Per una Medaglia D’oro “Richetto”Federico Salvestri Camillo Delmaestro

«… Semplice carabiniere, Salvestri ha dimostrato di saper comandare un’intera  Divisione e condurla con successo nella guerra di Liberazione… …»

                                        (Dal discorso tenuto dal Gen. Carlo Alberto

                        Dalla Chiesa, alla commemorazione della fondazione dell’Arma dei CC, a

                                                             Milano il 5/6/1980).

Dalla verde Liguria… all’Africa Orientale Chi pensa alla Liguria vi associa il mare e a ragione. Ma chi la conosce meglio ha un quadro diverso per le zone di montagna, popolate in modo originale con una miriade di case in parte raggruppate in paesi in mezzo al verde degli ulivi e dei castagni, alle quote più alte, e del mare si aspira l’aria ricca di iodio ma anche di ossigeno a conforto della penuria di tante cose, fra cui la vista di un orizzonte che fa pensare all’infinito.Così avviene per il m. Gottero con gli oltre 1.650 di altitudine della sua cima, raggiungibile, caso strano oggi’con i poderosi mezzi fuori strada, solo a piedi e domina da milioni di anni, quando la crosta terrestre si è sollevata dalle profondità del Tirreno, un paesaggio che nel corso dell’evoluzione del pianeta ha conosciuto tutte le tappe di una mutazione climatica e geofisica, le cui tracce gli studiosi si divertono a ricercare… ma questa storia è molto più recente ed ha inizio qualche decennio dopo l’indipendenza e l’unificazione della Penisola sotto il profilo politico, quando l’idea di una pa­tria così grande all’improvviso, compresa fra le Alpi e il mare non era ancora diventata patrimonio di massa e se qualcuno, ad es. da Avellino, era stato mandato a combattere nell’estremo Nord, difficilmente aveva tanta convinzione da ritenere la sua vita meno preziosa del dovere di poterla spendere nel nome di un’entità nazionale in cui non aveva eccessiva fiducia.Da qui il fenomeno della diserzione, durante la 1 a guerra mondiale, da parte di alcuni che avevano visto la morte tutt’attorno nelle trincee, durante gli assalti alla baionetta per conquistare la cima insignificante di un monte, intrisa dal sangue dei compagni d’arme o dei nemici, nell’ostinazione con cui tanti giovani venivano sacrificati come necessità del fato e ubbidendo all’istinto di conservazione tentavano di ribellarsi alla prima occasione.La popolazione montanara dell’ambiente scelto come possibile rifugio non soltanto era comprensiva, per intuito, del suo dramma, ma dovendo scegliere fra lui, braccato e solo, e chi gli dava la caccia, parteggiava per il primo. Così un certo Matrisciani era diventato popolare fra gli abitanti delle falde nel monte ricoperte di una foresta verdeggiante nei due versanti del Taro e del Vara e non li sfiorava la considerazione che poteva costituire reato fornire al fuggiasco occasionalmente un po’ di assistenza, secondo la coscienza cristiana di amore verso il prossimo e, forse anche qualche informazione utile per evitargli la cattura. Non era certo una vita facile quella del disertore perché non sapeva esattamente su chi poteva contare per chiedere l’elemosina di un pezzo di pane.Soltanto alla Casa Bianca di Teviggio, in qualunque momento del giorno o della notte sapeva di poter giocare sulla possibilità del ristoro di un buon bicchiere di vino attinto dal fiasco, sempre a disposizione di qualunque viandante, sul tavolo: di pietra in mezzo all’aia dell’azienda agricola. E costituiva per lui un punto fermo quando, durante i diuturni e ininterrotti spostamenti, specialmente sul  far della sera, prima che i contadini facessero ritorno ai casolari e i cani cominciavano ad abbaiare esagitati rincorrendosi coi latrati, secondo il loro linguaggio. Aveva acquistato la destrezza dello scoiattolo nel passare da un bosco all’altro e, quando poteva riusciva anche a raggranellare un gruzzolo aiutando i boscaioli e i carbonai, mestieri che alla fine della guerra e con i benefici dell’amnistia accordata per commemorare la vittoria, continuò formandosi fra l’altro una famiglia.Alla Casa Bianca abitava Salvatore Salvestri con la famiglia, cinque figli maschi e una femmina, numerosa secondo la tradizione contadina perché l’entità della forza fisica del nucleo era garanzia di capacità produttiva, dal momento che ancora era lontana l’epoca della macchina per le culture agricole. La tenuta aveva dimensioni tali da assicurare lavoro per tutti e gli permetteva di conteggiare a fine anno un raccolto notevole: novanta quintali di uva, trenta di grano, venti di castagne secche, granoturco e, nelle stalle, insieme a capre e pecore, una ventina di capi di bovini; oltre naturalmente a pollame in abbondanza, conigli e frutta.Nella zona era tenuto in grande considerazione e tutti si rivolgevano a lui per un consiglio quando dovevano prendere delle decisioni importanti o si trovavano in difficoltà e bastava la sua presenza per instaurare un clima di onestà e di buona fede: un contratto patteggiato e concluso con una stretta di mano aveva valore di un atto notarile.Alla sua fama di persona con valori e stima fuori del normale, avevano contribuito i viaggi intrapresi all’estero: era stato fino a S. Francisco, in California e aveva fatto parecchi mestieri, non esclusa un’iniziativa commerciale con l’esportazio­ne dei funghi, i pregiati porcini sott’olio o essicca­ti, raccolti dai contadini nei boschi dell’Appennino ligure-emiliano. E non si può dire che avesse lavorato invano perché dopo otto anni di emigrazione, al ritorno acquistava per mille lire il podere «La Vignetta», sufficiente per la famiglia non ancora numerosa e, anzi, depositava in una banca locale la somma ragguardevole di sessantacinque mila lire (all’incirca mezzo miliardo di lire 1985) che nel giro dr.un paio d’anni si riduceva a zero per il fallimento dell’istituto bancario, per cui ritornava (1916) in America senza assistere alla nascita del figlio Federico. Al ritorno, dopo un paio d’anni, papà Salvatore non era riuscito a ricuperare granché e non aveva più le possibilità di prima; perciò decise di dedicarsi all’attività agricola, con un buon reddito per quei tempi: riuscivano a sopravvivere, a procurarsi quel tanto che bastava per tutti. Il vestiario si acquistava con la vendita dell’ec­cedente il fabbisogno e inoltre si portavano al mercato di Varese L. del martedi i prodotti del sottobosco, polli, uova, frutta. 

Un  giorno  a Teviggio  si  verifica un fatto increscioso di  natura politica ( 1929 ). Un tale Ginocchio antifascista  di  Valletto, un altro paese della  Val  di Vara, era stato preso da un gruppo, una squadraccia, sotto l’accusa di cospirazione contro il regime; i metodi di quegli scalmanati, per di più sotto l’ef­etto dell’alcol, erano piuttosto sbrigativi: manganellate, pugni, calci in un crescendo che culminava nel calarlo appeso a una fune da un ponticello fra il dileggio e gli insulti. Alla fine il corpo rimase penzoloni, senza vita. Il maresciallo Serra dei CC, iniziava una retata, dopo indagini peraltro molto semplici e li traeva tutti in arresto.

Nel corso dell’operazione sulle tracce dei colpevoli dell’orrendo delitto il maresciallo vedeva il giovane Federico, ancora in tenera età, ma aitante e sveglio: – Perché non lo fate arruolare nell’arma… ­diceva rivolto al buon Salvatore. Fu cosi che casualmente si compi il suo destino, perché qualche anno più tardi, raggiunta l’età prescritta, Federico presentò domanda per andare volontario nei carabinieri e, dopo aver per tanti mesi rimuginato e sognato nell’attesa (1935), raggiunta Sestri L. con la corriera, prendeva il treno per Genova e si presentava al col. Guala comandante della legione, per essere successivamente inviato al battaglione allievi CC di Torino, comandato dal Gen. Dalla Chiesa, genitore di Carlo Alberto, assassinato a Palermo in un’imboscata nel 1982.

La sua tempra di contadino gli consentiva di non risentire dei disagi della dura disciplina della scuola allievi, consistente in una preparazione teorica, sui libri, alternata alle esercitazioni fisiche. Al primo ingresso in caserma il contatto si risolveva con la rasatura completa dei capelli; poi la consegna delle divise. Ogni mattina alle cinque suonava inesorabile la sveglia: bisognava vestirsi in fretta, consumare rapidamente la prima colazione e poi buttarsi sui libri per prendere possesso dei regolamenti di polizia e di cultura generale. Dopo il rancio abbondante del mezzogiorno, riposo in camerata, preludio della marcia quotidiana di diverse ore ed esercitazioni fisiche di preatletica e lotta, finalizzata alla difesa in caso di aggressione e all’offesa per una pratica professionale e poi, ancora, percorso di guerra. Il maresc. Gnieto, istruttore, s’intratteneva volentieri col giovane montanaro, perché disponibile a provare sempre qualcosa di nuovo e di più degli altri: cosa che in seguito gli sarà molto utile. Anche se non aveva potuto frequentare per intero l’anno iniziato presso l’Istituto Gianelli di Chiavari, aveva raggiunto una buona capacità di espressione e se la cavava bene nelle esercitazioni di lingua e matematica, ma soprattutto acquisiva lo spirito di osservazione e in ogni situazione sapeva cogliere al volo le caratteristiche positive e negative. Con i colleghi di camerata era disponibile, stava allo scherzo ed era affabile con tutti.Al culmine della preparazione, la grande soddisfazione della parata militare a Roma, dove la sua formazione raggiungeva l’ambito premio della prima posizione, coronamento della preparazione, della pazienza e della tenacia dell’istruttore.

Dopo sei mesi di vita dura, l’esame e la destinazione a Sampierdarena, a Savona e infine a Genova alla legione, con destinazione Africa Orientale.La guerra coloniale per la conquista dell’Impero, di cui allora menava gran vanto l’Italia, era iniziata nell’ottobre dell’anno precedente ed era stata caratterizzata da alcune azioni concentrate in vere e proprie battaglie di massa, dopo una serie di scontri di minore entità, di cui peraltro davano notizia ogni giorno i bollettini di guerra trasmessi dalla radio e ripresi dalla stampa, ovviamente controllata e censurata. L’Etiopia era stata presa den­tro la morsa delle nostre armate che avanzavano dall’Eritrea e dalla Somalia. Le prime avevano ri­portato notevoli successi nel Tembien e poi all’Amba Aradam, dando la misura della soverchiante superiorità degli invasori, che poi infrangevano definitivamente ogni tentativo di resistenza al Lago Ascianghi: loquace la copertina disegnata per l’occasione da Molino sulla Domenica del Corriere. Finalmente le nostre truppe la sera del 4 maggio entravano ad Addis Abeba e virtualmente la cam­pagna militare aveva termine.

A Napoli, cambiato corredo nel tipo coloniale, s’imbarcano sul Piemonte. Nella banchina del porto la fanfara militare si esibiva come tante altre volte, secondo l’ormai consumata abitudine in un repertorio di musiche patriottiche, marce militari e «Faccetta nera, bella abissina» incitando automaticamente tutti i presenti a unire le voci in un unico coro di commiato, come già in tante altre recenti occasioni, con la scolaresca di turno che agitava le bandierine tricolori, ma per loro era la prima volta e l’emozione di affrontare la prima campagna di guerra, seppure volgeva al termine, era notevole. Tanto più che i giornali avevano abbondato nell’esaltazione delle strepitose vittorie di un esercito modernamente equipaggiato e fornito di mezzi a dir poco poderosi, nei confronti di un nemico in possesso di pochi fucili e per la maggior parte dotato soltanto di lance e scudi, non certo idonei per ripararli dalle pallottole dei carri armati o dalle bombe dei cannoni, dei mortai e degli aerei. Ma in fondo poteva rappresentare l’opportunità di un nastrino sulla divisa…

Dopo cinque giorni di viaggio, attraversato fra l’indifferenza ostentata della guarnigione inglese il canale di Suez, previo relativo pedaggio pagato con l’oro delle fedi delle spose d’Italia (cosi si diceva), raccolte in tutto il paese con gesto «spontaneo» e sostituite col cerchietto di vile acciaio per rispondere alle ristrettezze imposte dalle sanzioni economiche decretate dalla Società delle Nazioni nel tentativo di dissuadere l’impresa, l’arrivo a Massaua sotto un caldo infernale, insopportabile, «raffredda» gli entusiasmi e mostra i primi inconvenienti: svenimenti da insolazione e dissenteria.

– Cosa daresti per una bottiglia fresca di acqua minerale o un’aranciata S. Pellegrino…

– E per un’ora di fresco all’ombra al Gianicolo. ..

– O per un gelato insieme a una ragazza al Valentino. . .

… È il mugugno sommesso, serpeggiante col quale arrivano a Decamerè, decantato posto di ristoro per chi si avvia sulla strada costruita dal nostro genio militare con la manodopera spesso locale, verso l’interno. Già perché il nostro esercito, quello delle camicie nere, organizzato per manipoli, centurie e legioni secondo la guisa riscoperta nella lettura del «de bello gallico» di duemila anni prima, seguiva le orme della politica della «civi­tas» romana, anche per facilitare la marcia degli autocarri dei rifornimenti… invece di chiedere all’industria la produzione di automezzi idonei a percorrere tutte le piste, come faranno gli americani appena un lustro più tardi. E qui altra delusione, perché il ristoro offerto è assai più teorico che reale. Si prosegue comunque alla volta di Dessiè, impegnati per diverse settimane in operazioni di rastrellamento alla caccia dei ribelli agli ordini dei capi tribù non ancora, e alcuni mai, sottomessi ai conquistatori.

Infine Addis Abeba, la capitale, nel momento dell’attentato al gen. Graziani: la reazione è costata un prezzo altissimo di vittime fra la popolazione indigena; venivano raccolti, ammassati e trucidati a centinaia… una realtà che offendeva profondamente la morale anche se presentata stupidamente come dura esigenza di guerra.

I carabinieri sostituiscono i granatieri nel servizio di scorta a protezione del viceré, Duca d’ Aosta, alloggiato nel palazzo del Negus, il re dei re, da cui si dipartivano le strade ribattezzate dai vincitori: Via Impero, Piazza 5 maggio, Via Vittorio Emanuele III.

Ancora una trasferta a Villa Paradiso e ulteriore impegno in servizi antiguerriglia per cercare di contenere e scoraggiare le azioni di sabotaggio, spesso dirette e organizzate dall’ «Intelligence» fa­cendo leva su notabili restii alla sottomissione.

Durante la perlustrazione su una vasta zona del territorio il carabiniere Salvestri non aveva potuto resistere alla tentazione, insieme a un paio di colleghi, alla vista dell’acqua quasi limpida di un torrentello, tanto più che la temperatura oscillava sui 50° C, e decidevano di approfittare dell’insperato sollievo per !’improvvisa possibilità di rinfrescarsi: ma entrati nell’acqua, tutti vestiti com’era­no, fino alla cintola, ecco la tragedia. Un grosso coccodrillo di cui non avevano accertata nè sospettata l’esistenza, ingoia letteralmente uno dei due commilitoni, scomparso fra le fauci del bestione in un lago di sangue. Il giovane Salvestri s’arrampica su una delle piante sorgenti dal pantano e, spiccando un salto si pone fortunosamente in salvo.

Nel settembre del ’38 rientro in patria e arrivo a Roma: sembra un sogno vedere tanta gente allo stadio olimpico non ancora completamente portato a termine, per assistere alla partita Lazio­ – Genova e poi la meritata licenza di tre mesi.

Finalmente a casa, dove tutto sembra diverso: le persone, il paese, gli amici. Soltanto la famiglia è sempre la stessa e per ore racconta la sua straordinaria trasferta oltre mare, in una terra tanto diversa dalla verde Liguria, abitata da gente di colore, povera e non troppo felice, che tuttavia formava pomposamente l’Impero, voluto dall’Italia fascista.

– Un affare non troppo indovinato, perché in quella zona mancano strade e acqua, il terreno non è molto fertile e la gente non ha neppure il necessario da vivere per sè…

– E allora che ci siete andati a fare… -Mah!

I familiari stavano ad ascoltare senza perdere una parola e ogni tanto, fra un bicchiere e l’altro, facevano domande per soddisfare la curiosità: Fe­derico, al centro dell’attenzione, aveva accumulato più esperienza in quei due anni di servizi militare, che non tutti i precedenti trascorsi a casa. Papà Salvatore, con la famiglia ridotta perché due maschi erano ormai da tempo sotto le armi, tra l’altro il figlio Vittorio era stato mandato a far la campagna di Russia e Isolina si era sposata ed aveva seguito il marito altrove, aveva trovato una nuova sistemazione meno impegnativa in un pae­sino, come tanti altri, dislocato fuori mano e impossibile da individuare se non ci si arrivava appo­sitamente: Caranza.

Il villaggio, fatto di poche case in pietra, all’a­spetto rese più robuste dalla presenza nei muri esterni di cantonali lavorati, sorge attorno a una chiesetta con due facciate esterne: una del XVII secolo, adorna di arenarie egregiamente scolpite, ricavate da una cava nel monte vicino, non più agibile, e un’ altra moderna rivolta a Ovest e disadorna, palesemente incompleta. Al centro dei due corpi perpendicolari del modesto edificio si alza una cupoletta ambiziosa, costruita a immagine di quella del vicino santuario del Velva. Il campanile veramente imponente, è staccato dall’edificio di culto e presupponeva una tecnica particolare per l’edificazione, avvenuta all’inizio dell’800. Poi c’è una piazza oblunga, con un lato sul dirupo e un magnifico noce a confine adiacente all’abitazione della famiglia Salvestri dotata di una strana architettura, più somigliante a un vecchio maniero che a una casa colonica, da cui si stendeva il terreno coltivabile, un tempo proprietà di un nucleo di contadini conosciuti come «l lunghi», a causa della notevole statura.

All’inizio e alla fine del paesino si trovano due osterie che si contendono l’interesse degli abitanti, specialmente nei giorni festivi fra una messa e l’altra, per la solita partita a scopone intesa a individuare chi doveva offrire il fiasco da cui attingevano tutti i presenti.

Dalla Francia… alla Grecia
Agazzano, in provincia di Piacenza, è un pun­to di riferimento, perché la sede di servizio asse­gnatagli come carabiniere, dista dal capoluogo del­la provincia 24 Km ed ha meno di 3.000 abitanti. Su una grande piazza con al centro un’aiuola fiori­ta e relativo monumento, capolinea di varie stradi­ne, si affaccia il palazzo del municipio con bella architettura, sviluppato su tre piani, l’albergo, bar e negozi. Ma la parte più notevole della cittadina è la rocca dotata di torri a pianta quadrata e circo­lare con una serie di archi pregevoli che formano un’elegante loggiato cui si accede attraverso una scala a due rampe divergenti. Il centro storico risale all’epoca romana ed è citato nelle tavole traiane di Velleja, data l’impor­tanza agricola del territorio fino da quell’epoca. Il castello appartiene tuttora a famiglia nobile, An­guissola Scotti, che ne ha cura. Alla fine del ‘700 all’antica fortezza è stato affiancato un grandioso palazzo residenziale e i due complessi edifici si in­quadrano perfettamente nella spaziosa cornice del grande parco con annesso giardino ricco di fiori affacciato sull’ottimo panorama che abbraccia il corso del torrente Luretta. All’inizio di una via laterale alla strada princi­pale del paese, si trova la caserma, sede di lavoro e residenza del carabiniere Salvestri. Poco discosto si erige la chiesa parrocchiale, dotata di numerose e pregevoli opere d’arte, co­struita in epoca recente (secolo scorso), mentre la prima, originale, è molto più antica: 1517. Per qualche mese è inviato con un reparto del­l’arma in provincia di Bolzano dove c’erano stati disordini provocati da movimenti alto-atesini inte­si a manifestare la volontà di essere annessi alla presunta patria germanica, come già era successo per la vicina Austria (1939). Il servizio di presidio a scopo preventivo lo ha fatto relegare in un paesi­no, Cortaccia, dove un giorno incontra la biondis­sima Ilde di chiara origine tedesca, figlia del me­dico locale e fra i due, che si incontrano casual­mente durante una sosta della pattuglia, nella sug­gestione del panorama alpino, accade qualcosa di inconscio, il classico colpo di fulmine che pone fi­ne ai corteggiamenti discreti del resto del reparto.   – Questa sera potremmo incontrarci all’ango­lo della strada, fuori dagli sguardi indiscreti, se vuoi. Entrambi arrivano all’incontro con qualche minuto di anticipo e si avviano per un sentiero che si inoltra nella foresta degli abeti, arrivando a una radura erbosa coi bordi ancora coperti di ne­ve, fra il penetrante profumo della resina e l’aria frizzante della primavera. L’intesa è immediata e si può facilmente intuire quello che l’erbetta tene­ra del praticello non sarà certo andata a racconta­re, ma forse lei stessa non ha nascosto alla madre la cotta presa per un militare italiano, per di più un carabiniere, espressione del potere repressivo. Anzi il medico ne ha parlato con amici della setta germanica, prima di decidere l’appuntamento col comando italiano ed evitare che il legame della ra­gazza assumesse carattere irreversibile. – Non devi assolutamente intervenire. La co­sa potrebbe ritornare utile alla causa… E così l’atteggiamento paterno permette l’irre­parabile: i due giovani continuano a incontrarsi, scoprono sempre nuove sensazioni e rinsaldano i vincoli; al momento di lasciare la zona giurano le solite parole di fedeltà e decidono di tenersi in contatto… e in effetti, quando il carabiniere Sal­vestri poteva godere di una meritata licenza, Ilde lo raggiunge in Liguria, sulla riviera di Levante, ma dopo pochi giorni l’Italia entra in guerra (1940). Richiamato in servizio immediatamente, viene aggregato alla 13a sezione presso la Divisio­ne Cosseria, destinato al servizio di polizia milita­re al seguito delle truppe della IV armata, fino a Nizza.   – Caro mio, bisogna che tu come padre pren­da una decisione: vuoi lasciare che la tua bambina perda il suo tempo col carabiniere italiano? E poi non si sa come può andare a finire: se un bel gior­no ti ritornasse a casa e ti dicesse che aspetta un bambino? – Cosa hai detto? Ilde un bambino? – Si fa per dire. Bisogna impedire che conti­nui questa relazione. – Ma i camerati…          
              

– Al diavolo anche loro: tu devi pensare a lei, al suo interesse. Quello continua a scriverle… Ma per fortuna sono qui io e non le consegno le lette­re. Sta a sentire questa:       .

«… non ti posso dire quanto ho desiderio di vederti, di sentire il calore dei tuoi baci. Le necessi­tà della guerra ci hanno diviso, ma non sarà per sempre. Ti scrivo dalla Francia, dove sono stato mandato col mio reparto in servizio di polizia mili­tare. La Costa Azzurra è molto bella, ma sicura­mente è meno attraente della Riviera ligure, con te vicina. Sono stati giorni indimenticabili, cari al mio ricordo, come spero saranno stati anche per te.. . »

– Direi proprio che la nostra Ilde non si stac­cherà tanto facilmente dal suo carabiniere…

– Ma bisogna fare qualcosa, perché non pen­si più a lui, perché non c’è un’altra soluzione. Senti quest’altra lettera:

«Amore mio carissimo, da tanto tempo non ri­cevo tue notizie. Probabilmente le poste sono in difficoltà per causa della guerra. lo ho bisogno di te, del tuo affetto, del tuo corpo magnifico: se non fossi un semplice carabiniere vorrei sposarti subito e così finirei di stare in pena, senza vederti. Ma saprai che nella mia condizione non è permesso pensare di formarsi una famiglia. Perciò ti chiedo di amarmi con passione, con tutta te stessa, come hai sempre fatto. Ma ti prego: scrivimi, scrivimi, anche poche righe, per farmi sapere che sei viva e che mi ami…»

– Può darsi che tu abbia ragione a fare così. Ma io come padre mi sono sempre comportato con lei con la massima sincerità. Francamente non mi sento di condividere un’azione così meschina, un vero e proprio tradimento nei confronti di mia fi­glia. Perciò ti prego di consegnarle al più presto tutte le lettere che le hai sottratto, perché ne pren­da visione subito, liberamente… Così un bel giorno Ilde finalmente conosce l’e­sistenza della missiva di Salvestri e, pensando con nostalgia ai bei giorni passati con lui, scrive una lunga lettera, che non arriva a destinazione, per­ché il destinatario, sconsolato e depresso, ha deci­so di cercarsi una strana distrazione: si aggrega a un reparto della Divisione Modena, comandata dal gen. Gloria, con destinazione Albania.

