nell’immediato dopoguerra, occasionali, brevissimi, in ricorrenze civili, si è venuta consolidando in me la certezza del « grande amore» sempre vivo in lui per Borgotaro e la sua gente. Amore nato, non tanto da un lungo arco di tempo di convivenza nei nostri luoghi, che tale non fu, quanto da una partecipe, sofferta comprensione per i problemi gravi, impensabili, dolorosi e quasi sempre di difficilissima soluzione che il perdurante stato di guerra e di occupazione nemica venivano creando, di giorno in giorno, di ora in ora, nello scontro con la nuova realtà della Resistenza di cui anche l’Alta Valle del Taro si era resa cosciente protagonista.
Nella estate del 1966, trovandomi con l’amico Giovanni Brugnoli in quel di Massa, andammo in visita di saluto da S.E. Carlo Boiardi, dove era stato investito del Vescovado dal 1946. Introdotto nel francescano studio di ricevimento, già vi trovammo la Superiora Suor Teresa con Suor Maria, della Colonia borgotarese « Regina Pacis» di Marina di Massa, in… missione spirituale: chiedere l’autorizzazione per poter far celebrare la S. Messa in un quasi locale della Colonia (invero si trattava di un terrazzo d’angolo, a cielo aperto, delimitato con pareti in muratura solo da due lati e nei restanti due con tendoni mobili allogati per la circostanza), sia pur nel limite dei giorni festivi.
Sollecitarono, con la naturale logica di chi è al servizio del mondo nel nome del Signore, il nostro appoggio alla loro richiesta e, rammento, d’un subito venimmo « coinvolti» nella stesura della petizione. Di lì a non molto apparve, quasi scivolata dal nulla, l’ascetica figura del Vescovo. Lesse l’istanza, rimase qualche attimo pensieroso, e rispose: – Proprio, non posso dire di no; la domanda mi viene rivolta da dei borgotaresi per dei borgotaresi!..
Fu la migliore conferma di quel «grande amore », sempre presente, divenuto, col trascorrere del tempo, componente positiva di un carattere, di una fede, anche se la nostra azione poté presentarsi col sapore di un ricatto involontario, ma forse atteso. ” Martini” Armando Angella
Natalina Cervotti
Il 15 luglio, vigilia della Madonna del Carmine, un partigiano venne ad avvisarci che i tedeschi stavano per arrivare a Borgotaro. Fummo incerti sul da fare: in casa eravamo io, mio figlio Nino di 9 anni, mia sorella, mio fratello, papà e mamma. Non sapevamo dove andare e decidemmo così di rimanere, solo mio fratello Renato fuggì ai monti. Nel pomeriggio giunsero i tedeschi, verso sera alcuni di loro si presentarono alla nostra porta e noi offrimmo del pane appena cotto e del vino. Non ci sembrarono particolarmente” cattivi”. A sera andammo a letto un poco più tranquilli.
Meno tranquillo fu il brusco risveglio. Erano le 5 del mattino quando udimmo battere alla porta. Qualcuno dei miei andò ad aprire. Sentii delle urla in lingua tedesca. Ero ancora a letto con mia sorella e mio figlio, quando vidi entrare in camera un tedesco con la pistola. Ci invitò, con tono che non ammetteva indugi, ad alzarci. Mio figlio cominciò a piangere, io e mia sorella aspettavamo che almeno il tedesco uscisse prima di scendere da letto…
Ci alzammo e, insieme agli altri, fummo accompagnati in un locale chiamato ‘baracchino’. Lì trovammo altri ostaggi: ricordo tra gli altri mio fratello Giuseppe con la moglie e tre figli minori, Mario Saglia, Dante Acerbis, Volta, la Francesca Zoni, la Luigia Cobelli. Poco dopo ci fecero uscire e ci ammassarono proprio in capo al ponte di San Rocco, vicino alla Madonnina. Avevamo una mitragliatrice puntata su noi. I tedeschi stavano rovistando all’interno del “baracchino” e noi pensammo che volessero minarlo. Invece, subito dopo, ci invitarono ad incamminarci verso il Borgo.
Saremo stati una ventina. Arrivati al Portello notammo che già vi si trovava una trentina di ostaggi. C’era molta agitazione, i bambini piangevano. Eravamo nel piazzale della pesa pubblica e man mano che il tempo passava gli ostaggi aumentavano. Penso che saremo stati da cento a cento cinquanta persone. Rimanemmo lì diverse ore; fu verso mezzogiorno, almeno così
mi pare di ricordare, che i tedeschi decisero di rilasciare le persone più anziane ed i bambini. Molti di noi furono così invitati a tornare alle abitazioni, tra questi i miei genitori. Fu un momento particolarmente doloroso per me: mio figlio doveva andarsene, ma io non ero tra le persone poste in libertà. Lo consegnarono ai miei genitori, ma Nino cominciò a strillare: non voleva staccarsi da me. Alla fine se ne andò, sempre urlando, con i nonni. Noi cominciammo a pensare al peggio! Mezz’ora dopo si fece strada in noi un poco di speranza. Ci venne fatta un’offerta. Alcune donne avrebbero avuto un lasciapassare con !’impegno di recarsi presso i partigiani per ottenere la liberazione dei prigionieri tedeschi. In caso contrario gli uomini sarebbero stati uccisi.
lo mi offrii, così fece mia sorella Anita ed anche altre. Forse una decina. Mi sembra di ricordare tra queste: Luisa Baruffa, Maria e Rosetta Delgrosso, Virginia Ricciarelli. Ce n’erano altre, ma non ricordo il nome. Ci dividemmo le zone. lo, mia sorella ed un’altra ci impegnammo ad andare nella zona di Porcigatone. Tornammo prima a casa a tranquillizzare i genitori e Nino, si prese una bottiglia di Vermouth da portare a nostro fratello Giuseppe ch’era rimasto nelle mani dei tedeschi e partimmo. Gli ostaggi non erano più al Portello, ma presso la casa Mangora. Lasciammo loro la bottiglia e proseguimmo.
Tra loro avevo notato Mons. Boiardi, Stekli, Poretti, Paolo Capitelli, Gelindo ed Emilio Delgrosso, Varazzani, Schifini, Gigino Gatti e tanti altri. Ci avviammo verso Porcigatone. Questa località era stata da noi scelta anche perché il giorno prima, verso quella zona, era fuggito nostro fratello Renato. Era partito all’improvviso con un paio di sandali e decidemmo di fargli avere un paio di scarpe più adatte alla montagna. Per il timore di complicazioni, anziché portarle a mano, mia sorella decise di calzarle, al ritorno avrebbe usato i sandali di Renato.
