
Don Guido Anelli, il prete volante e le azioni della 2ª Julia

Dott. Sergio Giliotti
L’on. Mattei, in un suo discorso, affermò che la lotta partigiana non avrebbe potuto assumere tanto vaste dimensioni senza l’apporto incondizionato dato dalla stragrande maggioranza del Clero.
Uno dei tanti Sacerdoti che alla Resistenza hanno dato tutto, affrontando gravi rischi e sopportando non comuni sacrifici, è stato don Guido Anelli, luminosa figura di prete partigiano. Egli accomunò al cosciente coraggio un’attività febbrile, l’uno e l’altro sublimati da un profondo senso di carità cristiana che in lui non venne mai meno, neppure nei momenti più duri della lotta.
Questo sacerdote venne destinato nel 1939 a reggere la parrocchia di Belforte, piccola frazione dell’ Appennino Parmense alla quale si accedeva solo per una stretta ed erta mulattiera che, a detta del compianto prof. Pellizzari, faceva venire il fiato grosso agli «accademici» della montagna. , Non era un parroco di molte parole, ma – mettendo in pratica gli insegnamenti del Vangelo – arrivava a farsi comprendere da tutti per la via più breve, quella della fratellanza cristiana: nessun bisognoso bussò mai inutilmente alla porta della sua canonica. Quando scoppiò la guerra divise le ansie ed i dolori delle famiglie dei combattenti ed a tutti fu sempre vicino dando conforto ed infondendo coraggio.
Finalmente il 25 luglio 1943 cadde il fascismo e con 1’8 settembre successivo sembrò avesse termine la guerra. L’illusione fu breve, il Governo non fu all’altezza della gravità del momento ed i tedeschi rapidamente riuscirono a controllare tutto il territorio nazionale. Mussolini, liberato dai tedeschi ricostituì il disciolto partito fascista e fu messo a capo della repubblica di Salò. Come in tutte le parti d’Italia, sotto il controllo della repubblica fascista, anche nelle contrade della Valle del Taro furono affissi i bandi di Graziani; ma la popolazione, anche qui, reagì organizzandosi in gruppi armati, dando così inizio alla Resistenza. Don Guido sa quale è la strada da seguire e l’umile canonica di Belforte diventa il centro dell’attività cospirativa: qui vengono formate le prime «bande» che furono le matrici delle gloriose Brigate partigiane. La 2′ Julia fu una di queste e don Guido, oltre che organizzatore, ne fu anche il primo cappellano.
Un’altra bella figura di combattente – lo era già stato nella prima guerra mondiale, quando, giovanissimo, ebbe il battesimo del fuoco sul Carso si affianca ora a don Guido, il maestro Severi no Molinari che diverrà il Commissario politico della 2a Julia e, successivamente, Commissario politico della Divisione «Val Taro». Nel novembre 1943 si costituiscono il gruppo «Vampa», composto da 15 elementi. Mancano le armi e difficoltosa si presenta l’organizzazione, ma nel gennaio 1944 la forza del gruppo sale a 27 per raggiungere, dopo circa un mese, un’entità tale da dover essere suddiviso in tre distaccamenti: il primo al comando di Cattini Giovanni (Vampa), il secondo al comando di Alberto Zanrè (Tarolli) ed il terzo al comando del tenente inglese Robert Marchall. I tre gruppi operano nel triangolo Ostia – La Cisa – Berceto.
Nell’aprile ha luogo il primo rastrellamento tedesco al quale i gruppi, con ordinata manovra, si sottraggono trasferendosi sulla sponda sinistra del Taro. Esauritasi l’azione nemica, due distaccamenti – quello di Vampa e di Marchall – rioccupano le posizioni di partenza, mentre Alberto Zanrè si trasferisce nelle zone finitime di Borgotaro dove, alcuni mesi dopo, cadeva eroicamente, falciato dal piombo nemico. La canonica di don Guido è ormai il quartiere generale delle formazioni delle Valli del Taro e del Baganza. Don Guido svolge un’attività febbrile: nulla lo ferma, nulla lo scoraggia ed il suo esempio è di sprone a tutti.