A Bari s’imbarcano sul Sicilia e Lombardia per raggiungere il porto di Valona e poi la divisione si sposta successivamente a Tepeleni, Bencia, Progo­nat e Lecdushai. Quando, per i soliti motivi strategici, nel gen­naio del ’41 si rende necessario il ripiegamento (in effetti le nostre truppe erano state mandate allo sbaraglio con equipaggiamento insufficiente, per aver sottovalutato la consistenza e la capacità dei nemici), il maresciallo Schiappini viene inviato in esplorazione al caposaldo n. 18, che doveva essere tenuto dal 10 reggimento granatieri, da cui il co­mando non aveva più avuto notizie e, alla richiesta di due volontari, si offre anche Salvestri. Si tratta­va di un punto delicato, il cui possesso era deter­minante sia per i nostri, nel momento in cui aves­sero deciso di ripiegare, sia per i Greci che avreb­bero avuto tutta l’opportunità dell’iniziativa. Era la cima di un monte, non molto distante dal famo­so Golico, da cui si dipartiva una stretta valletta ed era stata tenuta fino allora saldamente, nono­stante il martellamento dell’artiglieria, con l’ordi­ne perentorio di resistere ad oltranza: nessun gra­natiere è ritornato indietro.

Attorno ai ruderi di una modesta costruzione, forse servita ai pastori nella stagione del pascolo, prima di essere inquadrata nel sistema goniometri­co di puntamento degli obici, due querce proten­devano i rami spogli al cielo, in un silenzio gelido che non prometteva nulla di buono. Splendeva la luna piena e sulla neve procedevano con difficoltà, imbacuccati nei pastrani grigio-verde. A un certo punto il maresciallo:

– Ragazzi: a mio avviso lassù non c’è più nes­suno dei nostri.

– Vado io a vedere: aspettatemi qui.

E Salvestri s’incammina da solo, senza far ru­more. Ma si accorge presto che qualcosa si muove sul costone: sono figure umane mimetizzate di bianco e perciò confuse con la neve, ma nitida­mente intagliate sullo sfondo bruno del cielo, ed ha la sensazione che stiano per accerchiare la pat­tuglia. Allora si ributta indietro di corsa lungo il pendio, verso i due amici che, pietrificati dall’im­previsto, non osano muoversi: Salvestri li spinge fisicamente a ruzzoloni e, correndo come un for­sennato, raggiunge il comando e dà l’allarme: evi­dentemente nessuno si aspettava che il nemico fosse già in possesso del caposaldo e il gen. impar­tisce immediatamente l’ordine di ripiegare. Intan­to si ingaggia la battaglia: Salvestri è colpito da una scheggia di bomba di mortaio alla gamba de­stra e dopo due giorni si ritrova all’ospedale mili­tare da campo n. 474, dove è ricoverato anche il gen. Gloria, che aveva rifiutato il rientro imme­diato in patria, ferito alla mano sinistra.

– Anche tu sei qui… mi ricordo perfettamen­te. .. anzi ti dico che ti propongo per la medaglia d’argento… lasciami le tue generalità… Decorazione ben meritata per un atto di co­raggio che ha permesso di porre in salvo il grosso di una divisione: ma non se ne farà poi niente… tanto si tratta di un semplice carabiniere, che si guarderà bene dal ricordarglielo. Passa quindi all’ospedale n. 515 di Valona, pre­so sotto tiro dall’artiglieria, e s’imbarca sul Pie­monte, raggiunge la Penisola e poi l’ospedale mili­tare di Lucca per una degenza di oltre due mesi, essendo sopraggiunte complicazioni bronchiali.

Ottenuti novanta giorni di convalescenza fa ri­torno a Caranza, nella cara verde Liguria. La de­genza in ospedale non era certo stata piacevole, ma consolata almeno dalla lettera scritta da Ilde di­versi mesi prima. Il ritorno a casa è contrassegnato dalla speciale cura con cui mamma Giovanna si prodiga nella cucina coi prodotti sani e genuini della loro terra. Corre all’ufficio postale di Varese L. e spedisce un telegramma indirizzato a Ilde Brummel:

«Sono appena ritornato dalla Grecia, ferito e guarito. Ti attendo alla stazione di Sestri L. Man­da conferma orario e giorno. Baci. Federico Sal­vestri. »

Il giorno dopo Giuseppe, il solerte postino po­dista che compie ogni giorno un giro di 15 Km, si reca alla casa dei «lunghi» e chiama secondo il so­lito ad alta voce: «Salvestri!» e come sempre la madre si affaccia sul terrazzino con la candida grembiulina, linda di bucato.

– Telegramma per Federico!

– Oh! Cosa sarà mai successo!

– Non preoccuparti, mamma. Lo aspettavo. E poco dopo:

– Questo pomeriggio devo andare a Sestri: arriva la mia amica dall’Alto Adige.

– Puoi farcela conoscere. Anzi invitala a casa nostra. Abbiamo la stanza vuota tutta per lei.

– Le dirò dell’invito, se vorrà venire… co­munque per qualche giorno non aspettatemi; devo anche recarmi a Genova, al comando…

– Eh! D’accordo.

Proveniente da Genova il direttissimo per Ro­ma arriva puntualmente alla stazione di Sestri L. alle 18 e 45, come previsto, e Salvestri aguzza lo sguardo, scorrendo i vari sportelli aperti nel con­voglio, dai cui finestrini si affacciano molti visi abbronzati di soldati in transito, mentre sulla ban­china la ronda militare vigila, come se fosse in cer­ca di qualcuno: in realtà controlla qualche militare in divisa, cui chiede di mostrare documenti di ri­conoscimento e foglio di licenza. Ilde è là, ferma, appena scesa dal treno e automaticamente si tro­vano avvinti in un abbraccio stretto e ogni parte del corpo di lei si adagia sul suo come il tassello di un mosaico. Quando finalmente si guardano negli occhi si accorgono entrambi, l’uno dell’altro, che sono lucidi e si scrutano come per ritrovare nella realtà un’immagine che avevano cullato nel sogno.

Ilde ha accolto con piacere l’invito a recarsi in Caranza, dove arrivano un tardo pomeriggio col taxi e mamma Giovanna si complimenta col figlio per la scelta. Il soggiorno è quanto mai piacevole e la ragazza non vorrebbe vederlo partire, ma, do­po un ulteriore periodo di convalescenza ottenuto da una visita di controllo all’ospedale militare del­la Chiappella a Genova, di fronte alla storica lan­terna e a un richiamo telegrafico perentorio del dottore atesino alla figliola, fa ritorno solo e triste ad Agazzano.

A pochi Km, nel castello di Rezzanello, si sta­va allestendo il campo dei prigionieri di guerra. Si tratta di una costruzione imponente restaurata di recente con evidenti interventi che forse ne hanno compromesso l’intero aspetto, come le cornici del sottotetto, difficilmente immaginabili nello stile originario, risalente a epoca precedente l’anno mil­le. Un parco meraviglioso si stende tutto attorno e dà l’impressione della grandezza e potenza dei feudatari, proprietari terrieri in un’economia agri­cola, evidentemente ricca, del passato. A pianta trapezoidale, negli angoli si elevano le quattro tor­ri circolari. I saloni dei due piani abitabili sono stati trasformati in camerate spaziose con decine di brandine, più che idonee a ospitare i prigionieri di guerra, per lo più inglesi, e i loro custodi. Per ironia della sorte alcuni secoli prima, e precisa­mente fra il ‘600 e la fine del ‘700, la costruzione, proprietà dei padri gesuiti, aveva ospitato un colle­gio inglese di Roma e i giovani aspiranti preti di quella nazione si preparavano con lo studio alla lo­ro professione.

Il carabiniere Salvestri non è fatalista e reagi­sce: il pensiero di passare troppo tempo fra le pra­tiche normali di caserma lo turba. Non lo preoc­cupa minimamente il fatto di aver rischiato la vita, aver sofferto per le ferite, senza aver neppure otte­nuto la promozione a «scelto» (meno di caporale). Nei suoi pensieri c’è Ilde e trova inaccettabile sta­re lontano da lei. Perciò decide la ricerca di un di­versivo, di qualcosa che occupi i suoi pensieri: chiede di essere arruolato nel battaglione paraca­dutisti in formazione e parte per il campo di adde­stramento di Tarquinia.

L’avventura nel Sahara
La scelta fatta comporta un tipo di vita intensa e durissima: si scende lungo un trampolino, si effettuano marce faticose in pieno assetto di guerra, si fanno esercitazioni di tiro, lotta libera, si apprendono nuove tecniche di corpo a corpo, da commando. Si prepara così un reparto specializzato destinato a un intervento di eccezione. Poi cominciano i lanci: diversi giovani non reggono al ritmo e sono rinviati al corpo di provenienza. Il carabiniere Salvestri diventa un perfetto parà in virtù di un fisico resistente e provato a tutte le fatiche e non ha esitazioni a effettuare le prove più rischiose, buttandosi con estrema disinvoltura da alta, media e bassa quota, nonostante la vista di ombrelloni che non funzionavano a dovere e di qualche soldato coraggioso come lui che finiva prematuramente sfracellato al suolo. Si direbbe quasi che andasse cercando di farla finita con la vita. Tuttavia la fortuna lo assiste. Alla fine di ogni giornata c’è libera uscita e gli allievi paracadutisti si aggirano in gruppetti per le vie del centro storico, dove si respira l’aria etrusca nella visione dei ruderi di una civiltà millenaria e nel bar più importante sembra di ritrovarsi in caserma fra tanti commilitoni seduti ai tavoli laterali di uno dei due saloni, quello meno assiepato probabilmente perché non c’è il banco di mescita e stanno passando qualche minuto di meditazione davanti a una lettera già letta e riletta e, sentendosi completamente isolati anche nella confusione, riescono a scrivere una missiva alla ragazza lontana…Alla fine del corso, affrettato per l’esigenza di impiego imminente, il 10 battaglione si sposta a Roma: Salvestri appartiene alla 3 a compagnia.Le truppe tedesche del Nord-Africa, dopo la presa di Tobruch (1941), erano numericamente superiori a quelle alleate: circa cento mila uomini col morale alle stelle, agli ordini del gen. Romel, la volpe del deserto, con cento carri armati, padroni del campo, in procinto di investire la fortezza di Marsha Matruh, in Egitto, difesa da ben quattro divisioni per impedire alle forze dell’Asse di arrivare al Cairo. Ma occorre far presto per evitare l’arrivo dei rinforzi e per questo viene sollecitato l’intervento delle nostre truppe scelte, i paracadutisti, per dare, insieme con l’aiuto all’alleato germanico, una dimostrazione di forza e di efficienza della nostra macchina bellica, dopo la figuraccia sui monti della Grecia, in cui peraltro i nostri soldati hanno dimostrato, al di là della disorganizzazione, una fibra e un coraggio fuori del comune. Mai decisione è stata più deleteria: l’impiego di queste truppe meravigliose per un’azione non preventivata nei minimi particolari. Infatti venne deciso un lancio notturno senza la certezza nella localizzazione di un obiettivo tale da consentire sicurezza per gli uomini, i migliori del nostro esercito addestrati per azioni di sabotaggio, laddove era invece necessario l’impiego di cannoni e bombe di aereo.Una sera furono consegnati in caserma tutti i 1050 giovani parà, trasportati poi con autocarri e in pieno assetto di guerra e riforniti di tutto l’equipaggiamento leggero, necessario per entrare immediatamente in azione, con destinazione ignota. Al campo di aviazione parecchi bimotori attrezzati per il bombardamento e il trasporto, secondo la necessità, li accoglievano con gli sportelli aperti, i motori accesi, pronti a prendere quota, con una squadriglia di caccia per scorta, ma nessuno conosceva la località dove li avrebbero lanciati. Doveva trattarsi più o meno della zona si Marsha Matruh e per tenersi su di morale parlavano dei neozelandesi, particolarmente addestrati all’arma bianca, e Federico Salvestri si sentiva ed era considerato un veterano per l’esperienza africana di qualche anno prima: tutta la squadra guardava a lui, gli chiedevano le notizie e le informazioni più disparate, entusiasti in fondo, nell’incoscienza giovanile, di affrontare l’avventura.Dopo alcune ore di volo si cominciarono a scorgere, riflessi nello specchio nero del mare i bagliori di uno scontro e la luna piena favoriva la visibilità, peraltro non eccessiva e distorta: al segnale acustico del caposquadra si aprono gli sportelli e uno ad uno si librano nel vuoto. In breve centinaia di ombrelloni bianchi ondeggiano sullo sfondo ocra del deserto e sembrano più numerosi di quanti erano in realtà. L’elemento sorpresa avrebbe funzionato se il vento non li avesse dirottati sulle linee nemiche: la reazione infieriva su quelli che ancora 

non avevano preso terra, una specie di tiro al piccione micidiale. Ancora una volta la mala sorte si accaniva sui nostri valorosi giovani pieni di ardimento: toccato il suolo, le cose si mettevano un po’ meglio, ma dappertutto si sparava e si udivano imprecazioni in inglese. Soltanto i lamenti dei feriti avevano accento italiano.

Il carabiniere Salvestri, ancora una volta illeso, balza subito in piedi e la squadra gli si raggruppa attorno smarrita, in attesa di ordini, come se fosse stato il comandante.

– Andiamo di corsa fuori da questo inferno! E si avviano a caso scegliendo la direzione da cui non si udivano provenire rumori di battaglia, verso l’interno. La stessa tecnica usata pressa poco allo stesso momento dal corrispondente di guerra al seguito dei nemici Alan Moorehead; soltanto che quest’ultimo disponeva di un veloce quanto agile automezzo collaudato su quel terreno.

Dopo un’ora si fermano e si contano: sono rimasti in 13 e alla luce del primo sole scoprono l’immensità della ,distesa sabbiosa, senza limiti in tutte le direzioni, un vero mare di sabbia. La battaglia intanto volgeva alla fine, stando all’intensità degli scoppi di granata, ma nessuno era in grado di sapere come era finita: i nostri forse avevano avuto la meglio, ma per il momento tutti erano del parere di mettersi in salvo con le poche armi personali e un solo casco coloniale.

– Attestiamoci fra quelle piante. Forse c’è anche un po’ d’acqua.           . Si trattava di una piccola oasi, il primo simbolo di speranza dopo la drammatica visione desolante dell’immenso Sahara, una delle più vaste aree sabbiose del mondo, l’ambiente più difficile alla vita che si possa immaginare. E non era che una piccola parte marginale dell’estesa dimensione di questo paesaggio fatto appositamente per non servire di asilo all’uomo. E avventurarsi fra quei monticelli mutevoli di forma e di aspetto secondo le condizioni e l’intensità del vento, superare il disagio dell’alta temperatura e la sete progressiva con l’aumento della disidratazione, erano tutte situazioni appena intuite in quelle poche ore trascorse dall’imbarco sull’aereo in un campo circondato dal verde intenso dell’erba, di cui n non si scorgeva traccia.

Quando la vena freatica sotterranea affiora nel deserto e scorre anche per pochi metri in superficie si forma subito attorno una buona vegetazione di palmizi e favorisce l’insediamento di altre piantine sempreverdi e di animaletti: in altre parole si costituisce un’oasi utilizzata per il ristoro e il riposo delle carovane. Purtroppo però sono poco frequenti e quelle che punteggiano raramente il deserto sono comunque situate sulle mappe della viabilità. Fra le foglie delle piante di alto fusto, Salvestri scorgeva in tempo l’ombra dei neozelandesi in agguato e passava la voce ai compagni di tenersi pronti senza mutare movimenti. Appena ha la percezione che uno stava per avventarsi su di lui, seguendo le istruzioni a suo tempo apprese al campo di addestramento, si volta di scatto brandendo il pugnale affilato che conficca in una coscia del malcapitato. Lo scontro inatteso è stato provvidenziale perché permetteva alla squadra di rifornirsi di qualche arma in più, un po’ di viveri e vestiario, prima di affrontare la rischiosa marcia nel deserto. Agli aggressori la libertà di andarsene seminudi per i fatti loro.

Intanto il gruppetto di cui faceva parte un brigadiere, Carbone, cui sarebbe toccato di diritto il comando della squadra, di fatto prendeva le decisioni sul da farsi insieme col carabiniere Salvestri e iniziava l’avventura più spettacolare di tutta la campagna d’Africa, camminando notte e giorno verso Ovest. Ogni tanto il rumore di un aereo li costringeva a gettarsi carponi e a nascondersi nella sabbia o fra i radi cespugli che ogni tanto sorgevano qua e là in quell’oceano silenzioso e desolato: il colore della divisa o, meglio, di ciò che ne era rimasto, costituiva un buon mezzo di mimetismo insieme al rudimentale copricapo che Silvestri aveva insegnato a confezionare con virgulti e frasche, quando c’erano, per ripararsi dai raggi infuocati del sole e contribuiva a inserirsi egregiamente nel paesaggio.

All’alba di una delle numerose mattine trascorse nel deserto, il ghibli, sibilando di lontano, annunciava imminente una delle consuete tempeste, sollevando nuvole di sabbia finissima che poi, sapevano per esperienza, s’infilava dappertutto: appoggiati e sorretti a vicenda, due alla volta, con una copertura di fortuna sul capo per impedire al pulviscolo di soffocarli, la piccola colonna procedeva stentatamente sulla distanza complessiva di una decina di metri. Ma, oltre al rumore assillante del vento, percepivano il rombo dei motori di un’autocolonna: era sufficiente fermarsi per essere letteralmente sepolti dalla sabbia. La tempesta durava alcune ore, ma alla fine tutti erano in grado di riprendere il cammino.

Naturalmente la scarsa acqua di cui disponevano fra i rari rifornimenti fortuiti e i pochi viveri erano stati rigorosamente razionati e persino l’urina all’occorrenza veniva utilizzata, opportunamente filtrata attraverso la sabbia, per potersi bagnare le labbra riarse. La direzione della marcia subiva ogni tanto variazioni a causa della mancanza di una bussola, ma durante la notte le stelle permettevano un buon orientamento e questi disgraziati procedevano sempre più sfiniti, ma pronti a sussultare e reagire se un automezzo spuntava improvviso. Avrebbero potuto avvicinarsi a una pista di traffico e tentare la sorte: poteva anche trattarsi di truppe amiche, oppure arrendersi se si imbattevano negli alleati, esausti com’erano ma non ancora allo stremo delle forze.

– Credo che abbiamo fatto il nostro dovere e qualunque decisione prendiamo a questo punto, va bene: se decidiamo di tentare la sorte, dobbiamo prevedere il peggio, ossia la cattura e la prigionia chissà per quanti anni. Per conto mio penso che sia abbastanza facile trovare una pista di traffico, cambiando direzione di marcia… ma penso anche che dovremmo farlo quando avremo esaurito tutto… Uno alla volta si esprimevano concordi sulla decisione e perciò la marcia riprendeva. Ogni tanto una piccola plaga di verde, un’oasi minuscola e provvidenziale, consentiva un po’ di ristoro all’ombra e, non sempre, la soddisfazione della sete e il rifornimento delle borracce per poter proseguire. Evidentemente la fortuna li assisteva: dopo un paio di settimane s’imbattevano in un cumulo di scatolette abbandonate chissà da chi e per quali circostanze. Forse uno di quei depositi segreti che entrambi i belligeranti avevano dislocato secondo un piano preciso depositato «top secret» ai rispet­tivi quartieri generali e da utilizzare nell’emergenza durante gli spostamenti rapidi e improvvisi, connessi con la tattica di estrema mobilità del fronte e dei singoli reparti. Avevano soltanto il contrassegno di un numero, ma per loro il problema era quello di stabilirne la commestibilità. La fame era talmente pressante che Riciotti:

– Se devo morire, muoio qui  dichiara e si mette ad aprirne una: la cavia volon­taria ha permesso di utilizzare quel ben di Dio. Poco discosto c’era del materiale abbandonato, teli da tenda che servirono per il trasporto trasformati in sacchi e persino alcuni fucili inglesi perfettamente funzionanti con le relative munizioni. Il ritrovamento casuale è stato determinante per portare a termine l’impresa folle di compiere una marcia di oltre 1.000 Km, resa per la verità possi­bile dallo spirito organizzativo di un semplice carabiniere e dalla sua iniziativa. Quella notte la marcia nel deserto era avvenuta a un ritmo ridotto. Un’ora di cammino faticoso, affondando nella rena a ogni passo, come automi, senza una parola, la piccola colonna procede come una schiera di fantasmi. Il capo fila tiene d’occhio la solita stella per evitare deviazioni e compiere una fatica inutile: sempre a occidente, dove il cielo conserva più a lungo il riflesso nell’atmosfera degli ultimi raggi, gradualmente attenuato, fino a diventare una lieve sfumatura turchina col passare delle ore. Il freddo fa battere i denti nel quarto d’ora di sosta e il calore accumulato dalla sabbia durante il giorno sembra inghiottito, scomparso nelle viscere della terra. Avevano preso istintivamente l’abitudine di mettersi in cerchio con le armi disposte a raggiera e posavano il capo sul fardello portato a spalla durante il tragitto a costo di notevole sacrificio (ma era la loro unica possibilità di sopravvivenza), col viso coperto per avere un minimo di probabilità di sottrarsi alla respirazione della polvere finissima che ogni tanto si sollevava misteriosamente, spinta da una brezza invisibile, che forse non c’era. Ma era una frazione di tempo che tutti aspettavano con ansia, un minimo di comfort ai muscoli riarsi e al corpo quasi privo d’acqua; al momento di rimettersi in piedi però tutta la fatica di tanti giorni sembrava concentrarsi per raddoppiare lo spasimo. Poi il primo bagliore a oriente, alle spalle, annunciava un altro, ennesimo giorno. Il brigadiere Carbone:

– Ormai siamo alla fine. Ancora un giorno e cadremo a pezzi: nessuno sarà più in condizioni di rialzarsi. Abbiamo fatto il possibile…

– Non sappiamo dove ci troviamo, non abbiamo una carta…

– D’accordo. Cambieremo direzione e punteremo al Nord. Se troviamo una colonna, qualunque sia la nazionalità, sarà la nostra salvezza…

– Ma ormai non troveremo più nessuno: sono giorni e giorni che non avvertiamo un rumore di automezzo, di un aereo, una traccia di vita…

– Le razioni sono finite da due giorni, siamo senz’acqua. Anche se incappiamo negli inglesi, abbiamo fatto il nostro dovere.

– Gettiamo via le ultime cose di cui possiamo fare a meno… teniamo soltanto qualche arma leggera, con poche munizioni… e speriamo in Dio.