Verso le 2 o le 3 del pomeriggio giungemmo a Porcigatone. Presso l’osteria di Vico incontrammo Giovanni Marioni che conoscevamo da anni. Sapevamo che era in contatto con i Partigiani e a lui raccontammo tutto. Ci rispose di tornare tranquille che avrebbe fatto di tutto per far rilasciare i prigionieri tedeschi. Cercammo invano Renato, ma non era presente. Lasciammo così le scarpe ad una conoscente pregandola di fargliele avere. Così mia sorella si tolse le scarpe e fu costretta a percorrere scalza la strada, non asfaltata, da Porcigatone a Borgotaro.
Arrivate al Borgo ci dissero che gli ostaggi si trovavano presso l’Albergo Roma. Là ci recammo: erano tutti fuori, ma non riuscivamo a vedere mio fratello Giuseppe. Ci dissero ch’ era stato mandato dietro l’albergo a raccogliere delle patate. Riferimmo quanto avevamo potuto fare. Per due giorni mia sorella portò del cibo a Giuseppe. Da quanto mi si disse qualche giorno dopo, da Porcigatone vennero rilasciati numerosi prigionieri tedeschi. Sette in più di quelli richiesti, ma non ricordo il numero. La nostra missione aveva dato i suoi frutti.
“Zio”
(Aldo Costi)
Durante la notte tra il 10 e 1’11 settembre 1944 numerosi Alpini della Monte Rosa, e tra loro il S. Tenente Orlandini, avevano disertato e si erano consegnati a noi partigiani. Il Comando degli Alpini, tuttavia, ritenendo che dell’accaduto fossero responsabili i partigiani, aveva fatto prelevare degli ostaggi civili nella zona della Costazza. Io ebbi, pertanto, !’incarico di avvicinare Mons. Boiardi, che era di passaggio al Boschetto, e comunicargli quanto era accaduto.
Saranno state le 8 o le 9 del mattino allorché l’incontrai. Non l’avevo mai visto, anche se già ne avevo sentito parlare. M’avvicino a lui e gli chiedo: «E’ lei l’Arciprete di Borgotaro? ». « Sì » mi risponde. « lo sono lo “Zio” ed ho il compito di comunicarle che questa notte sono fuggiti numerosi Alpini. Vogliamo confermarle che i partigiani non c’entrano ». Mi rispose che già conosceva la notizia, e insistette perché io dicessi la verità sugli avvenimenti: «Sono davvero fuggiti volontariamente? ». A me non rimase che riconfermare quanto avevo già detto. Così infatti stavano le cose. Mi disse che avrebbe riferito tutto al Comando degli Alpini e di aspettarlo al bivio che sarebbe tornato.
Nel frattempo l’Ufficiale degli Alpini, S. Tenente Orlandini, comincia a pentirsi della sua decisione e ci chiede, insieme ad altri tre Alpini, di poter tornare a Borgotaro. Noi siamo indecisi sul da farsi, e lui minaccia rappresaglie. Ci comunicano, nel primo pomeriggio, che il Maggiore della Monte Rosa non crede alla volontarietà della fuga e desidera, prima di rilasciare gli ostaggi, avere un confronto con il S. Ten. Orlandini alla presenza anche di noi partigiani e di Mons. Boiardi. L’appuntamento è per le 18 al bivio di Albareto. Decidiamo di andare, ma senza il S. Ten. Orlandini. All’ora fissata ci incontriamo: da una parte siamo io e Benedetto, dall’altra Mons. Boiardi e il Ten. Peruzzi della Monte Rosa.
L’Arciprete m’invita a rifare, davanti all’Ufficiale, la storia degli avvenimenti e mi chiede anche perché non è presente il s. Ten. Orlandini. Rispondo che l’Ufficiale non è presente in quanto trovandosi a notevole distanza non si era fatto in tempo ad avvertirlo e dico anche che dei quindici fuggiti, undici lo avevano fatto spontaneamente e quattro vi erano stati costretti, tra questi il s. Ten. Orlandini. Mons. Boiardi mi fulminò con i suoi occhi penetranti, impallidì e mi aspettavo una reazione violenta. Non gli avevo reso un buon servizio: avevo cambiato la versione dei fatti, ma non era colpa mia.
Ci lasciammo con !’intesa che il mattino seguente io stesso avrei chiarito se i quattro intendevano restare con i partigiani o tornare. Nella notte non si riesce a trovare una soluzione. Il S. Ten. Orlandini è incerto: a volte è deciso a rientrare, a volte pensa di rimanere con noi. Il mattino seguente, verso le 12, tocca ancora a me vedermela con l’Arciprete. C’incontriamo, non ricordo dove, e gli dico che la risposta definitiva potrà essere data solamente alle ore 16 del pomeriggio.
Mi dice: << Sono due giorni che faccio la spola: ieri mi avete fatto riferire al Maggiore una versione degli avvenimenti che poi voi stessi avete cambiata; vi eravate impegnati a dare una risposta definitiva per stamane ed ora chiedete un altro rinvio. Con che coraggio potrò ripresentarmi al Comandante?>> e se ne andò. Lo rividi il giorno dopo ad Albareto quando, finalmente, ebbe luogo il rilascio dell’Ufficiale. Non mi fu possibile, tuttavia, chiarirgli i motivi del mio comportamento ch’egli avrà ritenuto un poco ambiguo. Notai comunque che lasciava Albareto con aria soddisfatta: gli ostaggi civili erano stati rilasciati e a lui non interessava altro ! “Zio” (Aldo Costi)
Don Guido Berzolla
intervista e rielaborazione di don Elio Sidoli
Quella che io vado appuntando sulla carta, è roba che mi ha raccontato Don Guido Berzolla, Parroco di Montegroppo, in una fredda, triste e piovosa sera di una primavera incipiente. Mentre il vento ululava con voce lamentosa alle porte della canonica in una tetra atmosfera da «Cime tempestose» lui prese a dire: « Forsitan haec olim meminisse iuvabit ». Oggi, senza forse alcuno, mi pare opportuno riproporre ai contemporanei, in molti casi, << in tutt’altre faccende affaccendati » la figura e l’opera di persone che trent’anni fa, mettendo a repentaglio la propria vita furono i buoni samaritani per tanti altri. E’ il caso di mons. Carlo Boiardi, che resse la Parrocchia di Borgotaro proprio negli anni della Resistenza.
Penso che far conoscere l’attività di questo sacerdote, sia doveroso. E per mons. Boiardi e per tutti quelli che allora pagarono di persona: monito per questa generazione a ché difenda e conservi i valori nati dalla lotta partigiana. Mons. Boiardi era un uomo metodico, e degli avvenimenti anche più insignificanti teneva un diario accurato. Avvenimenti, persone, fatti a volte apparentemente di nessuna importanza, vengono riproposti e appaiono in tutta la loro tragica evidenza: sono il resoconto fedele e oggettivo di un Calvario che gran parte della gente di Borgotaro ha percorso e vissuto. Risveglierà in molti, ricordi struggenti o memorie di amici e familiari, che in questo tremendo periodo della storia italiana furono vittime delle barbarie ». Ora Don Guido si ferma, come per riordinare ricordi ed io ne approfitto: gli chiedo come ricorda mons. Boiardi, quali erano le sue doti peculiari, come si destreggiava nella difficile situazione, in cui suo malgrado era venuto a trovarsi. Prima di rispondere Don Guido pensa a lungo. Sembra faccia fatica a ricucire eventi ormai lontani e a ricomporre una storia, che (è mia impressione) si è sforzato di dimenticare.
