
Associazione Ricerche Valtaresi ” A. Emmanueli ” 25 – 4 – 1979 Tipografia La Nazionale B.go Regale 3 Parma
Chi è il partigiano Jàfet? Vien fatto di chiedersi prima ancora di cominciare a leggere. Rispondiamo: potrebbe essere chiunque di noi, di quelli che non hanno conquistato la gloria con imprese eccezionali; è la figura dell’anti-eroe, che si commuove e scrive le poesie raccolte per rispondere a modo suo alle sollecitazioni provocate dall’ambiente e da un senso di pudore estatico di fronte alla morte: del comandante medaglia d’oro, come della madre anonima, o del giovinetto trafitto dalle pallottole sgorgate improvvise nella tormenta. E’ il ricordo riesumato di impressioni di quella tragedia che ormai sembra tanto lontana nel tempo, rivissuto nell’attualità di un diario rigorosamente storico e reale nei suoi aspetti meno oleografici, ma permeati di umanità, di spiritualità.
L’« Emmanueli »
Ho letto con piacere le poesie del Diario che hanno suscitato in me tanti ricordi di un tempo quando la vita era ogni momento in pericolo e devo dire che l’amicizia di allora è ancora intatta. Particolarmente forti le espressioni poetiche sui combattimenti di Pelosa e vorrei tanto ritornare oggi nelle vostre Vallate per rivedere gli uomini, allora giovani, formati e temprati all’università della vita.
Surrey (England), marzo 1979
Gennaio 1944 (1)
Quella mattina Davide Griffi, studente universitario, non immaginava che sarebbe successo qualcosa di straordinario nella sua vita. E’ vero che i suoi genitori si erano trasferiti da qualche settimana nel borgotarese, sull’ Appennino, per evitare incontri poco gradevoli dati i tempi e, soprattutto dietro consiglio della « comunità» che aveva previsto un’ ondata di recrudescenza antisemitica col ripristinato regime. Ma non aveva voluto abbandonare l’università cui si era appena iscritto, anche se la classe del 1925 era stata richiamata alle armi. Non si era mai reso conto che le cose si potevano mettere male e che avrebbe potuto andare incontro a seri pericoli, nello stato di renitenza alla leva. D’altra parte solo pochi dei suoi coetanei avevano ubbidito al proclama repubblichino e proprio con uno di loro, Michele, si era incontrato quella mattina per studiare qualche pagina di analisi matematica, uno dei quattro esami del biennio di ingegneria, programmati per il primo appello di giugno.
A Parma, città relativamente tranquilla, non era mai accaduto che si facessero retate in forze per controllare i documenti dei cittadini trovatisi casualmente all’interno di quel perimetro urbano studiato dal comando tedesco di concerto con la milizia fascista. Tutti quelli che non erano in grado di esibire un documento di regolarità della propria posizione, erano spinti in malo modo dalle pattuglie sempre più al centro della città fino a trovarsi ammassati nella traversa fra le vie Garibaldi e Cavour e alla fine bisognava necessariamente passare al vaglio degli accerchiatori per esibire i documenti. – Non hai adempiuto agli obblighi di leva, perciò non possiamo rilasciarti.
A nulla valsero le proteste di essere studente e non poteva chiamare in causa i genitori fuori città. . Insieme a una decina di coetanei era avviato al comando e stipato in cella in attesa di interrogatorio. Qualcuno riusciva a cavarsela professandosi disposto ad arruolarsi e otteneva lo scopo di uscire dalla tetra, squallida prigione, passando fra le loro file e in questo modo poteva anche far dimenticare eventuali trascorsi. Davide avrebbe potuto adottare la stessa soluzione di comodo, ma era contraria alla sua natura. Nel giro di 48 ore erano rimasti in due a condividere i disagi di quella stanza deprimente, umida, scrostata e fu proprio l’altro a comunicargli che in giornata un loro coetaneo sarebbe stato fucilato pubblicamente, per dare un esempio a tutti: dalle sbarre di un finestrino era visibile il campanile austero di S. Giovanni, maestoso nella bruma fredda. . .
Piove
è greve l’aria
e di crepitìo lontano l’eco s’intende.
Il sole
ghignando a tratti
fra squartati nembi
illumina la Torre
e nel fumoso sprizzare
d’argento e d’oro
le gocce cadono
fra pozzanghere
grigiastre e scure.
L’orme di terra
scompariranno fra breve
fango plastico
nel gran crogiolo
che tutto plasma
trasforma e confonde:
del monticello ombroso alle formiche, nulla rimane.
Che conta al reggitor de l’universo che la tempesta sorta
abbatta e ruini il mondo?
Una lettera, opportunamente stesa per la censura, indirizzata agli amici presso cui ormai da qualche mese si trovano i genitori, onde tranquillizzarli, e poi sul convoglio speciale diretto a Firenze dove il comando tedesco attinge materiale umano da adibire alle opere di fortificazione sulla linea del fronte, a Cassino. Davide ha pensato alla possibilità di eludere la vigilanza e di raggiungere subito la Valle del Taro, per trovare anche lui asilo dai genitori presso gli amici contadini, abbastanza lontano dalle strade di grande comunicazione, ma la notizia diffusa in città che si sta preparando un rastrellamento in forze da quelle parti, lo ha fatto desistere per il momento. Così, viaggiando di notte, dopo aver trasbordato alla stazione di Bologna, sconvolta dai bombardamenti, arrivano a Firenze e sono sistemati in una caserma lungo l’Amo, senza brande, senza coperte e senza rancio.
La guerra ci riunisce fra le navate del tempio: al sibilo straziante delle sirene arriva il terrore dal cielo e la corsa pazza della speranza si dirige al centro storico libero e sicuro nella sua immane bellezza dal tritolo devastatore. Una strana armata di giovani costretti in caserma sul cemento, senza letto nè armi, nè divise: i campi di Cassino l’attendono per far scudo ai tedeschi, stirpe eletta.
Ogni giorno puntuali un gruppo di fanciulle attende alla base di una colonna: parole d’amore e di libertà in questo mondo che crolla attorno? meglio dirsi addio ogni giorno, l’avvenire non ci appartiene.