– Se riuscissimo a trovare ancora la stella polare… dovrebbe essere quella…

Fissata di comune accordo la nuova direzione di itinerario, si riprende la marcia.

– Teniamo duro ancora un po’…

Il sole sorge come le altre mattine, dapprima grande, sproporzionato, rossastro e gli occhi scrutano ansiosi davanti a loro, ma il paesaggio è sempre lo stesso degli altri giorni. Altamura non si regge più in piedi e protesta:

– Lasciatemi qui, non ne posso più…

– Non dire fesserie, ti sorreggeremo a turno: qui moriamo tutti o ci salviamo tutti, sia ben chiaro.

Ormai si avanza faticosamente dopo averlo alleggerito di ogni cosa: ha indosso soltanto i resti di una camicia lacera, i calzoni a brandelli, le scarpe fasciate alla meno peggio per evitare il fastidio della sabbia pronta a creare nuove piaghe. Non si riesce a percorrere che poche centinaia di metri fra una sosta e l’altra.

– Quelle là, in fondo, non sembrano le solite dune…

Questa volta la pausa dura un paio d’ore e tutti gli sguardi sono concentrati in un punto dell’orizzonte: solo pochi riescono a riposare veramente e a sognare qualcosa di meno terribile della loro situazione. Si riprende la marcia che dura per tutta la notte a intervalli sempre più numerosi. Poi quando il sole comincia a illuminare con vigoria e la visibilità è completa si fa un nuovo bilancio:

– Effettivamente sono piccole colline… sia­mo ai margini del deserto…

La speranza fa presto a ritornare.

Al momento di alzarsi tutti sono animati da nuove, migliori prospettive, ma per questo non dimenticano le difficoltà: da molte settimane hanno affrontato e risolto le avversità imposte da un ambiente estremamente ostile e ora sono veramente al limite delle loro risorse. Anche Altamura ha smesso di lamentarsi e riesce appena a muovere gli arti inferiori, preso sotto le ascelle da due compagni di sventura. Tuttavia è bastato un piccolo mutamento sull’orizzonte perché si ridestasse la residua volontà di resistere.

La sabbia è ancora presente in tutta la sua drammaticità. Da troppi giorni non si è incontrata la benché minima oasi spopolata, ma dotata di un minimo di umidità o di un modesto rigagnolo che permetta al gruppo di dissetarsi, anche se la scarsa polla reca in sospensione particelle conferenti un aspetto limaccioso. Il ricordo di poche gocce di liquido sulla gola asciutta è tutto quello che resta a consolare i parà ridotti a carcasse umane, sfigurate e al limite della sopravvivenza. Ancora una sosta e la penosa avanzata verso le colline che si moltiplicano in ampiezza, sicuramente riarse e pietrose. Intanto l’immensa distesa ora è punteggiata di piantine alte pochi centimetri, secche, scheletriche: un’immagine di vita precaria, come la loro.

Si riposa un’altra volta e poi sempre via per forza d’inerzia… ora i piedi doloranti sono pieni di fuoco e si scontrano con la punta delle pietre e aumenta il disagio… poi le rocce diventano più grandi e frequenti. Al deserto di sabbia se ne sostituisce un altro, sassoso, su cui non si sprofonda, ma si procede con altrettanta fatica, come si trattasse del letto di uno strano fiume, privo d’acqua da sempre… Tullio immagina come sarebbe stato bello tuffarsi e si trova coricato tra i macigni, per rialzarsi con l’aiuto di Bandino più desolato che mai… Ecco una grande ansa contornata da due colline calcaree… Quando ormai è crollata in tutti la speranza di farcela, appare un villaggio: poche baracche stuccate di fango, il tetto rudimentale di paglia. Salvestri, l’unico del gruppo ancora in possesso delle sue facoltà, chiama a sè i tre ancora in grado di camminare dotati di una pistola:

– Venite con me: andiamo a vedere chi c’è.

Gli altri si sdraiano a terra affranti. Dalla porta della prima casupola spunta una figura di donna che, gridando, si eclissa fra le casupole e poco dopo, vociando parole per loro incomprensibili, chiaramente ostili, brandendo attrezzi domestici e bastoni, in gruppo avanzano minacciose. Il carabiniere alza le braccia in segno di saluto e agita ben visibile la pistola, che rimette nella cintura appena si seda lo schiamazzo. – Vostro capo…E fa cenno con gesti che sembrano comprendere. Si fa avanti un vecchio arabo con i lunghi mustacchi spioventi. – Noi Italiani, amici…

All’invito di seguirlo, finalmente si rendono conto che sono in salvo. – Soldaten, cattivi, femmine, paura. Chiarito l’equivoco vengono a conoscenza di trovarsi in territorio tunisino, si rifocillano e sono guidati a un vicino comando militare: l’avventura era veramente terminata dopo quaranta giorni terribili. Tutti e tredici in condizioni di salute recuperabili, tranne uno, avevano compiuto l’impresa possibile soltanto a uomini eccezionali, preparati nel fisico e nel morale.

Preso contatto col consolato italiano, curati e sfamati, hanno raggiunto il porto di Gabes e con una motovedetta della regia marina sono portati a Tripoli, dove hanno incontrato un centinaio di colleghi paracadutisti scampati alla brutta esperienza e insieme fanno ritorno in patria.

Il carabiniere  rientra ad Agazzano, senza rendersi  conto di  quello che  aveva  fatto,  senza ricevere una promozione  un  encomio, o  una medaglia ..  Soltanto una  breve licenza il  Liguria e  tenta  di stabilire un  contatto  con Ilde, inghiottita nel nulla .. Il dotto Brummel si era trasferito con la famiglia a Munchen e la figliola, dopo un periodo di pianti e lacrime più o meno nascoste, aveva conosciuto un giovane capitano della Wehermacht, ferito sul fronte russo, e aveva preso a frequentare il club degli ufficiali insieme all’ormai inseparabile Franz. Col passare dei giorni l’immagine del giovane carabiniere di Mussolini, diventava sempre più sbiadita, anche se qualche volta ne parlavano. Anzi il cap. Franz era ormai in grado di avere su Salvestri una completa scheda biografica da inserire nel casellario riservato: una carpetta, un nome e un numero nel suo ufficio informazioni, sotto la cui sigla lavorava nella città bavarese.

Condanna a morte, braccato, «ribelle».
La stazione CC di Agazzano è stata rinforzata (1943) a ventisei carabinieri, perché una metà era destinata a compiti di polizia nel campo di raccolta dei prigionieri di guerra, 470 unità. L’altra metà alloggiava nella caserma di Via Roma. Quando il comando decide di compiere un’azione di repressione di banditismo, è chiamato a Piacenza e in­sieme col collega Ferrari è posto agli ordini del brig. Mancuso per compiere un’indagine attorno all’attività di una banda che agiva durante i bombardamenti nelle città e nelle campagne, rubava ogni cosa e l’occultava, non si sa dove. Si procurano delle biciclette, si travestono, caricano un po’ di farina o grano simulandosi contrabbandieri del mercato clandestino (mercato nero).Dopo alcune settimane erano riusciti ad allacciare rapporti cordiali con la mala e si univano con gli altri al seguito di uno strano convoglio di carretti spinti a mano o trainati da cavalli, carichi di refurtiva e giungevano al castello dei conti Rivalta, scoprendo il nascondiglio dove si trovava un bottino notevole: macchine, moto, biciclette, quadri e ogni genere di merci contingentate. La missione, perfettamente riuscita, terminava con un rapporto al comando della compagnia di Piacenza e mentre gli autori dell’indagine si eclissano dalla scena facendo ritorno alla base, i colleghi effettuavano una retata al castellocovo, arrestando un buon numero di malviventi e ricuperando tutta la refurtiva. Una cosa il carabiniere Salvestri aveva ottenuto: la funzione, peraltro neppure retribuita, di coordinatore, col compito di tenere i collegamenti con i servizi d’ordine e sicurezza alle polveriereAvendo inoltrato domanda per essere ammesso al corso sottufficiali, si presenta al comando del gruppo, sostiene un primo esame preliminare che supera brillantemente e resta in attesa di essere chiamato presso la legione a Genova, ma nel frattempo, col 25 luglio si ha la caduta del fascismo e del governo e tutto viene rinviato sine die: ancora una volta deve rimanere semplice carabiniere.Ad Agazzano intanto veniva dislocato un battaglione di fanteria con compiti di presidio territoriale.La sera del 7 settembre, mentre si trova al comando del distaccamento di presidio CC al campo di prigionia nel castello di Razzanello, in sostituzione del brigadiere di turno in licenza, riceve l’ordine di occultare tutti i documenti definiti «riservati» e il giorno dopo, alla notizia dell’armistizio unilaterale dell’Italia nei confronti degli alleati, dal maggiore comandante del presidio riceve l’ordine di far aprire i cancelli e lasciare liberi tutti i prigionieri di guerra alleati, contrariamente alle disposizioni del magg. Poggi da Piacenza, di consegnarli ai tedeschi e poi… il superiore sparisce con alcuni ufficiali e tutti i documenti, compresa la cassa. 

È un momento di grande confusione: riacquistata all’improvviso la libertà insperata i prigionieri di guerra, in prevalenza ufficiali inglesi che avevano ricevuto istruzioni segrete, attraverso la Croce Rossa Internazionale, di attendere sul posto l’arrivo delle truppe liberatrici, prendevano l’iniziativa di avviarsi verso le colline, tanto più che erano arrivate notizie che tedeschi e italiani combattevano fra di loro nella vicina Piacenza, dove una colonna di artiglieria italiana era stata per altro fermata e disarmata e anche il vicino aeroporto era stato occupato dai tedeschi. Avevano abbandonato il castello pochi alla volta dopo essersi riforniti di viveri e di vestiario, a volte cambiandolo nei casolari colonici dove trovavano anche ospitalità e poi si dirigevano verso le valli dell’alto Appennino. Alcuni puntavano addirittura al Nord con la speranza di raggiungere la Svizzera, come il cap. Bongiorno, originario di Corfù, che incontrato un taxista, un certo Sormani, fuggito con l’automezzo dal capoluogo di provincia, attraverso stradine secondarie e quindi scarsamente frequentate, lo portò in pochi giorni al sicuro, oltre frontiera.

Il carabiniere Salvestri, tornato ad Agazzano, si dà da fare a raccogliere e nascondere le armi abbandonate e riceve una comunicazione da parte dell’amico appuntato Tolosano: – I tedeschi ti hanno condannato a morte, perché sei accusato di aver fatto fuggire i prigionieri dal campo di concentramento. Squagliatela! Evidentemente qualcuno aveva scaricato su di lui la responsabilità, tanto era un semplice carabiniere, con le spalle buone, da contadino, ed era  questa in certo qual modo la riconoscenza del potere costituito per tutto quello che fino allora aveva dato: una condanna a morte, la medaglia meritata per il valore dimostrato…

E da questo momento, per non pagare a prezzo della vita un’azione che non aveva commesso, unica soluzione è la diserzione e quindi la fuga, braccato dai propri colleghi e dagli altri. Bisognava da ora in avanti dormire con un solo occhio, pronto a scappare… come il Matrisciani dei suoi ricordi infantili, se voleva salvare la vita. Aveva imparato una cosa importante in questi anni: l’amore per una ragazza non era eterno, la fiducia in se stesso, la padronanza della logica nelle decisioni e la certezza di poter contare su un fisico addestrato; il raziocinio per distinguere e valutare situazioni e circostanze; il dominio e il controllo dei sentimenti, compresa la paura e la facoltà di non perdersi d’animo nelle situazioni difficili. Era maturato, diventato un uomo con tutte le facoltà in perfetta efficienza, compresa la coscienza di essere assistito dalla fortuna e di conseguenza una buona dose di ottimismo per aver superato fino allora tutte le avversità incontrate.

Il giovane contadino, timoroso e impacciato, un tantino ingenuo e fatalista per tradizione, che si era arruolato diciottenne, dotato di intelligenza vivace e di memoria prodigiosa, si era letteralmente trasformato. Lasciata definitivamente la divisa, si sposta a Piozzano, un paese vicino, dove da qualche tempo si recava a far visita a Elsa, una ragazza simpatica e carina, figlia del proprietario di una tenuta agricola rigogliosa e fornita di tutti i generi alimentari più genuini di propria produzione. La ragazza cui non era gradita la vita dei campi si era impiegata nella vicina polveriera di Momigliano e qui l’aveva conosciuta e aveva avuto il primo invito a pranzo nella fattoria paterna. A lei deve il merito di aver potuto superare il ricordo della bionda atesina, di cui non aveva avuto più notizie. E sono state le sue premure nell’offrire piatti prelibati e le migliori bottiglie di «gutturnio» della cantina fornitissima, a far nascere e coltivare quel sentimento di amicizia, destinato a concretizzarsi in qualcosa di più intimo.

Con lui nella locanda Ghelfi si ritrovano alcuni colleghi che continuano a fare incetta di armi, le nascondono e poi decide di recarsi a Piacenza per avere notizie dell’ufficiale che probabilmente l’aveva denunciato proditoriamente quanto falsamente ai tedeschi, ma non ne trova traccia: sua intenzione era quella di mettere in chiaro le responsabilità e ritornare, almeno momentaneamente, nella legalità. Decide di estendere la ricerca a Borgotaro dove gli constava dimorare una signorina di buona famiglia con la quale era in relazione (P. F., individuata nello svolgimento del servizio di censura militare), ma alla stazione ferroviaria di Fidenza era stato istituito un blocco di controllo sui passeggeri; allora evitandolo, si avvia a piedi a Fornovo con altri «irregolari».

La linea ferroviaria Milano-Bologna ha una deviazione a Fidenza e continua, a un solo binario, verso Fornovo Taro. In località Ponte Taro è fiancheggiata da una strada rotabile in macadam, che, lasciando la via Emilia, tocca Noceto, Medesano e Felegara, per ritrovarsi ad attraversare, con lungo ponte il Taro, davanti. a Fornovo. Proprio su questo ponte, passaggio obbligato, una pattuglia formata da un carabiniere e un milit­e: gli chiedono i documenti di cui si dice sprovvisto e il milite s’incarica di scortarlo al comando. Giunti all’altro estremo del lungo viadotto, prende una decisione rapida e decisa: spintona il custode armato e lo fa precipitare lungo la scarpata nel fiume e poi al centro del paese noleggia un taxi, condotto da un certo Lombatti e un po’ con le buone e un po’ con le cattive maniere si fa portare a Borgotaro (60 Km passando per Poggio di Berceto), ma non trova ciò che sta cercando.

La famiglia lo accoglie festosamente, come il resto del paese, fra cui diversi giovani renitenti di leva decretata dal governo repubblichino. In particolare un ex-tenente di artiglieria alpina (Mario): – Ho saputo, lo dicono in giro, che sei coi «ribelli». Non potremmo organizzarci… – Ora devo ritornare a Piacenza per sbrigare alcune faccende, ma tornerò presto: non fatevi sorprendere dai fascisti o dai tedeschi. Poi ne riparleremo.

L’indomani, in una delle due osterie del paese, si presentano due CC e domandano se hanno visto nei paraggi Salvestri, che non conoscevano, perché ricercato. Un momento di brivido, ma nessuno fiata; tutta la gente è con lui. Anzi propongono una partita alla «morra»: perdono due fiaschi di vino, bevono con euforia e poi Salvestri: – È ora di andare, perché si fa tardi. Strette di mano, e si avvia a Borgotaro per prendere il treno, ma c’è un altro controllo e viene portato in caserma dal brigadiere Moretti. Trova però la condiscendenza di un maresciallo che lo fa liberare e prosegue, senza inconvenienti.

Con questo viaggio si è reso conto di una real­tà che andava prendendo forma: l’ambiente, la popolazione, era nettamente ostile ai tedeschi e ai neo-fascisti; le armi nascoste potevano servire presto. Con l’aiuto di EIsa tiene i contatti con i carabinieri in servizio, Falbo e Pontremoli in particolare, già decisi a unirsi ai «disertori» quando fossero arrivate al reparto le nuove armi promesse in dotazione. Un sabato mattina, una di quelle giornate invernali piene di nebbia padana, EIsa gli comunica che gli amici lo attendevano in località Stella, fuori mano e lontana dagli sguardi indiscreti e apprende:

– Domani un’autocorriera di militari effettuerà una ricognizione per raccogliere e avviare ai distretti i giovani renitenti di leva, ma non sappiamo ancora da chi è formata: se saranno CC esporremo un drappo bianco. Gli uomini armati e nascosti nelle case in aperta campagna sono una quindicina: in breve sono avvisati e la mattina della domenica si appostano a Pomaro, decisi a compiere la prima azione di «ribelli». Salvestri da una finestra della locanda vede transitare l’automezzo privo del segnale convenuto… ma si accorge che sono carabinieri, almeno quelli che scorge attraverso i finestrini e non sa spiegarsi il motivo: vorrebbe poter avvisare gli amici in agguato, si getta attraverso un sentiero di scorciatoia, ma è troppo tardi; sente le raffiche e arriva in tempo per vedere la scena della resa; sull’automezzo ci sono purtroppo due morti, il brigadiere Falbo e il carabiniere Carpanese e diversi feriti. Chiarisce al tenente, dispiaciuto, l’equivoco e, spogliati dei pastrani, utili per gli uomini della formazione al battesimo di fuoco, e delle armi, e rimanda l’autocorriera a Piacenza. Non avrebbe voluto che l’esordio, il primo episodio della resistenza armata, si risolvesse in questo modo tragico: è la guerra, un affare maledetto, tremendamente drammatico con i suoi errori. Ma è fatto e bisogna rassegnarsi: ai suoi impartisce l’ordine di considerarsi a tutti gli effetti dei combattenti e di avviarsi in ordine sparso verso le colline a piccoli gruppi, evitando ogni contatto con le forze opposte e dice chiaramente che comunque si sarebbero ritrovati oltre il passo di Centocroci, in una località che si chiama… Caranza.

La mattina successiva le sue precauzioni si dimostrano valide, perché il paese di Piozzano si troverà completamente circondato da un numero ragguardevole di truppe tedesche e polizia. Avvisato in tempo raggiunge una casa colonica di amici e viene nascosto nel granaio: un fazzoletto davanti alla bocca per poter respirare e l’immobilità assoluta. Quando passano i rastrellatori sente chiaramente i loro discorsi:­ – Quanto grano hanno nascosto questi sporchi contadini…

Ma fortunatamente vanno oltre, dirigendosi verso la montagna per inseguire i fuggiaschi segnalati erroneamente dalla popolazione permetterli fuori pista: con i «ribelli» armati sono parecchi giovani che non volevano farsi concentrare con gli altri nella piazza del paese. Anche Salvestri, con la sola rivoltella, sotto l’impermeabile bianco che gli conferiva un aspetto di pacifico e distinto borghese, magari un po’ preoccupato dalla improvvisa confusione in un paesino di provincia, si sposta lesto, ma non troppo e quando scorge il posto di blocco a Stella, si dirige quasi noncurante verso la sede del municipio; poi improvvisamente cambia direzione, salta il muretto di contenimento del torrente Nure in direzione della fattoria di EIsa nella campagna cosparsa di piante e siede su un poggio come per riposarsi. Gli inseguitori fra una pianta e l’altra si avvicinano con l’illusione di non essere visti. Allora per quanto a distanza di tiro inutile, estrae la pistola ed esplode alcuni colpi nella loro direzione, ottenendo l’effetto sperato di metterli in fuga precipitosa: un gioco da ragazzi per un veterano di tante guerra. Naturalmente ormai senza correre, ma speditamente procede e alle prime case di Bardi bussa a una porta;dall’interno una donna:

– Aiuto, i briganti! Allora entra in paese e in trattoria consuma una cena abbondante a fianco di alcuni militi e poi chiede se è possibile avere una camera per la notte. – Ti conviene filartela al più presto, perché quelli stanotte ti vengono a prendere. E il giovane figlio di un clinico famoso a Parma, il prof. Braga (diventerà commissario politico di una brigata garibaldina). Allora decide di passare la notte in una cascina abbandonata e alle prime luci del mattino oltrepassa le due catene appenniniche che lo separano da Caranza, casa sua, finalmente, nella cara Liguria.