Anche coloro che in un primo tempo non aderiscono al movimento di liberazione, resi perplessi da azioni – per altro sporadiche – compiute controla popolazione che, rischiando, si prodigava generosamente in favore dei partigiani, entrano a far parte delle formazioni, convinti che tali azioni, deplorevoli sotto ogni aspetto, erano solo ombre che non potavano offuscare la nobiltà degli ideali della Resistenza. I distaccamenti diventano così sempre più numerosi. Le azioni di guerra sono sempre più consistenti ed i tedeschi, trincerati ad Ostia e nei caselli ferroviari o schierati lungo la statale della Cisa sono quotidianamente logorati dalla guerriglia.
Il 15 giugno 1944 tutta la Valle del Taro è nelle mani dei patrioti. Il 22 giugno una colonna di lO autocarri tedeschi, carichi di soldati, riesce a forzare il blocco partigiano. E’ attaccata da una squadra di dieci uomini del gruppo Vampa. I tedeschi perdono 7 morti e 12 feriti, ma riescono ugualmente a passare. Raggiungono Borgotaro, caricano ostaggi e ritornano verso Berceto, ma nei pressi del torrente. Manubiola vengono nuovamente impegnati da formazioni partigiane; Il combattimento si prolunga. I tedeschi forti di 140 uomini armati di tutto punto e facendosi scudo con gli ostaggi presi a Borgotaro non intendono arrendersi e combattono accanitamente. Le sorti della battaglia sono incerte ed ecco, con abile manovra, sopraggiungere alcuni distaccamenti delle Brigate Beretta che investono il nemico alle spalle, il quale attanagliato è costretto alla resa. L’azione costa al nemico 70 uomini, tra morti e feriti, 74 prigionieri e la perdita di un ingente bottino di armi ed automezzi. Da parte italiana, purtroppo, si debbono lamentare la morte o il ferimento di alcuni ostaggi.
Dal 15 giugno al 15 luglio, nonostante i continui attacchi, delle forze tedesche, l’alta Valle del Taro è saldamente presidiata dalle formazioni partigiane. A Lozzola di Berceto, punta avanzata dello schieramento partigiano, si è costituito un fronte vero e proprio, sul quale si battono esclusivamente gli uomini organizzati da don Guido. La strada e la ferrovia, che dalla Val Padana portano alla Liguria ed alla Toscana, restano saldamente nelle mani del Corpo Volontari della Libertà e per un mese il nemico cerca, invano, di aprirsi un varco nella libera Valle del Taro. Il 15 luglio 1944 il nemico, dopo un sistematico bombardamento di cannoni e mortai, attacca nuovamente. Di fronte allo strapotere del numero e dei mezzi, le formazioni partigiane cercano ugualmente di resistere ed un primo attacco è respinto, ma la violenza dell’azione nemica ritorna con rinnovato furore ed ai combattenti italiani non resta altra alternativa che lo sganciamento.
Il rastrellamento del luglio 1944, per l’imponenza dei mezzi e per il numero dei soldati impiegati dal nemico (circa 20.000 uomini), fu quello di più vaste proporzioni visto in quelle zone; solo l’estate e la folta vegetazione consentirono di ridurre al minimo le perdite. Tutti i paesi delle valli del Taro, del Baganza e del Ceno furono occupati dagli uomini della Divisione Kesserling; e i bagliori delle fiamme testimoniavano le rappresaglie nemiche sulla popolazione inerme. Terminato il rastrellamento, le formazioni partigiane si ricompongono e si riorganizzano. Il 10 agosto 1944, don Guido Anelli costituisce ufficialmente la 2a Brigata Julia, forte di 150 unità armate ed equipaggiate. Concorrono a formare la 2a Julia i gruppi «Vampa» (2 distaccamenti), «Poppy» (2 distaccamenti), «Birra» (4 distaccamenti), «Fra Diavolo» (1 distaccamento) e «Fiamme Verdi» (3 distaccamenti). In un secondo tempo quest’ultimo gruppo si staccherà dalla 2a Julia per formare la 3a Brigata Julia.