Gennaio 1945 Qualche giorno prima era arrivata alle pendici del Gottero una sedicente contessa, debitamente referenziata da comandi partigiani di altre zone, e qualcuno aveva proposto di tenerla isolata e sotto controllo, ma poi, fraternizzando con la popolazione era abilmente riuscita ad accattivarsi la simpatia di tutti. La notizia è corsa come un lampo gettando tutti nella più profonda costernazione: forze ingenti nazifasciste hanno nottetempo raggiunto Montegroppo e catturato l’intera compagnia comando della Centocroci con Richetto e il suo stato maggiore. La colonna baldanzosa arriva al Borgo col nutrito gruppo di prigionieri che sono sistemati nella sede del dopolavoro.
L’inganno di una spia
è riuscito a incatenarlo
come non ha potuto
sul campo di battaglia
il sibilo dei proiettili
in cento azioni di guerra
Sulla sua testa pende
taglia e condanna a morte
ma i tedeschi non sanno
l’entità della preda.
Passa tra una folla muta
che nasconde il suo dolore,
guardato a vista
dalle canne dei fucili
circondato dai compagni di lotta sorpresi
che tengono segreto il suo nome
avanza anonimo col gruppo
che fino a ieri ha guidato
sempre primo alla vittoria
beniamino eroe
della gente dei monti
la sua fama ha varcato i confini
ed ora il lutto della Centocroci
si diffonde sulla Valle del Taro.
Nella cella improvvisata
arriva misteriosa 1’arma della salvezza
e . . . della funesta rappresaglia
sul popolo del Borgo.
Ma sulla mulattiera impervia
col fragore d’un macigno
schianta la scorta e fugge
nel rapido pendio:
l’inseguono le raffiche
rovesciandosi nell’ anfratto
disperatamente
verso la libertà.
Gennaio 1944 Dopo aver vagato nel buio della notte appena rotto dal riflesso grigio della coltre nevosa, ritornando più volte sui suoi passi per aver smarrito il sentiero, riesce finalmente a superare la cresta del monte e le condizioni migliorate della visibilità, gli permettono di orientarsi in un paesaggio che conosceva sufficientemente ma in diverse condizioni stagionali. Raggiunta l’abitazione dei contadini che ospitano i genitori Davide si avvia alla porta e bussa: è un momento di emozione, una giovinetta apre. . .
Le membra logore
il pensiero stanco
sognano in te la pace
Le tue parole semplici
i modi austeri dei tuoi gesti
sinceri e schietti
1’angolo della bocca
le fossette fugaci
il sorriso ospitale
il colore vellutato e candido
nelle guance,
il bagliore degli occhi
scintillanti di giovinezza
il nero dei capelli
le trecce misteriose
la perfezione del corpo
chi mai potrà dimenticare?
La modestia dell’ animo
traspare ogni istante
candido fiore di montagna
la tua bellezza eleva,
la speranza infonde
nel cuore pellegrino.
Gennaio 1944
Finalmente a casa! Sembra di sognare. Tutto è bello, tutto ispira sentimenti di fiducia nella vita. Sono giorni indimenticabili, confortati dal calore della famiglia ritrovata e felice, nonostante i limiti imposti dalla situazione per quanto riguarda le possibilità di muoversi, la distanza dagli agi della città. A dispetto dell’ esperienza avuta, la guerra sembra tanto lontana. . .
Silenzio: tutta la valle
è immersa nell’ombra della luna
ovunque scintillano
i cristalli gelati
e l’oscurità si attenua
per questi riflessi;
lassù
le bianche montagne
risaltano nel cielo
trapunto di stelle fredde.
Ogni tanto vibrante nella valle
s’ode un tocco di campana,
unico lamento
dell’umanità repressa
filtrante attraverso la cortina
di candido velo
distesa sul mare immobile.
Rompe l’incanto
il fruscio degli sci sulla crosta
fa freddo ma non s’avverte
ne l’aria immota dell’ascesa:
dalla vetta pare lontana
la vita nella valle.
Lo spirito si adagia
in regioni ignorate,
ogni umana angoscia
senti inutile e vana
libero dal timore
ritrovi te stesso.
Uno sguardo lontano
alla valle silenziosa e bianca
e al cielo azzurro senza macchia
giù nel fondo
il paesetto coperto di neve
solo un tenue filo di fumo
serpeggia dai comignoli
e si perde nell’etere
Dall’alto del crinale
si copre
la striscia d’un fiume sinuoso
piccolo e sconosciuto
senz’orma di vita umana:
qualche istante
e gli occhi lagrimosi pel vento
filando veloce fra’ cespugli
tra balze e solchi del terreno
penetro nella macchia.
La corsa s’arresta
a una casetta
piccola e abbandonata
nel rumore del vicino ruscello:
dentro, sparse a terra
alcune foglie secche
e un cumulo di cenere,
da una finestra senza vetri
tenui raggi di luce.
Non è questa la casa fatata
di cui soleva raccontare la nonna?
Qui scompare l’idea del tempo
e si placa la tristezza
sul mondo in conflitto.
Febbraio 1944
A Borgotaro rari esercizi pubblici sono rimasti aperti al pubblico e si giuoca alle carte fra una battuta e l’altra: non è difficile familiarizzare con gli studenti e tutti coloro che, in qualche modo liberi da occupazioni stabili, passano qualche ora della giornata in compagnia. Ogni giorno si sa sempre qualcosa di più sulla Resistenza: Cesare, Piero, Ninetto devono saperla molto lunga sull’argomento, anche se ne parlano con circospezione. A sera Davide fa ritorno lassù fra le macchie del m. Rizzòne. Sembra che l’inverno stia per finire al primo soffio di scirocco, ma è ancora presto per pensare che la neve si sciolga definitivamente. . .
Impavido fiume
dalle forzate sponde
rumoreggiante
inesorabile
terribile a udirsi
gorgheggia fra i macigni
e i neri dirupi
selvaggi di tumido muschio.
La terra spaccata
dallo scroscio di pioggia
rovina fragorosa
ma la vorticosa corsa
dell’ acqua non quieta
chè nuove rapide
l’impeto riformato
travolge ogni barriera.