«Mons. Boiardi – attacca ora Don Guido – era un sacerdote che faceva capo a quella generazione di Pastori di cui ora non resta che un ricordo e il rimpianto. Piccolo e mingherlino, con una faccia diafana da mistico, aveva una volontà di ferro e una capacità di giudicare cose e persone come pochi. Zelante e ligio ai suoi doveri di parroco, fino allo scrupolo, in paese passava per un duro. Alcuni lo dicevano intransigente e perfino scostante. Ma era «giusto» nel significato vero che si ha da dare alla parola giustizia. Era rigido, è vero, ma prima con se stesso che con gli altri. Sapeva vedere il bene e il male dovunque fossero. E per questo anche coloro che le sue idee non condividevano (e ce ne erano allora come oggi) lo rispettavano e lo tenevano in gran conto.
Ricordo che nel quarantacinque per « La Madonna del Rosario », giornata che il Parroco aveva dedicato al ricordo e al suffragio dei Caduti e al ringraziamento per la riconquistata libertà, sospese la processione, che per i Borgotaresi è un “avvenimento preparato con cura e atteso con ansia, perché erano stati organizzati divertimenti in contrasto con lo spirito della festa. Ci fu gran dire e velate minacce. Lui non cedette e so per certo che passata la faccenda alcuni notabili del movimento di liberazione andarono in canonica a presentare le loro scuse. Erano di ideologie diverse, ma sapevano apprezzare la dirittura e l’onestà dell’uomo ». « E con i partigiani? » interrogo io. « Li ha sempre aiutati in mille modi, ha rischiato la pelle per salvarne qualcuno. Se però commettevano qualche sopruso, beh! anche con loro non era tenero. Tutt’altro.
Quelli del Borgo – è sempre don Guido che parla – a quei tempi, avevano lasciato il paese e si erano rifugiati nelle diverse frazioni del Comune. Mons. Boiardi li andava a trovare molto spesso. La staffetta che preannunciava il suo arrivo poteva essere chiunque. Trovava sempre il modo per avvertire del suo arrivo questi parrocchiani della diaspora. lo spesso andavo con lui. Era un camminatore instancabile: aveva un passo svelto nervoso e a tratti era difficile seguirlo. Lo accompagnai in diversi posti: a Caffaraccia, a San Martino, a Porcigatone. Da lontano, appena si intravedeva la chiesa, si notava uno sventolare di fazzoletti e si percepiva un vociare allegro. E lui affrettava ancora di più i passi. L’incontro con i suoi parrocchiani era sempre commovente. Dopo le prime effusioni, i primi abbracci, le prime lacrime entrava in chiesa per celebrare la messa. Poi, sul Sagrato, era tutto un accavallarsi di domande, di consigli, di raccomandazioni. Quante volte l’ho visto piangere, mentre teneva in braccio un bambino piccolo, che aveva il papà alla macchia con i «Ribelli ». Le scene si ripetevano sempre dovunque andasse: in ogni casolare dove c’era un suo parrocchiano. Ed è naturale che sia così, perché il dolore è sempre uguale sotto ogni cielo e in ogni paese. Ricordo che verso la fine del luglio ’44 lo accompagnai a Porcigatone per l’ufficio dell’Arciprete Don Francesco Delnevo, trucidato dai Tedeschi con altri Sacerdoti e Borgotaresi, a Sidolo in quel di Bardi. La chiesa era semideserta perché la gente aveva una paura matta e si nascondeva. Era passato da poco il rastrellamento ed erano ancora tutti terrorizzati. Cantò l’Ufficio singhiozzando e fece la predica rievocando Don Francesco, Padre Bracchi (anch’egli trucidato a Strela), come se la Chiesa fosse piena zeppa. E c’erano soltanto quattro vecchie che dicevano il rosario sommessamente ».
« E Mons. Boiardi – dico io – non aveva paura? ». «Altro se aveva paura, ma diceva: «La paura è un lusso che un prete di questi tempi non può e non deve permettersi. Si deve vincere quando c’è un po’ di bene da fare o una vita da salvare ».
E lui, in vista del bene da fare sapeva acquietare la paura che allora albergava nell’animo di tutti. Qualche volta però anche lui cedeva.
Ricordo quel terribile agosto del 1944. Alcuni giorni dopo il bombardamento, che a Borgotaro fece parecchie vittime, accompagnai Mons. Boiardi da Brunelli in paese per la Messa domenicale. Verso le undici prendemmo la via del ritorno. Giunti all’altezza della località << La Madonnina >> notammo tre apparecchi sorvolare Borgotaro. Cominciarono a mitragliare le abitazioni da bassissima quota lo allora avevo ancora mio padre ed ero preoccupato per la sua sorte. Passato quell’inferno dissi a Mons. Boiardi: «Ritorniamo a vedere che cosa è successo, se ci sono feriti, se qualcuno ha bisogno di noi… ». Lui non mi rispose, sedette per terra e lo sentii mormorare: «Va tu, va pure, io non ce la faccio: Mio Dio non ce la faccio ». E notai che tremava tutto. Ritornai di corsa, feci una scappata da mio padre e un giro per il Borgo: mi parve che non fosse successo niente di grave. Lo ritrovai seduto allo stesso posto con la testa fra le mani e gli occhi fissi nel vuoto. Quella volta penso che Mons. Boiardi avesse avuto veramente paura. A volte anche i nervi cedono, capisci? ».
Don Guido ora si è fermato di nuovo e pensa. Mi pare di notare nei suoi occhi una tristezza infinita: quella che deriva dal ricordo delle sventure passate. «E il suo ruolo nella faccenda degli Alpini della “Monterosa”? Mons. Boiardi nel diario parla di una lettera, che hai portato da Borgotaro a Boschetto per conto del “Maggiore” Comandante. Una lettera molto importante a quanto pare: ricordi come avvennero esattamente le cose? ». « Sono passati più di trent’anni ed è difficile riesumare avvenimenti che si è cercato di dimenticare, perché troppo dolorosi: l’essenziale però lo ricordo, come se fosse accaduto ieri.