Assume il comando della Brigata il valoroso partigiano Giuseppe Molinari (Birra). In questo periodo la Brigata vede progressivamente aumentare i propri effettivi. Ogni giorno le sue squadre, da Ostia a Ghiare, da Berceto a Cassio, da Montagnana a Calestano, dalla Cisa a Montelungo, da Pontremoli ad Aulla, non danno ne quartiere ne tregua al nemico e la statale della Cisa è ogni notte teatro di fatti d’arme della Brigata. Lo scarno linguaggio delle cifre può dirci, più di qualsiasi altro discorso, del valido contributo dato da questa Brigata alla guerra di liberazione:
42 automezzi distrutti o seriamente danneggiati; 265 nemici uccisi, 211 feriti e 69 prigionieri; ingente materiale bellico catturato. L’ottobre del 1944 è foriero di lutti gravissimi per il movimento partigiano dell’Ovest Cisa. Il 17 ottobre una colonna tedesca di 200 uomini raggiunge di sorpresa Bosco di Corniglio, sede del Comando Unico. Il Comando tenta una improvvisa e vana resistenza. Cadono da prodi il comandante Pablo, il comandante della piazza di Parma Renzi ed altri ufficiali e partigiani del Comando, alcuni dei quali appartenenti alla 2a Brigata Julia.

Il colpo inflitto dal nemico è duro, ma la reazione è immediata. Pochi giorni dopo la canonica di don Guido ospita, non a caso, tutti i comandanti delle Brigate convenuti per eleggere il nuovo Comando Unico. In una delle prime riunioni tenute dal nuovo Comando si decide che don Guido debba attraversare la linea Gotica e raggiungere Roma per riferire sulla situazione al Governo e chiedere aiuti concreti onde poter far fronte ai gravi e pressanti problemi creati si a seguito del continuo aumento dei componenti le Brigate dell’Ovest Cisa, minacciate dai rigori dell’imminente inverno. .
Con il viatico di un «buon viaggio» del compianto prof. Achille Pellizzari, don Guido, accompagnato dal capitano dei corazzieri Abba, s’incammina verso Roma. Col passo tranquillo e sicuro del montanaro, lasciate dietro di sé le famigliari montagne di Belforte, si dirige verso sconosciute e malsicure contrade sulle quali due eserciti si affrontano in armi. E’ sereno come sempre, eppure pochi giorni prima della sua partenza un gruppo composto da una diecina di ufficiali inglesi era incappato in una pattuglia tedesca: 4 morti e 3 feriti fu il tragico bilancio. Ma don Guido passa, raggiunge Firenze ed è ricevuto personalmente dal generale Alexander. Da Firenze si porta a Roma ove ha colloqui col Presidente Bonomi, col Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e col Ministro del Tesoro. Ottiene assicurazioni che i lanci di materiale bellico per i suoi partigiani saranno intensificati ed ottiene subito un contributo di tredici milioni.
La missione è compiuta, ora si tratta di ritornare ai propri monti e decide di farsi trasportare con un aereo e lanciarsi col paracadute. All’ufficiale alleato, che gli domanda se era mai stato paracadutato, il curato di Belforte rivolge uno sguardo come se gli avesse chiesto se era capace di dire la Messa. Così don Guido, in tuta da aviatore, tocca terra a Bardi e, fatte le consegne al Comando Unico, ritorna alla sua piccola parrocchia.
Il valore della missione di don Guido è stato suggestivamente illustrato dalle parole di Pellizzari qui riportate: «Quei denari furono la salvezza delle nostre formazioni quando due settimane più tardi, in una terribile ripresa dell’inverno, si scatenò contro di noi il più imponente e violento rastrellamento di tutta la guerra: tutte le Brigate furono tempestivamente ed abbondantemente provviste di moneta; i reparti organizzati ed allontanati dalle basi e dai rifornimenti, e persino i volontari dispersi, poterono comprare a contanti il grano ed il vino necessari; migliaia di combattenti furono salvati dall’inedia e dal congelamento, grazie a quei benedetti milioni che la Patria ci aveva donati e che un umile prete di campagna ci aveva portati per la via del cielo».