Dissidio eterno
come il tempo dura
Finalmente Cesare propone qualcosa di concreto: domani andranno a rifornire il gruppo partigiano di Fermo Ognibene, scampato all’attacco di Osacca (Bardi) e trasferitosi, di notte, in VaI di Taro con la guida di Solari, da qualche giorno scomparso dal bar. Davide conosce ancora poca gente del Borgo, ma se ne è innamorato come del paesaggio: sono montanari schietti, decisi, leali che sanno ponderare le situazioni e riconoscere un amico; ormai lo considerano uno di loro e Cesare, studente di medicina, ha problemi analoghi ai suoi, per l’origine della famiglia. Ailù, barbuto mulattiere di Compiano, ha portato il carico di armi dentro sacconi di carbone e li ha deposti presso una casa di contadini sopra Gotra; si tratta di trasferire il tutto al più presto nella boscaglia, per consentire ai « ribelli» di venirne in possesso. Dopo il fatto grave di Osacca, quando un traditore ha asportato la chiavetta della « Breda » che avrebbe sgominato gli attaccanti, rendendola inservibile, una certa diffidenza circola nell’ ambiente e il fatto che Cesare abbia scelto proprio lui per un’azione tanto delicata, lo conforta. Appena dopo il mezzogiorno si caricano sulle spalle gli zaini zeppi di munizioni, procurate chissà come e arrivate nello studio di Armando e si avviano sulla strada provinciale per passare attraverso il ponte Scodellini sull’ altra sponda e imboccare sentieri noti inerpicanti verso la montagna. Ma alla curva della Chiusa, l’imprevisto: un conoscente di Davide, nella divisa di capitano della milizia, li incrocia e Cesare toglie la sicura alla Berretta nella tasca dei calzoni.
– Caro Antonio! Come mai da queste parti. . .
– Ho sfollato la famiglia dalla città per il pericolo dei bombardamenti. Ma voi dove andate così carichi. . .
– Sai, facciamo un po’ di mercato nero, per tirare avanti. . .
Un abbraccio frettoloso e poi finalmente Cesare rimette la sicura.
Non hanno difficoltà a rintracciare i pesanti sacchi di iuta e a trasferirli faticosamente in una casella quasi diroccata, in mezzo al bosco: poi, attraverso sentieri appena segnati, raggiungono la base a Lago Pavè.. .
Nella stanza calligginosa e buia
arde il ceppo per seccar castagne
attorno un gruppo di giovani
forti con la barba lunga
e il comandante Fermo.
Chissà se Lago Pavè
un tempo conteneva l’acqua
oggi scarsa e gelata sul prato
sotto la neve.
Abbiamo camminato per ore
col passo lento sotto il pesante carico
della speranza:
armi sottratte al nemico
perché viva la fede
nel pugno di uomini
afflitti dalla fame
pidocchi e sofferenza
per seguire la visione
d’un sogno di libertà.
A questi giovani imberbi
cresciuti anzi tempo
sotto il battesimo del fuoco
diamo le nostre maglie
le scarpe e il cuore
perché l’inverno
non pieghi la loro audacia.
Ogni mattina sulla cresta del monte
furtivo cerco nel cielo
un tenue filo di fumo:
son loro, son vivi
per la grande partita.
Marzo 1944
Recarsi al Borgo dall’ abitazione degli amici sul m. Rizzòne è ormai per Davide cosa abituale, tanto da non poterne fare a meno. Per motivi di sicurezza il percorso nel versante del Taro si svolge lungo il letto di Rio Rì, occultato da una folta vegetazione di virgulti che anche in mancanza di foglie costituiscono una mimetizzazione perfetta. A un centinaio di passi dall’ abitato, nella casa colonica di Carlino, si ferma a riprendere fiato: ha impiegato non più di un quarto d’ora, ogni volta migliora il tempo, per tenersi in allenamento. La sosta gli permette di conoscere i particolari delle ultime notizie sul Borgo per quanto concerne il comportamento dei carabinieri e di eventuali altri reparti, specialmente della milizia, mandati saltuariamente di’ rinforzo. Ormai tutti sanno che al Penna e al Gottero si sono acquartierati gruppi ribelli e quasi ogni giorno qualcuno dei residenti sparisce senza lasciare tracce, diretto lassù. . . Una bella mattina anche Cesare manca all’appello nel bar: è scomparso senza dirgli niente, senza lasciargli un messaggio.
Sull’eterno moto del tempo
ritorna giovinetta e gaia
coi profumi di mille essenze
ardita e graziosa più che mai
con palpiti di pulsante freschezza
e le armonie più belle di tutti i sensi,
primavera.
La vita sboccia nel verde
e fra le valli
i primi rami ombreggiano,
vivace canto d’uccelli
acqueta il rumoroso torrente,
sull’aie intrecciando giochi
saltellano brigate di bimbi.
Poi che dello strano guizzo
si posa la rondine
fra sensuale odore di biancospini
pare assurda
agli occhi scintillanti d’amore
la piccola foglia secca
appesa al ramoscello nudo
sul sentiero per la montagna.
Canto di primavera
nell’ azzurro
nel cupo verde del piano
nel rosseggiante orizzonte
nel fresco dell’ aria vespertina
Canto di fanciulle
al riflesso raggio
di lontano astro morente
fra tenui nubi
sicuro auspicio di vita
Fruscio di pioggia
leggero balsamo alle foglie
freschezza di primo bacio
gioia limpida d’amore
labbra turgide
e caldo slancio
di giovinezza:
lontano in mezzo al verde
un candido fiore
giace.
Aprile 1944 Il padre Pino non era arrivato a caso alla fattoria del buon Emilio che era stato commilitone nel 4° reggimento alpini, durante la prima guerra mondiale e poi in seguito avevano continuato a vedersi specialmente d’estate nelle settimane della trebbiatura e rinverdivano i ricordi delle lontane vicende belliche, ogni volta sempre più arricchite di particolari inediti. E lui, Emilio, ogni volta che per qualunque motivo doveva recarsi in città, trovava difficile accomiatarsi per le insistenze dell’ amico. Si trattava di uno scambio di ospitalità e di lavoro perché l’origine di Pino era contadina, prima di essere occupato come giardiniere del Comune di Parma, dove con qualche lavoretto extra nei giardini privati dei cittadini più facoltosi, riusciva a campare egregiamente mantenendo l’unico figlio agli studi.
Mangiavano tutti insieme, nelle pause di lavoro e ne approfittavano per ascoltare alla radio le notizie di guerra che commentavano con gli ultimi sviluppi della situazione in VaI di Taro. Il giorno di Pasqua era stato festeggiato con particolare cura dalle donne in cucina e diversi partigiani, i primi che si fossero mostrati in carne e ossa nella zona, si erano rifocillati qui come altrove, perché tutta la popolazione indistintamente prestava soccorso ai giovani patrioti in difficoltà. E veramente ce n’era bisogno in quei giorni dopo i fatti di Montevaccà (Bedonia), dove era morto il primo di loro, insieme a diversi tedeschi. Per la prima volta i patrioti Valtaresi avevano imparato a praticare le regole della guerriglia: dopo aver sgominato i reparti attaccanti si erano «sganciati» sparpagliandosi dappertutto per lasciare davanti ai rastrellatori di rincalzo il vuoto.