Come nasce il mito «Richetto»

Quel mese di gennaio’ 44 era stato caratterizzato da un clima eccezionalmente mite in tutta la zona e la neve ricopriva soltanto le cime oltre i 1.300 m di quota. Diversi giovani del posto e dei paesi vicini, che avevano ignorato i proclami e le minacce della Repubblica di Salò, guardavano a Caranza come al centro di riferimento per orientare una scelta di opposizione al ricostituito regime nazi – fascista e vi si recavano ogni tanto per avere notizie di Federico Salvestri, che tutti ormai chiamavano col nome di «Richetto» e al suo arrivo l’andirivieni si era accentuato.
Qualche giorno più tardi arriva Piacentino e lo cercano.
– Siamo arrivati, sani e salvi.
Un abbraccio poi tutti gli altri di Agazzano si ritrovano nella trattoria per rifocillarsi: sono il suo gruppo, perfettamente armati ed equipaggiati, che riconoscono in lui il capo, che attendono ordini da lui, che dipendono dalle sue decisioni: la prima base si costituisce a Lago Secco, sotto al Gottero, in due case-cascinali che fungono da acquartieramento. Altri giovani montanari sono rimandati momentaneamente alle abitazioni di origine nei paesi attorno con la raccomandazione di tenere gli occhi bene aperti per segnalare pericolosi arrivi, in attesa che giunga la buona stagione. Ancora altre basi si individuano a case Passoni e a Lago Verde, nei cui dintorni si occultano le armi raccolte. La notte si passa sui giacigli di fieno o di foglie secche, oppure sulle panche di legno delle cucine, al caldo delle stalle col bestiame, o, raramente su un letto, i più fortunati. Il vitto è fornito con la massima naturalezza dalla popolazione.
Ai primi di marzo Richetto propone l’attacco alla guarnigione di militi dislocati nei pressi del passo di Centocroci.
Il passo vero e proprio, a quota 1.055, è contrassegnato da un semplice cartello e poco discosto una pietra confinaria, monolite lavorato e sepolto per un’altezza complessiva di un m. Ai due lati del punto più elevato della strada di valico i monti salgono rapidamente, coperti in parte di faggi e di abeti. Una strada secondaria, perpendicolare all’arteria provinciale fra Parma e Spezia, porta a Ovest verso il m. Zuccone, faticoso da raggiungere a piedi o coi muli, ma dominante coi suoi 1423 m sia verso la Valle del Taro che verso Pelosa, poche case vicino al Taro, ma sempre in provincia di La Spezia. Poco discosto dal passo vero e proprio, verso la Val Taro, c’è una grossa costruzione in pietra lavorata, adibita ad albergo, un tempo sede di dogana, dove in tempi di pellegrinaggi, c’era anche un posto di ristoro per i fedeli, custodito dai frati. Pare che i briganti, uccisi i frati si sostituissero a loro nell’accogliere gli ospiti, destinati a essere depredati e uccisi. Soltanto dopo un certo numero di vittime (da cui la località trasse il nome di Centocroci) il vescovo di Brugnato scoprì l’inganno e mandò degli armigeri travestiti, che fecero giustizia. Nell’altro versante, quello ligure, a quota inferiore di un centinaio di m, si trova un’altra costruzione adibita a trattoria e prossima alla caserma dei militi. Anche da qui partono due strade: una diretta verso la Cappelletta di Montegroppo e l’altra attraversa la prateria scoscesa dell’Appennino, verso il passo del Bocco.
Alla provinciale da Centocroci si allaccia, discendendo lievemente, la deviazione verso Caranza e invece proseguendo normalmente si incontra il centro più importante della Val di Vara, Varese Ligure.
Il traffico è costretto al centro del paese, in una strettoia fra le case (non esisteva ancora la circonvallazione) per sfociare sulla piazza grande su cui si affaccia il piccolo, ma grazioso castello e stradine strette, medioevali recano verso monte alla chiesa parrocchiale. L’abitato si snoda ulteriormente lungo la provinciale che prosegue per S. Pietro biforcandosi: a sinistra verso .spezia e a destra verso il passo del Velva e Sestri Levante.
Ma i piani di Richetto sono preceduti da quelli di una formazione dell’altra parte del Gottero, comandata dai fratelli Beretta, che poi si fermano a festeggiare la vittoriosa riuscita dell’impresa all’albergo Alpino, da cui due staffette armate si recano da Richetto, invitandolo a un colloquio.
– Ecco il comandante Beretta.
– Sono Richetto.
E iniziano i discorsi fra un bicchiere e l’altro.
– Cosa diresti se unissimo le nostre formazioni…
Di fatto nasce il primo nucleo di partigiani della Centocroci, capo Beretta, vece Richetto, con due dislocazioni diverse: Groppo di Albareto e Caranza e due gruppi armati e autonomi in via di organizzazione specialmente alla ricerca di armi da distribuire ai nuovi continui arrivi. Richetto non siede nella poltrona ed è sempre il primo in qualunque missione, specialmente se rischiosa. Anche nelle trasferte verso i paesi rivieraschi dove si sapeva esistessero armi occultate che i civili offrivano gratuitamente o dietro compenso, lui stesso conduceva le trattative. Proprio durante la sua assenza arriva a Caranza una pattuglia di militi forestali col brigadiere Conti, per raccogliere informazioni sui renitenti: sono affrontati dai «ribelli»e mentre il capo pattuglia riesce a fuggire lungo un canalone i due militi sono presi, spogliati e poi fucilati. Al suo ritorno:
– Cose di questo genere non devono succedere mai più. I prigionieri non si toccano e comunque se palesemente accusati di crimini di guerra, vanno processati.
Sono gli «errori» dei primi momenti, gli sfoghi della rabbia cieca cui corrisponde una reazione, purtroppo a catena: sangue chiama sangue e ciò contrasta coi suoi principi. L’accaduto lo turba e si ripromette di fare accettare a quelle prime «bande» di ribelli una condotta diversa.
Poco dopo una pattuglia a Pian del Lago s’imbatte in due marò della X MAS, armati di mitra e pistole che si consegnano senza reagire esprimendo l’intenzione di passare con loro: sono Nino
e Bruno che vengono portati al comando a Groppo. Si sta discutendo della loro sorte mentre Richetto con Armanino si sono recati a Sesta Godano per un incontro con emissari del CLN spezzino, in possesso di credenziali regolari e concordano per l’invio di uomini, armi e denaro (mai visto). Carmelo, siciliano:
– Per me sono due spie e dobbiamo fucilarli! Si tergiversa fortunatamente, quando:
– Ecco Richetto, facciamoli interrogare da un esperto.
Applicando la tecnica appresa alla scuola allievi CC, si convince della veridicità delle intenzioni e:
– Per me dicono la verità e sono disposto a
prenderli nel mio reparto. .
– D’accordo, ma se sbagli pagherai tu!
– Allarmi! Stanno arrivando in forze! Così dice una staffetta trafelata.
In effetti sono circa 700 uomini, fascisti e tedeschi, provenienti da Chiavari e da Spezia. Si decide di aspettarli sulle alture del passo di Centocroci disponendosi: Vincenzo, con 30 uomini sull’altura a destra, Beretta al centro con 40 partigiani e Richetto, personalmente addetto all’uso dell’ unica mitragliatrice americana, a sinistra, tenendo sotto il mirino la strada, con altrettanti uomini.
Quando i primi tre autocarri si trovano a tiro su un breve rettilineo Richetto apre il fuoco e li inchioda, ma non si avvede di quelli che stanno arrivando alle sue spalle, a piedi. Nino, ancora disarmato, dopo il verdetto assolutorio:
– Attento: quelli lassù non sono dei nostri! La postazione da quella parte era vulnerabile.
Richetto, asportato l’otturatore dell’arma per renderla inservibile, dopo aver sparato l’ultima raffica, la pone in posizione verticale presso un ginepro e vi pone bene in vista il berretto, per attirare l’attenzione dei rastrellatori, mentre i cinque componenti della sua squadra possono sganciarsi indisturbati. Ancora una volta ha avuto intuito e fortuna. Ma il pericolo della reazione dei nazifascisti all’uccisione dei due militi forestali, non finisce qui. Il gruppetto, con due muli raccolti lungo la strada, trovato un giaciglio di fortuna dove hanno passato la notte, decide di puntare su Caranza e apprendono che la sera prima per rappresaglia avevano fucilato due donne. Hanno qualche centinaio di m avanti alla colonna una staffetta e proprio lei, Maria, si avvede in tempo che la piazza del paese brulica di armati. Allora cambiano direzione, rispondendo alle raffiche e si avviano al comando a Groppo, sull’altro versante.
Il posto di avvistamento aereo del m. Frisciallo, vicino a Barbagelata, è l’obiettivo scelto per il 10 maggio. Hanno fatto una lunga marcia attraverso i monti, durata alcuni giorni e finalmente una base tranquilla accoglie gli uomini della Centocroci: si sistemano nell’osteria del paese e nelle abitazioni per un breve periodo di riposo. Nel paese da qualche giorno era arrivato uno sfollato, qualificatosi parrucchiere per signora, un tantino anacronistico in un posto come quello, tant’è vero che, fermato, viene portato al comando e interrogato. Richetto in particolare lo sottopone a un terzo grado, col risultato di farlo cadere in contraddizione e finalmente confessa:
– Sono una spia al servizio dei fascisti e dei tedeschi: in realtà sono un sergente di aviazione. Riconosco di aver sbagliato la scelta fatta sconsideratamente e sono convinto che nel giusto siete voi, pertanto sono disposto a collaborare se me ne date la possibilità. Mi chiamo Elia.
Anzi avrei un piano per farvi prendere tutta la guarnigione al completo del Frisciallo. Dopo quest’azione deciderete se prendermi nella vostra formazione… o fucilarmi. Questo il piano: mi presenterò al presidio con le mie attuali credenziali e li farò uscire tutti dicendo che possono far fuori una squadra di sbandati e li guiderò invece nell’imboscata che predisporrete. Così li prederete tutti senza colpo ferire…
Il tono della voce è talmente suadente, gli argomenti così persuasivi che il comandante abbocca, ma non così Richetto che la mattina presto decide l’operazione secondo il proprio piano lasciando a copertura un gruppo comando (con Elia) a metà strada, mentre coi suoi si avvicina sotto alla caserma silenziosamente e Aldo insegue una pattuglia uscita per altra direzione. Attorno al caposaldo era stato steso un reticolato protettivo. Richetto, sempre primo nell’azione, con alcuni uomini passa sotto il filo spinato e c’è un momento di trepidazione: un cagnolino si avvicina loro e potrebbe abbaiando dare l’allarme e mandare in fumo l’elemento sorpresa; fortunatamente si mette a scodinzolare, così non interrompe il sonno della guardia accovacciata sui gradini del portone di ingresso. Presa, disarmata, con una mano sulla bocca, Richetto bussa:
– Oh! Lasciateci dormire, la mattina presto…
Una voce assonnata dall’interno, in dialetto ligure (la guerra è fatta anche di questi episodi). Con l’aiuto di un palo, dopo aver intimato la resa, abbattono la porta e uno solo reagisce con prontezza sparando, ma viene freddato con una raffica; gli altri si arrendono e lasciano nelle mani dei partigiani un discreto bottino, inviato prontamente coi muli a Barbagelata, che poco dopo si trova letteralmente circondata dai nazifascisti. La confusione è notevole: si spara in tutte le direzioni. Beretta ordina a Barbagatto di uscire coi suoi dall’abitato per rompere l’accerchiamento. Elia, approfittando della primitiva considerazione del comandante, tenta il colpo:
– Vado anch’io con loro se mi dai il tuo mitra. Ma appena fuori, svoltato il sentiero, si butta giù per il pendio, rafficato invano da Barbagatto e se la squaglia. Il fatto desta un certo scalpore e unanime risentimento e quando la sera, dopo il rastrellamento, si ritrovano tutti a Priosa, avviene un «pronunciamento» del vice, Richetto:
– Cose di questo genere non devono accadere; perciò mi ritiro e ritorno nel piacentino…
La maggior parte dei presenti è con lui: la prima grande prova, il riconoscimento di quanto vale e ciò lo consola: non si allontanerà, ma di fatto il vero comandante è lui, perché gode della fiducia di tutti i ribelli della formazione, perché non a parole, ma con l’esempio insegna ai giovani a diventare dei combattenti e prima ancora degli uomini, capaci di agire e di usare il cervello.
Sono acquartierati a Strepeto quando arriva una staffetta con un messaggio per Richetto: a Casa Brina, sulla strada per Bedonia, lo attende un ufficiale inglese. Con Beretta si avviano e come entrano nell’osteria, vengono fatti accomodare al piano superiore. Fatte le presentazioni: un plenipotenziario del governo inglese, il magg. Gordon Lett, conferisce col carabiniere Salvestri e col comandante Beretta, per concordare le modalità intese a effettuare rifornimenti cospicui, via aerea, ai combattenti della Resistenza, amici degli alleati. Da quel momento un rappresentante ufficiale della Gran Bretagna stringeva un rapporto di amicizia e di collaborazione a parità di dignità, con la «vecchia volpe» (Richetto). Viene infatti stipulato un accordo: le formazioni si sarebbero spostate nella Val Gotra e avrebbero ricevuto tutto quello che chiedevano per avere un equipaggiamento degno di un esercito regolare, anche nella dotazione di armi adeguate ai compiti della guerriglia.
La strada di fondo valle Taro, tocca Borgotaro, il centro più importante, sorto sulla traccia di un accampamento romano dell’epoca della campagna «liberatrice» dei Ligures, fra la 1 a e la 2 a guerra punica, fino a un secolo fa circondata da mura di difesa attorno al castello. Un ponte antico la collega a S. Rocco sulla destra Taro dove sorge anche la stazione ferroviaria e alcune piccole industrie. A una decina di Km verso Ovest la strada lambisce Compiano, dominata da un vetusto castello di bella fattura e, al di fuori delle mura storiche una grossa costruzione ospita i vecchi e più tardi i prigionieri della guerra partigiana. Ancora 4 Km e si raggiunge Bedonia: l’arteria passa al centro dell’antica pieve, per proseguire verso Chiavari, mentre sulla destra si diparte il collegamento verso la Val Ceno, superando il passo di Monte Vaccà. Proseguendo invece lungo il Taro il nastro di maccadam passa nella gola delle cave di Carniglia coi monti a picco, inaccessibili e tocca Pontestrambo. Da qui ancora una stradina si dirama sulla sinistra del fiume verso Strepeto, Setterone e Alpe e una mulattiera arriva sul m. Penna (m 1. 735), una zona ampia e boscosa, punteggiata da speroni di rocce, ottimi posti di osservazione, che già duemila anni orsono videro il passaggio e l’imboscata che costò la vita al console Petilio. Dopo Casa Fazzi, sempre adiacente al greto del Taro, si giunge a S. Maria, un paesone sede di alcune industrie per lo sfruttamento del legname, con una caserma stazione dei cc. A questo punto la strada lascia il Taro per inerpicarsi (7 Km) fino al passo del Bocco contrassegnato a quota 1.000 dalla spaccatura di una roccia di crinale, prospiciente il Golfo del Tigullio. C’è un buon albergo, proprietà e base di una fondazione assistenziale, il cui palazzone si intravvede sul costone boscoso ed è collegato col passo da una strada rotabile privata. Sulla destra una mulattiera porta verso prato Mollo e quindi il m. Penna, mentre nell’altra direzione si raggiunge il m. Zatta. La conoscenza della geografia di questo territorio è necessaria per comprendere come la proliferazione delle formazioni partigiane fosse favorita dalle ampie possibilità di manovra e di spostamenti in condizioni di relativa sicurezza durante le azioni antiguerriglia dei nazi-fascisti. Fra Bedonia e Borgotaro, al bivio di Bertorella, si innesta la strada di Centocroci.
Le distanze fra le varie località erano percorse essenzialmente a piedi, spesso lungo sentieri impervi e problematici nelle notti prive di luna; oggi, abituati all’uso copioso dei mezzi di trasporto è difficile rendersi conto di quanto costasse la fatica fisica per dare ai reparti la necessaria mobilità.
Attorno al 10 maggio, viene scelto un obiettivo particolarmente allettante: la caserma di Borzonasca. Il paesino si trova infossato fra i monti dell’entroterra ligure sulla strada di fondo valle Aveto, che parte da Chiavari e raggiunge S. Stefano, diretta nel piacentino. L’abitato è sistemato lungo l’arteria e le case, di antica costruzione, sono tutte in solida muratura di pietra, appiccicate l’una all’altra in guisa di contrada, quasi a soffocare la viabilità, peraltro modesta, specialmente in quei tempi. Passaggio obbligato è Borgonovo, al termine della strada in discesa dal passo del Bocco che proprio qui subisce una strozzatura, mai rimediata, sotto un arco di importanza storica.
Richetto concorda un’auto corriera con la Ditta Carpani di Bedonia e convoca il solito autocarro portato da Cavalli di Borgotaro e poi, dopo aver messo bene in vista una grande bandiera tricolore, transitano al centro di Bedonia, salutati dalle truppe fasciste: la scena si ripete a S. Maria del Taro di fronte alla caserma. A Montemoggio disarmano il presidio dei CC, senza trovare resistenza, e proseguono cantando euforici fino a Borzonasca: ma qui Richetto scorge in tempo sul campanile della chiesa la postazione di una mitragliatrice che li avrebbe sicuramente tenuti sotto tiro e per ciò ritornano silenziosamente sui loro passi durante la notte. Ma alle prime ore del mattino tutti gli uomini sono appostati nel paese e attorno alla caserma e aprono il fuoco; la reazione è inaspettata e furiosa: sparano anche dalle finestre delle abitazioni private. Richetto e Piacentino sono già a ridosso del muro della caserma, quando si odono i rumori e le bordate delle autoblindo di rinforzo.
Si decide lo sganciamento immediato e si ritirano tutti incolumi al passo del Bocco, dove requisiscono un autocarro dell’organizzazione TOD (specie di genio militare e civile tedesco con manodopera locale). A S. Maria disarmano la caserma.
Richetto sembra invaso da qualcosa che lo spinge all’azione senza mai fermarsi, sempre davanti a tutti, quasi fosse invulnerabile: cattura uno dopo l’altro tutti i distaccamenti fascisti di Alpe, Bedonia (per la 2 a volta), Passo del Bocco, m. Prinzera (Fornovo), Pezze (Borgotaro) e studia l’attacco a Varese L.
Il 24 maggio, anniversario storico, le formazioni della Centocroci sono attestate ad Alpe, Setterone, Casale e Strepeto, alle falde del m. Penna, per quell’avvicendamento posizionale che strategicamente consentiva una mobilità di stazionamento difficilmente individuabile. La segnalazione dell’arrivo a Bedonia di una vettura-avanposto, era l’indizio che qualcosa di grosso sarebbe seguito. Richetto parte da Strepeto con una decina di uomini e incontrano l’automezzo proprio sulla Costa di Bedonia: sparatoria, inseguimento e la vettura si rovescia nella scarpata. Un partigiano è colpito a morte, due tedeschi vengono fatti prigionieri e uno si dilegua attraverso l’abitato. Il giorno dopo arrivano le truppe per un rastrellamento in forze. Richetto si sposta coi suoi sul massiccio del Penna, inseguiti da un aereo «cicogna»: invano si tenta di abbatterlo. Alla «nave» (avvallamento carsico) si trovano con una squadra della formazione bedoniese e si cerca di stabilire un piano per uscire dall’accerchiamento senza venire a capo di una soluzione concordata. La formazione bedoniese opta per uno sganciamento ordinato verso il piacentino, e Richetto invece pensa più opportuno scendere lungo la costa di Alpe verso il Taro, perché era stato segnalato che i rastrellatori si erano concentrati nelle vecchie basi della Centocroci per sferrare poi l’attacco in direzione del m. Penna. Così sposta gli uomini presso Caneso, occupata dai nazi-fascisti, sui monti di Carniglia, pressoché inaccessibili per la pendenza da un lato e la presenza di ammassi rocciosi dall’altro, per infiltrarsi al momento opportuno fra le colonne avanzanti e portarsi alle loro spalle. Richetto attraversa il Taro per primo e la provinciale e si porta con un fucile mitragliatore (Aldo) in posizione da proteggere, se fosse stato necessario, il guado dell’intera formazione, che si avvia felicemente verso la zona del Gottero. Sfortunatamente altri reparti hanno dovuto sacrificare uomini e armi: diversi partigiani sono finiti in Germania o fucilati.
Gli uomini riuniti al passo di Centocroci erano ormai tutti al corrente dei piani predisposti dal comando, dove si erano riuniti i responsabili dei vari distaccamenti e delle squadre. Obiettivo: Varese L. I compiti erano stati fissati e tutti cercavano di prepararsi per non trovarsi a disagio nel momento in cui veniva dato l’ordine di prendere posto sugli automezzi ormai a disposizione per gli spostamenti. Gli armieri si prestavano a risolvere problemi di funzionalità delle armi in dotazione.
Al posto di guardia, verso la Valle del Taro, si presenta una magnifica fanciulla in tenuta militare, confezionata in modo da esaltare la sua femminilità:
– Sono Rosetta, della la Brigata Julia. Vorrei parlare al Comandante Richetto.
Era intento a prendere gli ultimi accordi con Beretta, che sarebbe rimasto al passo con un reparto di scorta e protezione.
– Sarei curiosa di partecipare a un’azione, perché mi hanno detto cose strabilianti sul tuo coraggio in combattimento e vorrei proprio seguirti da vicino.
– Per me sta bene: domattina all’alba attacchiamo Varese L.
Infatti alle prime luci gli automezzi si spostano sulla strada in discesa dal Passo di Centocroci e, fatti alcuni Km, precauzionalmente proseguono a piedi lungo le accorciatoie, i sentieri ripidi ma sicuri che permettono alle formazioni di raggiungere i posti predeterminati per l’attacco. Quando è giorno Richetto, dopo aver strisciato lungo un muricciolo, protezione naturale, con Rosetta sempre vicinissima, insieme a Bruno e Vittorio con un sacco pieno di munizioni, decide di tentare l’intimidazione:
– Attenzione lì dentro: siete circondati! Siamo partigiani! Arrendetevi! Consegnate la armi e vi lasceremo liberi! Non avete scampo!
Per tutta risposta da ogni finestra, da ogni feritoia, aprono il fuoco all’impazzata. Rosetta, Bruno e Vittorio allungano a Richetto le bombe a mano che lancia con precisione e in breve le finestre e la porta d’ingresso sono scardinate in una nuvola di polvere e di calcinacci divelti. Dalla parte opposta intanto Aldo, con un colpo di mano entra nella caserma, disinnesca una «ballerina» che lancia nel vano scale e fa crollare come terremoto le strutture interne dell’edificio. La guarnigione si arrende. Dalla conta dei prigionieri manca il capitano, che da una finestra della cantina prende sotto mira Richetto, ignaro, ma ancora una volta fortunato perché Ferruccio imbracciando il mitra gli tuona:
– Getta l’arma o ti ammazzo! Si arrende.

