

Se è vero che il rastrellamento ebbe il suo culmine il 20 Gennaio, è pur vero che i partigiani della Brigata « Centocroci » già da tempo avevano avuto avvisaglie delle intenzioni del nemico. Infatti, fin da dicembre, i nazifascisti avevano fatto diverse puntate per saggiare le forze partigiane e mettere a prova la maturità della Resistenza. « …Pochi giorni dopo Natale, il 28 dicembre, c’era un distaccamento della «Centocroci» dislocato nei pressi di Albareto. Ero nella piazza del paese quando incontrai Beretta che andava al telefono. Ci avvertivano che nel Piacentino era già in atto il rastrellamento. Pochi giorni dopo, infatti, cominciarono ad arrivare i fuggiaschi ».
Del resto il Comando, insospettito dall’affluenza di truppe nazifasciste nella zona e dal rinforzarsi dei vari presidi, si aspettava un grosso rastrellamento sin dagli ultimi giorni di Novembre. I distaccamenti fra Tarsogno e Varese Ligure furono rinforzati da partigiani fatti affluire dallo Zerasco, zona in cui non si prevedevano attacchi. I tedeschi scelsero bene il periodo del rastrellamento: il peggior nemico per il partigiano era infatti il freddo, e col freddo la fame… una situazione ambientale che lo portò a dipendere completamente dai paesi, basi dove trova rifugio e rifornimento.
«Con le staffette arrivava anche il giornaletto che il federale di Chiavari Vito Spiotta faceva stampare. Sulla testata c’era scritto: “Cadrà la neve…”. Stanati da quei paesi che ci ospitavano, separati dai contadini solidali che ci rifornivano di vettovaglie e ci offrivano rifugio, essere costretti a vagare per i boschi gelidi senza vestiti, senza scarpe, senza salmerie, avrebbe significato, in poche settimane, la morte del partigiano. Invece i tedeschi, le truppe « mongole » e gli alpini della « Monterosa» adottano, o son costretti ad adottare, una tattica che certamente non è la più adatta per un’azione antiguerriglia: raramente abbandonano i sentieri noti, le mulattiere e le strade per infilarsi in un bosco o in una forra alla ricerca di una pattuglia che sguscia via. Farlo era un rischio, e rischiare voleva dire contare su un’audacia che non potevano avere più che sulla forza numerica e sulla superiorità dell’armamento ».
« Se i tedeschi avessero insistito ancora qualche settimana, ci avrebbero presi per fame… ». Nei mesi invernali il partigiano è solo relativamente favorito dalla conoscenza del terreno: si può spostare solo lentamente e non ha i mezzi per difendersi dal freddo. Il soldato ben equipaggiato, invece, ha un nemico in meno.
Nonostante questo, come vedremo, i nazifascisti o hanno fretta di andarsene (sono esausti, loro, con le salmerie a seguito, gli scarponi pesanti, gli sci, le armi e le munizioni, le tute mimetiche da neve, di inseguire un nemico il più delle volte affamato, colle scarpe rotte e i piedi congelati) oppure, essendo entrati in profondità in ogni zona nemica credono di aver disperso i patrioti e spezzato ogni collegamento. Invece non fu così: quando il tedesco avanza in massa, il partigiano si ritira. Se il primo non riesce ad isolare, a « chiudere» il secondo in una zona accerchiata e senza risorse, per « prenderlo per fame », questo riesce a sopravvivere.
Si è instaurato fra esercito di liberazione ed il popolo un legame di collaborazione intensa e fattiva: è indicativo il fatto che tra i partigiani vi siano dei contadini guerrieri che si rendono utili sia nel lavoro dei campi, che nelle azioni di guerra. La gente del posto fa da guida, da staffetta, da addetta al rifornimento viveri, ecc.; rappresenta la personalizzazione del legame popolo-partigiani di cui si è detto. Del resto, nelle campagne rimaste senza braccia e fra le famiglie decimate nei loro giovani morti in Africa e soprattutto in Russia, c’è una certa simpatia per questo esercito di sbandati, di reduci, di renitenti alla leva: tutta gente che, come prima preoccupazione, aveva quella di farla finita con la guerra e di scacciare gli invasori.
