Diario Poetico del Partigiano Jàfet 1944-45 Camillo Delmaestro

Associazione Ricerche Valtaresi  ” A. Emmanueli ” 25 – 4 – 1979    Tipografia La Nazionale B.go Regale 3 Parma

Chi è il partigiano Jàfet? Vien fatto di chieder­si prima ancora di cominciare a leggere. Rispondiamo: potrebbe essere chiunque di noi, di quelli che non hanno conquistato la gloria con imprese eccezionali; è la figura dell’anti-eroe, che si commuove e scrive le poesie raccolte per rispondere a modo suo alle solle­citazioni provocate dall’ambiente e da un senso di pudore estatico di fronte alla morte: del comandan­te medaglia d’oro, come della madre anonima, o del giovinetto trafitto dalle pallottole sgorgate improvvise nella tormenta. E’ il ricordo riesumato di impressio­ni di quella tragedia che ormai sembra tanto lontana nel tempo, rivissuto nell’attualità di un diario rigorosamente storico e reale nei suoi aspetti meno oleogra­fici, ma permeati di umanità, di spiritualità.

L’« Emmanueli »

Ho letto con piacere le poesie del Diario che hanno suscitato in me tanti ricordi di un tempo quan­do la vita era ogni momento in pericolo e devo dire che l’amicizia di allora è ancora intatta. Particolarmen­te forti le espressioni poetiche sui combattimenti di Pelosa e vorrei tanto ritornare oggi nelle vostre Val­late per rivedere gli uomini, allora giovani, formati e temprati all’università della vita.

Surrey (England), marzo 1979

Gennaio 1944 (1)

Quella mattina Davide Griffi, studente universi­tario, non immaginava che sarebbe successo qualcosa di straordinario nella sua vitaE’ vero che i suoi geni­tori si erano trasferiti da qualche settimana nel borgo­tarese, sull’ Appennino, per evitare incontri poco gra­devoli dati i tempi e, soprattutto dietro consiglio della « comunità» che aveva previsto un’ ondata di recru­descenza antisemitica col ripristinato regime. Ma non aveva voluto abbandonare l’università cui si era appena iscritto, anche se la classe del 1925 era stata richia­mata alle armi. Non si era mai reso conto che le cose si potevano mettere male e che avrebbe potuto andare incontro a seri pericoli, nello stato di renitenza alla leva. D’altra parte solo pochi dei suoi coetanei aveva­no ubbidito al proclama repubblichino e proprio con uno di loro, Michele, si era incontrato quella matti­na per studiare qualche pagina di analisi matematica, uno dei quattro esami del biennio di ingegneria, pro­grammati per il primo appello di giugno.

A Parma, città relativamente tranquilla, non era mai accaduto che si facessero retate in forze per con­trollare i documenti dei cittadini trovatisi casualmen­te all’interno di quel perimetro urbano studiato dal comando tedesco di concerto con la milizia fascista. Tutti quelli che non erano in grado di esibire un do­cumento di regolarità della propria posizione, erano spinti in malo modo dalle pattuglie sempre più al centro della città fino a trovarsi ammassati nella tra­versa fra le vie Garibaldi e Cavour e alla fine biso­gnava necessariamente passare al vaglio degli accerchiatori per esibire i documenti. – Non hai adempiuto agli obblighi di leva, per­ciò non possiamo rilasciarti.

A nulla valsero le proteste di essere studente e non poteva chiamare in causa i genitori fuori cit­tà. Insieme a una decina di coetanei era avviato al comando e stipato in cella in attesa di interrogatorio. Qualcuno riusciva a cavarsela professandosi disposto ad arruolarsi e otteneva lo scopo di uscire dalla tetra, squallida prigione, passando fra le loro file e in questo modo poteva anche far dimenticare even­tuali trascorsi. Davide avrebbe potuto adottare la stessa soluzione di comodo, ma era contraria alla sua natura. Nel giro di 48 ore erano rimasti in due a condi­videre i disagi di quella stanza deprimente, umida, scrostata e fu proprio l’altro a comunicargli che in giornata un loro coetaneo sarebbe stato fucilato pubbli­camente, per dare un esempio a tutti: dalle sbarre di un finestrino era visibile il campanile austero di S. Gio­vanni, maestoso nella bruma fredda. . .

Piove

è greve l’aria

e di crepitìo lontano l’eco s’intende.