Fra sogno e realtà
Circostanze internazionali, come lo sbarco degli alleati in Normandia e l’andamento generale della guerra contro la Germania su tutti i fronti, avevano notevolmente demoralizzato i nazifascisti e accresciuto per conseguenza nella stragrande maggioranza della popolazione e dell’esercito della resistenza, la speranza di una ormai rapida conclusione vittoriosa del conflitto.
Il carabiniere Salvestri è stato elemento di primo piano nelle azioni che hanno portato alla liberazione del territorio dell’Alta Valle del Taro e Val Ceno con la conseguente rudimentale organizzazione civile e democratica. E il periodo romantico della Repubblica Libera del Taro, con l’apporto di eminenti personalità politiche, come il prof. Pellizzari e militari (col. Lucidi). Espressione della illusoria mentalità corrente la costruzione effettuata con prestazione volontaria dai borgotaresi di una pista quasi agibile per l’atterraggio degli apparecchi alleati nel locale campo di fortuna adiacente al paese sulla destra del Taro, sulla quale invece sarà effettuato un lancio di rifornimento, in pieno rastrellamento, raccolto interamente dai nazifascisti. Per la prima volta le «bande» dei patrioti
che avevano sempre agito con libertà d’azione e autonomia di iniziativa, vengono inserite in un comitato militare che comincia a funzionare quando si tratta di organizzare la difesa del Territorio Libero: ogni formazione viene dislocata in un determinato punto strategico, collegata al comando di Compiano, che decide la tattica e la strategia mediante un piano generale che lascia tuttavia alle singole formazioni una certa libertà d’azione, cui peraltro non erano disposte a rinunciare. Chiaramente l’incidenza operativa di questo tentativo di centralizzazione era destinato a ottenere modesti risultati, perché comportava una concezione completamente diversa da quella della guerriglia, su cui si erano basate fino allora le singole unità.
Una palazzina di quelle che si trovano nel quartiere della cittadella di Parma, ospita l’Ufficio A del comando di presidio territoriale tedesco e in un’altra poco discosto è esposto un vistoso cartello: Ufficio Agricolo Provinciale, ma stranamente è presidiato da militari repubblichini, in borghese, alloggiati al piano superiore e alla porta sempre chiusa, non si passa senza mostrare credenziali se non si tratta di persone conosciute, abituali frequentatori: è in realtà l’ufficio informazioni, specie di servizio segreto militare repubblichino ove confluiscono le notizie riservate da tutto il territorio della provincia, che vengono vagliate e trasmesse sia al comando fascista che a quello tedesco. Anzi quest’ultimo è piuttosto insistente e dà anche disposizioni per ottenere notizie precise su determinati «oggetti». In questi ultimi tempi l’argomento è sempre quello: le forze della Resistenza. L’organizzazione dell’Ufficio agricolo è capillare e si basa essenzialmente sulla collaborazione di elementi di chiara fede, sparsi nei centri maggiori della provincia e a volte nei paesini; persone non troppo evidentemente impegnate politicamente, titolari di uffici pubblici (comuni, annonaria, poste ecc.) alle quali è stato ulteriormente raccomandato di tenere una condotta discretamente riservata senza lesinare magari qualche prestazione a favore dei partigiani per mimetizzarsi tenendo sempre d’occhio la finalità di raccogliere e trasmettere informazioni. Era una prestazione non del tutto volontaria che sfuggiva anche al controllo dei CLN locali, incentivata con forme non palesi di agevolazioni e di privilegio in caso di necessità. Sull’argomento non è mai stato possibile raccogliere documentazioni, perché sia chi lo ha fatto, sia chi sapeva, taceva e tutti ne traevano vantaggio: tranne le forze della Resistenza, ovviamente.
Ma ogni volta che il comando tedesco decideva una puntata era sicuramente in possesso di tutti gli elementi per arrivare all’obiettivo. Nel caso dell’Alta VaI Taro poi l’interesse dell’informazione era esteso ai comandi territoriali di Spezia, Massa e Genova, trattandosi di una zona posta sui loro confini e le notizie riservate, segrete, circolavano nei vari uffici di competenza quando si trattava di organizzare azioni concrete. Il Territorio Libero del Taro dava un certo fastidio, perché attraversato dalla linea ferroviaria Parma-Spezia col transito frequente, specialmente di notte, dei rifornimenti tedeschi diretti alle truppe combattenti sulla linea gotica nonostante l’interruzione al nodo ferroviario di S. Stefano Magra provocato dai bombardamenti aerei e il genio ferroviario era sempre riuscito a ripristinare la linea con l’uso di puntrelloni per buona parte verso la pianura e inoltre le numerose gallerie costituivano un buon riparo dagli aerei per i convogli durante il giorno; il tratto comunque interessava fino a Fornovo che nei piani dei tedeschi costituiva un punto focale notevole, perché raggiungibile anche con la strada della Cisa. L’informazione che a Borgotaro i partigiani con
l’aiuto della popolazione (fra cui certamente l’inevitabile informatore) stavano apprestando anche un campo di atterraggio, aveva fatto traboccare il vaso. L’operazione di repressione coinvolgeva vari comandi, ma l’unità di direttiva era stata assegnata a un colonnello della Wehermacht che stabiliva la base a Fornovo e delineava una manovra intesa a disperdere le forze di quella «Repubblica Libera» con attacchi dai tre punti cardinali diversi convergenti tutti al Nord. Un gioco da ragazzi per quello che fino a pochi mesi prima era stato l’esercito più forte e temuto del mondo. Naturalmente le varie colonne conoscevano perfettamente ciò che avrebbero incontrato sul loro itinerario di marcia, a parte qualche imprevisto più o meno rilevante. . .
Una staffetta reca a Centocroci il messaggio del comandante Beretta: a Borgotaro è quasi arrivata un’autocolonna tedesca della Feldgendarmerie, proveniente da Berceto: un assaggio della vulnerabilità nel cuore del territorio libero? Mentre gli uomini si dispongono per la partenza Richetto sale su una vettura con due uomini e si reca a Borgotaro per rendersi conto della situazione: i tedeschi non sono entrati nel paese perché attaccati a un Km da Igor e ritornano con qualche indugio sui loro passi. A Boceto incontra Dragotte e Libero della 1 a Julia: si decide l’imboscata al Manubiola, un torrentello sulla strada, il cui ponte era stato fatto saltare diverso tempo prima e perciò gli automezzi erano costretti a compiere una lunga deviazione sulla stazione ferroviaria, perdendo qualche ora preziosa perché tutti i partigiani prendessero posizione per chiuderli dentro una morsa di fuoco. Sono 12 autocarri carichi di truppa, con armi pesanti (20 mm) e, purtroppo, ostaggi presi fra la popolazione a loro protezione e diversi cadranno sotto i colpi dei loro amici. Solo dopo alcune ore di battaglia i tedeschi si arrendono lasciando nelle mani dei patrioti un bottino considerevole e 15 morti. Contrariamente agli ordini ricevuti Richetto porta 64 prigionieri nella zona di Albareto, Case Mirani, anziché al campo di raccolta di Compiano, nella previsione che le cose si mettessero male: i prigionieri erano l’unico elemento contrattabile in caso di bisogno e perciò troppo preziosi per tenerli raggruppati tutti in un sol luogo. I fatti seguenti purtroppo dimostreranno che il carabiniere Salvestri aveva ragione, ma non c’è tempo per le riflessioni perché al rientro a Centocroci apprende che sono in corso combattimenti a Borsa (Liguria) dove è impegnato Aldo: spostamento precipitoso con automezzi, ma nel frattempo tutto è finito e con successo. Si tratta evidentemente di scontri di assaggio da parte dei tedeschi, per distrarre l’attenzione dei difensori del Territorio Libero, prima di lanciare l’attacco in forze, utilizzando una divisione forte di parecchie migliaia di effettivi in avvicendamento sul fronte della linea gotica: i cartelli segnaletici della direzione di marcia dei reparti, disseminati lungo i sentieri in gran parte della Vallata, recano la scritta: Div. G6ring, naturalmente appoggiata da alpini e fascisti.
Nella predisposizione tattica di difesa il comando di coordinamento delle forze partigiane operanti nella vallata, aveva destinato al reparto del Penna (in prevalenza bedoniesi) il presidio del passo del Bocco, estremo Ovest del territorio della Repubblica Libera.
La mattina del 10, si cita la data non per motivi storici, ma per iniziare la cronaca dell’operazione più rilevante nella difesa di un sogno di libertà, da parte della Centocroci, il gruppo mobile d’impiego più efficace nell’intero spiegamento partigiano, sempre presente dappertutto con spostamenti rapidi e decisi, giunge una staffetta mandata da Fortunin: i tedeschi stanno salendo dalla Liguria in forze verso il Passo del Bocco:
– Sono arrivati a Monte Moggio.
Con la consueta rapidità Richetto arriva al Passo con un distaccamento di circa cinquanta uomini e prende posizione da un lato Fortunin tiene l’altro, attorno alla gola. Ma i tedeschi hanno inviato pattuglie sulle alture, oltre le pinete e la posizione dei difensori non è ideale. Si combatte per alcune ore, ma poi si decide il ripiegamento su S. Maria. Piacentino, ferito, viene caricato sulla vettura di Richetto e inviato al sicuro per le cure. Qui gli automezzi caricano anche i civili che vogliono sfuggire ai tedeschi e viene deciso l’appostamento a Pelosa, il punto più favorevole per tentare una buona difesa. Richetto ritorna a Centocroci, carica il distaccamento di Aldo e lo guida a rafforzare nel cuore della notte le postazioni già dislocate in attesa dell’autocolonna.
Alle prime luci dell’alba gli uomini di Fortunin e di Aldo sono piazzati sulla sinistra del Taro con le spalle rivolte alla foresta dei faggi del Penna e a 150 m dalla strada; sul lato opposto è schierato il resto della Centocroci con Richetto. L’ordine è di non sparare fino al segnale e questo arriva quando l’intera colonna è sotto tiro: i tedeschi a piedi, in fila, procedono ignari e all’improvviso una valanga di fuoco si versa su di loro. I partigiani si fanno sotto e li martellano con le bombe a mano: a poco a poco sul nastro bianco della polvere bagnata di sangue cominciano ad arrendersi. Gli ultimi sono quelli della parte a monte, presi alle spalle dal reparto, di Aldo che ha passato il fiume. E il momento dell’euforia per la vittoria ormai certa ed escono allo scoperto. Richetto urla:
– Non muovetevi, sparano ancora!
Un cecchino col mauser di precisione colpisce Gallinari che, scalzo, tentava di rimediare un paio di stivaletti. Il carabiniere Ghiorzo corre in suo aiuto e gli rotola addosso colpito a morte. Barbagatto, individuato il cecchino, nel tentativo di mettersi al riparo, salta un reticolato ma cade a terra colpito al cuore. Quando si finisce di sparare un’ottantina di tedeschi giacciono morti, 30 feriti, 250 i prigionieri; tre soltanto trovano scampo attraverso il Taro e si dileguano. A mezzogiorno, quando arrivano i rinforzi, condotti personalmente da Beretta e Bill, tutto è finito e si sgombra il terreno: i prigionieri sono inviati a Compiano insieme ai feriti dopo aver ricevuto le necessarie cure a Bedonia. I rinforzi rientrano alle rispettive basi e Richetto decide un nuovo schieramento avente per epicentro Pontestrambo, lasciando un distaccamento avanzato sulle alture di Pelosa. Ma non è ancora finita. Verso sera Richetto guida una pattuglia di esplorazione verso S. Maria, ma una staffetta lo raggiunge: un’altra colonna è in arrivo. Infatti la mattina del 12 sono a Pelosa, caricano i loro morti su autocarri che inviano a Chiavari e poi ripiegano su S. Maria. Richetto si reca al passo di Centocroci per avere rinforzi e rifornimenti e, nel corso della notte riprende lo schieramento attorno a Pelosa, tutto sulla destra Taro: la tempestività degli spostamenti scompagina le previsioni del nemico che ha perso il contatto con l’evoluzione della tattica partigiana…
La mattina del 13 la sveglia è data dal rombo degli autocarri, dei mezzi blindati e delle motociclette. Gli uomini schierati non sono al corrente che Pelosa è l’ultimo caposaldo che resiste nella Vallata alle forze preponderanti impegnate dal nemico nell’operazione: solo Richetto è consapevole che è un sacrifico inutile, ma è il prezzo della guerra. Coi binocoli segue e dirige il tiro della «Breda» azionata da Aldo e alimentata da Parma, quando un proiettile della 20 mm centra il nastro in pieno. Parma lo prende in faccia:
– Guarda se ho ancora il naso…
Sorte peggiore tocca ai partigiani Brusone e Piccetti, rimasti sul campo. Quest’ultimo, torturato, interrogato, sotterrato fino alla testa sotto il sole cocente per diverse ore, è freddato infine con un colpo alla nuca.
Ancora due giorni di piccoli scontri e poi il ripiegamento verso Centocroci: è in atto il grande rastrellamento e… la fine della Repubblica Libera.
La disorganizzazione è generale e sembra che le forze della Resistenza siano irrimediabilmente sfasciate: le truppe dei rastrellatori non trovano che sporadica resistenza. Molti reparti hanno avuto l’ordine di nascondere le armi e cercare scampo con iniziative individuali, confondendosi con la popolazione civile che per paura della repressione tedesca, con esodo di massa si sparpaglia sui monti.
A Centocroci arriva la notizia che i tedeschi hanno occupato Borgotaro. Richetto e altri comandanti che si trovano lì per caso, salgono sulla solita «ardea» e scendono dal Passo per rendersi conto della situazione: a un certo punto una raffica di mitragliatrice da una postazione oltre il torrente Gotra la centra e la incendia: tutti a piedi, ma incolumi. Da un’altura di Campi scorgono una colonna tedesca: sono oltre 350 prigionieri di guerra lasciati in libertà a Compiano per ordine del col. Lucidi, senza tener conto che costituivano una carta importante da giocare per evitare lutti e distruzioni: Richetto si rende conto di quanto abbiano perso i partigiani e ritorna mestamente a piedi e solo verso Centocroci, dove sperava di trovare gli altri. Da partigiani incontrati in una stradina secondaria sa che hanno avuto l’ordine di sganciarsi: sembra che sia veramente giunta la fine anche di questa gloriosa formazione.
La preoccupazione di Richetto sono i 64 prigionieri affidati al Piacentino e mandati a Zeri, nel versante toscano dell’Appennino e verso quella località convoglia gli uomini sbandati che incontra ancora in armi. Anche questo paese, ultima propaggine toscana verso la Liguria e l’Emilia ha conosciuto gli orrori e le distruzioni della guerra. Sua caratteristica è quella… di non esistere, perché il nome si riferisce non a un centro abitato, ma a diversi raggruppamenti di case: Delano, Castello, Coloreta, Arzelato e le geografia del posto si presta a favorire l’acquartieramento delle forze della Resistenza perché la sorpresa di un arrivo in forze è pressoché impossibile e l’allarme si diffonde in un baleno su un territorio montuoso e di non facile accesso, con una sola strada rotabile facilmente intercettabile sulla lunghezza di diversi Km.
La fama di Richetto è ben nota fra la popolazione che non gli lesina ospitalità per sè e per i suoi uomini ben conoscendo le imprese della gloriosa formazione ai suoi ordini. Ormai nei vari centri abitati arrivano a piccoli gruppi i numerosi cittadini sfollati dalle città soggette ai bombardamenti alleati, si intrattengono e raccontano del pericolo scampato nel grande rastrellamento.
Dopo qualche giorno di attesa, trascorso nel riorganizzare gli uomini e i rifornimenti, arriva una staffetta da Albareto per chiedere il trasferimento immediato dei prigionieri a Montegroppo e poi a Boschetto, sulla stessa strada, per effettuare uno scambio con partigiani catturati e con gli ostaggi presi fra la popolazione civile, in base ad un accordo stipulato da Beretta Guglielmo e altri del comando della Centocroci, secondo il quale alla popolazione sarebbe stata risparmiata ogni vessazione e per l’avvenire sarebbe stato permesso il transito alle truppe di qualunque parte lungo le maggiori arterie di comunicazione: era un accordo altrettanto vantaggioso, anche se poi non sarà mantenuto a lungo termine. Beretta Gino nel momento dello sganciamento si era spostato verso la Liguria con l’intenzione di passare il fronte e di conferire direttamente col comando alleato della V Armata, oltre la linea gotica.
Passata la burrasca di questo periodo Richetto a Montegroppo ha raccolto oltre 470 combattenti e il 20 luglio, in pubblico pronunciamento è nominato comandante della ricostituita Brigata Centocroci, organizzata con criteri simili a quelli di una formazione di esercito regolare e dispone anche di un reparto di polizia militare con poteri civili (40 CC) affidata al ten. dei CC Loero e frazionata in squadre al seguito di ogni battaglione.
Il comandante Guglielmo Beretta, con i partigiani che hanno voluto seguirlo, si sposta in altra località della vallata e si stabilisce finalmente nella zona di Rovinaglia (Comune di Borgotaro), dove si riorganizza e costituisce con l’aflusso di nuove reclute la divisione omonima.
È chiaro che la situazione è mutata e le formazioni della guerra di liberazione si preparano ad una nuova strategia che comporta non più l’attacco di sorpresa e la fuga secondo la tecnica della guerriglia, ma un impegno diverso non più basato sull’intervento individuale, ma sull’impiego di gruppi con un consistente volume di fuoco, capaci di reggere al confronto diretto con le truppe nemiche su un campo particolare quale quello montano, privo di agevoli strade per l’impiego di mezzi blindati e il trasporto dei rifornimenti, mediante opportune manovre, studiate e decise da uno stato maggiore, dove la figura del comandante, se ha la portata dell’esperienza e la fama del carabiniere Salvestri, riesce comunque a prevalere. La nuova Brigata si inserisce nella 1 a divisione Liguria, ma non abbandona il solito territorio operativo.
Il carabiniere Salvestri ha percorso tutte le tappe di una carriera che l’esercito regolare gli aveva negato perché legato necessariamente a una struttura diversa e la sua competenza e il suo coraggio gli hanno valso il riconoscimento di quei combattenti al cui fianco si era sempre trovato in primissima linea. E da questo momento un’altra qualità si manifesta, innata come il coraggio individuale, la capacità di assumere direttamente la responsabilità di una tecnica nella strategia propriamente militare, oltre all’amministrazione civile dei territori abbandonati a se stessi, perché privati della presenza del potere costituito.