La Divisione “Monterosa” aveva un piccolo presidio in località “Pradella” posto attiguo all’attuale Fabbrica dei mattoni. Una notte, quindici soldati fra cui un tenente, certo Orlandini, abbandonavano il posto e si rifugiavano ai monti con i partigiani. Penso che la versione esatta sia questa: quell’altra che vorrebbe gli Alpini della Monterosa, prelevati, armi in pugno, dai partigiani, è pura fantasia che i fascisti avallarono per i loro scopi di rappresaglia. Io allora mi trovavo a Borgotaro, dove ero giunto, dopo infinite peripezie da Piacenza. A mia sicurezza avevo in tasca un lasciapassare tedesco avuto in circostanze che qui sarebbe troppo lungo spiegare. Un giorno, mi pare verso la metà di settembre, all’Albergo Appennino fui avvicinato da un Sottufficiale della « Monte Rosa» che mi chiese se sapessi dove si trovava Mons. Boiardi. Lo informai che stavo appunto andando da lui a Boschetto, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza per noi Seminaristi. Il Sottufficiale, un ragazzo giovane con un viso triste e due occhi chiari come l’acqua, mi chiese di portargli una lettera molto importante. Io rimasi di stucco e non sapevo che cosa rispondere: ma quando il graduato mi disse che la sorte del paese era legata alla mia missione non ebbi più esitazione alcuna. Ricordo che mentre parlamentavo con il soldato una donna, certa Piscina, si avvicinò domandando preoccupata se ero agli arresti. Alla mia risposta negativa, notai che si fece il segno della Croce e si allontanò tutta felice.
Ora io domandavo al soldato quali garanzie mi avrebbe dato per passare attraverso gli sbarramenti fascisti e tedeschi sparsi un po’ dappertutto. Per tutta risposta trasse dalla saccaccia una lettera e disse: « Questo timbro sarà un lasciapassare sufficiente: è l’aquila tedesca, stia certo che nessuno la fermerà. Badi piuttosto di non cadere nelle mani dei “Ribelli”: noi abbiamo un buon numero di ostaggi. Quando il Prete che cerco, leggerà di questa faccenda verrà e tratteremo, ne sono sicuro ». Mi consegnò la lettera, una vecchia bicicletta sgangherata e mi salutò portando la mano alla visiera. Arrivai a Boschetto in mattinata. Mons. Boiardi sembrava, stranamente, che mi aspettasse. Lesse la lettera, smortì, aggrottò le ciglia, come sapeva fare lui e disse sommessamente: «Andiamo, è successo un pasticcio grosso: devo essere in mezzo ai miei a qualunque costo; gli innocenti non debbono pagare… » e qui non riuscii a capire che cosa volesse dire e riprendemmo la via ritorno. Prima però il Parroco di Borgotaro volle andare all’osteria del “Basso”, in quel di Boschetto, dove si incontrò con “Lo Zio”: un partigiano spezzino, dal viso arcigno, dai modi spicci, deciso a tutto almeno così parve a me. Io stavo in disparte ma riuscivo tuttavia a malapena a percepire i loro discorsi. Rivolto al partigiano disse dei quindici della Monterosa fatti prigionieri nella notte; dell’Ufficiale che era stato prelevato, degli ostaggi che gli Alpini avevano preso e avrebbero liberato solo se i Partigiani avessero rilasciato quei quindici uomini. (Tali notizie Mons. Boiardi aveva appreso dalla lettera che gli avevo consegnata poco prima).
La versione dello “Zio” era diversa: gli Alpini non erano stati prelevati e fatti prigionieri, ma erano passati ai partigiani liberamente: avevano disertato, in una parola, e la rappresaglia non era quindi giustificata in alcun modo. Mons. Boiardi si fece ripetere diverse volte questa versione chiedendo ripetutamente se era la verità. Fissò quindi con lo “Zio” e con certo “Benedetto”, un altro partigiano che era stato ad ascoltare in disparte, un incontro con il Comandante della Monterosa per il pomeriggio. Rammento che il viaggio del ritorno lo feci quasi completamente trascinando quel catenaccio di bicicletta che mi avevano consegnato a Borgotaro. Monsignore, al mio invito di sedere sulla canna aveva risposto con un no secco e alle mie domande rispondeva con monosillabi. Pareva molto preoccupato, fisso in qualche cosa di molto grave. Davanti all’Albergo Appennino mi congedò, ringraziando della compagnia e del favore reso al paese: lui si diresse verso il Comando degli Alpini.
So che nel pomeriggio Monsignore e il Tenente Peruzzi si incontrarono al Bivio di Albareto con “Lo Zio” e “Benedetto”. Mi risulta che il partigiano spezzino modificò in parte la versione che aveva dato al mattino: disse che dei quindici alpini, undici avevano disertato e quattro erano stati prelevati a forza. Tra questi ultimi anche il Tenente Orlandini. Le trattative furono lunghe, laboriose, incerte. Ebbero però buon risultato, perché il giorno dopo a mezzogiorno donne e bambini presi in ostaggio furono liberati. Lo “Zio” e “Benedetto” rilasciarono, a quanto mi risulta, soltanto due degli Alpini catturati: uno era il Tenente Orlandini. Dopo questo, gli ostaggi ancora trattenuti riebbero la libertà.
Mons. Boiardi morì nella primavera del settanta. Andai al funerali che si svolsero, solennissimi, nella Cattedrale di Massa. Mentre il feretro usciva dalla Chiesa, portato a spalle da quattro sacerdoti, in fondo, nella penombra della Cattedrale, vicino ad un confessionale mi parve di vedere “Lo Zio”. Era invecchiato, ma gli occhi e lo sguardo erano sempre gli stessi di quando lo avevo visto venticinque anni prima all’Osteria del “Basso”. Fissava la bara e mi pareva che piangesse >>. don Guido Berzolla
intervista e rielaborazione di don Elio Sidoli
Rosina Delnevo Feci
Nel luglio del ’44 e precisamente sabato 15, vigilia della festa della Madonna del Carmine, i partigiani abbandonarono Borgotaro. Nel pomeriggio arrivarono numerose truppe tedesche e prima di notte, per precauzione, chiudemmo con il catenaccio il portone che dava sulla strada. Abitavo allora nel fabbricato ove aveva sede la Locanda Nazionale. In casa con me erano i miei due figli di 4 e 2 anni, mia sorella con la figlia e mio padre.
Il mattino seguente, saranno state circa le 5, udimmo battere con violenza al portone esterno. Qualcuno andò ad aprire ed entrarono alcuni tedeschi armati. Chiesero di entrare nell’ abitazione e domandarono del caffè. Era un genere di lusso, a quei tempi, ed io cercai di far capire loro che potevo offrire solamente dell’orzo. S’accontentarono e uscirono. Ci eravamo appena ripresi dallo spavento, allorché tornarono. Questa volta ci invitarono, con tono brusco, a seguirli. Preparammo i bambini e uscimmo. Ci venne indicata la direzione da seguire e arrivammo così a Porta Portello. C’era già molta gente: uomini, donne, vecchi e bambini. Rimanemmo lì diverse ore. Ad un tratto mi si avvicinò uno dei tedeschi di quelli che al mattino erano stati in casa. Mi fece capire che ero libera, ma che dovevo prestarmi a fare da cuoca. Con i miei due figli, che sempre avevo tenuto tra le braccia, seguii il tedesco. Mi portò vicino a casa e forse ricordando le dimensioni della mia cucina, che erano notevoli, mi disse di salire a preparare i fornelli che avrebbe portato delle vivande.