              Il sole

ghignando a tratti

fra squartati nembi

illumina la Torre

e nel fumoso sprizzare

d’argento e d’oro

le gocce cadono

fra pozzanghere

grigiastre e scure.

L’orme di terra

scompariranno fra breve

fango plastico

nel gran crogiolo

che tutto plasma

trasforma e confonde:

del monticello ombroso alle formiche, nulla rimane.

             Che conta al reggitor de l’universo che la tempesta sorta

abbatta e ruini il mondo?

Una lettera, opportunamente stesa per la censu­ra, indirizzata agli amici presso cui ormai da qualche mese si trovano i genitori, onde tranquillizzarli, e poi sul convoglio speciale diretto a Firenze dove il coman­do tedesco attinge materiale umano da adibire alle opere di fortificazione sulla linea del fronte, a Cassino. Davide ha pensato alla possibilità di eludere la vigi­lanza e di raggiungere subito la Valle del Taro, per trovare anche lui asilo dai genitori presso gli amici contadini, abbastanza lontano dalle strade di grande comunicazione, ma la notizia diffusa in città che si sta preparando un rastrellamento in forze da quelle parti, lo ha fatto desistere per il momento. Così, viaggiando di notte, dopo aver trasbordato alla stazione di Bologna, sconvolta dai bombardamenti, arrivano a Firenze e sono sistemati in una caserma lungo l’Amo, senza brande, senza coperte e senza rancio.

La guerra ci riunisce fra le navate del tempio: al sibilo straziante delle sirene arriva il terrore dal cielo e la corsa pazza della speranza si dirige al centro storico libero e sicuro nella sua immane bellezza dal tritolo devastatore. Una strana armata di giovani costretti in caserma sul cemento, senza letto nè armi, nè divise: i campi di Cassino l’attendono per far scudo ai tedeschi, stirpe eletta.

Ogni giorno puntuali un gruppo di fanciulle attende alla base di una colonna: parole d’amore e di libertà in questo mondo che crolla attorno? meglio dirsi addio ogni giorno, l’avvenire non ci appartiene.

Gennaio 1945  Qualche giorno prima era arrivata alle pendici del Gottero una sedicente contessa, debitamente refe­renziata da comandi partigiani di altre zone, e qual­cuno aveva proposto di tenerla isolata e sotto con­trollo, ma poi, fraternizzando con la popolazione era abilmente riuscita ad accattivarsi la simpatia di tutti. La notizia è corsa come un lampo gettando tut­ti nella più profonda costernazione: forze ingenti nazifasciste hanno nottetempo raggiunto Montegroppo e catturato l’intera compagnia comando della Cento­croci con Richetto e il suo stato maggiore. La colon­na baldanzosa arriva al Borgo col nutrito gruppo di prigionieri che sono sistemati nella sede del dopo­lavoro.

    L’inganno di una spia

è riuscito a incatenarlo

come non ha potuto

sul campo di battaglia

il sibilo dei proiettili

in cento azioni di guerra

    Sulla sua testa pende

taglia e condanna a morte

ma i tedeschi non sanno

l’entità della preda.

     Passa tra una folla muta

che nasconde il suo dolore,

guardato a vista

dalle canne dei fucili

circondato dai compagni di lotta sorpresi

che tengono segreto il suo nome

avanza anonimo col gruppo

che fino a ieri ha guidato

sempre primo alla vittoria

beniamino eroe

della gente dei monti

la sua fama ha varcato i confini

ed ora il lutto della Centocroci

si diffonde sulla Valle del Taro.

Nella cella improvvisata

arriva misteriosa 1’arma della salvezza

e . . . della funesta rappresaglia

sul popolo del Borgo.

Ma sulla mulattiera impervia

col fragore d’un macigno

schianta la scorta e fugge

nel rapido pendio:

l’inseguono le raffiche

rovesciandosi nell’ anfratto

disperatamente

verso la libertà.

Gennaio 1944  Dopo aver vagato nel buio della notte appena rotto dal riflesso grigio della coltre nevosa, ritornando più volte sui suoi passi per aver smarrito il sentiero, riesce finalmente a superare la cresta del monte e le condizioni migliorate della visibilità, gli permettono di orientarsi in un paesaggio che conosceva sufficiente­mente ma in diverse condizioni stagionali. Raggiunta l’abitazione dei contadini che ospita­no i genitori Davide si avvia alla porta e bussa: è un momento di emozione, una giovinetta apre. . .