Davide aveva sperato di rivedere Cesare, ma nessuno sapeva dire con precisione che direzione avesse preso.
Tremante alla luce della folgore
l’uomo un giorno si nascose
nelle profonde viscere della terra.
Col cuore palpitante d’oscuro terrore
vide nel cielo l’Infinità dello spazio
e prostrato a terra
pensò l’Ignoto;
dalla fatalità degli eventi
trasse l’idea del Destino feroce
cui invano poteva opporsi;
smarrito e triste
formò il mito dell’Impossibile
e nell’ abbandono del sacrificio
giacque nel fango dell’Oblio: nell’oscura caverna,
dimenticò la forza
capace di creare.
Ma un giorno apprese inconsciamente
la gioia della ribellione
e da allora la sua è vita di conquista
per la libertà:
la prima vittoria strappa il sorriso
e da allora il Fato
è superato e vinto
e nella follia della Gloria
sorridendo muore.
Le truppe alleate si sono attestate in Francia, avanzano nella Penisola, sembra che la tragedia volga alla fine. I partigiani ricevono lanci di materiale ormai in pieno giorno e decidono di liberare l’Alta Valle del Taro: diventerà «Repubblica» libera seppure nell’ambito del territorio occupato dai tedeschi. Anche il reparto della Ia Julia di Cesare è sceso a Borgotaro e proprio il suo distaccamento presiede la stazione ferroviaria e in particolare l’imbocco della galleria del Borgallo comunicante coi suoi 8 Km col versante toscano dell’Appennino e quindi con la possibilità di infiltrazioni di pattuglie nemiche. Il suo nome di battaglia è « Sam ». Si ritrovano finalmente e passano qualche ora con Mauro (Ivan): è diventato un uomo serio e responsabile con le idee chiare sulla lotta che sta combattendo:
– . . . se gli alleati pensano di averci comprato coi loro aiuti, sbagliano: noi stiamo combattendo per la nostra libertà e se sarà necessario andremo anche contro di loro. . . Non avrebbe mai più immaginato che quello sarebbe stato il loro ultimo colloquio. La mattina dopo infatti il cielo si è oscurato per un numero eccezionale di fortezze – volanti dirette al Nord, chissà dove, e alcune fanno una conversione sul Borgo; dal m. Rizzòne lo spettacolo è emozionante per Davide; fino ad ora si era trattato di caccia bombardieri che arrivavano a fil di monte e si gettavano in picchiata sul ponte in ferro della ferrovia per demolirlo col loro carico di esplosivo, senza tuttavia riuscirvi mai: davano l’impressione di un’azione di esercitazione.
Questa volta si trattava invece di un bombardamento a tappeto: i grappoli micidiali si scorgono a occhio nudo scendere sul greto del Taro. E’ una scena apocalittica: alte colonne di fumo nero avvolgono quel tratto di valle col fragore moltiplicato delle esplosioni quasi simultanee. Evidentemente il comando operativo alleato non è al corrente della situazione locale e non sa di mettere a repentaglio forse la vita degli occupanti, per quanto la stazione ferroviaria disti di qualche centinaio di metri dall’ obbiettivo. Cesare con gli altri, all’ arrivo degli aerei, si è buttato dietro il «muraglione» che protegge la linea ferroviaria dal Tarodine, a circa un Km dal ponte, quasi al coperto, a pochi passi dall’imbocco della galleria e, turandosi le orecchie attendono bocconi che cessi il finimondo. Una scheggia volteggiando nel cielo, secondo una traiettoria impossibile, cala sul femore di Cesare, che morirà dissanguato.
Non cippo nè croce
sull’ara del carificio,
non squilli di trombe
non salve di batterie
nè inchinar di bandiere:
è il mio testamento.
Qui presso scorre lenta
l’acqua del torrente
come quel giorno
e il del risplende come allora. . .
Tu non pensare al fato
che rifuggendo ogni legge fisica
portò la morte fra questi massi. . .
Ero il più giovane
e per questo pago
per l’intera umanità cui appartieni
ma non piangere per me
che vago fra le ombre
e assiedo sulle cime dei ghiacciai
e ascolto le canzoni alpine
quando salgono
dalle valli al cielo.
Luglio 1944 Le discussioni in famiglia si ripetono frequentemente: Davide non ha «necessità» di raggiungere gli altri sui monti perché lì è al sicuro, fuori dalle direttrici del traffico, può recarsi quando vuole al Borgo, tenere tutti i contatti che gli piacciono, lavora quando gli aggrada nei campi e i contadini dei dintorni vengono spesso al calar della sera a scambiare quattro chiacchiere e stanno a sentirlo quando riporta notizie e commentano insieme gli avvenimenti. Tutti hanno l’impressione che la guerra abbia ormai i giorni contati. – A che scopo vuoi lasciarci qui in pena, lo implora la madre.
Evidentemente la sua ansietà giovanile, l’anelito a fare anche lui la sua parte in questa lotta per la libertà, non trova l’approvazione di chi gli sta attorno e costituisce un freno alle sue giuste ambizioni. Un giorno al Borgo avvicina Giacomino, nel centralino telefonico pubblico, che sa membro del locale C.L.N. e sta per dichiarargli la sua disponibilità. – C’è una comunicazione urgente da portare a Boschetto a quelli della Berretta. . . – Ma io non sono partigiano. . . – Lo sei da questo momento: dimmi un nome di battaglia. – Jàfet. . .