Io dissi che la mia cucina non andava bene e che c’erano altri locali pubblici più idonei. Non si fece pregare oltre e sfondò una porta della Locanda Nazionale. Lì entrammo ed io, sperando che ciò servisse a far liberare altre donne, dissi che da sola potevo far poco e arrivarono così altre donne, compresa mia sorella. Si mise un po’ in ordine, s’accesero i fornelli e poco dopo giunse una ventina di tedeschi. Ci fecero uscire dalla cucina e si prepararono, non fidandosi forse di noi, delle uova con della pancetta. Ricordo il profumo… anche perché noi si era digiuni dal mattino.
Eravamo comunque libere, anche se in mano ai tedeschi era rimasto mio padre con altri uomini. Tornammo in casa e verso sera, dalla finestra, osservammo che gli uomini venivano portati all’Albergo Roma, tra loro vidi mio padre e Mons. Boiardi. Il giorno seguente l’arciprete uscì per andare ad aprire, o chiudere la porta della Chiesa. Era accompagnato da un tedesco ed io gli chiesi notizie di mio padre. Mi rispose che quando i tedeschi, il giorno prima, mi avevano invitato a seguirli, lui aveva pregato pensando a me come alla prima vittima! Mi tranquillizzò e mi parlò di un possibile scambio con dei prigionieri tedeschi.
A mezzogiorno portai del cibo a mio padre. Fu nel pomeriggio, che incontrai il dotto Giuseppe Baduini, Ufficiale Sanitario del Comune. Mi disse: « Tu hai una certa libertà nell’entrare e nell’uscire dall’Albergo Roma e dovresti, pertanto, consegnare questo biglietto a Mons. Boiardi. Si tratta di una cosa molto importante e delicata. Sarebbe pericoloso per tutti che i tedeschi venissero in possesso del messaggio ». Accettai, e appena mi fu possibile entrare all’Albergo Roma, mi avvicinai all’arciprete. Lo avevo visto qualche ora prima, ma, tenendo nella mano il foglietto e sperando di eludere l’attenzione di un tedesco lì vicino, dissi ad alta voce: «Monsignore, come sta?» E allungai il braccio per invitarlo ad una stretta di mano che mi avrebbe consentito di passargli il messaggio. Mi guardò un poco meravigliato (avevamo appena parlato in mattinata!) comunque allungò la mano e strinse la mia. Allorché si accorse del messaggio impallidì, mi interrogò con gli occhi, anzi il suo sguardo mi parve quasi di rimprovero.
In quel momento credetti che la cosa finisse male, ma Mons. Boiardi si riebbe subito e chiese notizie dei miei bambini… Il messaggio era ormai nelle sue mani. Salutai tutti e uscii. Purtroppo non venni mai a conoscenza del contenuto del messaggio.
Rosina Delnevo Feci
PRESENTAZIONE
don Antonio Beccarelli

Funerale delle vittime del Santa Donna.
L’ultima volta che ebbi un colloquio con Mons. Boiardi fu nell’ormai lontano ’60. Era una giornata di primavera, alle soglie della Pasqua. A Pisa si scioperava, uno dei primi timidi scioperi di Università che impallidirebbero dinanzi ai movimenti studenteschi di oggi.
Decisi di fargli visita.
Al mattino presto presi il treno per Massa e poco prima delle 9 potei farmi annunciare all’Episcopio. Era la prima volta che vedevo questo vecchio palazzo, seminascosto fra Piazza degli Aranci e quella del Duomo, all’inizio di una viuzza stretta e in discesa. <<Lo disturberò?>> pensavo fra me, mentre curiosavo nella modesta sala di attesa. Chissà perché, mi capitava di pensare a lui sempre come ad una persona autoritaria, e vivevo nell’attesa con non poca soggezione. Lo vedevo sempre con quel cipiglio severo come quando, chierichetto, mi rimproverava perché sbagliavo il Confiteor.
Non vi rimasi per molto tempo. Venne lui stesso ad accompagnarmi nel suo studio, anch’esso modesto, non di molto superiore a quello sgangherato e vicariale e che ebbe in Borgotaro, e venendo mi incontro mi sorrideva con un riso candido, direi quasi fanciullesco. « Allora, dimmi, che c’è di nuovo a Borgotaro? ». Non mi aveva ancora fatto accomodare, che già mi aveva tempestato di domande con la sua voce pigolante e chioccia ad un tempo, ma lo faceva con il tono gioioso di chi richiama alla mente meravigliosi ricordi.
Io lo osservavo, curioso, i suoi lineamenti fragili, resi ancor più accentuati da una sua recente malattia, il viso asimmetrico, lo sguardo pungente, penetrante. «Veramente…, sto venendo da Pisa… ». Ma Lui, quasi non avesse sentito: « Come sta Palò? e Mons.Corsini?.. ».
« Curioso, molto curioso! – pensavo fra me mentre sorseggiavamo il caffè da minuscole chicchere che sapevano molto di semplicità, quasi di contadinesco, – Lo ritenevo autoritario, ma è della più spontanea semplicità ». C’era da supporre che Borgotaro fosse stata la sua Croce (e quale croce, dati gli eventi storici e le peripezie che vi trascorse!) ed ora mi sembra che tornerebbe indietro volentieri a rivivere quella vita. Parlammo di tante cose, ma la principale, quasi pensiero suo ossessionante, era. il Borgo!
Ora che ne ho in mano il Diario ch’egli ha minuziosamente stilato con quella sua calligrafia sottile, ed egli è scomparso, mi pare di capire meglio Mons. Boiardi, la persona, il prete, colui che visse intensamente quel breve periodo (nemmeno due anni: 30 aprile ’44 – Febbraio ’46), un periodo che pur tuttavia ha lasciato i segni profondi nelle generazioni che lo hanno vissuto. Non è stato un eroe della Resistenza, ma non fu nemmeno un conservatore, come osservatori superficiali, fraintendendolo, lo hanno più volte giudicato.
Uomo intelligente e saggio, sapeva ponderare bene i fatti, gli avvenimenti; li studiava, li analizzava, li poneva in correlazione, non per il gusto accademico dello studio e dell’analisi, ma per “agire”! Pare fino incredibile che quell’uomo così minuto avesse dentro di sè tanta energia, tanta potenzialità di azione. Sapesse soppesare, giudicare freddamente, ed entrare nel pieno della lotta con una carica umana insospettabile!
Mons. Boiardi ha sofferto quel periodo, non nel senso passivo di chi subisce, ma stringendo i denti, pienamente consapevole della grande tragedia che si era abbattuta sull’Italia, e come conseguenza sulla sua Parrocchia. Ha fatto di tutto, instancabilmente, notte e giorno, per alleviare le sofferenze di chi più pativa, perché il passaggio verso la democrazia, ch’egli ormai giudicava imminente, fosse il più possibile indolore. Ha avuto anch’egli i suoi dubbi, le sue perplessità: non tutto gli appariva chiaro alla mente, perché era anche umile, e di quale umiltà! Non era saccente, ma saggio, non era nè temerario, ma prudente e coraggioso insieme, conquistato al di là della paura.