Le membra logore

il pensiero stanco

sognano in te la pace

Le tue parole semplici

i modi austeri dei tuoi gesti

sinceri e schietti

1’angolo della bocca

le fossette fugaci

il sorriso ospitale

il colore vellutato e candido

nelle guance,

il bagliore degli occhi

scintillanti di giovinezza

il nero dei capelli

le trecce misteriose

la perfezione del corpo

chi mai potrà dimenticare?

           La modestia dell’ animo

traspare ogni istante

candido fiore di montagna

la tua bellezza eleva,

la speranza infonde

nel cuore pellegrino.

Gennaio 1944 

Finalmente a casa! Sembra di sognare. Tutto è bello, tutto ispira sentimenti di fiducia nella vita. Sono giorni indimenticabili, confortati dal calore della fa­miglia ritrovata e felice, nonostante i limiti imposti dalla situazione per quanto riguarda le possibilità di muoversi, la distanza dagli agi della città. A dispetto dell’ esperienza avuta, la guerra sembra tanto lon­tana. . .

Silenzio: tutta la valle

è immersa nell’ombra della luna

ovunque scintillano

i cristalli gelati

e l’oscurità si attenua

per questi riflessi;

lassù

le bianche montagne

risaltano nel cielo

trapunto di stelle fredde.

                  Ogni tanto vibrante nella valle

s’ode un tocco di campana,

unico lamento

dell’umanità repressa

filtrante attraverso la cortina

di candido velo

distesa sul mare immobile.

              Rompe l’incanto

il fruscio degli sci sulla crosta

fa freddo ma non s’avverte

ne l’aria immota dell’ascesa:

dalla vetta pare lontana

la vita nella valle.

              Lo spirito si adagia

in regioni ignorate,

ogni umana angoscia

senti inutile e vana

libero dal timore

ritrovi te stesso.

Uno sguardo lontano

alla valle silenziosa e bianca

e al cielo azzurro senza macchia

giù nel fondo

il paesetto coperto di neve

solo un tenue filo di fumo

serpeggia dai comignoli

e si perde nell’etere

         Dall’alto del crinale

si copre

la striscia d’un fiume sinuoso

piccolo e sconosciuto

senz’orma di vita umana:

qualche istante

e gli occhi lagrimosi pel vento

filando veloce fra’ cespugli

tra balze e solchi del terreno

penetro nella macchia.

         La corsa s’arresta

a una casetta

piccola e abbandonata

nel rumore del vicino ruscello:

dentro, sparse a terra

alcune foglie secche

e un cumulo di cenere,

da una finestra senza vetri

tenui raggi di luce.

      Non è questa la casa fatata

di cui soleva raccontare la nonna?

Qui scompare l’idea del tempo

e si placa la tristezza

sul mondo in conflitto.

Febbraio 1944 

A Borgotaro rari esercizi pubblici sono rimasti aperti al pubblico e si giuoca alle carte fra una battuta e l’altra: non è difficile familiarizzare con gli studenti e tutti coloro che, in qualche modo liberi da occupa­zioni stabili, passano qualche ora della giornata in com­pagnia. Ogni giorno si sa sempre qualcosa di più sulla Resistenza: Cesare, Piero, Ninetto devono saperla molto lunga sull’argomento, anche se ne parlano con circospezione. A sera Davide fa ritorno lassù fra le macchie del m. Rizzòne. Sembra che l’inverno stia per finire al primo soffio di scirocco, ma è ancora pre­sto per pensare che la neve si sciolga definitivamen­te. . .

Impavido fiume

dalle forzate sponde

rumoreggiante

inesorabile

terribile a udirsi

gorgheggia fra i macigni

e i neri dirupi

selvaggi di tumido muschio.

      La terra spaccata

dallo scroscio di pioggia

rovina fragorosa

ma la vorticosa corsa

dell’ acqua non quieta

chè nuove rapide

l’impeto riformato

travolge ogni barriera.