– Non c’è tempo di far tante chiacchiere: riferisci a voce che ti mando io. « Sono segnalate pattuglie tedesche sui vari passi e si pensa che ci potrebbero essere sorprese da un momento all’ altro. Allarme quindi a tutti i reparti. Vai con la bicicletta!» Improvvisamente, senza volerlo, ha trovato il suo ruolo, nel tenere i collegamenti; un compito a prima vista abbastanza facile, ma che potrebbe rivelarsi impegnativo e che avrebbe perfezionato senza dover lasciare definitivamente la famiglia. Compiuta la missione con l’impiego di tutte le sue energie per far presto, sta tornando al Borgo, quando qualcuno in bicicletta lo incrocia dicendogli che c’è un blocco stradale giù a valle. Allora non resta che attraversare il Taro, lasciare la bicicletta in un cespuglio e proseguire a piedi, verso casa. Anzi l’occasione è buona per prendere un bagno rinfrescante nel Lago Scuro. Ma un brivido prolungato lo costringe a guadagnare presto la riva. La febbre dura alcuni giorni e quando finalmente arriva il medico, la sentenza: pleurite apicale, riposo assoluto e iniezioni endovene da eseguirsi all’ospedale. Tutti i propositi frustrati: Jàfet, partigiano per un giorno.
Quella che proveniva da Berceto non era una semplice pattuglia: un centinaio di tedeschi della « feldgendarmerie» con diversi autocarri era intercettata a Boceto da un reparto della Centocroci (comandato da Igor) e, intuendo la impossibilità di raggiungere il Borgo si fermano. Raccolgono diversi ostaggi fra la popolazione civile e invertono la marcia facendosene ben visibilmente scudo sulle sponde degli autocarri. I partigiani li inseguono e al torrente Manubiola si appostano ingaggiando battaglia da posizione favorevole. Morti e feriti fra ostaggi, tedeschi e partigiani. Gli autocarri ritornano al Borgo carichi di bottino e di prigionieri. Saranno questi ultimi che permetteranno più tardi di trattare coi tedeschi per avere in cambio la promessa di non infierire sulla popolazione. Diversi feriti sono curati all’ospedale del Borgo, dove anche Davide si trova per l’iniezione con la febbricola che non lo abbandona e coglie l’occasione per conversare scoprendo che i temibili soldati del führer sono in fondo degli uomini, modestissimi uomini, carichi di paura per sè e per le loro famiglie. La propaganda ha dipinto i «banditi » come esseri spietati disposti a infierire sui vinti, abituati a non tenere prigionieri, vivi; forse per giustificare le loro criminali prodezze. La realtà è ben diversa e se ne rendono conto: curati con la stessa premura usata per i partigiani feriti, rifocillati con lo stesso cibo, sono avviati al campo di custodia.
Il bimbo piange
di fronte all’immane tragedia
della madre assassinata;
la gente gli brulica attorno
lo guarda pietosa
mentre la bara
scompare fra i cipressi
del cimitero
Il bimbo piange
la sua infinita angoscia:
è partita per sempre
inghiottita nel nulla
nella selva di piombo
e le parole del rito
non placano il dolore.
Il bimbo piange
e l’anima sua vibra
nel dolore del cosmo
più grande d’ogni pena terrestre
lo ha lasciato per sempre
racchiusa nello scrigno di quercia
Saprà mai perdonare
il bimbo che piange?
Luglio 1944 Da molti giorni la malattia di Davide ha assunto il ruolo condizionante del suo comportamento; nonostante l’assiduità della cura, la febbre persiste e la strada che prima percorreva di corsa, quasi volando, ora è diventata lunga perché deve fare in modo di non sudare. Al Borgo si sente nell’aria il pericolo imminente: sulla pista in terra battuta del campo di aviazione non è atterrato nessun aereo alleato, contrariamente a ogni speranza; le rare persone rimaste in paese sono indaffarate a occultare masserizie e dell’ ospedale trasferito ad Albareto, funziona soltanto un modesto ambulatorio, privo di tutto. Dal Passo del Brattello una colonna si è spinta lungo il Tarodine, ma è stata annientata. Dal Passo del Bocco. . .
« A Pelosa i tedeschi non passano»
l’eco portata dal vento
freme nella sera
sulla Valle del Taro
ultimo spiraglio
della Repubblica libera
compressa nel morso teutòne
appena nata.
«A Pelosa si resiste a oltranza»
perché un gruppo di audaci
spara disperatamente
da sei giorni con feroci attacchi
nella gola ventosa
battuta dai «Brènn ».
«A Pelòsa si spara ancora»
e i cadaveri sparsi
sul bianco letto della strada
si contano a cento
sottratti nella notte
pietosamente alle stelle.
«A Pelòsa si muore»
perché i carri blindati
e le ventimillimetri
battono i cespugli
e tacciono i mitra
spezzati dai proiettili.
« A Pelòsa è cessato il fuoco»
. . . e la speranza.
Davide sta per arrampicarsi lentamente sulla mulattiera ombreggiata che oggi ha scelto per tornare a casa, febbricitante, dopo l’iniezione. Sulla strada appena lasciata sfreccia una motocicletta Zundap, preda bellica e riconosce alla guida Bruno con Alberto, studente di medicina e comandante di un distaccamento partigiano, ma non lo vedono e sarà fatale. Fermandosi a un luogo di osservazione li segue con lo sguardo fino al rettilineo di Gotra: qui è accaduto qualcosa perché il rumore della moto si arresta e si scorge un certo tramestio. Poco dopo un gruppetto si addentra nella boscaglia e sparisce: in effetti si trattava di una grossa pattuglia tedesca arrivata attraverso i monti silenziosamente dal versante toscano e, istituito un blocco, controlla la strada per Bedonia. Sull’ altra sponda sono affluiti intanto reparti partigiani e una mitragliatrice pesante sloggia la postazione che non risponde al fuoco e pare che sia stata inghiottita nel nulla.
Rumori di spari provengono più o meno intensamente da tutte le direzioni, con presagio di morte.
Un campo di granoturco
davanti alla casa del comando nemico
Dopo notti insonni
di incubi nefasti
gli arti tremanti
i nervi tesi a scattare
la sorpresa sulla strada
ha posto fine al tormento
e l’interrogatorio
è la formula di rito
del condannato a morte
meglio delle sevizie infami
inflitte tante volte
a sfortunati compagni di lotta.
Un campo di granoturco
è l’ultima speranza
per sottrarsi al destino,
forse l’ultimo addio
se il piombo nemico
pietosamente vorrà celarlo
alla malvagità tedesca:
sono pochi passi
un balzo
sulla via della salvezza
a pochi metri dalla foresta
e le squamose foglie
si spezzano sotto il fragore
dei colpi inesorabili
e il sangue d’un eroe le bagna
tingendole di rosso.