Il Natale del 1944 è trascorso da don Guido tra i suoi parrocchiani. Alla Messa della mezzanotte la chiesa è gremita di fedeli: il rombo dei cannoni, il crepitare delle mitraglie e i colpi cadenzati dei fucili sembrano, in quella notte, appartenere ad un altro mondo. Devoti assistono alla Messa e ricevono la Comunione molti partigiani della 2′ Julia venuti dal Monte Barigazzo a trascorrere il Natale a Belforte, in seno alle proprie famiglie; e per rivedere don Guido e sentire dalla sua viva voce del suo leggendario viaggio.
Ultimata la Messa, si riempie la canonica e don Guido, che la gioia di ritrovarsi in mezzo a tanti amici ha reso più loquace del solito, racconta, anche nei minimi particolari, la sua straordinaria avventura. Si trattò di una breve parentesi di serenità. La breve licenza di due giorni stava ormai volgendo al termine e bisognava riprendere il proprio posto poiché la Brigata era in attesa di un << lancio >> che, puntualmente, avvenne il 4 gennaio 1945.
Nevicava senza interruzione da oltre una settimana e giungevano al Comando di Brigata informazioni – confermate dall’ammassamento di truppe nazifasciste a Solignano, Valmozzola, Ghiare, Roccamurata, Ostia e Borgotaro – danti per imminente un massiccio rastrellamento. Lo scopo che i tedeschi non avevano raggiunto nel luglio del ’44, speravano di ottenerlo col nuovo in preparazione, favoriti dalla neve che avrebbe reso difficile ogni via di scampo ai partigiani. Il Comando dava immediatamente l’ordine di occultare tutto il materiale paracadutato: pacifiche piante di castagno si riempirono di mitra,fucili, bombe a mano, esplosivi e di armi di ogni sorta. La neve, questa volta amica, cancella le orme che portano a quei depositi.
Il rastrellamento è ormai in corso. Il 5 gennaio ’45, verso le ore quindici il Comando imparte l’ordine di armarsi e di portarsi sulla sponda sinistra del Taro per sfuggire all’accerchiamento che già si delineava. Un passo dietro l’altro, faticosamente, gli uomini della Brigata rompono la neve alta un metro e cinquanta. Raggiungono la località denominata «Pian del Monte», dalla quale si domina una gran parte della vallata del Taro. Oltre il fiume, lontani i paesi di Baselica e di Belforte: raggiungerli significava la salvezza. Di qui dal fiume, Branzone e Tiedoli, presidiati dai tedeschi: fermarvisi significava la morte o la prigionia.
I colpi dei «ta-pum» ed il crepitio delle maxin-gaver e le sagome delle sentinelle tedesche poste a guardia delle alture e la neve che, inesorabile mostra la strada percorsa, gettano !’indecisione nel Comando sul da farsi. Chi è favorevole allo scioglimento della formazione affinché ognuno, separatamente o a piccoli gruppi, si porti sull’altra sponda del fiume; chi vuole battere una strada chi un’altra. Il Capo di stato Maggiore della Brigata, «Vampa», rompe gli indugi e si rivolge ad un partigiano chiedendogli: «te la senti di portare il mio battaglione oltre il Taro?». Non ci fu bisogno di risposta. Il battaglione abbandona immediatamente la strada, seguendo il corso di un canalone, in mezzo all’acqua, senza lasciare tracce, riprende la sua marcia. Dopo un’ora raggiunge un gruppo di case in località denominata «Testanello». Le brave famiglie di quei casolari, incuranti del pericolo che le minaccia, perché a non più di 100-200 metri vigilano sentinelle tedesche, sfamano e riscaldano questi uomini che debbono cercare la via della salvezza per essere in grado di ricombattere domani.