Dissidio eterno

come il tempo dura

Finalmente Cesare propone qualcosa di concre­to: domani andranno a rifornire il gruppo partigiano di Fermo Ognibene, scampato all’attacco di Osac­ca (Bardi) e trasferitosi, di notte, in VaI di Taro con la guida di Solari, da qualche giorno scomparso dal bar. Davide conosce ancora poca gente del Borgo, ma se ne è innamorato come del paesaggio: sono monta­nari schietti, decisi, leali che sanno ponderare le si­tuazioni e riconoscere un amico; ormai lo considerano uno di loro e Cesare, studente di medicina, ha proble­mi analoghi ai suoi, per l’origine della famiglia. Ailù, barbuto mulattiere di Compiano, ha portato il carico di armi dentro sacconi di carbone e li ha deposti presso una casa di contadini sopra Gotra; si tratta di trasferire il tutto al più presto nella bosca­glia, per consentire ai « ribelli» di venirne in posses­so. Dopo il fatto grave di Osacca, quando un tradito­re ha asportato la chiavetta della « Breda » che avreb­be sgominato gli attaccanti, rendendola inservibile, una certa diffidenza circola nell’ ambiente e il fatto che Cesare abbia scelto proprio lui per un’azione tanto delicata, lo conforta. Appena dopo il mezzogiorno si caricano sulle spalle gli zaini zeppi di munizioni, pro­curate chissà come e arrivate nello studio di Arman­do e si avviano sulla strada provinciale per passare attraverso il ponte Scodellini sull’ altra sponda e imboccare sentieri noti inerpicanti verso la montagna. Ma alla curva della Chiusa, l’imprevisto: un cono­scente di Davide, nella divisa di capitano della milizia, li incrocia e Cesare toglie la sicura alla Berretta nella tasca dei calzoni.

– Caro Antonio! Come mai da queste parti. . .

– Ho sfollato la famiglia dalla città per il pe­ricolo dei bombardamenti. Ma voi dove andate così carichi. . .

– Sai, facciamo un po’ di mercato nero, per ti­rare avanti. . .

Un abbraccio frettoloso e poi finalmente Cesare rimette la sicura.

Non hanno difficoltà a rintracciare i pesanti sac­chi di iuta e a trasferirli faticosamente in una casella quasi diroccata, in mezzo al bosco: poi, attraverso sen­tieri appena segnati, raggiungono la base a Lago Pavè.. .

Nella stanza calligginosa e buia

arde il ceppo per seccar castagne

attorno un gruppo di giovani

forti con la barba lunga

e il comandante Fermo.

       Chissà se Lago Pavè

un tempo conteneva l’acqua

oggi scarsa e gelata sul prato

sotto la neve.

      Abbiamo camminato per ore

col passo lento sotto il pesante carico

della speranza:

armi sottratte al nemico

perché viva la fede

nel pugno di uomini

afflitti dalla fame

pidocchi e sofferenza

per seguire la visione

d’un sogno di libertà.

        A questi giovani imberbi

cresciuti anzi tempo

sotto il battesimo del fuoco

diamo le nostre maglie

le scarpe e il cuore

perché l’inverno

non pieghi la loro audacia.

       Ogni mattina sulla cresta del monte

furtivo cerco nel cielo

un tenue filo di fumo:

son loro, son vivi

per la grande partita.

Marzo 1944

Recarsi al Borgo dall’ abitazione degli amici sul m. Rizzòne è ormai per Davide cosa abituale, tanto da non poterne fare a meno. Per motivi di sicurezza il percorso nel versante del Taro si svolge lungo il letto di Rio Rì, occultato da una folta vegetazione di virgulti che anche in mancanza di foglie costituiscono una mimetizzazione perfetta. A un centinaio di passi dall’ abitato, nella casa colonica di Carlino, si ferma a riprendere fiato: ha impiegato non più di un quarto d’ora, ogni volta migliora il tempo, per tenersi in al­lenamento. La sosta gli permette di conoscere i par­ticolari delle ultime notizie sul Borgo per quanto concerne il comportamento dei carabinieri e di even­tuali altri reparti, specialmente della milizia, mandati saltuariamente di’ rinforzo. Ormai tutti sanno che al Penna e al Gottero si sono acquartierati gruppi ribel­li e quasi ogni giorno qualcuno dei residenti sparisce senza lasciare tracce, diretto lassù. . . Una bella mattina anche Cesare manca all’appel­lo nel bar: è scomparso senza dirgli niente, senza lasciargli un messaggio.

Sull’eterno moto del tempo

ritorna giovinetta e gaia

coi profumi di mille essenze

ardita e graziosa più che mai

con palpiti di pulsante freschezza

e le armonie più belle di tutti i sensi,

primavera.

     La vita sboccia nel verde

e fra le valli

i primi rami ombreggiano,

vivace canto d’uccelli

acqueta il rumoroso torrente,

sull’aie intrecciando giochi

saltellano brigate di bimbi.