Una nuova strategia

– Comandante: hai visto come ti guarda la ragazza dagli occhi a mandorla…
– Stupidaggini…
– Eppure non guardava nessun altro, come se l’avessi incantata.
L’occhiata di Richetto non lasciava adito a interpretazioni diverse. Era meglio cambiare argomento, perché c’era il caso di venire alle mani e tutti quelli che avevano provato, per scherzo s’intende, ne erano usciti malconci. E poi c’erano argomenti in cui il comandante aveva un’eccessiva riservatezza, come per le cose strettamente personali. Ma anche altri partigiani avevano notato come la fanciulla avesse una particolare luce negli occhi ogni volta che Richetto si trovava nelle vicinanze e i motivi per recarsi nei pressi del Comando non mancavano. Bastava trovare la scusa di recarsi a casa di Luisa, una ragazza della sua età con la quale era andata subito d’accordo dopo il trasferimento a Caranza, a casa della zia Marcella. Era proprio con lei alla fontana pubblica per riempire un secchio da portare a casa, quando Richetto, comparso improvvisamente dopo aver superato con un salto, appoggiandosi con una mano all’ultimo palo, la staccionata vicina:
– Vi siete spaventate?
– Oh! Dio! Ma da che parte vieni?
– Guardate: il secchio è pieno.
Le due ragazze non si erano ancora riprese dallo spavento.
– Cercavo qualcuno che mi attaccasse questo bottone della giacca.
– Se vieni a casa di mia zia… Bruna, rossa in viso come mai prima di allora, non osa incontrare il suo sguardo.
– Ma tu hai gli occhi verdi. Sei capace di usare l’ago? Facciamo un patto: io ti porto il secchio e tu mi attacchi il bottone.
La casa di Bruna non era molto lontana, pur non facendo parte dell’agglomerato del paese, ma sembrava che il tragitto non finisse più.
– Zia! Mi prepari un ago con del filo? Devo attaccare un bottone al comandante…
E lui ridendo:
– Signora, ecco il secchio pieno d’acqua. Dove glielo metto?
– Dallo pure a me e accomodatevi tutti sotto il pergolato all’ombra.
Porto fuori una seggiola…
– Non si scomodi, per me va bene questo tronco.
Un po’ contorto, era appartenuto a un ulivo secolare e giaceva da alcuni anni sotto i tralci per favorire la siesta nei pomeriggi estivi, mentre dal lato opposto del piccolo spiazzo erboso, coi fili radi a causa della siccità, una lastra di arenaria capitata lì per caso era sorretta da due grossi macigni lavorati con scalpello e al centro, a guisa di tavolo, la mola di un piccolo mulino, corrosa a forza di frantumare chicchi da ridurre in farina. Qua e là attorno a quell’angolo di paradiso piantine fiorite di bocche di leone, astri e zinnie profumavano lievemente l’aria appena mossa dalla brezza spirante dal mare invisibile, appena oltre la barriera delle colline.
«Effettivamente ha dei begli occhi a mandorla e non mi dispiace…»
– Quanti anni hai?
– Noi due siamo coetanee: io sono nata in marzo e lei in aprile: diciassette anni compiuti perciò.
– Eh! Sono veramente tanti… lo ne ho quasi quanti tutte e due insieme.. Ma dove hai imparato ad attaccare così bene i bottoni…
Zia Marcella:
– Vuoi fermarti con noi a cena? Non abbiamo gran che da offrirti, ma se ti accontenti…
La zia aveva letto nel pensiero della: nipote che lancia a Richetto uno sguardo implorante.
– Se il comandante si ferma a cena da noi, saremmo tutti molto contenti…
– D’accordo!
Le due amiche si guardano con espressione soddisfatta: Bruna ha la speranza di contare qualcosa per Richetto e Luisa spera che le attenzioni del «principe azzurro» siano un pochino anche per lei.
Il sole sta oltrepassando il limite dell’orizzonte pur essendo ancora alto nel cielo, come succede sempre in montagna, ma sull’altro versante i boschi verdissimi, le case rade e il villaggio più basso sono ancora completamente illuminati…
Ogni tanto si odono distintamente i rintocchi delle campane appese al collo dei bovini al pascolo
e pur non avendo ancora la certezza del giorno che muore, l’ambiente ha raggiunto quell’atmosfera un po’ irreale di attesa di qualche cosa che può e che deve succedere anche se non si conoscono perfettamente i dettagli.
– Mia madre mi sta cercando sicuramente.
Bisogna che vada. Mi accompagni Bruna?
– Vengo anch’io. Facciamo quattro passi insieme.
In realtà la madre di Luisa era sull’uscio di casa e li accoglie festosamente.
– Oh Richetto! Come mai da queste parti…e con queste graziose fanciulle…
– Mi fermerò poco: il tempo di cenare a casa di Bruna, mi ha invitato la sig.ra Marcella e non potevo rifiutare…
– Dovresti farci l’onore di venire anche da noi: facciamo domani?
– Volentieri, ma chissà dove sarò domani. Comunque accetto l’invito per una prossima volta: non mancherà l’occasione.
Sulla via del ritorno:
– Posso dirti che sei una magnifica fanciulla? – Davvero?
E diventa tutta rossa.
– Ti spiace se ti dico che verrò a trovarti appena posso?
– Non dire niente altro: siamo a casa…
Il battaglione «Lupo» si era acquartierato, dopo il rastrellamento di metà luglio in Bedonia e il comandante, avuto sentore che i partigiani si stavano riorganizzando e assumevano proporzioni giudicate pericolose per la loro sicurezza, decide di rompere la tregua stipulata a Fornovo con la convivenza del magg. Engel, capo delle SS di Genova. Salito indisturbato, secondo i patti lungo la strada di Centocroci, peraltro «guardato» a breve distanza da un distaccamento (Aldo) della formazione, esce dall’arteria di traffico e si attesta su una delle due cime che costituiscono il m. Scassella, in modo provocatorio. Richetto alla notizia recatagli da un portaordini che gli annuncia l’intenzione di Aldo di passare all’attacco, raccoglie tutte le forze disponibili a Montegroppo e velocemente raggiunge il teatro del combattimento per assumere direttamente il comando dell’operazione e dell’iniziativa, approfittando di una fitta cortina di nebbia adagiata sul crinale. Raggiunta l’altra cima dello Scassella si trovano mescolati ai marò che stavano ritirandosi: nella confusione si spara indiscriminatamente; a un’improvvisa schiarita Richetto e i suoi si ritrovano in un campo di avena presi fra due fuochi e chiarito in qualche modo l’equivoco tutti insieme gli uomini della Centocroci investono il battaglione in ripiegamento verso Tarsogno, ma con scarse possibilità di sfuggire ormai all’accerchiamento. . . quando una staffetta del comando di Montegroppo avvisa che il col. Turchi (1a div. Liguria) si era sganciato da Zeri a causa di una puntata in forze e che non era improbabile che l’azione si riversasse su Centrocroci. Richetto reagisce subito ordinando a tutti i reparti di abbandonare il contatto col nemico e trasferirsi nella zona di Porcigatone (Borgotaro).
La mattina seguente arriva a Montegroppo un’auto pubblica e mons. Checchi, parroco di Bedonia gli reca l’ambasciata del comando tedesco per un colloquio al bivio di Albareto. Se non si fosse presentato i tedeschi avrebbero sottoposto a dura rappresaglia la vallata.
Richetto si presenta da solo e discute a lungo mediante l’interprete con due alti ufficiali che gli rimproverano:
– Non avete mantenuto la parola: avete attaccato i nostri alleati in transito per il passo di Centocroci.
– Non risponde al vero. Siamo stati provocati dalla X MAS penetrata nel nostro territorio. Ad ogni modo se noi abbiamo rotto la tregua di nostra volontà rispondo di persona, con la mia vita. Sono disposti a fare altrettanto gli altri?
A queste dichiarazioni i tedeschi si calmano: appuntamento per il giorno dopo alle undici all’osteria del bivio per Gotra. Questa volta Richetto porta con sè due distaccamenti e li attesta sulle collinette in bella vista; sono tutti in ottima forma, armatissimi e in divisa americana e fanno una certa impressione sui nemici:
– Quello è comunista!
Dice un capitano indicando il partigiano che indossa un copricapo rosso. .
– Ma è soltanto un berretto tedesco rovesciato!
Nella conversazione che segue al fresco del pergolato riscaldato da fiaschi di buon Chianti si rinnovano i patti precedenti e il battaglione «Lupo» verrà trasferito immediatamente dalla zona.
L’incontro ha termine con strette di mano e un ultimo brindisi, da pari a pari:
– Heil Hitler! Heil Deuchland!
– Viva l’Italia! Viva Badoglio!
È il primo contatto diplomatico e un certo successo del nuovo comandante.
Richetto ha trasferito la base a Pian di Scala, un prato, in estate, sui mille m di quota, circondato dai faggi e poco discosto da un’altra radura destinata ai lanci alleati per i rifornimenti. Sul pianoro sono stati sistemati i paracadute trasformati in tende per ospitare la compagnia comando: sono una scena nuova, variopinta, da tecnicolor che tiene conto della incapacità operativa (o volontà) dell’aviazione tedesca, impegnata evidentemente in settori più importanti, ma non della ricognizione aerea. Ogni tenda ospita sei uomini che hanno steso sul terreno frasche e coperte per avere il maggior comfort possibile nell’accampamento, punto centrale dell’acquartieramento di tutta la Centocroci nel raggio di alcuni Km e si spinge fino alle prime case di Montegroppo e Boschetto. L’organizzazione dei rifornimenti consente di assicurare a tutti gli effettivi l’approvvigionamento sufficiente e vario: non sono più i magri pasti di castagne bollite e un pugno di farina, ma funzionano forni e cucina per i piatti caldi e con disciplina la distribuzione dei viveri avviene regolarmente per tutti i reparti, secondo la forza presente.
La mattina del 9 agosto una staffetta arriva al corpo di guardia e invita Richetto a un appuntamento importante a Boschetto. Il comandante e la guida a cavallo, attraverso un sentiero tracciato nei boschi rigogliosi e ombreggiati, arrivano nella piazzetta antistante l’osteria dove lo attendono Gordon Lett, maggiore inglese del Battaglione Internazionale e il Col. Turchi (Fontana). L’argomento della conversazione con Richetto, che nei confronti del comandante della 1a div. Liguria ha motivi di astio in seguito a un episodio precedente (il col., sganciatosi a Zeri nel corso del rastrellamento, era passato a Montegroppo con un reparto sbandato avevano fatto fuori le scorte di viveri della Centocroci e si era ben guardato dal recare una mano alle formazioni impegnate nel combattimento del m. Scassella: sarebbe bastato che i nuovi venuti si attestassero a protezione della pista per Zeri e Richetto avrebbe completato l’accerchiamento del battaglione Lupo…), era la richiesta del suo parere circa la riconferma al comando della divisione del colonnello effettivo del regio esercito italiano, accusato di disorganizzazione da altri capi reparto, e caldeggiata dall’ufficiale inglese, fiducioso nelle capacità operative di un militare di professione. Richetto dà la sua adesione per non mettersi in contrasto con gli alleati e terminati i convenevoli si porta a casa Signorini, sede della missione Alfonso per avere notizie di un lancio del quale era arrivato il segnale di allerta «Richetto attende». Infatti è l’ora dell’appuntamento radio e la conferma non si fa attendere mettendo tutti in euforia, con il messaggio «La strada era tortuosa», comunicata subito a Pian di Scala. Il partigiano Vittorio si mette in agitazione, si accendono i tre falò convenzionali e si avvia, al rumore del bimotore, al centro della radura per il segnale convenzionale con la torcia elettrica, ma nella confusione inciampa e rompe gli occhiali: l’aereo passa a bassa quota nella direzione dei fuochi, ma non recepisce il segnale confuso della torcia.
Secondo le consuetudini ritorna poco dopo a quota conveniente e credendo che si tratti di un contrattempo, sgancia una decina di spezzoni, fortunatamente senza colpire nessuno dei partigiani in attesa. La missione alleata chiarisce l’equivoco e dopo un paio di giorni, anzi di notti, l’aereo arriva puntuale come sempre e questa volta è un susseguirsi spettacolare di paracadute recanti ogni ben di Dio: armi sofisticate come le terribili «bazooka», fucili mitragliatori Brenn in abbondanza, casse di bombe a mano, dinamite, generi di vestiario e alimentari. Ma qualcosa manca all’appello: il bidone, preannunciato, contenente una grossa somma: un milione e mezzo. Richetto fa circondare la zona attorno perché il malloppo potrebbe suscitare qualche tentazione: in effetti il contenitore era finito in un folto cespuglio non troppo lontano. La missione Alfonso provvederà poi a distribuire, secondo un piano preciso, le somme ai vari destinatari.
– Ho portato un regalino, appena arrivato dal cielo, è una razione di comfort che ci hanno mandato gli alleati: cioccolato Nestlè. Così fanno la guerra gli americani. Un pacchetto di tè e una stecca di Luky, sigarette di lusso…
La famiglia Ferrari, raccolta in casa in attesa del pasto del mezzogiorno (minestrone con le verdure dell’orto, formaggio, salame e un buon fiasco di vino in mezzo al tavolo) dimentica l’appetito e tutti assaggiano quello che il comandante ha loro dispensato, in regalo. Sedendo a tavola zia Marcella parla delle ultime notizie apprese dalla radio ascoltata in casa di un vicino, benestante e proprietario di alcuni poderi acquistati con i risparmi messi insieme durante decenni di emigrazione, dura ma redditizia. Pare che le truppe tedesche impegnate sul fronte russo stiano subendo dei rovesci clamorosi, perché i sovietici hanno potuto passare al contrattacco dopo aver ricevuto ingenti rifornimenti dagli alleati americani…
– Evidentemente la guerra si vince con i «mezzi». lo non so cosa vi siete messi in mente voi, quattro ribelli, male armati, contro un esercito potente come quello…
Richetto a questo punto si mette a parlare delle sue vicende, per la prima volta a persone diverse da quelle della sua famiglia e tutti lo stanno ad ascoltare a bocca aperta senza osare interrompere il racconto della sua vita, delle sue numerose traversie.
Alla fine del pasto, modesto ma allietato dal calore di un focolare, fra gente alla buona, della sua stessa origine e condizioni, vuotando gli ultimi bicchieri:
– Vi ringrazio per avermi accolto con tanta simpatia e benevolenza. Purtroppo non posso ricambiare. Devo ritornare subito oltre il Gottero, fra i miei uomini…
– Speriamo di rivederci presto…
– Potete contarci.
Bruna l’accompagnava lungo il sentiero che immette nella strada.
– Avrai capito che sono ritornato per vederti.. .
– Anch’io lo desideravo tanto…
Una stretta di mano, un po’ prolungata per la verità e un saluto agitando il braccio ai fratellini curiosi, sotto il pergolato.
Ormai è chiaro che fra loro esiste un legame sentimentale: la fanciulla dagli occhi verdi a mandorla ha fatto la sua conquista, ha trovato il personaggio che cullerà nei suoi sogni, tutte le notti a venire.
Una mattina di buon’ora l’accampamento si è svegliato al rumore di un aereo ricognitore, facilmente decifrabile, dei tedeschi. Dapprima si pensava a un attacco dall’aria, ma poi si rendono conto della modesta capacità offensiva e ricevono comunque ordine di occultarsi, entrando nel bosco.
– Se avessimo una mitragliatrice antiaerea, sarebbe un gioco abbatterlo.
E sarebbero stato meglio perché l’osservazione e la scoperta dell’accampamento farà predisporre una puntata in forze. Non passano molti giorni che viene segnalato un movimento di truppe da Albareto, in direzione di Pian di Scala. Richetto nell’imminenza dell’attacco riesce a predisporre uno schieramento da manuale spostando sulla destra alcuni reparti e convocando contemporaneamente quelli stanziati a Montegroppo, Cappelletta e Boschetto, pronti a intervenire. Arrivati nell’area di tiro utile entrano in azione i fucili mitragliatori e si continua a sparare per ore. I nazi-fascisti abituati a vedere i partigiani sganciarsi dopo il primo attacco e sfuggire il contatto in campo, sono disorientati e tentano l’aggiramento dello schieramento sulla destra, ma il reparto di Aldo riesce a bloccare il tentativo in un furioso corpo a corpo che costerà purtroppo morti e feriti ad entrambe le parti. Il fallimento della manovra crea il caos e abbandonano l’iniziativa incolonnandosi rapidamente verso il m. Borgallo (Borgotaro). Le formazioni dei patrioti restano sui posti che hanno brillantemente difeso e fortificano le postazioni per essere preparati ad affrontare altri tentativi. Intanto al passo di Centocroci, a sancire la definitiva rottura degli accordi di tregua del luglio scorso, è arrivato un battaglione degli alpini della Monterosa.
Un messaggio da Genova, da parte di quel CLN, preannuncia l’arrivo a S. Maria del Taro di un delegato che desidera conferire con Richetto. Con una minuscola pattuglia di scorta, su un automezzo da Boschetto si porta alle prime case del piccolo centro dove ad attenderlo era Pittaluga (il prof. Emilio Taviani) rappresentante del movimento cattolico per la Liguria, venuto appositamente per un sondaggio circa una possibile adesione: Richetto si riserva di interpellare i più stretti collaboratori, ma in realtà la Centocroci resta al di fuori di ogni colorazione politica, pur essendo costituita da uomini di tradizione cattolica, preferendo dare la prevalenza all’azione militare, patriottica. E sarebbe ingenuo non considerare che tale linea di condotta non abbia avuto conseguenze, a breve e a lungo termine.
Poco dopo avviene il colpo di mano tentato in modo proditorio dalla Monterosa. Arriva al comando la notizia che al passo della Cappelletta (fra Montegroppo e Centocroci) si è notato un certo movimento di truppe. Richetto dirama lo stato di allarme e invia alcuni distaccamenti attorno a Montegroppo, seguendo col binocolo l’evolversi degli spostamenti: improvvisamente scorge una bandiera bianca in testa alla colonna.
O si arrendono o vogliono parlamentare.
E il parere unanime. Ma, arrivati a breve distanza, aprono il fuoco improvvisamente, dopo aver segnalato con un razzo analogo ordine alle batterie piazzate sulle alture del passo. Prima vittima, la postazione mortai che salta in aria: Castagnoli, Calvi e Varese sono feriti gravemente, i primi due non arriveranno neppure all’ospedale militare di Albareto. La reazione dei partigiani è furiosa e determinante: ancora una volta lo scontro diretto, per di più in dispregio al diritto internazionale (la bandiera bianca), si risolve da parte degli attaccanti in un nulla di fatto e ritornati a Centocroci con le pive nel sacco, ripiegano sul passo del Velva.
La fama del comandante Richetto è andata lontano, sia fra i nazi-fascisti, che hanno sul suo conto un voluminoso dossièr che i tedeschi hanno compilato col titolo: carabiniere Salvestri, sia nell’ambiente dei CLN, sia fra la popolazione di un vasto territorio che dall’Emilia si estende fino alla Riviera Ligure. In un incontro tenuto nei pressi del Velva, don Stagnaro, parroco di S. Bartolomeo (Sestri 1.). e il direttore del Secolo di Genova, gli chiedono aiuto e protezione per la popolazione e cercano di allettarlo con la promessa di mezzi considerevoli… condizionati all’adesione al movimento liberale, ma la sua posizione è sempre la stessa.
Una staffetta reca a Montegroppo l’invito a presentarsi a Isola di Compiano, dove nella canonica l’attendeva il prof. Achille Pellizzari (Poe), commissario del comando unico parmense. Il colloquio era incentrato sulle maggiori questioni di ordine militare e giuridico, dal momento che Richetto operava a cavaliere dei territori parmensi e liguri e lamentava il fatto che una formazione di tanto prestigio come la Centocroci non fosse confluita sotto la giurisdizione parmense. Il motivo principale era determinato dalla partecipazione prevalente di elementi liguri, ma non è stato difficile trovare un accordo sul piano operativo perché lo schieramento della Centocroci in fondo costituiva una cintura di protezione e di manovra a vantaggio di entrambe le zone. Trattandosi di un esponente di rilievo del risorgente partito democristiano, sua preoccupazione era anche quella di gettare le basi per una collaborazione in quella direzione.
Intanto l’aumento degli organici nella Resistenza fanno imporre ai comandi unici di Parma e di Spezia dei limiti territoriali precisi: il comando della Centocroci trasferisce la sede nella canonica di Costola (Spezia), lasciando battaglioni di presidio a Montegroppo (Parma) e Zeri (Massa) ed estendendo il proprio territorio di azione fino a Rio di Sesta Godano (Spezia). A Carro (SP) il CLN di Genova invia gli avvocati Pezzi e Maggio per concordare la consulenza militare del col. Bertonelli, ufficiale di carriera. Il comando unico ligure decide di raggruppare i combattenti nella IV zona operativa spezzina agli ordini del col. Fontana, con sede a Porciorasco e due divisioni: la Centocroci, comandata da Richetto, forte di 1250 uomini (oltre la metà delle forze operanti nella prov. di SP), con nuova sede in Varese L. e la divisione Picchiara agli ordini di Scotti, con sede a Zeri. Al primo piano di palazzo Biasotti si insedia Richetto, senza tante formalità, secondo il suo carattere: alcune brande e un paio di tavoli con poche scartoffie. Qui convergono tutte le comunicazioni attraverso il collegamento telefonico della CIELI, una società che gestiva il servizio di erogazione dell’energia elettrica, allacciata direttamente con linea privata a Sesta Godano, Lavagna, Bedonia, Borgotaro e Roccaprebalza (Berceto). A pochi metri funziona l’ufficio di polizia partigiana e tutto il paese è amministrato in modo controllato e fornisce alle forze della Resistenza tutto quanto occorre per l’approvvigionamento e l’assistenza sanitaria.
La sera stessa del nuovo insediamento, accompagnati da una staffetta munita di credenziali, arrivano al comando tre signori in borghese: l’ing. Mattei, Longo e Parri che chiedono una guida per raggiungere Gordon Lett, diretti oltre il fronte. Pranzano tutti insieme all’albergo Amici e si scambiano notizie sull’andamento delle operazioni e le prospettive politiche, quando l’intero Paese sarà liberato. L’ing. Mattei, febbricitante, viene messo in sella al cavallo bianco di Nino Siligato e una scorta armata li porta a Rossano, base del Battaglione Internazionale. Non si deve credere che questo comando fosse facilmente individuabile perché il maggiore inglese poteva contare su un numero imprecisato di informatori che agivano su vasto raggio e se non si trattava di nemici era necessario subire una serie di controlli per essere ammessi alla sua presenza, quasi sempre in località diversa. Era una sistema di protezione inteso a disorientare gli informatori dei fascisti infiltrati in qualche modo fra la popolazione che aveva offerto spontaneamente ospitalità a centinaia di prigionieri alleati liberati dai campi di prigionia dopo l’armistizio. La maggior parte erano riusciti ad attraversare le linee e a rientrare in patria. Il maggiore aveva invece ricevuto ordine di rimanere nella zona, dapprima per organizzare il rientro dei colleghi e successivamente per stabilire una base operativa in una posizione strategica nel quadro della campagna italiana, proprio davanti alla V armata americana affiancata all’VIII inglese, verso l’Adriatico. In pochi mesi era riuscito a stabilire un collegamento diretto via radio, a ricevere i primi lanci di materiale non solo per armare il suo battaglione veramente internazionale anche se la prevalenza numerica era costituita dai giovani contadini dell’Alta Lunigiana. Il vantaggio era anche a favore delle altre formazioni dislocate sul vasto territorio dell’entroterra spezzino. La formazione, rimasta sempre numericamente modesta, era riconosciuta e tenuta in alta considerazione tra le altre, soprattutto per la possibilità dei collegamenti con gli alleati, sempre piuttosto guardinghi e discriminanti nell’inviare armi ed equipaggiamento oltre le linee. Si deve alla sua presenza in una zona cruciale dell’Appennino se le crescenti forze della resistenza riuscivano a trovare il corredo di tutto quanto serviva per diventare unità combattenti. Inoltre Gordon Lett aveva stabilito contatti diretti con la V armata attraverso un sistema di guide esperte per varcare le inaccessibili Alpi Apuane e arrivare agli avamposti della linea gotica. Il sistema ha funzionato egregiamente fino alla fine delle ostilità.

  I terribili giorni del trionfo

Quel giorno il rapporto fissato per le ore 21 nell’ufficio A era un tantino movimentato:
– Non possiamo fare di più. Questi sono i dati rilevati dai nostri informatori. Ma non dovete chiederci l’impossibile… Sarebbe come mandarli a morte sicura…
– D’altra parte per la riuscita dell’operazione dobbiamo contare su una guida pratica del posto. Sappiamo con certezza che il carabiniere Salvestri ha uno spiccato senso di cavalleria verso il gentil sesso: ce lo dice il carteggio a suo nome. Chiederemo al quartier generale di inviare una donna capace, astuta, efficiente.
Siamo d’accordo che non avrà nessun contatto palese con i vostri informatori locali, fatta eccezione per qualcuno, che neppure a voi diremo…
Dopo qualche giorno il dispaccio della sezione spionaggio è eloquente: «Abbiamo l’elemento che fa allo scopo e provvediamo a mandarlo direttamente nella zona in tempo utile.»
E così che arriva in Val Gotra la Marchesa della Stufa, una signora di mezza età, ancora aitante, che aveva preso il nome della nobildonna ebrea, finita nelle camere a gas di Germania. La donna, siciliana, era legata da doppio vincolo con i tedeschi perché vedova di un sottufficiale perito sul fronte russo e perché riceveva dalla patria di adozione notevoli mezzi per condurre vita abbastanza agiata per il tempo di guerra. Non era al suo primo incarico per conto dei servizi segreti. In possesso del lasciapassare di un CLN del Nord, vidimato da varie formazioni partigiane attraverso il cui territorio controllato aveva transitato, diceva che voleva, o doveva, raggiungere e oltrepassare le linee, alla fine dell’inverno, quando lo avesse permesso la neve, già apparsa abbondantemente sulle cime più alte. Il buon fiuto di Richetto stavolta aveva fallito, anche se non completamente, perché l’impossibilità di accertamenti sulla sua identità attraverso la missione alleata che aveva confermato via radio soltanto l’esistenza del personaggio e l’aveva affidata alla sorveglianza di don Canessa, cappellano militare della Centocroci. Ma dopo alcuni giorni di comportamento irreprensibile la sorveglianza era stata allentata e la donna trascorreva il suo tempo fra la sede del comando del distaccamento e le famiglie dei contadini di Montegroppo e di Boschetto con le quali amava conversare di futili argomenti ed era riuscita ad accattivarsi la simpatia di quella buona gente, tanto più che non lesinava le spese per il suo sostentamento durante quello che lei definiva «soggiorno forzato». Salutava con discrezione tutti i partigiani che incontrava e aveva una battuta insignificante per ognuno. Soprattutto ostentava disinteresse per la guerra, anzi sembrava che tutti quei giovani in armi appartenessero a un altro mondo, che «ignorava» completamente.
– Non ti ho mai visto da queste parti e non so come ti chiami, ma dal modo che hanno fatto largo gli uomini sulla piazzetta, devi essere un pezzo grosso… comunque accetto volentieri un po’ di questa grappa che brucia talmente la gola…
– Eppure è dolce: è fatta di susine. Ancora un goccio? So che è qui in attesa della buona stagione. Avremo tempo di rivederci ancora: alla sua salute!
E la conversione continua all’interno dell’osteria dove ogni tanto qualche partigiano armato fino ai denti, ordina un panino:
– Molto grande e con salame…
– Si direbbe che sono affamati. Nelle città in cui sono stata recentemente è difficile trovare del pane così… e poi c’è sempre il pericolo degli allarmi aerei e bisogna scendere di corsa nei rifugi… una vitaccia… non c’è rimasto più nessuno dei miei amici di un tempo: chi è andato in Svizzera, fortunato lui… io voglio proprio farla finita e tornare a casa mia a Firenze, dove la guerra non c’è più…
Intanto è cominciato a nevicare e non si scorge più la cima del m. Gottero, nascosta in una cortina di nuvole basse, gonfie, minacciose.
La presenza del comandante di divisione era diventata saltuaria nella Val Gotra, perché la sede era, come noto, nell’altro versante a Varese L.
Una linea telefonica diretta era stata stesa col comando della brigata Coduri a Valletti (9 Km) per ottenere uno scambio rapido di informazioni. Verso la fine di dicembre sul far della sera squilla il telefono:
– Parla Virgola: notizie da Carasco (p.sso Chiavari) danno per certo che una colonna nutrita degli alpini della Monterosa sta avanzando lungo la provinciale del passo del Bocco…
– Allora state bene a sentire: spostatevi sulle alture di crinale fra il passo e il Velva. Noi ci attesteremo fra Varese e il m. Ventarola. State pronti per attaccare al momento giusto.
Gli spostamenti sono effettuati nella previsione che gli alpini scendessero dal passo verso Varese. All’alba la comunicazione telefonica si è interrotta: ciò fa pensare che, inspiegabilmente gli alpini abbiano raggiunto il comando della Coduri; in realtà un distaccamento era stato sorpreso e annientato e la colonna avanzava sul fondo-valle. Arrivati a tiro della postazione mortai (il grosso li attendeva più a valle, ma presupponeva che la Coduri fosse in grado di premere e chiudere la ritirata) Richetto ordina il fuoco e la colonna, tallonata dai suoi uomini, ripiega verso il passo del Bocco, presumibilmente per far ritorno a Chiavari. Invece cambiano direzione e scendono lungo il Taro. Richetto non perde tempo e manda una staffetta a Bill (nei pressi del Penna) per convincerlo a intervenite alle Piane di Carniglia, una gola angusta, dove li avrebbero irrimediabilmente inchiodati. Allo scopo si attestano in posizione favorevole, pronti a ingaggiare l’estremo tentativo… ma i rinforzi richiesti non arrivano in tempo e gli alpini raggiungono indisturbati Bedonia nel bel mezzo di una bufera di neve. A Richetto non resta che prendere posizione sulla destra Taro fra Tarsogno e Campi e non passa giorno senza che si verifichino scontri di pattuglie, mentre gli spostamenti sono resi precari dalle abbondanti nevicate.
Nei vari contatti i due contendenti registrano la perdita o la cattura di varie unità: così succede a Piacentino e Renato incappati in una pattuglia al bivio di Bertorella. Attraverso la mediazione del clero si concorda lo scambio dei prigionieri, avvenuto alla Costa di Bedonia.
Il 20 gennaio ’45, in pieno rastrellamento effettuato come al solito da reparti misti, questa volta su tredici colonne diverse per attaccare contemporaneamente da tutte le direzioni i vari centri occupati dai distaccamenti della Centocroci, nelle vicinanze dei paesini isolati a causa della neve, Richetto che si era spostato a Caranza, viene a sapere prima ancora di aver salutato gli amici, dal partigiano Cassino, uno della spedizione effettuata in Lunigiana su richiesta di Gordon Lett, per dare manforte alle truppe inglesi regolari paracadute in precedenza per compiere azioni di sabotaggio dietro la linea gotica, che, compiuta la missione e sulla strada del ritorno, il capo distaccamento Nino Siligato era morto fra le sue braccia, oltre a 15 uomini (fra cui 14 russi) nell’estremo tentativo di una sortita per aprire un varco nell’accerchiamento evidentemente,operato su segnalazione di spionaggio a Còdolo. E stata la prova più dura subita dalla divisione: in tutto il territorio non era stato possibile prendere l’iniziativa, salvo qualche sporadico contrattacco. La situazione era sfuggita di mano anche a causa delle difficoltà nei collegamenti.
Richetto, preso nel cerchio, decide di uscirne con marcia forzata attraverso il m. Gottero con circa la metà degli organici della divisione per portarsi nella valle del Taro. A Pian del Lago incontra la missione inglese del maggiore Lett e Vampa: si discute a lungo sul da farsi. Alla fine decidono di prendere strade diverse e dopo averli riforniti di viveri, Gordon Lett opta per la direttrice di Rossano e Richetto, mandato il gruppo someggiato in difficoltà per la neve, verso Teviggio, decide la via del Gottero, un’impresa difficile se non proibitiva, per raggiungere Montegroppo. E stata una marcia epica e massacrante: ogni tanto i partigiani di testa affondavano completamente nella neve; il freddo era micidiale: oltre trecento uomini sono stati curati negli ospedali da campo e in quello di Albareto, per congelamento agli arti. Ventisei i caduti nei vari scontri e molti i feriti.
L’ospedale civile sistemato ad Albareto è in effetti quello di Borgotaro trasferito in seguito al persistere dei bombardamenti alleati effettuati al ponte della ferrovia, da cui distava in linea retta poco più di mezzo Km e frammenti delle bombe erano caduti ben più lontano. Nella primavera del ’44 poi c’era stata l’incursione all’ospedale nuovo, peraltro non ancora ultimato completamente ed eletto a sede staccata di un’industria bellica di Spezia; c’erano state decine di vittime civili. Allora l’amministrazione aveva concordato con le comunalie di Albareto l’affitto simbolico dello stabile posto sulla strada provinciale, in piena zona partigiana e si era messo a funzionare sia per i civili bisognosi di cure e di interventi, sia per i militari. Comprendeva un ambulatorio attrezzato per una chirurgia di modesta entità e alcune camerate con una trentina di letti. Alle prestazioni sanitarie ricorrevano generalmente partigiani e prigionieri di guerra feriti e trattati tutti con gli stessi mezzi modesti, disponibili. Il personale medico era costituito da normali medici condotti e soltanto in casi di