Quante madri che avevano i figli in Russia, dando ospitalità ad un partigiano, speravano che la stessa fortuna potesse capitare ai loro figli lontani.
BRIGATA « CENTOCROCI » 1
Anche per questo il rastrellamento, oltre che una caccia all’uomo, diventa una serie interminabile di rappresaglie contro la popolazione, accusata, non a torto, di collaborazionismo con i ribelli. << Noi della “Centocroci” eravamo sempre ben voluti, e lo siamo ancora adesso… Tra i tanti che ci hanno aiutato vorrei ricordare per tutti Nino di Tarsogno. Aveva i cognati ai monti, e lui, che non li poteva seguire perché paralizzato su una sedia a rotelle, si ingegnava ad aiutarci in tutti i modi. A lui e a molti altri i partigiani devono la sconfitta del rastrellamento ».
Di certo i tedeschi pensavano che il proclama Alexander e qualche accordo coi partigiani sotto la minaccia di rappresaglie contro la popolazione, sarebbero bastati a garantirsi le spalle libere quando, in primavera, il fronte si sarebbe mosso. «Vennero su da Genova due ufficiali della Gestapo a parlamentare, perché gli lasciassimo libero il passaggio. In quell’occasione videro un nostro comandante che aveva la cintura tedesca, la camicia e il berretto tedeschi, e gli dissero:
– Tu sei un grande brigante. – No – rispose lui – io ho ucciso -i tedeschi in combattimento. Gli offrirono di andare a Genova con loro, ché lo avrebbero pagato bene ». Ma in un esercito di liberazione sono rare le defezioni. In realtà «…furono molti gli alpini della “Monterosa” che passarono dalla nostra parte, anzi, avevamo anche qualche tedesco e decine di patrioti russi, che preferirono restare a combattere con noi, anziché raggiungere, col nostro aiuto, le truppe degli Alleati, dietro la Linea Gotica ».
Anche per questi motivi di eterogeneità, la «Centocroci» aveva problemi interni piuttosto gravi, problemi che avrebbero potuto causare l’annientamento della brigata, se fosse venuto meno lo spirito di lotta dei partigiani e la loro unità. Era una Brigata estremamente composita, sia come origine dei combattenti, che come indirizzo politico. Accanto ai locali vi erano militari ex aderenti alla Repubblica Sociale, ufficiali e sottufficiali che andando ai monti si portavano dietro decine di uomini armati (e sabotavano le armi pesanti lasciate in caserma), giovani delle città vicine, marinai meridionali che dopo l’ 8 Settembre avevano scelto la via dei monti, oltre agli stranieri sopra ricordati.
Ma soprattutto, a proposito della «Centocroci», si può parlare di una doppia anima: militare e politica. Da un lato c’era il partigiano ex-soldato, che considerava la sua lotta semplicemente come azione contro l’invasione tedesca e la dittatura fascista, sospettoso dei commissari politici, desiderosi soprattutto di un ritorno alla normalità. L’ex-soldato di un esercito regolare continua a vedersi nelle vesti di soldato, e non di cittadino che combatte per una società diversa, opposta a quella che ha provocato la guerra.
C’erano poi i renitenti alla leva, coloro per i quali la Resistenza era una scelta ideale e reale, i proseliti dell’intensa propaganda politica, che voleva un partigiano diverso, tutto proteso verso il futuro, verso un’Italia nuova, da costruire momento per momento già da allora, nelle stesse formazioni. Questi due diversi aspetti portarono non pochi problemi e situazioni difficili, che furono superati solo grazie all’autorità dei capi e alla propaganda per l’unità del movimento, propaganda che, bisogna riconoscerlo, era pressante e decisa su tutti i fronti dello schieramento politico. Tuttavia, malgrado il forte sentimento di unitarietà che animava i patrioti, e la loro consapevolezza di combattere un nemico comune, il rastrellamento agì da catalizzatore tra i fattori di crisi latente, che si manifestò in tutta la sua gravità, causando la scissione della Brigata.