      Poi che dello strano guizzo

si posa la rondine

fra sensuale odore di biancospini

pare assurda

agli occhi scintillanti d’amore

la piccola foglia secca

appesa al ramoscello nudo

sul sentiero per la montagna.

   Canto di primavera

nell’ azzurro

nel cupo verde del piano

nel rosseggiante orizzonte

nel fresco dell’ aria vespertina

    Canto di fanciulle

al riflesso raggio

di lontano astro morente

fra tenui nubi

sicuro auspicio di vita

     Fruscio di pioggia

leggero balsamo alle foglie

freschezza di primo bacio

gioia limpida d’amore

labbra turgide

e caldo slancio

di giovinezza:

lontano in mezzo al verde

un candido fiore

giace.

Aprile 1944 Il padre Pino non era arrivato a caso alla fat­toria del buon Emilio che era stato commilitone nel 4° reggimento alpini, durante la prima guerra mon­diale e poi in seguito avevano continuato a vedersi specialmente d’estate nelle settimane della trebbiatu­ra e rinverdivano i ricordi delle lontane vicende belli­che, ogni volta sempre più arricchite di particolari inediti. lui, Emilio, ogni volta che per qualunque motivo doveva recarsi in città, trovava difficile acco­miatarsi per le insistenze dell’ amico. Si trattava di uno scambio di ospitalità e di lavoro perché l’origi­ne di Pino era contadina, prima di essere occupato come giardiniere del Comune di Parma, dove con qualche lavoretto extra nei giardini privati dei citta­dini più facoltosi, riusciva a campare egregiamente mantenendo l’unico figlio agli studi.

Mangiavano tutti insieme, nelle pause di lavoro e ne approfittavano per ascoltare alla radio le notizie di guerra che commentavano con gli ultimi svilup­pi della situazione in VaI di Taro. Il giorno di Pa­squa era stato festeggiato con particolare cura dal­le donne in cucina e diversi partigiani, i primi che si fossero mostrati in carne e ossa nella zona, si era­no rifocillati qui come altrove, perché tutta la popo­lazione indistintamente prestava soccorso ai giovani patrioti in difficoltà. veramente ce n’era bisogno in quei giorni dopo i fatti di Montevaccà (Bedonia), dove era morto il primo di loro, insieme a diversi te­deschi. Per la prima volta i patrioti Valtaresi aveva­no imparato a praticare le regole della guerriglia: dopo aver sgominato i reparti attaccanti si erano «sgan­ciati» sparpagliandosi dappertutto per lasciare da­vanti ai rastrellatori di rincalzo il vuoto.

Davide aveva sperato di rivedere Cesare, ma nes­suno sapeva dire con precisione che direzione aves­se preso.

Tremante alla luce della folgore

l’uomo un giorno si nascose

nelle profonde viscere della terra.

 Col cuore palpitante d’oscuro terrore

vide nel cielo l’Infinità dello spazio

e prostrato a terra

pensò l’Ignoto;

dalla fatalità degli eventi

trasse l’idea del Destino feroce

cui invano poteva opporsi;

smarrito e triste

formò il mito dell’Impossibile

e nell’ abbandono del sacrificio

giacque nel fango dell’Oblio: nell’oscura caverna,

dimenticò la forza

capace di creare.

 Ma un giorno apprese inconsciamente

la gioia della ribellione

e da allora la sua è vita di conquista

per la libertà:

la prima vittoria strappa il sorriso

e da allora il Fato

è superato e vinto

e nella follia della Gloria

sorridendo muore.

Le truppe alleate si sono attestate in Francia, avanzano nella Penisola, sembra che la tragedia volga alla fine. I partigiani ricevono lanci di materiale ormai in pieno giorno e decidono di liberare l’Alta Valle del Taro: diventerà «Repubblica» libera seppure nell’ambito del territorio occupato dai tedeschi. Anche il reparto della  Ia Julia di Cesare è sceso a Borgotaro e proprio il suo distaccamento presiede la stazione ferroviaria e in particolare l’imbocco della galleria del Borgallo comunicante coi suoi Km col versante toscano dell’Appennino e quindi con la pos­sibilità di infiltrazioni di pattuglie nemiche. Il suo nome di battaglia è « Sam ». Si ritrovano finalmente e passano qualche ora con Mauro (Ivan): è diventato un uomo serio e responsabile con le idee chiare sulla lotta che sta combattendo:

– . . . se gli alleati pensano di averci comprato coi loro aiuti, sbagliano: noi stiamo combattendo per la nostra libertà e se sarà necessario andremo anche contro di loro. . . Non avrebbe mai più immaginato che quello sa­rebbe stato il loro ultimo colloquio. La mattina dopo infatti il cielo si è oscurato per un numero ecceziona­le di fortezze – volanti dirette al Nord, chissà dove, e alcune fanno una conversione sul Borgo; dal m. Rizzòne  lo spettacolo è emozionante per Davide; fino ad ora si era trattato di caccia bombardieri che arri­vavano a fil di monte e si gettavano in picchiata sul ponte in ferro della ferrovia per demolirlo col loro carico di esplosivo, senza tuttavia riuscirvi mai: dava­no l’impressione di un’azione di esercitazione.

Questa volta si trattava invece di un bombarda­mento a tappeto: i grappoli micidiali si scorgono a occhio nudo scendere sul greto del Taro. E’ una scena apocalittica: alte colonne di fumo nero avvolgono quel tratto di valle col fragore moltiplicato delle esplo­sioni quasi simultanee. Evidentemente il comando operativo alleato non è al corrente della situazione locale e non sa di met­tere a repentaglio forse la vita degli occupanti, per quanto la stazione ferroviaria disti di qualche centi­naio di metri dall’ obbiettivo. Cesare con gli altri, all’ arrivo degli aerei, si è buttato dietro il «muraglione» che protegge la li­nea ferroviaria dal Tarodine, a circa un Km dal pon­te, quasi al coperto, a pochi passi dall’imbocco della galleria e, turandosi le orecchie attendono bocconi che cessi il finimondo. Una scheggia volteggiando nel cie­lo, secondo una traiettoria impossibile, cala sul femo­re di Cesare, che morirà dissanguato.

Non cippo nè croce

sull’ara del carificio,

non squilli di trombe

non salve di batterie

nè inchinar di bandiere:

è il mio testamento.

     Qui presso scorre lenta

l’acqua del torrente

come quel giorno

e il del risplende come allora. . .

Tu non pensare al fato

che rifuggendo ogni legge fisica

portò la morte fra questi massi. . .

      Ero il più giovane

e per questo pago

per l’intera umanità cui appartieni

ma non piangere per me

che vago fra le ombre

e assiedo sulle cime dei ghiacciai

e ascolto le canzoni alpine

quando salgono

dalle valli al cielo.

Luglio 1944  Le discussioni in famiglia si ripetono frequente­mente: Davide non ha «necessità» di raggiungere gli altri sui monti perché lì è al sicuro, fuori dalle direttrici del traffico, può recarsi quando vuole al Borgo, tenere tutti i contatti che gli piacciono, lavora quando gli aggrada nei campi e i contadini dei din­torni vengono spesso al calar della sera a scambiare quattro chiacchiere e stanno a sentirlo quando riporta notizie e commentano insieme gli avvenimenti. Tutti hanno l’impressione che la guerra abbia ormai i gior­ni contati. – A che scopo vuoi lasciarci qui in pena, lo implora la madre.

Evidentemente la sua ansietà giovanile, l’anelito a fare anche lui la sua parte in questa lotta per la li­bertà, non trova l’approvazione di chi gli sta attorno e costituisce un freno alle sue giuste ambizioni. Un giorno al Borgo avvicina Giacomino, nel cen­tralino telefonico pubblico, che sa membro del locale C.L.N. e sta per dichiarargli la sua disponibilità. – C’è una comunicazione urgente da portare a Boschetto a quelli della Berretta. . . – Ma io non sono partigiano. . . – Lo sei da questo momento: dimmi un nome di battaglia. – Jàfet. . .