Luglio 6 manca
Luglio 1944 Siamo in pieno rastrellamento. Fermata l’avanzata alleata i tedeschi hanno tempo per effettuarlo con grande spiegamento di forze, utilizzando le truppe di avvicendamento alla prima linea nell’intento di rendere sicure le retro vie alle spalle per i necessari rifornimenti. Si parla di oltre due divisioni. Gruppi di centinaia di persone si spostano da da un’ altura all’ altra secondo la violenza degli spari, il ticchettio delle mitragliatrici, i boati delle bombe di mortaio.
Cento e cent’anime
fuggono
senz’orizzonte
e feroci cacciatori d’uomini
passano fra i cespugli
e gli aridi sentieri
invano
chè la preda s’ asconde
lungo dirupi
all’animale ignoti
e tende l’udito
ai lamenti più lungi
dello sfortunato
che il ferro forgiato
ha trafitto
temprato al fuoco
della civiltà teutonica.
In nome del progresso
si fugge
e beffardo nemico insegue
armata la mano
e corazzato il cuore;
temerario uccide
la vittima inerme colpevole
d’aver sognato: libertà.
Ancora un monte
lontano ritto selvoso
ivi corre la folla impazzita
negli occhi sbarrati il terrore
nel petto un ritmo convulso incessante
Il respiro affannato
i muscoli tesi
la pelle bruciante sferza la pioggia
e corre
L’eco d’un rombo
sempre più vicino
pauroso l’insegue
portatore di morte
Qualcuno cade
le labbra toccano il fango
si rialza e prosegue
lontano. . .
verso la salvezza?
Settembre 1944 Il responso ulteriore del medico non lascia dubbi: le possibilità di guarigione sono legate al regime di vita a tempo indeterminato, nè può rimproverare ai genitori di essersi opposti quand’era tempo, ai suoi progetti; sui «se» e sui «ma» non si fa la storia della propria esistenza. Al Borgo dopo la buriana la gente è ritornata, guardinga più che mai. Ma all’ Appennino è facile trovarsi improvvisamente con la pattuglia del presidio ripristinato e rafforzato, della stazione ferroviaria e nel tavolo appresso Libero, il comandante della Ia Julia con tanto di barbone inequivocabile. Nella trattoria Pellacini, sul viale dei platani, consumano il pasto contemporaneamente partigiani e tedeschi comportandosi da commensali, con cortesia.
Davide ha stretto amicizia con altri anche più giovani di lui non direttamente impegnati in reparti combattenti e un giorno offrono la loro collaborazione al comandante partigiano ottenendo per tutta risposta: quando sarà il momento. Intanto Pino, venendo meno la necessità di lavorare nei campi di Emilio non si sente di abusare più a lungo della sua ospitalità.
Un abbaiare lontano
m’accompagna
e uno stridor di cornacchia,
l’aria fresca autunnale
scende nel petto
e n’esce un sospiro:
or tutto è silenzio attorno
dopo la tempesta estiva
La mano svelle
lo stelo d’un fiore
e un petalo bianco
cade alla scossa
mentre il pugno si serra
il vento lieve spirando
lo culla pian piano,
cade.
Un di la furia del temporale
lo macchiò di fango
ma risorto nella luce
una farfalla lieve
lo portò alla gioia
ebbe timore dell’ombra
odiò la notte:
come la mia vita.
Colto sulla roccia
te lo reco in dono.
Ottobre 1944 Davide girovaga nella Vallata quando la febbre glielo consente e vive e sogna sulle esperienze degli altri, dei quali condivide almeno gli ideali non potendo fare altrettanto coi rischi. A Caffaraccia, sede del comando della la Julia si trova di fronte a una realtà insospettata.
Adolescenti,
hanno smesso i balocchi
cresciuti velocemente
nel caos della guerra:
sono un gruppo di fanciulli
avvezzi come i grandi
nell’uso delle armi
e senza indugio
hanno sottratto a un lancio
il carico micidiale
di fucili automatici
nascosti nel bosco.
Ogni giorno si ritrovano
spuntando dalla terra
desiosi di provare
il gioco della guerra.
Sparano simulando azioni
con l’emozione degli eroi
paladini di tanta lotta.
A sera raccontano ai vecchi
di storie di attacchi
e increduli, dileggiati
questi nuovi prodotti
della follia umana
son pronti a combattere
per la libertà.
Novembre 1944 Con le prime nebbie dell’ autunno in montagna il grosso dei lavori agricoli è terminato. Il padre di Davide ha trovato un’ occupazione come magazziniere alle dipendenze del Comune di Borgotaro e si è sistemato in un alloggio di fortuna ricavato nell’ edificio scolastico al piano delle cantine.
Cadono le foglie
tristezza di un’età passata
come l’estate cruenta, lontana;
le nuvole in cielo
s’addensano, ingrossano e piove:
fini come polvere e rade
le gocce si sperdon nell’aria;
non più voli di rondini attorno
soltanto guizzar d’uccelletti.
Il monte nasconde la nebbia
e la famiglia riunita
al ceppo del camino:
ricorda il nonno d’un tempo lontano
di usi e costumi sorpassati
racconta il vicino di crudeltà inaudite
di fatti mostruosi che paion d’altri tempi
ascoltano i piccoli
le gesta di nuovi eroi leggendari. . .
Intanto fuori ulula il vento
e sbatte la porta d’un cascinale.
Dicembre 1944 Vivendo al Borgo, ogni giorno non mancano le emozioni dei racconti dalla viva voce dei protagonisti o il contatto diretto di azioni come il pomeriggio che a cento metri da casa in un boato di fuoco e calcinacci saltava in aria l’edificio al cui piano terra era dislocata la trattoria Pellacini, con lui dentro, per rappresaglia dei tedeschi a un’ azione partigiana; c’è di che rimpiangere il soggiorno tranquillo del m. Rizzòne.
Ogni tanto poi l’incontro problematico con le pattuglie tedesche dai convogli in sosta alla stazione: Davide ha un pastrano visibilmente tedesco sotto la tinteggiatura casalinga e non avendo più nessuna possibilità di sottrarsi, prosegue disinvolto, ma col cuore in gola. – Hir ist eine! (qui ce n’è uno) sente distintamente e tutti gli sguardi sono su di lui e automaticamente la direzione delle canne delle machine-pistol.