necessità si ricorreva a prestazioni straordinarie di specialisti. Capo del personale infermieristico, tutte religiose, era Suor Vincenza che si prodigava moltiplicando gli sforzi quando giungevano i feriti dai vari campi di battaglia e in particolare durante questo rastrellamento in pieno inverno tutta l’organizzazione sanitaria, medici, infermieri, porta feriti, aveva sostenuto un ruolo importante, riconosciuto da tutte le parti belligeranti.
Del centinaio di prigionieri alcuni erano stati fucilati. Centocinquanta uomini con Aldo hanno compiuto un’impresa eccezionale: violato l’accerchiamento, con marce ininterrotte, raggiunge la vetta del Gottero sul tardo pomeriggio, raccoglie gli uomini e li incoraggia a proseguire per arrivare al più presto alle prime case di Montegroppo e rifocillarsi. Ogni tanto qualcuno doveva essere sorretto o trainato su un telone a guisa di slitta. Il partigiano Foce, spezzino, affranto dalla stanchezza e dal freddo si abbandona sulla neve:
– Non ne posso più! Lasciatemi qui!
Richetto gli pone sulle spalle la propria giacca a vento, lo scuote e si riprende. Finalmente alle prime case la salvezza.
Richetto si porta agli Squarzi, all’osteria Sabini e distribuisce a chi arriva viveri e bevande, invitandoli poi a sparpagliarsi nell’abitato, per motivi precauzionali: in caso di allarme tutti sanno quello che devono fare per mettersi in condizioni di sicurezza.
Alcuni uomini attivi al suo fianco si danno da fare instancabilmente perché tutti trovino il necessario sostentamento: fra questi Armando Figone, «Velos», originario di Taglieto, un paesino particolarmente provato, nella zona del Vara.
Il commissario politico Benedetto, per un motivo di ordine familiare: la moglie si trova in casa di contadini da quelle parti, si offre di pattuglia per la strada di Boschetto. Richetto raccomanda che gli uomini si tengano distanziati convenientemente per dare l’allarme sparando, nell’eventualità che incontrassero il nemico.
La trasgressione di questa precauzione sarà fatale a tutti. Infatti a un Km, nei pressi di un deposito di legname, si imbattono in una figura di donna:
– Fermo là!
– Sono io! Non mi riconoscete?
Era la pseudo Marchesa della Stufa.
– Ci sa dire se la via è libera?
– Certamente. Vengo da Albareto e non ho visto nessuno per strada.
Sto cercando Richetto, perché ho un messaggio per lui. Sapreste indicarmi dove posso trovarlo?
È il momento che decide tutto: la pattuglia prosegue in gruppo dopo le informazioni avute dalla donna. E lei sa ormai dove recarsi. Dopo qualche minuto, senza uno sparo, cadono nelle braccia dei tedeschi, che neppure si fermano, intenti a seguire nella notte l’ombra della donna che prosegue normalmente guidando la colonna.
Gli uomini di guardia sulla piazzetta davanti all’osteria non hanno difficoltà a lasciarla passare:
– Ho un messaggio per Richetto: mi hanno detto quelli della pattuglia che è qui!
Richetto la vede entrare e dirigersi verso la cucina: sta mangiando anche lui, per ultimo, un piatto di caldo minestrone, gira l’occhio e si vede addosso i tedeschi. Cerca istintivamente di afferrare il mitra sul tavolo: un colpo alla testa lo stordisce. Comincia finalmente la sparatoria: qualche partigiano cade fulminato, altri se la squagliano buttandosi dalla finestra, la maggior parte sono costretti alla resa. I rastrellatori non si aspettano tanta fortuna e non tentano neppure di inseguire i fuggiaschi: Richetto si ritrova insieme a una ventina di partigiani fatti prigionieri, ammassati dentro una stanza guardati a vista da una sentinella; altre sono state appostate attorno alla casa. Nel corso della notte sono sottoposti a interrogatorio. Richetto si è strappato i gradi, ma nello zaino i tedeschi li ritrovano fra il corredo:
– Tu sei il comandante!
– Sono piccolo comandante. L’altro è scappato dalla finestra.
Stranamente la falsa marchesa, che potrebbe fare il confronto è scomparsa dalla scena; tutti gli altri prigionieri tacciono la sua identità. E sembra quasi che i tedeschi credano alla versione di comodo, o, forse per uno di quei motivi che sfuggono alla logica, le cose stanno veramente così. La notte passa fra la rassegnazione e la stanchezza: dopo tante energie spese per attraversare l’Appennino coperto di neve, ora sono lì in balìa della sorte, di qualcosa più grande di loro e Richetto li consola:
– Vedrete che ci scambieranno! Gli altri non ci abbandoneranno…
– Credo di aver assolto il mio compito. Ora vi saluto e me ne vado per i fatti miei, secondo le disposizioni del mio ufficio.
Con queste parole la donna si accomiata dall’ufficiale tedesco che la ringrazia, le bacia cavallerescamente la mano e la saluta militarmente.
Appena fuori dell’abitato, nessuno sa ancora di quello che ha combinato, si aggrega a un gruppetto di partigiani incamminati sulla pista per Zeri.
– Il comandante mi ha detto di raggiungere il comando del Battaglione Internazionale, più sicuro di questa zona infestata di tedeschi. Se permettete vengo con voi.
Il gruppetto possiede due muli e su uno la sedicente Marchese della Stufa sale spigliatamente col bagaglio: un sacco, che nessuno si premura di controllare, ma che da alcune spigolature fa presagire trattarsi soprattutto di libri. A Zeri si ferma una giornata intera per riprendersi dalla fatica del viaggio e poi raggiunge a Rossano Gordon Lett con la missione inglese.
– Cosa posso fare per lei?
– Aiutarmi a passare il fronte. Ne ho abbastanza di questi tedeschi, tanto più che sono di origine ebrea…
– Appena le condizioni del tempo lo permetteranno. . . .
Tergiversa il maggiore inglese, per comunicare preventivamente col comando della V Armata da cui riceve subito le notizie relative alla Marchesa della Stufa, che risultava essere stata imprigionata dai tedeschi. Gordon Lett non è troppo convinto della storia che gli ha raccontato e perciò, ottenuto il nulla osta per l’attraversamento delle linee, invia un ulteriore messaggio di tenerla sotto sorveglianza e di procedere ad accertamenti rigorosi.
La mattina successiva sono messi in colonna, . caricati come muli da soma e avviati verso AIbareto:
– Hanno preso Richetto! Hanno preso Richetto!
Bisbigliano le donne sulle porte delle case e tutti fanno cenno di tacere. Il fatto dà la misura della gravità della situazione, perché il «mito» dell’uomo più coraggioso, più forte, l’imprendibile, dell’uomo che sapeva trovare la soluzione giusta nei momenti più delicati, la figura più popolare fra la popolazione, che ne aveva sempre seguito le imprese attraverso i racconti dei suoi partigiani, di coloro che potevano offrire testimonianze inoppugnabili, quello che era riuscito a trasformare la strategia dell’ «attacca e fuggi» in quella di ferma opposizione e contrattacco, il simbolo per tutti, l’esempio più caro, era lì in mezzo agli altri, sulla strada di un difficile, se non impossibile ritorno. Quello che non erano riusciti a fare i nazi-fascisti, superiori per numero e armamento, era stato attuato da una modesta e fragile figura di donna, armata di sola intelligenza.
Alle Moie i mongoli razziano le stalle, prendono pecore, maiali e galline. La marcia era dura, carichi com’erano e quando Dio vuole arrivano a Borgotaro. A Richetto avevano in precedenza tolto un paio di stivaloni nuovi fiammanti, fatti da un artigiano di Varese L., sostituiti da un paio di ciabatte tenute insieme con legacci di corda. All’inizio del Viale dei Platani, intitolato a Vittorio Bottego, li allineano e un maggiore delle SS li passa in rassegna. Giunto all’altezza di Richetto si consulta con ufficiali del seguito e poi:
– Tu sei il comandante!
E alla solita risposta, brandisce un caricatore da mitra a mo’ di clava e lo colpisce alla testa ferendolo a sangue. Poi la colonna dei prigionieri riprende la marcia fino al palazzo sede del dopolavoro e in uno stanzone al II piano sono rinchiusi e si accasciano sul pavimento affranti dalla stanchezza e dallo scoramento. Ricominciano subito gli interrogatori, singolarmente, e tutti danno le solite risposte, come Richetto, ma ormai appare chiaro che sul suo conto non hanno dubbi.
La mattina dopo ricevono il conforto recato dalla popolazione di Borgotaro: viveri in supplemento alla magra razione distribuita dai tedeschi, coperte, paglia per i giaciglio Intanto mons. Boiardi, parroco di Borgotaro si fa mediatore per uno scambio di prigionieri, pochi purtroppo e viene presentata una lista di cinque nomi, fra cui naturalmente Richetto. Ma i tedeschi accettano soltanto gli altri fra cui Benedetto, commissario politico comunista e i vicecommissari Bollo e Renzo: a questi Richetto ha consegnato un biglietto di agenda con poche parole: .
– Sai a chi devi farlo avere al più presto… L’operazione dello scambio viene eseguita sulla strada provinciale per Bedonia e sono restituiti cinque tedeschi immediatamente utilizzati per un confronto. I prigionieri partigiani sono allineati e l’ufficiale tedesco invita i prigionieri appena rilasciati a passarli in rassegna. E un momento critico: Richetto ha riconosciuto fra i rilasciati un sottufficiale che lui stesso aveva interrogato a Varese L. appena catturato e ricorda tuttavia di averlo, come gli altri, trattato normalmente. Il sottufficiale, di origine austriaca, stringe la mano a tutti guardandoli bene in faccia e con Richetto la stretta ha un istante di pausa da lui perfettamente recepito: non lo tradirà! Almeno sul momento e ciò lo induce a ritrovare la speranza per sè e per gli altri. Stranamente i tedeschi finora sembrano fare il suo gioco, tergiversando sulla sua identità: o forse è la stanchezza di questa guerra la cui sorte è ormai segnata, a far muovere con lentezza gli ingranaggi dei collegamenti di quello che era stato fino a poco tempo prima l’esercito più efficiente del mondo. E inoltre si nota una certa, insolita, liberalità nel concedere alla popolazione un rapporto <<umano>> che contrasta con la ferrea disciplina e il rigore abituale. Un partigiano militante nella 1 a Julia, Aldo Pellizzoni, pluridecorato di guerra, riesce persino a stabilire un contatto coi prigionieri mediante alcune donne che recano loro generi di conforto e a introdurre nella cella improvvisata una pistola e una corda: Richetto ha così la possibilità di tentare la fuga e fa un piano. Si reca nello stanzino igienico, mette la pallottola in canna per aggredire la sentinella sulle scale: un mongolo di nome Tony. Ma l’incognita delle conseguenze verso gli altri compagni di sventura lo trattiene. Nasconde l’arma nel doccione e decide di attendere la notte: solo con l’oscurità avrebbero potuto attuare un’evasione di massa, ed evitare la reazione. La notte è eccezionalmente limpida, sotto il chiaro di luna e dalle finestre si scorgono le numerose sentinelle, rafforzate, attorno all’edificio e non tutti sono d’accordo di tentare. Si rinvia. Ma la mattina successiva, supercaricati di munizioni, sono incolonnati e lasciano Borgotaro sotto buona scorta diretti verso Bardi,
fra montagne di neve: Richetto ha nascosto la pistola sotto la paglia della prigione, prima di partire.
Una nuvola di fortezze volanti li sorvola e sperano, contro ogni logica che un caccia scorga la colonna, ma naturalmente invano. A Tocaleto di Porcigatone entrano nell’edificio scolastico per passarvi la notte, ma improvvisamente arriva una pattuglia comandata da un ufficiale che vuole interrogare subito Richetto e ordina alla colonna di riprendere immediatamente il cammino: appare evidente che ormai i tedeschi conoscono l’identità del comandante.
È quasi giorno quando arrivano e oltrepassano il fiume Ceno e iniziano, seguendo la strada, l’ampio tornante, prima di Bardi. Qui ha capito che è il momento di tentare la fuga buttandosi lungo la scarpata ripida, perché la scorta non avrebbe avuto facile bersaglio: sarebbe stato un suicidio, perché la strada sotto stante brulicava di soldati.
Nella prigione medioevale del castello di Bardi, un maniero inespugnabile, sono rimasti per diversi giorni e Richetto ormai si rendeva conto che la sua fine sarebbe stato il plotone di esecuzione se avessero raggiunto Piacenza… o anche prima, quando, fatti uscire sulla piazza del paese sono fatti passare fra due colonne di soldati dall’aspetto minaccioso… ma sono poi affidati a una pattuglia di tredici uomini comandati da un giovane maresciallo biondo, l’unico armato di mitra. Richetto ha ormai deciso e lo comunica agli altri, facendo passare la voce: avrebbero assalito gli accompagnatori e lui stesso si sarebbe occupato di neutralizzare quello del mitra. Ma fra loro c’è un elemento infido, un ergastolano liberato dai bombardamenti, Pisa, che fa opera di convincimento sugli altri:
– Ormai la guerra sta per finire: perché azzardare?
E su questa osservazione si crea un ostacolo al suo piano, per tentare la fuga in massa, seppure con qualche rischio.
Al m. Pelizzone, ultima barriera appenninica verso la pianura piacentina, Richetto comunica a pochi intimi la sua decisione:
– A Piacenza io non ci vengo!
In località «Buca di sette sorelle» c’era sulla strada una capanna rudimentale, deposito di legname: sembrava semisommersa nella neve. I tedeschi invitano i prigionieri ad entrare… Richetto rallenta… aveva deciso che quello era il momento buono… sgancia lo zaino… e avvisa i fedelissimi, con un colpo di karatè abbatte i due tedeschi che gli sono al fianco e si getta a pesce nella neve lungo la scarpata, immediatamente imitato dai fratelli Mezzetta, Bruno e Dante, e Bertolotti.
Luisa, imbacuccata in un pastrano di qualche anno prima, una cuffia di lana in testa, corre nella pista libera dalla neve fra due pareti alte, affondando gli scarponi nei pochi cm di coltre fresca non ancora segnata da orme umane e bussa alla porta:
– Bruna! Bruna!
Non aspetta risposta e si precipita nella cucina lievemente affumicata dal ceppo di castagno che arde nel camino da cui penzola una catena fatta di grossi anelli caliginosi cui è appeso un grosso paiolo prima ricolmo di siero di latte da cui sono già state estratte alcune ricotte e dentro una «fascella» di legno di faggio bucherellato una forma di formaggio da cui è stato spremuto a forza di mani il liquido residuo è allineata con le altre del giorno prima su un asse di legno in rigorosa successione cronologica. La sig.ra Marcella è intenta a raccogliere le residue quantità di materiale cagliato per l’ultima forma…
– Dov’è Bruna? Lo sa che hanno fatto prigioniero Richetto?
Bruna sta scendendo a precipizio dal piano superiore attraverso una scala di legno:
– Come? Racconta, racconta!
– Ha portato la notizia il figlio di Giuanìn che è riuscito miracolosamente a fuggire da Montegroppo. Un disastro! Li hanno presi tutti!
Le due amiche si abbracciano e piangono sommessamente, mentre Luisa riferisce qualche particolare che prima, nella foga, le era sfuggito.
Quel pomeriggio era trascorso nei preparativi al comando di Rossano perché Ferruccio la guida era arrivato da una decina di ore, si era rifocillato e perciò, intanto che il tempo si manteneva sereno, il viaggio per raggiungere la linea gotica, poteva avere inizio la notte stessa. C’erano in tutto quattro persone: un inglese, scorbutico, che doveva rientrare dopo la liberazione dalla prigionia, un tenente dell’esercito italiano, lei unica donna e la guida che peraltro nessuno ancora conosceva perché non si era fatta viva. C’era poi la scorta di tre uomini, in veste di portatori.
Dopo un cordiale saluto del maggiore inglese avvenuto in una stanza della villetta adibita a comando, nei pressi di Rossano, la comitiva si incolonna secondo la consuetudine e marcia per tutta la notte regolando il passo su quello della donna, la cui prestanza podistica si dimostrava tutt’altro che disprezzabile. Fortunatamente una luna semi offuscata permetteva di scorgere nelle tenebre della notte il sentiero, tanto da evitare al piede le pietre più grandi.
Nessuno fiatava come per tacito accordo e Ferruccio sembrava non accorgersi degli altri componenti la spedizione, impegnato da vero professionista nella guida. Le Alpi Apuane che durante la giornata erano sembrate così lontane, ormai erano sotto i loro piedi in un sentiero comodo ma sopra la voragine buia apparentemente senza fondo.
– Se sparano qualche colpo di cannone non impressionatevi: non è diretto a nessuno, lo fanno per abitudine.
E la premessa era stata utile perché di lì a pochi minuti la vetta della montagna sopra la loro testa sembrava impazzita in una miriade di fuochi artificiali con relativo botto. Ma passata la sparatoria tutto ritornava normale.
– Ecco il paese di Forno, laggiù: da questo momento procediamo con la massima cautela, perché certamente è occupato dai tedeschi. Dormiremo per tutta la giornata, senza farci vedere, in quella baracca semidistrutta sulla vetta…
Così è stato. La notte riprendono la marcia e
questa volta dopo cinque ore di cammino arduo, a una temperatura polare, arrivano all’alba alla prima postazione di soldati brasiliani:
– Ferruccio!
– Firenze!
– Avanzate con le mani sulla testa e se avete armi gettatele a terra.
Il sole era sorto da poco sull’orizzonte e si vedeva il mare in un abbaglio di riflessi che dava il benvenuto nel territorio libero d’Italia…
– Caporale: potrei parlare subito al comandante? Sono la Marchesa della Stufa…
– Certo: sapevamo del suo arrivo. Mi segua.
Il colloquio era stato abbastanza breve: il capitano ha creduto tutto quello che la «simpatica signora con tante bibbie nel sacco» gli ha raccontato e il giorno seguente con un automezzo militare, fornita di regolare autorizzazione ha preso la strada del Sud.
La capanna magazzino è fornita di telefono e in breve è allacciata la comunicazione al comando del presidio tedesco di Piacenza.
– Sig. Colonnello, il maresciallo Schulz a rapporto. Ho avuto l’incarico di scortare i prigionieri partigiani. Purtroppo il «capo» è riuscito a fuggire con abile colpo di mano insieme ad altri quattro banditi, dopo aver colpito due dei nostri che erano sempre al suo fianco secondo gli ordini… Non li ha uccisi, solo messi a terra feriti… poi sono rotolati nella neve altissima e sono scomparsi…
– Sì, signor colonnello…
– Avevo raccomandato di guardarlo a vista…
– È stato fatto sig. colonnello…
In fondo alla discesa ripida c’era una casa colonica e Bertolotti letteralmente cade addosso ad alcuni contadini che si affrettano a dire:
– Attenti: qui sotto ci sono i tedeschi!
E loro erano in procinto di finirvi: la buona stella di Richetto aveva ripreso a splendere, anche sopra al canalone inaccessibile nel freddo intenso sui piedi nudi in mezzo all’acqua ghiacciata.
Col buio s’incamminano lungo un sentiero e raggiungono un’altra abitazione rurale:
– Chi è?
– Amici!
E ritrovano dopo tanti giorni di attesa il calore di un camino, per disgelare i panni ghiacciati e far riprendere la circolazione agli arti, mentre spiccicano qualche parola sulla loro avventurosa fuga al vecchio contadino che stenta a credere…
Poi il piatto di minestra fumante e altre persone sbucano nel cuore della notte: sono partigiani sbandati, che hanno sentito parlare del prestigio so comandante e civili sfollati.
Richetto indossa finalmente un paio di scarpe decenti e poi insieme agli altri raggiunge un rifugio sicuro cui si accede rimuovendo una lastra di pietra occultata nella mangiatoia della stalla: sono in tutto una ventina di persone. La mattina la popolazione ha portato per gli ospiti inattesi una grossa gallina, finita subito nella pentola per ottenere un buon brodo caldo e nutriente. I tedeschi però sono ancora presenti nella zona e passano da una casa all’altra razziando tutto quello che trovano. I cinque della Centocroci cambiano rifugio e finalmente si mettono sulla strada del ritorno. Giunti sul m. Lama, ancora un incubo: sono letteralmente circondati da un folto reparto di mongoli… che fortunatamente hanno deciso di disertare. Una guida li porta a Boccolo dei Tassi: c’è nebbia e bussano a una porta attraverso la quale scorgono un gruppo di tedeschi; nuova fuga verso la cima del m. Lama, dove un vecchietto dà notizie della situazione e della possibilità di avere una guida sicura, un mutilato di guerra, gestore di locanda. Con la promessa di buona ricompensa arrivano così ad Anzola, in Comune di Bedonia e incontrano Scarpa (Gianni Moglia) ed è la fine delle peripezie, iniziate a Montegroppo un mese prima.
A Tornolo e lungo la strada per Tarsogno la popolazione e i partigiani gli vanno incontro inneggiando alla riacquistata libertà e al ritorno. La notizia si era diffusa con la rapidità del fulmine… Ma la festa dura poco: a Tarsogno i suoi fedelissimi lo abbracciano pieni di entusiasmo e di… amarezza, perché il comando della IV zona ligure, sollecitato dai commissari politici, ha nominato a sostituirlo il suo capo di stato maggiore, ten. Wollodia, politicamente qualificato come appartenente al PCI, creando di fatto una scissione perché la parte prettamente militare e apolitica aveva seguito il vice Aldo. Questo Richetto non se lo aspettava e decide di recarsi subito a un colloquio con il maggiore Lett. Ancora un attraversamento della catena appenninica sul Gottero, ma prima un salto a…
Le notizie si propagano a distanza in modo inesplicabile pur senza servizi appositi di collegamento, ma superare certe barriere, come quelle del crinale appenninico, non è cosa da tutti i giorni. Questa volta è addirittura il «messaggero» a recapitare la notizia:
– Si può entrare?
Oh! Richetto, ma sei veramente tu? Non ti avevano preso i tedeschi? come hai fatto? E tu: vai subito a chiamare Bruna! E andata in chiesa a pregare per te. Sono giorni e giorni che non fa che piangere poveretta e non mangia quasi niente…
Non era facile vedere il comandante con le lagrime agli occhi. Qualche volta per la rabbia. Ora sono lagrime di gioia.
– Vado incontro a Bruna!
La neve non è più candida come l’ultima volta
e non si è più fermata sui tralci spogli del pergolato; il paesaggio tutt’attorno è quello che prelude la sciroccata primaverile. Sul fianco del monte si notano grandi macchie scure uscite dalla distesa innevata ai primi timidi soffi dello zeffiro tiepido. Il paesaggio sta mutando impercettibilmente e già si scorgono i puntini delle sempre-verdi e giù verso il mare si ha l’illusione di riconoscere la sfumatura argentea degli ulivi. Nel cielo limpido d’un azzurro mare i corvi hanno preso a volare verso monte, presagio di ottimismo nei riguardi metereologici.
Il tragitto per la chiesa è abbastanza breve. Richetto l’ha subito scorta uscire dalla porticina intagliata nel portone più grande adorno di basso rilievi e agita la mano in segno di saluto:
– Ma sei proprio tu?
E non può trattenersi dal gettargli le braccia al collo, fra sussulti di gioia e insieme di pianto.
– Oggi è il giorno del nostro fidanzamento ufficiale se tu sei d’accordo. Parliamo un po’ di te e dopo ti dirò cosa mi è successo.
Bruna avrebbe voluto rimproverarlo di non averle mai fatto recapitare un biglietto, dopo quello di due sole parole del mese precedente: «Ti voglio bene» senza firma nè data, per i noti motivi.
Poi le bocche si cercano e naturalmente si trovano: è il primo bacio di due fidanzati, per di più in luogo pubblico, beh! all’aperto… ma per una fanciulla diciassettenne sarebbe stato veramente insolito per quei tempi se non fosse stato ampiamente giustificato dalle circostanze. Quando le lagrime sono asciugate cavallerescamente sugli occhi a mandorla e le pupille verdi diventano raggianti di felicità, Bruna si appende al braccio del suo principe azzurro e incontrano la zia che li attende sulla porta di casa.
– Sembra che me lo sentissi. Ho appena messo nella pentola una bella gallina: così festeggeremo il tuo ritorno…
– … e il nostro fidanzamento!
Bruna in pochi istanti si è trasformata dalla prostrazione dei giorni tristi passati nell’attesa di una buona notizia e non stacca gli occhi dall’uomo che le ha appena proposto un legame per la vita e vorrebbe tenerselo subito tutto per sè, ma alla porta continuano a bussare ed entrano a processione. La buona novella del suo arrivo si è sparsa in un baleno a rompere quell’atmosfera di smarrimento in cui tutti erano piombati quando vennero a sapere della sua cattura e Richetto non può sottrarsi alle espressioni di entusiasmo e di felicitazioni per lo scampato pericolo e tutti vogliono conoscere i dettagli e le peripezie della rocambolesca fuga, anche se cerca di minimizzarne la portata reale e mette in risalto soprattutto l’aiuto trovato nella popolazione bardigiana, senza la quale la sua buona stella avrebbe smesso di brillare per sempre. Quando finalmente si rendono conto che gli ospiti possono essere indiscreti, con l’ultima stretta di mano e l’ennesimo abbraccio, siedono a tavola e qualcuno bussa ancora alla porta: è il rev. don Garibotti, invitato calorosamente a prendere posto… e sollecita tutti a fare il segno della croce:
– Ti ringrazio, o Signore, per averci fatto trovare a questa mensa in un momento di felicità fra amici inattesi e per il cibo che stiamo per prendere. . .
Alla missione inglese, accompagnato dal cappellano militare don Canessa con la guida Campìa è accolto festosamente e al racconto della sua cattura:
– Pensa che potevo trattenerla e donartela su un piatto d’argento. Invece io stesso le ho fornito il lasciapassare e la guida per attraversare la linea gotica. E per di più quando si è presentata agli americani, l’hanno trovata tanto «amabile» e degna di protezione che l’hanno lasciata libera di andare dove voleva…
Sulla questione del comando è perfettamente d’accordo con Richetto che si reca poi a Torpiana, dal col. Fontana per riferire il suo punto di vista.
– Ti daremo un altro incarico importante qui.. .
– Se volete demolire la migliore formazione di questa zona operativa, fate pure. Per quanto mi riguarda, io ritorno a Centocroci.
Così di fatto si crea la frattura. Richetto ricostituisce il Raggruppamento Vecchia Centocroci, forte di tre brigate, e passa sotto il comando unico parmense.