– Non c’è tempo di far tante chiacchiere: riferisci a voce che ti mando io. « Sono segnalate pattuglie tedesche sui vari passi e si pensa che ci potrebbero essere sorprese da un momento all’ altro. Allarme quindi a tutti i reparti. Vai con la bicicletta!» Improvvisamente, senza volerlo, ha trovato il suo ruolo, nel tenere i collegamenti; un compito a prima vista abbastanza facile, ma che potrebbe rive­larsi impegnativo e che avrebbe perfezionato senza dover lasciare definitivamente la famiglia. Compiuta la missione con l’impiego di tutte le sue energie per far presto, sta tornando al Borgo, quando qualcuno in bicicletta lo incrocia dicendogli che c’è un blocco stradale giù a valle. Allora non resta che attraversare il Taro, lasciare la bicicletta in un cespuglio e pro­seguire a piedi, verso casa. Anzi l’occasione è buona per prendere un bagno rinfrescante nel Lago Scuro. Ma un brivido prolungato lo costringe a guadagnare presto la riva. La febbre dura alcuni giorni e quando finalmente arriva il medico, la sentenza: pleurite apicale, riposo assoluto e iniezioni endovene da eseguir­si all’ospedale. Tutti i propositi frustrati: Jàfet, par­tigiano per un giorno.

Quella che proveniva da Berceto non era una semplice pattuglia: un centinaio di tedeschi della « feldgendarmerie» con diversi autocarri era inter­cettata a Boceto da un reparto della Centocroci (co­mandato da Igor) e, intuendo la impossibilità di rag­giungere il Borgo si fermano. Raccolgono diversi o­staggi fra la popolazione civile e invertono la marcia facendosene ben visibilmente scudo sulle sponde de­gli autocarri. I partigiani li inseguono e al torrente Manubiola si appostano ingaggiando battaglia da po­sizione favorevole. Morti e feriti fra ostaggi, tede­schi e partigiani. Gli autocarri ritornano al Borgo ca­richi di bottino e di prigionieri. Saranno questi ulti­mi che permetteranno più tardi di trattare coi tede­schi per avere in cambio la promessa di non infierire sulla popolazione. Diversi feriti sono curati all’ospe­dale del Borgo, dove anche Davide si trova per l’inie­zione con la febbricola che non lo abbandona e co­glie l’occasione per conversare scoprendo che i temi­bili soldati del führer sono in fondo degli uomini, modestissimi uomini, carichi di paura per sè e per le loro famiglie. La propaganda ha dipinto i «ban­diti » come esseri spietati disposti a infierire sui vin­ti, abituati a non tenere prigionieri, vivi; forse per giustificare le loro criminali prodezze. La realtà è ben diversa e se ne rendono conto: curati con la stessa premura usata per i partigiani feriti, rifocillati con lo stesso cibo, sono avviati al campo di custodia.

Il bimbo piange

di fronte all’immane tragedia

della madre assassinata;

la gente gli brulica attorno

lo guarda pietosa

mentre la bara

scompare fra i cipressi

del cimitero

      Il bimbo piange

la sua infinita angoscia:

è partita per sempre

inghiottita nel nulla

nella selva di piombo

e le parole del rito

non placano il dolore.

    Il bimbo piange

e l’anima sua vibra

nel dolore del cosmo

più grande d’ogni pena terrestre

lo ha lasciato per sempre

racchiusa nello scrigno di quercia

Saprà mai perdonare

il bimbo che piange?

Luglio 1944  Da molti giorni la malattia di Davide ha assun­to il ruolo condizionante del suo comportamento; no­nostante l’assiduità della cura, la febbre persiste e la strada che prima percorreva di corsa, quasi volan­do, ora è diventata lunga perché deve fare in modo di non sudare. Al Borgo si sente nell’aria il pericolo imminente: sulla pista in terra battuta del campo di aviazione non è atterrato nessun aereo alleato, con­trariamente a ogni speranza; le rare persone rimaste in paese sono indaffarate a occultare masserizie e dell’ ospedale trasferito ad Albareto, funziona soltan­to un modesto ambulatorio, privo di tutto. Dal Passo del Brattello una colonna si è spinta lungo il Tarodine, ma è stata annientata. Dal Passo del Bocco. . .

« A Pelosa i tedeschi non passano»

l’eco portata dal vento

freme nella sera

sulla Valle del Taro

ultimo spiraglio

della Repubblica libera

compressa nel morso teutòne

appena nata.

   «A Pelosa si resiste a oltranza»

perché un gruppo di audaci

spara disperatamente

da sei giorni con feroci attacchi

nella gola ventosa

battuta dai «Brènn ».

   «A Pelòsa si spara ancora»

e i cadaveri sparsi

sul bianco letto della strada

si contano a cento

sottratti nella notte

pietosamente alle stelle.

   «A Pelòsa si muore»

perché i carri blindati

e le ventimillimetri

battono i cespugli

e tacciono i mitra

spezzati dai proiettili.