BRIGATA « CENTOCROCI » 2
Il 20 Gennaio, comunque, la << Centocroci >> era ancora unita, sul Passo, pronta a contrastare l’offensiva nemica. Mancava una sola squadra, gli uomini di Nino Siligato: qualche giorno prima, per telefono, il Comando aveva loro comunicato di mettersi in contatto con gl’inglesi di Gordon Lett, per compiere una serie di atti di sabotaggio nel Pontremolese, essendo indispensabile ostacolare il movimento di truppe tedesche verso il fronte. Portata a termine la missione, sulla via del ritorno si fermarono a Codolo, a riposare. Li sorpresero di notte i tedeschi, che fucilarono gran parte dei partigiani catturati; i superstiti, coloro che erano riusciti a sfuggire all’imboscata, si diressero verso la loro zona. «Eravamo nei pressi di Cervara, stavamo tornando alla nostra Brigata, quando incontrammo un rappresentante del C. L. N.: questi ci informò che era in corso un massiccio rastrellamento, che la Brigata «Centocroci» aveva sganciato in zona più sicura e quindi era inutile cercare di mettersi in contatto col Comando. Ci nascose in una baracca e ci portò da mangiare: eravamo una dozzina, più un ufficiale inglese e un soldato polacco. Ritornammo dopo, a rastrellamento terminato, quando la nostra zona fu libera.
La notte del 19 Gennaio la « Centocroci », schierata sul Passo, attende i tedeschi: il Comando ha dato ordine di resistere, per permettere ad altre formazioni di sganciare. E’ l’alba quando si vedono le prime avanguardie nemiche: venivano da due direzioni, dal Piacentino e da Montegroppo. Nel primo pomeriggio inizia il combattimento: i tedeschi, dotati dei mezzi migliori, con truppe efficienti e con reparti addestrati alla caccia dei «banditen», come gli alpini della «Monterosa» e i «Mongoli». I partigiani con il freddo, con la scarsità non solo di armi, ma anche di munizioni: ai telemetri e ai mortai i patrioti opponevano il fuoco delle armi leggere e della loro unica mitraglia. Si combatté per tutto il pomeriggio, poi, quando le munizioni cominciarono a scarseggiare, si seppe che i tedeschi venivano anche da Chiavari, e che la loro manovra a tenaglia rischiava di stringere in una morsa senza scampo i partigiani: si iniziò il ripiegamento. Si sparse allora una voce: Richetto, con i suoi uomini, tiene Caranza, ha intenzione di opporre resistenza ai tedeschi che avanzano. Naturalmente era solo una voce; la difesa rigida si è sempre dimostrata una tattica negativa per il partigiano. Infatti il problema chiave per le formazioni in montagna è il «quarto d’ora» di fuoco, la scarsità di munizione. Le unità partigiane devono quindi impostare le loro azioni su colpi di mano, su rapide puntate contro il nemico e sul ripiegamento.
«Nei pressi di Caranza, stavamo passando per un profondo canalone, quando vedemmo dei soldati tedeschi che ci guardavano dall’alto delle pareti. Noi pregavamo che non sparassero: ci avrebbero sterminati… Per fortuna era solo una pattuglia in ricognizione e non avevano armi pesanti ». «Richetto non era a Caranza, ma lo incontrammo nei pressi di Buto, dove passammo la notte. Si decise che l’unica possibilità era valicare il Gottero, e uscire dalla zona rastrellata ». « …A noi il 20 Gennaio non ci colse di sorpresa. Eravamo preparati ed avemmo la maturità, sia gli uomini che i capi, di riuscire ad infiltrarci tra le maglie del rastrellamento, facendo in un certo senso, una beffa ai tedeschi. Infatti, mentre i nazifascisti pattugliavano la strada, noi riuscivamo a passare, a piccoli gruppi, di notte, tra un giro e l’altro delle sentinelle. Fu solo molto tempo dopo, quando ormai eravamo fuori tiro, che ci spararono addosso: forse avevano intuito qualcosa, oppure avevano visto le orme sulla neve >>.
BRIGATA « CENTOCROCI » 3
Iniziò così una lunga marcia sulla neve per questi uomini, sfiniti per i combattimenti, la fame e il freddo che avevano come unica via di salvezza quella del Gottero: arrivare a quota 1600. Il freddo era intenso e molti patrioti soffrivano di principi di congelamento. << Camminavo insieme ad alcuni compagni, quando vedemmo in lontananza un partigiano che rotolava sulla neve e, tra di noi, lo prendemmo in giro dicendo che non sapeva camminare. Lo rividi qualche giorno dopo: aveva mani e piedi congelati, e per questo cadeva >>.