Al vertice… verso la vittoria

Al comando del Raggruppamento sistemato nei pressi dell’Albergo Miramonti (Tarsogno) arriva un bel giorno il magg. Gatti, comandante del presidio militare fascista del porto di Genova e porta con sè i piani dettagliati predisposti dai tedeschi per distruggerlo al momento della ritirata. Richetto ne invia una copia immediatamente alla missione alleata a Rossano e un’ altra al comando generale della Resistenza (gen. Cadorna) a Milano.
I reparti si riorganizzano e compiono azioni di disturbo e sabotaggio in varie zone: al Velva, al passo del Bocco e lungo la ferrovia Parma-Spezia.
Avuto sentore di un attacco degli alpini a S. Pietro Vara (Varese L.), manda il distaccamento Didòn in aiuto alla IV zona ligure, anche se non richiesto espressamente e nonostante i precedenti noti: Richetto era fatto così.
Il cap. Bob dell’esercito americano lo convoca a Prato Femmina (Porcigatone) per discutere sulla strategia delle operazioni imminenti in vista dell’ attacco finale:
– Avete equipaggiamento adeguato?
– Attualmente siamo perfettamente riforniti
di armi e vestiario, perché abbiamo ricuperato i vecchi magazzini.
Il contatto ha confermato all’ufficiale americano la piena efficienza e disponibilità al combattimento della Centocroci.
Successivamente il comando unico parmense convoca tutti i comandanti delle forze operanti nell’ambito della divisione Valtaro, a Porcigatone e, dato per scontato lo sfondamento della linea gotica da parte degli alleati, si comincia a discutere sulla necessità di adottare un piano d’azione che affidi a ogni unità combattente obiettivi diversi e specifici.
Il c.u.p. dirama a tutte le formazioni l’ordine di attacco per il 6 aprile e alla Centocroci è affidato il compito di eliminare il presidio militare di Ostia p.se e dei caselli ferroviari dipendenti.
Da notare che a Ostia nella villetta sede dell’ufficio postale, si è sistemato il comando tedesco con postazioni dislocate tutt ‘attorno nelle case dell’ abitato e inoltre c’è un forte nucleo nella stazione ferroviaria e nel grosso edificio a monte del ponte ferroviario.
La brigata Barbagatto di Igor è mandata a investire Ostia da Sud, con i caselli minori a valle. La Siligato, passando da Belforte, punta a isolare il presidio della stazione ferroviaria. Il gruppo mortai prende posizione a Nord, verso Tiedoli, e da qui muove anche la compagnia comando.
Tiedoli è una frazioncina del comune di Borgotaro, sulla sinistra del fiume, di fronte a Ostia che si trova invece sulla sponda destra, a meno di 1 Km in linea d’aria, a quota più elevata, la postazione ideale per l’ «artiglieria» degli attaccanti (le posizioni si sono ormai rovesciate!), l’unico armamento di cui hanno la superiorità, una volta tanto, sui tedeschi. Il paesino è caratterizzato dalla presenza di una chiesetta del XVI sec. con due campanili abbinati e appena un paio di costruzioni attorno: tutte le altre abitazioni coloniche sono sparse su un fianco del costone dell’Appennino che fronteggia il fiume sul fondovalle. Un pianoro è occultato alla vista dalla quota di fondo e le postazioni hanno la possibilità di effettuare al momento opportuno il tiro senza possibilità di disturbo da un’eventuale reazione nemica. Anche la direzione di fuoco è collocata in modo da osservare senza essere vista. Unica via di accesso è una stradina mulattiera che si biforca verso il capoluogo del comune e dall’altro lato a un ponte pedonale sul Taro, chiamato di Magrano, ma il modesto viadotto è sotto il tiro dei mitraglieri tedeschi appostati nelle case di Ostia attorno alla sede del comando, sistemato nella villetta affacciata sul rettilineo, prima che la strada provinciale cominci a salire. .
L’obiettivo più importante era naturalmente la sede del comando tedesco. Il segnale d’attacco è dato dal fuoco a ripetizione dei mortai e la sparatoria si prolunga per tutta la giornata. Vista la resistenza accanita dei tedeschi, arriva l’ordine di cessare il combattimento in attesa di rinforzi. Richetto reagisce decidendo invece l’ultimo attacco, rinforza la pressione sull’abitato e sulla sede del comando con un distaccamento di Igor, inviato col grosso sulla sinistra Taro per bloccare il gruppo dei tedeschi asserragliati nell’edificio più grande. E poi, eliminato quest’ultimo, Richetto attraversa per primo il ponticello pedonale trascinando gli uomini sotto la villetta del comando tedesco. Preso sotto tiro da un mitragliatore, si pone al riparo di un muricciolo e un maresciallo tedesco esce improvvisamente da un’altra casa: sta per lanciare una bomba, ma quello si arrende, giudicando inutile il sacrificio della propria vita. Intanto quelli di Igor hanno messo a tacere il mitragliatore e Richetto viene raggiunto da una squadra. Aldo stana con l’uso delle bazooka una dopo l’altra le postazioni sistemate nelle case attorno, dopo aver eliminato uno per uno i centri di resistenza della stazione ferroviaria e dei caselli dipendenti.
A questo punto Richetto chiede a gran voce la resa al comandante tedesco e finalmente la ottiene. Il capitano Adam gli si presenta:
– Noi siamo militari e chiediamo l’applicazione delle leggi internazionali di guerra…
E poi sull’attenti consegna la pistola a Richetto:
– Non credevo che i partigiani sapessero combattere così…
Disarmati e inquadrati sono avviati dietro scorta, secondo le disposizioni del c.u.p. a Gravago. Intanto che si curano i feriti, Richetto si reca a Belforte al comando di divisione per relazionare sull’operazione effettuata. All’alba scende per recarsi a Ostia e si ritrova di fronte a una colonna partita da Berceto per portare aiuto a quelli che ormai si erano arresi. Sono messi in fuga e inseguiti verso Roccamurata, dove sono presi da Dragotte.
Richetto manda il distaccamento Vigna, sabotatori, di rinforzo alla la Julia impegnata a Palazzo Ostacchini.
Terminate tutte le operazioni fissate dal superiore comando e raccolto il bottino, fra cui una camionetta militare tedesca mimetizzata, ritorna a Tarsogno. Un paio di giorni dopo viene convocato d’urgenza per una riunione all’Albergo Appennino di Borgotaro, dove sono riuniti tutti i comandanti che hanno partecipato alle operazioni militari e lo nominano Comandante della Divisione Valtaro, in un momento decisivo per la guerra di Liberazione!
Così il carabiniere Salvestri, a riconoscimento del suo valore e del suo coraggio, ha 1’alto onore e la dignità di uno dei gradi più elevati dell’esercito di liberazione, non si può dire dell’esercito italiano regolare che fino allora gli aveva negato il benché minimo apprezzamento, come la promozione a «scelto», meno di caporale.
Di ritorno al Miramonti convoca tutti i maggiori responsabili della Vecchia Centocroci per procedere alle nuove designazioni: sono riuniti in una ventina di uomini, di quelli che hanno seguito più o meno le vicende della guerra di liberazione al suo fianco e ora brindano levando il bicchiere, per salutare il nuovo comandante della divisione Valtaro. Si procede quindi alla distribuzione degli incarichi, col consenso unanime: il ten. Mario assume il comando del Raggruppamento – Vittorio sarà alla guida del prestigioso battaglione sabotatori – Aldo, Igor e Loero restano con le loro rispettive brigate, forti dell’esperienza e della perfetta conoscenza degli uomini. Un particolare è da rilevare: i commissari politici e «politicizzati», secessionisti durante la prigionia di Richetto, sono stati sostituiti al momento del loro volontario allontanamento con elementi pressoché apolitici e perciò con una visione particolare delle finalità della guerra di liberazione e della sua strategia operativa. L’atteggiamento costerà caro sul piano del riconoscimento tangibile del valore e dell’operato a questa che è stata in senso assoluto la migliore formazione, sia della IV zona ligure, sia poi del c.u.p.
Mentre si vuota qualche bottiglia celebrativa entra nella sala il commissario Benedetto (uno dei secessionisti che però aveva cercato i prigionieri tedeschi per scambiare anche Richetto, al momento della cattura):
– Sono lieto di vederti sano e salvo dopo la fuga rocambolesca dalle mani dei tedeschi… lo ho avuto la fortuna di entrare nel primo scambio… Complimenti per la tua nomina al comando della divisione Valtaro…
– Sapevo di poter contare sulla sincerità della tua amicizia e ti ringrazio.
– Certamente la notizia farà scalpore nella IV zona ligure…
– Ora non è più tempo di fare delle chiacchiere. Fra pochi giorni avremo di nuovo del filo da torcere.
Alla mezzanotte, le ultime strette di mano e ciascuno ritorna al proprio posto. Richetto parte con la camionetta, scortato da pochi fedelissimi che non soltanto costituiscono da questo momento la sua inseparabile guardia del corpo, ma soprattutto sono portaordini sempre pronti ad eseguire con tempestività missioni di collegamento, mancando di mezzi più moderni, magari via radio.
In meno di un’ora raggiunge Tiedoli di Borgotaro, sede provvisoria del c.u.p., per ricevere le consegne dal maggiore degli alpini Umberto. Riorganizza il nuovo comando con altri elementi presi dalle varie formazioni costituenti la divisione e precisamente: commissario politico il mO Severino Molinari – vice Corrado (sott’ ufficiale degli alpini – capo di stato maggiore, studente Pederzini. Quindi pone la sede della divisione a Borgotaro.
Successivamente incontra a Gravago Poe (prof. Pellizzari) e Arta (ing. Ferrari) del c.U. p. e poi nel bardigiano la missione americana (cap. Bob) allo scopo di individuare le reali intenzioni sulle future operazioni militari.
La preoccupazione maggiore di quelle giornate di allerta, dopo la completa liberazione della Vallata, era quella di mettere in efficienza ogni reparto sotto l’aspetto dell’addestramento con le armi e coi mezzi di trasporto. Infatti un numero eccezionale di reclute erano confluite nella zona ed era necessario metterle in condizione di addestrarsi nell’uso delle armi date loro in consegna, distribuendoli nei vari reparti in modo da poter contare sulla maggiore esperienza degli anziani. Il servizio di sussistenza aveva ormai rifornimenti abbondanti, forniti da enti provinciali e dalla popolazione contadina, che quell’anno era stata beneficiata da un raccolto eccezionale. Funzionavano i buoni acquisto in conto vendita, regolarmente pagati qualche mese più tardi, dopo la data della liberazione. Il trasferimento e la distribuzione delle armi avveniva mediante l’utilizzo dei mezzi di trasporto militari e muli. Il corpo di polizia della divisione, forte di oltre 120 uomini, aveva esteso sul territorio delle due vallate del Taro e del Ceno i compiti di prevenzione dei reati e di accertamento di infrazione ai codici civile e penale.
Il giorno 21 aprile arriva tramite staffetta una lettera del c.u.p. che invita tutte le forze della Resistenza a tenersi pronte per l’attacco finale. L’indomani arriva il piano di azione. Alla divisione Valtaro vengono assegnati i seguenti obiettivi:
La 2a Julia e il Gruppo Valtaro devono occupare la zona di Berceto – La 1 a Julia scenderà verso il Po (Soragna) – La Vecchia Centocroci si attesterà su Viazzano (sin. Taro, davanti a Fornovo).
Richetto salta sulla camionetta e si porta a sovraintendere personalmente all’allestimento della colonna avviata a Tarsogno con l’ordine di raggiungere Bardi. Ma mentre ritorna, nei pressi di Centocroci, alcuni caccia americani che ubbidivano all’ordine perentorio di distruggere qualunque mezzo in transito dietro le linee, la vettura è centrata in pieno e distrutta: gli occupanti hanno appena il tempo, osservando la picchiata, di balzare nella cunetta: è sempre la solita stella che continua a risplendere lassù anche se invisibile di giorno. Al comando del Miramonti tutto è pronto per la partenza, a piedi, con le salmerie e i rifornimenti abbondanti di viveri e munizioni. Richetto si reca al comando di divisione a Borgotaro e dà ordini di trasferirsi a Tiedoli e poi proseguire per Bardi, a piedi. Qui trova espressioni di grande euforia perché, non si sa come, si è sparsa la voce che la guerra era finita e alla confusione portava contributo il tripudio della popolazione in vena di festeggiare sia i combattenti, sia l’avvenimento. Ci vuole tutta per convincere i partigiani a rientrare nei ranghi e avviarsi per raggiungere Viazzano, ancora a piedi.
La mattina successiva la popolazione della collina non nasconde i propri timori all’arrivo della Vecchia Centocroci, in previsione di possibili rappresaglie, convinta che si trattasse del solito attacco di disturbo e conseguente sganciamento. Poi quando si sono resi conto che la formazione era intenzionata a tenere saldamente il presidio del paese, anche l’atteggiamento mutava e tutti si prodigavano nell’offrire aiuto e assistenza ai partigiani. I vari reparti si erano schierati a cuneo sulla sponda sinistra del Taro con la punta a Rubbiano.
Richetto è uno strano comandante di divisione che preferisce lasciare la poltrona di diritto nella sede del comando e si porta continuamente alla testa dei reparti che cercavano il contatto coi tedeschi: gli era più congegnale agire che pensare.
A Fornovo erano confluiti tutti i combattenti schierati per mesi nel carrarese a fronteggiare le truppe della V Armata, dopo aver percorso in ritirata la strada della Cisa con tutti i mezzi disponibili, compresi carri armati e artiglieria: complessivamente oltre quindicimila soldati” fra repubblichini e tedeschi.
Sarebbe stata pura follia attaccarli a fondo.
D’altra parte erano evidentemente in procinto di arrendersi perché ormai erano dentro una morsa, circondati da tutte le parti e chiudevano il cerchio i partigiani della Centocroci.
Resosi conto che un’ azione di forza era impossibile da realizzare, dato l’armamento di cui i nemici erano ancora in possesso, Richetto decide di tentare con la persuasione, valendosi di un messaggero singolare al suo seguito: la signorina Eva. Con una bandiera bianca infatti attraversa a piedi il ponte stradale tenuto saldamente anche dalla testata sulla sinistra dai tedeschi e raggiunge il centro di Fornovo, portando un messaggio scritto dove si chiedeva la resa, facendo presente che non c’era per loro più nessuna via di scampo e che la Germania aveva ormai firmato l’armistizio.
Nel messaggio di ritorno, scritto dal generale tedesco, si dice che avrebbero deposto le armi soltanto nelle mani di un comando militare alleato regolare. In serata però un pattuglione tenta di aprirsi un varco, sulla strada oltre la testa di ponte, ma gli uomini della Vecchia Centocroci li ributtano indietro e ne catturano una cinquantina, fra cui diversi italiani, che erano comandati dal colonnello Vicelli.
Richetto al comando si consulta continuamente col suo stato maggiore e infine si decide di riprendere l’invio della messaggera: la formalità era sempre la stessa, ma questa volta la donna ritorna accompagnata da un maggiore tedesco con l’interprete. Richetto li accoglie nel mulino di Viazzano, posto avanzato della formazione schierata. L’ufficiale esordisce al tavolo delle trattative, attraverso l’interprete:
– Riconosciamo la vostra posizione di combattenti della Resistenza, ma abbiamo ordine di arrenderci soltanto in presenza di un comandante delle truppe alleate. Siamo già in contatto per la verità con una colonna che si trova nelle vicinanze. Riteniamo pertanto inutile un ulteriore spargimento di sangue e vorremmo concordare una tregua.. .
In realtà due partigiani e diversi tedeschi sono caduti nelle ultime ore, a guerra ormai ufficialmente terminata.
– Faremo il possibile per arrivare presto alla conclusione, abbiamo ordini precisi anche noi. Sarà mia cura stabilire un contatto quanto prima con gli alleati. Ci rivedremo qui domani pomeriggio, se siete d’accordo.
Una cordiale, anche se formale, stretta di mano e una squadra li accompagna alloro presidio, alla testata del ponte.
Richetto si avvia alla ricerca di un comando alleato, nelle vicinanze di Salsomaggiore. Qui infatti incontra una divisione brasiliana e il comandante, ascoltata la richiesta di Richetto, decide di mandare il capitano Pittaluga su una jeep. Quando arrivano in vista del mulino e della posizione tedesca, il capitano brasiliano ha un momento di esitazione:
– Chi sono quei soldati armati che ci osservano col binocolo?
– Sono tedeschi.
– Sarà meglio che faccia arrivare un paio di carri armati per farli sloggiare…
– Nessuna preoccupazione: ci attendono laggiù al mulino.
E proseguono a piedi.
All’appuntamento questa volta c’è anche un colonnello tedesco.
Richetto fa le presentazioni e inizia il colloquio: .
– Siamo qui vicino con le nostre truppe e le chiedo pertanto la resa.
– Penso che sia opportuno che Lei venga con noi al comando, perché ci sono altre trattative in corso. Ma preciso che l’invito è rivolto soltanto a Lei.
Il capitano Pittaluga se ne va col gruppetto.
La mattina successiva il comando brasiliano invia un messaggio a Richetto: «Entrate in Fornovo». Nel corso della notte i quindici mila uomini della sacca erano stati evacuati e raccolti nel campo recinto da reticolati a Ponte Scodogna.
Finalmente le armi tacciono.
Richetto predispone l’occupazione della strada della Cisa verso monte e il rastrellamento del materiale, per lo più bellico, abbandonato e poi una colonna oltrepassa il Taro e si colloca il comando della divisione nella parte storica della cittadina, mentre un distaccamento occupa gli impianti della società petrolifera.
I prigionieri raccolti a Viazzano e nelle case civili sono inviati a raggiungere la massa degli altri presso Collecchio. L’ingente bottino che faceva parte dell’equipaggiamento delle truppe disarmate dagli alleati è stato in gran parte ammassato nei pressi della stazione ferroviaria.
Nota patetica quella offerta dai connazionali fatti prigionieri nella sacca e ricercati dal CLN delle province di Massa e Spezia, per crimini di guerra a suo tempo consumati in quei territori. Richetto si è rifiutato di consegnarli ai richiedenti e li ha convogliati tutti insieme con gli altri, secondo le disposizioni emanate dal comando unico e a quanti ha salvato così la vita?
Effettuata l’occupazione della cittadina, dove il locale CLN ha assunto provvisoriamente la gestione civica, Richetto si è recato al comando unico parmense, ormai insediato in Parma, per dare resoconto formale dell’operazione effettuata.
Importante l’opera di bonifica intesa a eliminare i residui bellici pericolosi.
Le riunioni si succedevano a ritmo vertiginoso e Richetto era costretto, suo malgrado, ad assistere alla spartizione dei poteri pubblici che inevitabilmente spettavano a uomini «da tavolino» ben lontani e diversi da quelli che avevano vissuto per mesi, per anni, nei disagi della guerra, fra le sabbie del deserto, fra il gelo e la neve dell’Appennino; era dunque questo il senso della riacquistata libertà?. .
… Così finisce la guerra della Resistenza, quasi in un clima ovattato, in sordina. I combattenti della Resistenza, i sopravvissuti su tutti i fronti agli stenti, alle fatiche e al piombo nemico, lasciano definitivamente le armi, consegnate al comando alleato nel lungo Parma… Ma dopo la sfilata generale per le vie della città, fra inni patriottici, al momento del discorso di commiato nella grande piazza Garibaldi, quando «tutti» avevano ottemperato all’ordine della consegna delle armi… un crepitio maestoso fra le pallottole vere che sibillavano nell’aria, aveva il senso di tanti interrogativi:
– La guerra contro gli oppressori era veramente finita?
– Ci sarebbe stata una «giustizia» con l’avvento della democrazia?
– Tutti avrebbero veramente avuto quello che si erano meritato?
Il carabiniere Salvestri ritorna a casa, a Caranza, nella verde Liguria.

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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