Certo gli è mancato il tempo per certi tipi di contatti (eppure lo trovava anche per questo), ma non ha sciupato un solo istante della sua vita. Agì da vero e autentico pastore, da prete. Chiedeva a Dio il dono di poter essere al di sopra di tutto, ma non certo per qualunquismo o superbia (<< non per stare alla finestra a guardare)} scrive lui stesso nel suo diario), ma per poter discernere meglio, accorgersi di chi soffriva di più e prontamente intervenire in aiuto… anche a chiarire le idee, quando occorreva. I principi che lo sorreggevano e che suggeriva anche agli altri sacerdoti del Vicariato contenevano un nucleo di modernità insospettabile.
Pur facendo in continuità delle scelte politiche, ed avendo per necessità di cose e di eventi, contatti politici di ogni specie, non è mai stato uomo di parte. Il suo pensiero non era legato ad alcuno schema precostituito. Si serviva degli schemi, ma non si lasciava spadroneggiare da essi. Ha quindi sofferto e vissuto pienamente la Resistenza, prima di tutto dentro al suo animo, sensibile e perspicace, perché sapeva benissimo quale era la prima, vera divisione dell’uomo: quella che passa dentro all’animo nostro, a ciascuno di noi, quella del male!
Soffriva perché molti in quei tragici momenti avevano dimenticato tutto questo e la necessità esterna della lotta trascinava tutti ad esperienze allucinanti, a vivere a contatto con la morte, con la violenza, ed a ritenerla normale, ove l’imperativo “salvare la propria pelle” poteva superare ogni altro schema di ordine etico e morale. Soffriva tutto ciò perché sapeva che quella era una “prova” e che prova! Il paese dapprima sovrappopolato da un ingente numero di sfollati, le riserve annonarie sempre più in diminuzione, e chi ne soffriva erano i poveri, sempre i poveri; poi i bombardamenti, i primi lutti, il primo stupore e contemporaneamente la lotta partigiana.
Leggendo il suo Diario, così ricco di spunti ed annotazioni, è ben difficile intuire in quale momento della giornata egli lo stilasse, perché si ha l’impressione che le 24 ore di cui è composto un giorno non fossero assolutamente sufficienti per tutte quelle attività: quell’andirivieni continuo (il più delle volte a piedi) tra Brunelli, Porcigatone, Albareto, etc., l’attività religiosa e di culto, sempre molto intensa, la preghiera personale, così assidua, ov’egli cercava sempre lume e consiglio, i corsi teologici ai seminaristi, dimessi provvisoriamente dai Seminari, e quell’assumersi i gravosi compiti, talvolta amministrativi, che ripugnavano a lui, ma sentiva la necessità di farlo, in un Borgotaro troppo spesso abbandonato, senza guida, in balìa delle orde tedesche, che pensavano solo a rubare, abbattere porte, depredare, vandalicamente distruggere e guai a chi si opponeva! E’ veramente portentoso com’egli affrontasse tutti i problemi, quelli degli operai disoccupati, dei poveri, degli indifesi, com’egli corresse ove c’era da lenire una ferita, confortare famiglie in lutto, incoraggiare i disperati.
Con quale chiarezza e rigore logico egli, che non si era mai interessato di politica, e tantomeno di quella terribile conseguenza di una politica sbagliata, com’è stata la guerra, ponga giudizi severi, perspicaci, parli con coraggio, virilmente, esorti, riprenda. Certo, l’asprezza di qualche giudizio può sembrare antipatica, specie per chi ne è oggetto, ma se intimamente riflettuta, non si può far a meno di dire che egli era nella verità. Fu paterno, ma non paternalistico. Amava tutti, soprattutto però gli emarginati. E’ ad essi ch’ egli rivolse le sue principali attenzioni. E’ per essi ch’egli tentò di cucire insieme ciò che ormai sembrava definitivamente lacerato, non più ricomponibile. E’ per essi, per risparmiare lutti, ulteriori tribolazioni, disagi, sofferenze, ch’egli si piega ad andare incontro ai tedeschi che entrano assetati di vendetta, rischia, si umilia, espone la sua vita come garanzia alla sua parola. Egli accetta il dialogo con tutti, anche con chi gli si mostra talvolta palesemente repellente sotto il profilo umano.
C’è chi compie eroismi più appariscenti. Avranno il loro significato e non lo si può contestare. Ma è in questo lavoro nascosto di tessitura, di riparo di falle, da questa sofferenza in ombra che ne nasce un gran bene per gli altri, e viene favorita quella crescita umana e personale, senza la quale ogni progresso è puramente illusorio. E’ su questa “pazienza” che si appoggiano, si basano, i valori di un’autentica democrazia, non nella ricerca costante dell’esaltazione di se stesso, del proprio gruppo, del proprio clan, corrente o partito, ma nella ricerca costante delle esigenze di tutti, nel soffrire ciò che tutti soffrono, nel tentare insieme una soluzione ai problemi che assillano gli individui e la società, realisticamente, senza preconcetti.
In questi tristi avvenimenti, quand’era facile la tentazione di “fare legge di propria mano”, Mons. Boiardi ci ha dato una grande lezione, di autentica, forte, robusta, virile democrazia. Penso però sia ormai giunto il momento di non annoiare più il lettore con l’esposizione delle mie personali riflessioni, ma di passare a vedere, riassuntivamente, gli antefatti di quel triste periodo che ci portano, ci introducono al momento culminante, quello narrato appunto dallo stralcio di Diario che vi presentiamo.
Mons. Carlo Boiardi fa la sua entrata, come parroco di Borgotaro, il 30 Aprile 1944.. Subito in quello stesso giorno il cielo viene oscurato da uno stuolo numerosissimo di aerei alleati che stanno portando il loro carico di morte verso il Nord. Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre la nostra zona, interessata dalla importanti arterie stradali della Cisa, Bocco, Cento Croci e Bratello, attraversata altresì dalla ferrovia Parma-La Spezia, che dai tedeschi era considerata di vitale importanza, in quanto unico collegamento ferroviario tra il nord e la Linea Gotica, fu destinata ad essere un epicentro della Resistenza. L’importanza strategico-militare della Valtaro è dimostrata dalle ingenti forze di spiegate dai tedeschi in difesa delle stazioni e dei caselli della Parma-La Spezia e dalla presenza nelle vicinanze di Fornovo del quartier generale germanico, comandato da Kesselring.