La sera è già calata con le sue ombre. Il battaglione ha appena ripreso la marcia quando si ode un calpestio di passi. Rapida e stentorea una voce, mentre tutti gli uomini si gettano a terra pronti al combattimento, grida «alt, chi va là, parola d’ordine», non meno rapida, dall’altra parte la parola d’ordine viene ripetuta con la richiesta della controparola. Erano gli uomini dell’altra parte della Brigata che, non avendo potuto percorrere l’itinerario prefisso, attraverso un altro canalone puntavano sulla direttrice di marcia del battaglione «Vampa» Un sospiro, e che sospiro!, di sollievo uscì dal petto di tutti. Rifocillatisi velocemente anch’essi presso quelle ottime famiglie, viene ripresa la marcia. Con la notte scende anche il gelo. Nel buio e col ghiaccio, con le mani impedite dalle armi, pronte a far fuoco su ogni ombra sospetta, il cammino è difficoltoso ed ognuno basta appena per se stesso. Eppure, a turno, si riesce a trasportare due partigiani che, durante il percorso, scivolando, si erano fratturate le gambe. Al primo gruppo di case che si trovano sul cammino, presso familiari di partigiani, vengono lasciati i feriti che ricevono le prime cure e vengono nascosti. E la marcia continua fuori della strada, in mezzo al nemico che ogni tanto spara qualche colpo a casaccio e lancia razzi colorati. La luna, alzatasi, illumina il cammino, ma nello stesso tempo rende possibile al nemico l’avvistamento.
Il Taro, ormai, è a poche centinaia di metri, ma gli uomini sono sfiniti. Si presenta il problema di attraversare il ponte di Magrano, presso Ostia, presidiato dal nemico, o risalire molto più a monte e guadare il fiume. Il guado del fiume è il più sicuro, ma gli uomini avrebbero ancora sopportato tale fatica dopo oltre dieci ore di così aspra marcia? Il ponte è lì a pochi passi, illuminato a giorno dalla luna. In fondo al ponte le sentinelle tedesche e puntate da Ostia le mitraglie del presidio tedesco. La colonna è ferma. In testa «Vampa» discute con un gruppo di partigiani sul da farsi. Ed ecco che due partigiani, uno col fucile mitragliatore e l’altro col mitra, puntano sul ponte. La decisione è stata presa. «Disporsi in colonna distanti dieci passi l’uno dall’altro ed attraversare il ponte». Questo è l’ordine da trasmettersi da un partigiano all’altro sino all’ultimo della colonna.
Un campo completamente scoperto, ripido, senza un cespuglio, senza un riparo porta all’ingresso del ponte. La Brigata, sotto il plenilunio, si snoda come un interminabile serpente lungo il ricurvo sentiero che attraversa il campo. I due partigiani, mandati in avanscoperta, sono sul ponte, il fiato sospeso, le armi imbracciate pronte a far fuoco al minimo allarme. Le sentinelle tedesche abbandonano il loro posto: I due partigiani sono già dall’altra parte in posizione coperta, pronti a proteggere col fuoco delle loro armi il passaggio della Brigata. Lentamente, senza colpo ferire, tutta la formazione attraversa il ponte. Era quasi l’alba quando i partigiani della 2′ Julia raggiungono Baselica e trovano in ogni casa i buoni contadini che si alzano ad accendere il fuoco per sgelare i vestiti che stanno loro addosso a guisa di armature medioevali. Le prime luci del giorno d’Epifania filtrano pallide attraverso gli affumicati vetri delle cucine ed i partigiani, buttati sulle panche e su giacigli improvvisati, finalmente, possono abbandonarsi a qualche ora di sonno mentre i contadini vegliano per loro.
La Brigata era sfuggita alla morsa che poteva distruggerla. La neve rende impraticabili le strade ed arresta, per breve tempo, l’attività operativa della Brigata, che riprende il 29 gennaio 1945 con uno scontro tra un gruppo di partigiani ed una pattuglia tedesca a Roccamurata. Per quest’azione, immediata è la reazione dei tedeschi. Il 2 febbraio cinque colonne nemiche, forti di 200 uomini, compiono un rastrellamento nella zona di Baselica, Belforte, Gorro, S. Bernardo, Lozzola e Bergotto.