– Buon giorno, riesce a spiccicare… Venti metri più avanti la pattuglia istituisce un posto di blocco e chiede i documenti a tutti i passanti. Il rumore di un aereo richiama l’attenzione di un soldato del Reich intento a trangugiare una birra nell’osteria sul viale alberato e proprio in quel momento il partigiano «Dado» sta transitando in bicicletta, armato fino ai denti. E’ un momento drammatico: entrambi mettono la mano chi sul mitra, chi sulla pistola, a pochi metri l’uno dall’altro, hanno all’incirca la stessa età e la capigliatura bionda… poi per strana e fortunata ispirazione il tedesco porta la mano al berretto accennando il saluto militare; l’altro risponde, pronto a sparare possibilmente per primo: non succede niente.
Davide sta passeggiando per via con l’amico Ivan della polizia partigiana, naturalmente in borghese, che sta raccontando come giornalmente i trafficanti clandestini si facciano accompagnare al suo ufficio dai tedeschi per protestare sui sequestri operati dei generi di contrabbando: – Ma quello l’ho fatto prigioniero la scorsa settimana, per poter fare uno scambio. .. (e indica uno dei due tedeschi che avanzano sullo stesso lato del marciapiede) si guardano, sorridono per saluto, da vecchi conoscenti. E’ come se esistesse un tacito accordo, che però non funziona coi fascisti e tanto meno con quelli della xa mas; il giorno prima il solito Ivan, avvertito che uno di questi ultimi stava acquistando qualcosa in un negozio, si avvicina non visto, gli punta la pistola al fianco, lo disarma e lo avvia al Comando, a Caffaraccia.
In effetti si respira un’ atmosfera di tensione continua e la scarsa popolazione residua, o meglio, ritornata in vista dell’imminente rigore invernale, è sottoposta a un logorio nervoso notevole, anche perché il presidio della stazione è stato rinforzato e sistemato nel palazzo Ostacchini come in una fortezza e le pattuglie con chiari intendimenti informativi in ogni ora del giorno e della notte si spingono nel centro dell’abitato (a meno di 1 Km). Naturalmente il comando tedesco è al corrente dell’ esistenza di una polizia partigiana camuffata in funzione di vigilanza annonaria. – Vivere qui è più rischioso e difficile che andare coi partigiani. Confessa Davide a suo padre, ma ben sa che non può farne a meno.
Gennaio 1945 La neve nei primi giorni dell’ anno è caduta abbondante più che mai, dappertutto. Davide pensa che l’occasione sia propizia ai nemici per colpire anche se è abbastanza agevole l’occultamento perché gran parte dei patrioti aborigeni si è sistemata al sicuro nelle abitazioni rurali e cittadine dove preventivamente si sono creati rifugi per nascondersi; ma c’è da stare con gli occhi ben aperti per evitare sorprese: Brunetto e Tonino scherzavano tirandosi palle di neve e malauguratamente colpivano un tedesco della pattuglia che li ha inseguiti fino nella cantina d’un palazzo della via principale, ha rinvenuto indosso a uno di loro il tesserino partigiano e li ha catturati. Avranno del bello e del buono a squagliarsela e far ritorno più tardi. Ma anche per eventuali azioni di rastrellamento non c’è altra possibilità che percorrere le strade sgomberate dalla neve a meno che non si tratti di truppe specializzate e attrezzate per questo tipo di ambiente. E sono proprio di questi reparti quelli che, arrivati nel corso della notte alla stazione, hanno sorpreso il servizio di informazione partigiana e hanno puntato direttamente sulla sede del comando di Caffaraccia. Tuttavia la sorpresa non è riuscita in pieno; l’eco della battaglia ingaggiata furiosamente fra le case del piccolo centro, arriva materialmente al distaccamento di Tocalèto dove si intuisce la verità e la formazione si mette in marcia per portare aiuto: la via più breve passa per il S. Donna; la neve è alta, la visibilità è nulla. Il reparto si trova improvvisamente sotto il tiro delle armi automatiche e i sette giovani della pattuglia di punta cadono falciati dalle raffiche. . .
Viandante non sostare
chè ricordare è triste:
vivo il nostro spirito
aleggia su quest’arida terra
fra la nebbia
e la tormenta.
Segui la via sicura
dal monte verso valle
ma alza lo sguardo al cielo
per chi non ha potuto
fra il cupo rumor della guerra.
Di’ alla Santa Donna
di non piangere:
noi 1’attendiamo
e la calda sua carezza
e la sua voce cara.
Bionda, dolce fanciulla
il tuo canto soave
s’innalza al cielo
e l’anima tua pura
ha candore divino
siedi su questi massi
al riparo dal vento
tra cespugli fioriti di nuovo
e sentieri smarriti nell’erba
qui suole piangere la gente
fra ronzio di preci
e ritmo degl’inni.
La giovane anima
vaga fra gli anfratti
cercando serenità
e invoca la luce
che non vide quel giorno
e spera di posare infine
nella quiete del monte.
La tua voce arresta un istante
il pellegrino spirito
che il vigore non posa.
Canta fanciulla dalle tracce d’oro
il lamento della tua bellezza
parlaci a lungo dei sogni
del tuo cuore giovanile:
noi sappiamo ancora
sospirare e amare.
Gennaio 1945 Il sacrificio del S. Donna non è stato inutile: il distaccamento comando di Caffaraccia dopo alcune ore di combattimento cedendo terreno da casa a casa lungo il fil di costa secondo la disposizione del paese, si sgancia ordinatamente verso Nord evitando accuratamente la direzione da cui provenivano gli spari della colonna di soccorso, duramente provata, e l’intendimento di tagliare la ritirata si è vanificato. I corpi dei giovanissimi caduti sono ricuperati soltanto dopo alcuni giorni, dai familiari, dagli amici.
Di uno soltanto non si ha traccia e bisognerà attendere il disgelo. . .
Il colore delle cose è rinato
il verde meno cupo del pino
il rosso riflesso delle foglie postume
l’azzurro vivido del cielo,
attraverso i campi sfumati giallo-verde
contrasta il bianco della strada
e ancor più forte quello delle vette spicca nell’indaco.
L’aria reca rumore di voci:
sono grida di fanciulli
spensierati nel caos del mondo
e si confondono al canto degli uccelli;
rumori confusi colpiscono i sensi
voci giovanili si rincorrono
di graziose fanciulle
Gennaio 1945 Qualche giorno prima era arrivata alle pendici del Gottero una sedicente contessa, debitamente referenziata da comandi partigiani di altre zone, e qualcuno aveva proposto di tenerla isolata e sotto controllo, ma poi, fraternizzando con la popolazione era abilmente riuscita ad accattivarsi la simpatia di tutti.