Quasi subito, negli ultimi mesi del ’43, vennero formandosi, in modo talvolta confuso, senza coordinamento, numerosi gruppi (per lo più giovani fuggiti dall’Esercito regolare per non essere presi dai tedeschi – ma anche persone più anziane che avevano sempre nutrita nel cuore la speranza di abbattere il Fascismo ed instaurare la Democrazia in Italia), dislocati in varie zone della nostra montagna. Le prime “bande” erano scarse come numero di componenti e provenivano dalle più svariate classi sociali, con nessuna esperienza di guerriglia, con varie idee politiche, talvolta nessuna, tranne il desiderio di cambiare la situazione intollerabile.
Le prime azioni militari che essi svolgono sono evidente mente difficili. La gente dei paesi li conosce, ma ne parla ancora all’orecchio, piano piano, con fare misterioso. Alcuni di loro sono molto coraggiosi, talvolta temerari; sono gruppi di 10-12 ciascuno. Sono loro che si impegnano nelle prime battaglie, come quella di Osacca (Natale del ’43), attaccano il presidio dei militi alla Stazione di Borgotaro e gli altri presidi del Bratello, delle Cento Croci, ove pure affrontano una numerosa colonna di fascisti, ed il giorno di Pasqua (9 aprile 1944), respingono un tentativo di rastrellamento a Tasola di Bedonia.
Quando Mons. Boiardi entra in paese alla fine di questo mese, lo trova ancora presidiato dai fascisti, ma in quale clima lo potete bene immaginare .La parrocchia è vacante da alcuni mesi per la morte di Mons. Giovanni Squeri. Nel frattempo aveva funzionato come vicario Don Ardino Coppelli. I problemi da affrontare sono gravi e numerosi; e si rivelano immediatamente i primi profondi contrasti. Il Comando alleato, che ormai aveva allacciato collegamenti con i raggruppamenti dei partigiani, chiede ripetutamente che la Parma-Spezia venga sabotata e presto quindi passerà a colpire la linea con pesanti bombardamenti aerei. Il 7 maggio Mons. Boiardi è già costretto ad annotare sul suo Diario un primo triste risultato della pericolosa situazione: scontro ad Ostia fra militi e partigiani; un morto per parte. Una sola settimana dall’arrivo e già capisce l’animo dei Borgotaresi: gente spontanea, desiderosa di vivere libera, che si entusiasma rapidamente, come altrettanto rapidamente si smorza.
Un poco di tempo per prendere i primi contatti parrocchiali con i vari rami dell’A.C., le Fucine, la S. Vincenzo che volle efficientissima, organizzare la pietà mariana, tentativo di una crociata mariana per la pace, gli Asili, le Scuole e dopo l0 giorni (17 maggio) una grave sorpresa! L’allarme è mattutino, ma ce ne sono stati tanti altri, chi se lo aspettava? Alle 7,40 prima incursione aerea su Borgotaro. Fortunatamente nessuna vittima, ma crollano tante illusioni, non ultima che « …Borgotaro non sarebbe stato bombardato… “. Ed ora sorge un nuovo problema: come difendersi? Iniziano gli sfollamenti. E pensare che tanta gente era venuta a cercare rifugio qui (c’erano in Borgotaro, annota il parroco, circa «3.000 sfollati,,).
21 maggio. Le nubi si addensano. Il presidio fascista sul posto chiede di essere rafforzato, si ha l’impressione che presto scoppi qualcosa di grosso… eppure proprio oggi s’inaugura il nuovo « Farnese “, il cinema ricostruito sul vecchio teatro. I parroci del Vicariato s’incontrano a Borgotaro per trovare insieme una linea di condotta. Presiede Mons. Boiardi che richiama: «il parroco dev’ essere e mantenersi il padre di tutti” « “che situazione estremamente delicata e difficile” – commenta). Ma è chiaro che questo non deve essere affatto un disimpegno. Il 27 maggio arrivano rinforzi (italiani e tedeschi – più di un centinaio) per il presidio locale. 28 maggio: alle 10,30 secondo bombardamento e prima vittima civile.
L’esodo dal Borgo continua. 5 giugno, lunedì, fiera della Penteooste. La prima vera e propria tragedia si abbatte sul Borgo. Dopo un numero imprecisato di allarmi che durano tutta la mattinata, alle 13 circa, ondate di aerei sganciano bombe a più riprese vicino al nuovo ospedale. Mons. Boiardi stava alla «Madonnina» per assistere un’ammalata. Esce e vede un triste spettacolo indescrivibile: « gente che grida e fugge all’ impazzata… gente che piange e si dispera… “. Subito si dirige sul posto colpito. E’ una vera strage! Lassù si rifugiavano a frotte i borgotaresi, perché la posizione era ritenuta sicura! Assieme al curato Don Mario Sacchi e a Padre Giuseppe Giornelli che si trovavano già sul posto, si prodiga nel pietoso ufficio di assistere i feriti. Ma i morti, quanti sono! «…Eccoli alla sera – allineati nella camera ardente… uomini e donne, persone mature, giovani e piccoli bambini: quindici! Poveri corpi maciullati, In cui la barbarie ha fatto orribile scempio! Figli accanto alla mamma, sorella accanto alla sorella, amico vicino all’ amico: la morte li ha orribilmente colpiti ed uniti per sempre! ».
Nel diario riporta tutti i nomi, ad uno ad uno, quasi volesse portarli sempre nel cuore con sé! Molti di loro non li conosceva, eppure sente di amarli, come consanguinei. «Il 5 giugno sarà sempre per me giorno di grande lutto ». Alla sera Borgotaro è letteralmente deserta. Intanto l’attrito fra partigiani e militi si manifesta con episodi sempre più significativi. I partigiani consapevoli delle loro forze, numericamente sempre in crescita, capiscono che la loro azione può ormai diventare più decisiva.
Il radiomessaggio di Alexander trova eco nei partigiani di questa zona. Essi vanno sempre più persuadendosi che i giorni della libertà ormai sono prossimi. Anzi dipende dalla loro decisa azione l’affrettarli. E’ del 10 giugno l’imboscata tesa ai militi vicino a Pontolo. Viene distrutta un’intera corriera. Numerose le vittime. Gli atti di sabotaggio non si contano più, soprattutto lungo la ferrovia. Molte delle autorità lasciano il paese e quelle che rimangono, prendono come luogo di rifugio la casa delle Suore Dorotee (Albergo Roma). I giovani salgono sempre più numerosi sui monti. « Per molti è un problema morale che si presenta alla loro coscienza, e cioè: in un momento come questo, in cui è in gioco la possibilità di ridonare alla Patria la libertà, è lecito a noi giovani restare inattivi? Il nostro dovere non è quello di contribuire alla liberazione? ». E ancora: « C’è nell’aria diffuso un senso d’attesa e di novità, acuito anche da qualche manifestino scritto a macchina, e affisso alle contrade dai partigiani, in barba a tutte le autorità del paese ». Intanto, uno dopo l’altro, i paesi più vicini alla montagna ospitale vengono occupati dai partigiani: Bedonia, Compiano, Tornolo, Bardi…
Il 13 giugno la canonica è praticamente sfollata a Brunelli. Mons. Boiardi vive sempre però nel Borgo. Le incursioni aeree continuano. Annota il 14 giugno, mercoledì, dopo una di esse: « …io penso sempre alla nostra parrocchia dispersa ed alle tribolazioni cui la nostra gente è sottoposta. E non potendo dire ad essa quanto ho nel cuore, preparo una circolare da inviare in tutti i paesi ove i parrocchiani si trovano… ed annunzio che andrò per turno a visitarli nella loro parrocchia di sfollamento… >>. La sera stessa, verso le 20,30, un gruppo di partigiani, sopra un camion, entra in paese dalla parte di San Rocco. Scorrazza per le vie, grida e canta… e poi indisturbato si allontana… dimostrazione, assaggio, preludia? Fatto si è che le autorità ancora presenti nella natte lasciano Borgotaro. Il giorno seguente, giovedì 15 giugno, i partigiani rientrano in paese e fanno una rumorosa dimostrazione, a cui ,si uniscono i cittadini ancora rimasti e lo stessa curato Don Ardino. Dopo aver sfilata per,le vie, si portano al Monumento ai Caduti e presentano le armi. Nel pomeriggio arrivano due macchine di tedeschi, su cui viaggiano degli ufficiali.