La zona era tenuta soltanto da piccole pattuglie partigiane con una forza complessiva di circa venti uomini. Sul S. Bernardo sei partigiani vengono accerchiati da preponderanti forze nemiche. Nel combattimento, durato tre ore, il nemico perde tre uomini ed altri tre restano feriti. Finite le munizioni il piccolo reparto partigiano tenta inutilmente la fuga. Tre uomini cadono sotto il piombo nemico e gli altri tre vengono catturati. A Belforte una colonna proveniente da Roccamurata riesce a catturare, nelle prime ore dell’alba, quattro partigiani, mentre uno restava ucciso. Alcune case vengono incendiate. A Bergotto altri due partigiani vengono catturati.
Don Guido, fortunosamente, riesce a mettersi in salvo. Poco tempo dopo egli era di nuovo in cammino per riattraversare la linea Gotica, chiamato a compiere un’altra pericolosissima missione. Nel Bresciano il rastrellamento del gennaio era riuscito a colpire duramente le formazioni partigiane. Una delle più efficienti Brigate della zona, guidata dal comandante «Perlasca», caduto durante il rastrellamento e Medaglia d’oro della Resistenza, si trovava in una situazione estremamente critica. Degli effettivi della formazione molti i morti, i dispersi e gli sbandati. Don Guido paracadutato in quella zona a capo di una missione alleata, ricostituisce la Brigata alla quale impone il nome del leggendario comandante <<Perlasca >> ed in brevissimo tempo la rende operante in quel settore divenuto nevralgico per la vicinanza di Salò. Qui don Guido, il Prete volante, rimane sino alla Liberazione.
Nel frattempo la 2″ Julia potenzia la propria organizzazione ed intensifica la sua attività di guerriglia. Gli effettivi della Brigata ammontano, ora, ad oltre 350 unità. Un intero reparto di Russi, inquadrati nell’esercito tedesco, passa, armi e bagagli, sotto la bandiera della 2″ Julia. Finalmente 18 aprile del 1945 giunge dal Comando Unico l’ordine alla Brigata di trasferirsi da Mariano oltre il Taro e di occupare, assieme alle altre Brigate della Divisione VaI Taro, tutta la valle. L’operazione viene puntualmente eseguita ed i presidi nemici espugnati. Il 27 aprile 1945 la Brigata riceve l’ordine di attaccare Berceto. L’operazione fu, strategicamente, male organizzata. Tre distaccamenti furono mandati in avanscoperta sulle alture che sovrastano l’attuale strada provinciale oltre Roccaprebalza, un altro distaccamento doveva puntare su Berceto, partendo da Bergotto. Il grosso della Brigata seguiva a circa un chilometro. Si sapeva che Berceto, in quel momento, era presidiato da una Divisione motorizzata tedesca in ritirata. Eppure si lasciarono nei depositi una mitragliatrice da 20 mm., una diecina di mortai che col loro volume di fuoco potevano essere determinanti ai fini della riuscita dell’operazione. I primi tre distaccamenti muovono all’attacco di Berceto. Il contatto col nemico avviene immediatamente. Una valanga di fuoco si abbatte sulla linea avanzata di questo gruppo. I tedeschi asserragliati nelle case sopra Roccaprebalza combattono accanitamente; da Berceto i cannoni, le mitragliatrici, i mortai sparano senza tregua. La situazione è precaria. Sul terreno giacciono tre partigiani caduti e numerosi feriti. Viene immediatamente spedita una staffetta al Comando perché faccia intervenire i mortai. Dopo tre ore di furioso combattimento, finalmente, giunge un unico mortaio da 60 mm. Che tuttavia riesce a colpire e far tacere le mitragliatrici nemiche che impedivano la ritirata.
Il 28 aprile reparti della 2″ Julia occupano Berceto mentre altri reparti seguendo il corso del Taro, avanzano verso il Po, spingendosi nei pressi di Busseto. Questo, in breve, il contributo alla lotta di Liberazione portato dalla 2″ Brigata Julia di cui don Guido Anelli fu l’organizzatore e, più che un esempio, la luminosa bandiera.’
Dott. Sergio Giliotti