La notizia è corsa come un lampo gettando tutti nella più profonda costernazione: forze ingenti nazifasciste hanno nottetempo raggiunto Montegroppo e catturato l’intera compagnia comando della Centocroci con Richetto e il suo stato maggiore. La colonna baldanzosa arriva al Borgo col nutrito gruppo di prigionieri che sono sistemati nella sede del dopolavoro.
L’inganno di una spia
è riuscito a incatenarlo
come non ha potuto
sul campo di battaglia
il sibilo dei proiettili
in cento azioni di guerra
Sulla sua testa pende
taglia e condanna a morte
ma i tedeschi non sanno
l’entità della preda.
Passa tra una folla muta
che nasconde il suo dolore,
guardato a vista
dalle canne dei fucili
circondato dai compagni di lotta sorpresi
che tengono segreto il suo nome
avanza anonimo col gruppo
che fino a ieri ha guidato
sempre primo alla vittoria
beniamino eroe
della gente dei monti
la sua fama ha varcato i confini
ed ora il lutto della Centocroci
si diffonde sulla Valle del Taro.
Nella cella improvvisata
arriva misteriosa 1’arma della salvezza
e . . . della funesta rappresaglia
sul popolo del Borgo.
Ma sulla mulattiera impervia
col fragore d’un macigno
schianta la scorta e fugge
nel rapido pendio:
l’inseguono le raffiche
rovesciandosi nell’ anfratto
disperatamente
verso la libertà.
frementi di nuova vita
il lampo degli occhi abbaglia
e ridesta d’istinto la giovinezza.
Volano le rondini stranamente al tramonto
una linfa rinnovata vivifica i corpi
dal lungo inverno tutto si scuote:
tu solo, immoto e abbandonato,
col terreo pallore di morte
supino giaci.
Febbraio 1945 Tutti parlano al Borgo della leggenda Siligato, capo distaccamento della «Centocroci », caduto in Lunigiana in un’ azione di guerra. . .
Volano per sentieri innevati
le mani coperte di lana
il mitra oleato contro il gelo
tra i faggi dei Due Santi
la barba incolta
crostata di ghiaccio,
fumante,
il cuore palpitante:
corrono all’appello
della missione alleata in Lunigiana bisogna far presto,
Siligato apre la colonna
di gente provata
al rischio e alla fame
sano tredici russi scampati alla steppa.
Attraverso le maglie del nemico
gli amici sottratti
si dileguano verso la salvezza!
Ma la gioia del successo
dura poco: a Codolo l’insidia;
hanno solo una via di scampo
verso la montagna amica
e il comandante ha deciso
di restare col mitragliatore
a morire da solo
per proteggere l’unico sentiero
e sgranano i colpi della speranza. . .
I tredici non hanno obbedito
e sono al suo fianco
per riscattare un lontano giorno funesto
nelle lande nevose della patria
Siligato s’era offerto
di morire per loro:
sono appena tredici
e sparano per mille
erano uomini
ora son leoni.. .
ancora per pochi minuti soltanto.
Nessun lamento
quando il piombo
lacera le carni a brandelli
sono tredici appena
e sembran tanti
sono scarni e malnutriti
ma sparano per mille. . .
poi l’erba secca della pista
s’impasta col sangue
e tace il fragore della battaglia:
erano tredici appena
e sembravan tanti
quei corpi senza vita
attorno al loro comandante.
Marzo 1945 A primavera la situazione è irreversibilmente volta a favore della Resistenza. Nelle vie del Borgo i partigiani passano tranquillamente con sgargianti divise americane, lanciate dagli aerei con dovizia. E’ difficile distinguere fra la popolazione i veri combattenti perché tutti hanno trovato qualche capo militare da indossare, come se fosse di moda. In realtà non ci sono altre possibilità per il guardaroba e poi, quasi tutta la popolazione ha partecipato attivamente alla lotta. Davide ha formato un gruppo di amici con Angelo, Antonio, Francesco e Giovanni e si presentano al comandante partigiano della piazza per proporre di formare una squadra S.A.P. a disposizione per il disbrigo di attività locali, pattugliamento, guardia, scorta. Vengono armati e impiegati subito. . .
Laceri e macilenti
i prigionieri di guerra
che spavaldamente fino a ieri
avevano infierito
incolonnati e tremanti
al pensiero d’una sorte incerta
dal campo di raccolta di Compiano
camminano dimessi
sul bordo della strada
e la canna d’un mitra
è puntata su loro
minacciosa.
La gente del villaggio
insulta e preme
col furore cieco del popolo
e stavolta il fucile nemico
ingrato li protegge
e guardano fiduciosi
al feroce clemente guardiano
dal cuore umano.
Quante volte
in diversa circostanza
il mesto stupore avrà ghignato sprezzante
contro il vinto:
sono sorti mutevoli
di un conflitto disumano;
domani potranno raccontare
alla famiglia nella Foresta Nera
quanto è grande
l’anima dell’Italia.
Aprile 1945 Quando i tigli dei viali borgotaresi cominciano a mettere le prime tenere foglie, suona l’ora decisiva: l’investimento del presidio tedesco della Villa Ostacchini. Sono le ultime vittoriose prove di coraggio degli amici borgotaresi che poi si spostano con marce forzate verso la pianura. Assolti vari compiti locali la S.A.P. raggiunge gli altri. . .
Sotto le suole dei nostri scarponi
i chiodi consumati
nei sentieri sassosi
dei monti impervi
dove abbiamo dormito sotto le stelle
dove abbiamo sognato
col capo appoggiato
sul gelido ferro d’un caricatore
dove abbiamo pensato
fra raffiche e urla
al giorno della Liberazione.
Sotto le suole dei nostri scarponi
i chiodi consumati
battono l’asfalto
senza il passo ritmato
d’un nemico distrutto
fra valanghe di morti innocenti.
L’eco dei chiodi logori
dei nostri scarponi
sul porfido cittadino
dice alla gente ignara
«marciano senza pompa»
gli eroi banditi
da un ordine di morte.
Sono chiodi lucenti di tante croci
calcano la stessa terra
e irradiano la luce
di tante veglie
al crepitio dei Brenn
per fermare la nera falange.
Sono semplici chiodi
sotto le suole dei nostri scarponi:
avanzano lentamente sul viale ombreggiato
d’una città di pianura.