Presso l’Albergo Appennino ha luogo uno scontro: 2 soldati tedeschi rimangono uccisi e 4 prigionieri. Muore anche il partigiano Domenico Dallara. I partigiani entrano così in possesso di importanti documenti. La reazione non tarda però a farsi sentire. Nel pomeriggio del giorno seguente, tedeschi e militi della San Marco, dopo nutrite sparatorie, entrano in Borgotaro, scassinano case, svaligiano appartamenti, sciupano, rovinano, gozzovigliano, ma abbandonano subita il paese. Mons. Boiardi si cruccia, se ne fa quasi una colpa… farse avrebbe potuto salvare il paese… quella tedesca è stata una spedizione punitiva ed un avvertimento per il futuro a non accogliere i partigiani. I danni sona gravissimi. Il problema dell’approvvigionamento dei viveri si presenta subito urgentissima. Le riserve che si trovavano nei depositi dell’annonaria, sono state più che rubate, sciupate. Ecco allora che in una riunione fatta in canonica presente una quindicina di persone si decide una spedizione a Parma per chiedere provviste alle autorità provinciali.
I partigiani incominciano ora ad agire allo scoperto e scendono frequentemente in paese. Due giorni dopo giunge da Parma la missione inviata con l’unico risultato dell’esonero del Podestà Zilioli, per quanta al resto… << ci saran tagliati tutti i viveri perchè paese di ribelli >>. Al problema dei viveri si aggiunge pure quello degli operai delle fabbriche. Molti sono stati licenziati. II 24 giugno quando si riunisce di nuovo in Municipio un gruppo di persone per ascoltare la relazione del Podestà dimissionario, vi è pure una rappresentanza di partigiani. Ormai Borgotaro è, anche formalmente, occupata da loro. Sono i partigiani a prendere in mano la direzione dei servizi. Nasce così la «Libera Repubblica partigiana dell’Alta Val Taro ».
Gli alleati ne intuiscono la grande importanza strategico – militare e si affrettano a paracadutare nell’Alta Val Taro la missione “Rochester”, comandata dal maggiore “Piero”. L’entusiasmo va salendo. Mentre le varie formazioni preparano difese ai valichi, i comandi partigiani predispongono le norme per le nomine dei rappresentanti popolari nelle Amministrazioni Comunali del territorio liberato.
Si organizza l’Amministrazione della Giustizia, sia in materia civile che penale. Si pubblicano bandi per reprimere il contrabbando di generi alimentari e si regola la distribuzione di viveri alla popolazione. Il 30 giugno 1944 alla Manubiola i partigiani impegnano una colonna tedesca della « Feldgendarmen “, in aspro combattimento. I tedeschi attanagliati in una morsa di fuoco si arrendono verso sera con ingenti perdite. Ma muoiono pure il dotto Adolfo Marchini, il dott. Bruno Antolini e altri ostaggi. All’inizio del luglio del 44 esce a Borgotaro il primo numero della « Nuova Italia» segno del nuovo stato di cose, della nuova condizione di vita che si aveva intenzione di instaurare anche se, chissà mai perchè, gli alleati continuano con le loro incursioni al ponte della ferrovia. Il 2 luglio infatti, mentre il parroco è andato a far visita agli sfollati di San Martino, tre ondate di apparecchi lanciano il loro carico di distruzione sul “ponte di ferro”.
Lo scoppio è così violento ed impressionante che atterrisce e costerna tutti. Il 3 luglio si insediava una Giunta Comunale provvisoria, presieduta da un Commissario civile, il Prof. Achille Pellizzari “Poe”, che tiene in Comune la prima riunione. Era stato invitato anche il Parroco, ma l’invito gli è pervenuto troppo tardi per potervi partecipare.
Il 4 luglio, in occasione dei funerali del dott. Marchini e dello studente Cesare Bassani, Mons. Boiardi annota: << Da oltre un mese e mezzo non faccio che funerali di povere vittime: pare sia venuto a Borgotaro solo per accompagnare al Cimitero povere vittime dell’ odio fraterno e del furore bellico>>. Il giorno successivo partecipa ad una seduta della Giunta Comunale. La rabbiosa reazione dei tedeschi alla “Repubblica della Val Taro” non tarda a farsi sentire.
Sabato, 8 luglio una numerosa colonna di tedeschi sale da Guinadi verso il Bratello e scende attraverso Valdena, San Vincenzo, per dirigersi a Borgotaro. I partigiani l’affrontano, l’impegnano in un duro combattimento e l’annientano. Una certa euforia serpeggia, tanto è vero che alcuni sfollati rientrano in paese e il Parroco può iniziare la novena alla Madonna del Carmine. Ma il Parroco non condivide in pieno l’euforia dei borgotaresi. Presagisce che i tempi più duri devono ancora arrivare e proprio per questo, domenica 9 luglio, alla sera, festa della Madonna di San Marco, si reca a Bedonia in pellegrinaggio. E’ una desolazione! Il Santuario è vuoto! Il seminario funziona da ospedaletto per feriti partigiani e tedeschi. Qui le notizie sono poco buone.
I tedeschi, risalito il Bocco, si dirigono verso Santa Maria, la occupano ed il giorno l0, a Pelosa, vengono nuovamente affrontati dai partigiani che ingaggiano con loro una furibonda e sanguinosa battaglia. Fino al 12 luglio Mons. Boiardi si ferma presso il seminario per predicare gli esercizi ai Seminaristi. In questo stesso giorno ritorna al Borgo ove non è successo nulla di nuovo, ma le nubi si stanno addensando ed il temporale ormai un po’ tutti lo sentono vicino, lasciamolo descrivere da lui stesso che ha vissuto e sofferto queste vicende.
don Antonio Beccarelli