«Mio fratello aveva. un dito del piede congelato e non potevamo farci niente, non avevamo neppure delle calze. Gli fasciai il piede alla meno peggio e marciammo così, a braccetto, per ore. Ogni tanto mi fermavo a sfasciargli il piede per massaggiarglielo e levargli la neve ». Molti di questi patrioti, feriti o congelati, vennero curati nell’Ospedale di Albareto.
« Quest’ospedale, quantunque fosse solo a pochi chilometri dal presidio tedesco di Borgo Val di Taro, offriva una notevole sicurezza ai partigiani feriti. Erano infatti partigiani i dottori, il cappellano ed anche le suore di San Vincenzo, valorose e piene di carità cristiana: accettavano e curavano qualunque ferito, fosse esso partigiano o tedesco. Il valore di queste suore risaltò anche durante il rastrellamento. I «Mongoli» infatti volevano entrare nell’ospedale per massacrare i partigiani feriti. Rifulse il coraggio, l’abnegazione di una suora: si piantò sulla porta d’ingresso, e, armata di eroica fede, fermò i barbari: – La carità di Cristo non conosce differenze. Qui si curano tedeschi e italiani, fascisti e ribelli: rispettate questa casa!. (Dal libro di Don Luigi Canessa « La strada era tortuosa»).
E proprio sul Gottero si ha il primo atto di quella crisi che si concluderà con la scissione della «Centocroci ». Arrivati sulla vetta, « proprio in cima, più in alto c’era solo il cielo », dove scendere, da quale parte dirigersi, per trovare una zona sicura? Richetto decide di andare presso Montegroppo, a Squarzi: gli uomini sono stanchi, hanno freddo, e Squarzi sembra il posto più sicuro. Il grosso della << Centocroci >> non è del suo parere, e preferisce seguire altri comandanti, i quali propongono una via più lunga e faticosa, ma più sicura, per uscire completamente dalla zona rastrellata. Ridiscesero il Gottero, passando da Focetto e da Boschetto (i tedeschi impiegarono anche i cani poliziotti alla loro ricerca), giunsero alle Cascine di Albareto, dove una donna li avvertì che nel paese c’erano molti tedeschi.
Di nuovo in marcia, passando da Tarsogno, arrivarono a Pontestrambo. <<…Attraversammo Pontestrambo, passando a meno di cinquecento metri da un casermone dove alloggiavano truppe mongole. Quella sera fu il vento a salvarci. Infatti soffiava fortissimo e, se ci rendeva ancor più disagiata la marcia, era tuttavia provvidenziale, perché cancellava le orme che lasciavamo sulla neve, e per questo i tedeschi non si accorsero di niente ».
Attraversato Pontestrambo, si diressero verso Strepeto, e si divisero in gruppi: alcuni si fermarono in quel paese, altri andarono ad Alpe, altri a Zatterone. Un gruppo proseguì poi verso il monte Penna: << …Ci rifugiammo nelle grotte del Penna. Eravamo diventati bianchi come gatti, perché la legna umida che accendevamo per scaldarci, nel chiuso della grotta mano dava un denso fumo grigiastro che ci tingeva. Ci portavano da mangiare le donne dei paesi vicini, per lo più castagnaccio, in grandi ceste ».
Gli uomini che si recarono agli Squarzi purtroppo non furono così fortunati. «Ero a Squarzi, nella piazzetta del paese, quando arrivò il Comando al completo. Mi invitarono a fermarmi con loro, ma alcuni dei miei uomini erano rimasti nei casolari sparsi sul monte vicino, e preferii andare da loro. Ero appena entrato in uno di questi casolari, ricordo che gli uomini stavano facendo la polenta, quando sentimmo degli spari. I tedeschi avevano catturato di sorpresa l’intero Comando ».
BRIGATA « CENTOCROCI » 4
« Nelle condizioni che ognuno può immaginare, arrivano sopra Montegroppo che è già notte. Richetto con Benedetto e i comandanti scendono agli Squarzi per distribuire agli uomini i pochi viveri che ancora restavano. Fuori, sullo spiazzo, ci sono le sentinelle e Benedetto è di pattuglia sulla strada che porta a Boschetto. Nell’oscurità, la sagoma di una donna che avanza verso i nostri. Benedetto si avvicina: è la << marchesa >>, la misteriosa marchesa.
– Signora, c’è nulla di nuovo, giù di lì ? – le chiede gentilmente.
– Cosa venite a chiedere a me certe cose – risponde seccata – cosa volete che ci sia!
Benedetto, che conosce la nobiltà della signora, la pianta in asso e prosegue con la pattuglia verso Boschetto. I nostri avranno fatto cento passi? Forse no. Ad una svolta piomba loro addosso un pattuglione di Mongoli e, senza avere un attimo per tentare una reazione, sono fatti prigionieri. Non partì un colpo. Richetto con gli altri uomini che mangiano agli Squarzi, sono ignari. Lassù si dirigono i mongoli con i prigionieri. Un’altra colonna nemica, dalla Folta, aggira gli Squarzi. I nostri sono circondati. Non c’è nulla da fare, e si arrendono. Fuori una nutrita sparatoria, poi silenzio ». (Dal libro di L. Canessa: <<La strada era tortuosa, >>.
Con uno scambio di prigionieri, si riuscì a liberare alcuni dei patrioti catturati dai tedeschi, ma non Richetto. I nazisti avevano capito che era lui il capo, e volevano portarlo a Piacenza per fucilarlo. Durante il viaggio però, Richetto e qualche altro partigiano, riescono a mettersi in salvo, con una fuga rocambolesca. Con una serie di peripezie. Richetto riesce a raggiungere la sua brigata, ma gli uomini della << Centocroci >> avevano un nuovo comandante: Wollodia. Era l’ultimo atto della crisi della «Centocroci », il momento della scissione. Troppo aspri erano i dissidi, le divergenze troppo profonde: si continuerà quindi a combattere ancora contro lo stesso nemico, ma come due brigate diverse. Richetto, con gli uomini che alla liberazione vogliono scendere a Parma, si aggregarono, col nome di « Vecchia Cento Croci », al Comando Unico Parmense. Wollodia invece, con gli uomini che volevano scendere a La Spezia, rimangono nella IV Zona Operativa, come brigata garibaldina << Nuova Centocroci >>; solo con quest’ultimo doloroso atto, con una scissione pur necessaria, per continuare a combattere serenamente il nemico, si conclude per la << Centocroci >> il rastrellamento.
<< Anche se ci furono molte lacune, è un dato di fatto che noi affrontammo il rastrellamento del 20 Gennaio in maniera totalmente diversa, rispetto ai precedenti. Prima di tutto eravamo più maturi, anche da un punto di vista militare: avevamo infatti imparato ad essere più mobili, a sganciarsi quando il combattimento diventava troppo rischioso. E poi sapevamo che la guerra sarebbe durata ancora a lungo, mentre in estate la sua fine sembrava imminente, e questa consapevolezza ci impediva di buttarci allo sbaraglio, come a volte capitava precedentemente, subendo molte perdite ». Il rastrellamento si tradusse in una vittoria piena e completa dei patrioti. I nazifascisti volevano sterminarci, ma noi avevamo veramente imparato il mestiere del partigiano: non scappammo disordinatamente, per sentieri battuti dai tedeschi, correndo il rischio di essere uccisi o catturati. Il 20 Gennaio noi partigiani sganciammo, trasferendoci cioè dalle zone rastrellate ad altre che sapevamo libere, ordinatamente, rimanendo nei nostri organici e conservando le armi. Man mano che i tedeschi si ritiravano dalle zone rastrellate, noi ritornavamo nei nostri rifugi, nelle case che ci ospitavano.
Ed è merito della nostra organizzazione e della coscienza dei partigiani, se fu impedito lo sbandamento, se fu possibile ricucire immediatamente il movimento e passare subito all’attacco. Il rastrellamento del Gennaio consacrò, in definitiva, la nostra forza ».