« A Pelòsa è cessato il fuoco»

. . . e la speranza.

Davide sta per arrampicarsi lentamente sulla mu­lattiera ombreggiata che oggi ha scelto per tornare a casa, febbricitante, dopo l’iniezione. Sulla strada appe­na lasciata sfreccia una motocicletta Zundap, preda bel­lica e riconosce alla guida Bruno con Alberto, studente di medicina e comandante di un distaccamento partigia­no, ma non lo vedono e sarà fatale. Fermandosi a un luogo di osservazione li segue con lo sguardo fino al rettilineo di Gotra: qui è accaduto qualcosa perché il rumore della moto si arresta e si scorge un certo tramestio. Poco dopo un gruppetto si addentra nella boscaglia e sparisce: in effetti si trattava di una grossa pattuglia tedesca arrivata attraverso i monti silenzio­samente dal versante toscano e, istituito un blocco, controlla la strada per Bedonia. Sull’ altra sponda so­no affluiti intanto reparti partigiani e una mitraglia­trice pesante sloggia la postazione che non risponde al fuoco e pare che sia stata inghiottita nel nulla.

Rumori di spari provengono più meno inten­samente da tutte le direzioni, con presagio di morte.

Un campo di granoturco

davanti alla casa del comando nemico

   Dopo notti insonni

di incubi nefasti

gli arti tremanti

i nervi tesi a scattare

la sorpresa sulla strada

ha posto fine al tormento

e l’interrogatorio

è la formula di rito

del condannato a morte

meglio delle sevizie infami

inflitte tante volte

a sfortunati compagni di lotta.

  Un campo di granoturco

è l’ultima speranza

per sottrarsi al destino,

forse l’ultimo addio

se il piombo nemico

pietosamente vorrà celarlo

alla malvagità tedesca:

sono pochi passi

un balzo

sulla via della salvezza

a pochi metri dalla foresta

e le squamose foglie

si spezzano sotto il fragore

dei colpi inesorabili

e il sangue d’un eroe le bagna

tingendole di rosso.

Luglio 6 manca

Luglio 1944  Siamo in pieno rastrellamento. Fermata l’avan­zata alleata i tedeschi hanno tempo per effettuarlo con grande spiegamento di forze, utilizzando le trup­pe di avvicendamento alla prima linea nell’intento di rendere sicure le retro vie alle spalle per i necessari rifornimenti. Si parla di oltre due divisioni. Gruppi di centinaia di persone si spostano da da un’ altura all’ altra secondo la violenza degli spari, il ticchettio delle mitragliatrici, i boati delle bom­be di mortaio.

Cento e cent’anime

fuggono

senz’orizzonte

e feroci cacciatori d’uomini

passano fra i cespugli

e gli aridi sentieri

invano

chè la preda s’ asconde

lungo dirupi

all’animale ignoti

e tende l’udito

ai lamenti più lungi

dello sfortunato

che il ferro forgiato

ha trafitto

temprato al fuoco

della civiltà teutonica.

 In nome del progresso

si fugge

e beffardo nemico insegue

armata la mano

e corazzato il cuore;

temerario uccide

la vittima inerme colpevole

d’aver sognato: libertà.

Ancora un monte

lontano ritto selvoso

ivi corre la folla impazzita

negli occhi sbarrati il terrore

nel petto un ritmo convulso incessante

    Il respiro affannato

i muscoli tesi

la pelle bruciante sferza la pioggia

e corre

    L’eco d’un rombo

sempre più vicino

pauroso l’insegue

portatore di morte

  Qualcuno cade

le labbra toccano il fango

si rialza e prosegue

lontano. . .

verso la salvezza?

Settembre 1944 Il responso ulteriore del medico non lascia dub­bi: le possibilità di guarigione sono legate al regime di vita tempo indeterminato, nè può rimproverare ai genitori di essersi opposti quand’era tempo, ai suoi progetti; sui «se» sui «ma» non si fa la storia della propria esistenza. Al Borgo dopo la buriana la gente è ritornata, guardinga più che mai. Ma all’ Appennino è facile tro­varsi improvvisamente con la pattuglia del presidio ripristinato rafforzato, della stazione ferroviaria nel tavolo appresso Libero, il comandante della Ia Julia con tanto di barbone inequivocabile. Nella trat­toria Pellacini, sul viale dei platani, consumano il pa­sto contemporaneamente partigiani tedeschi compor­tandosi da commensali, con cortesia.

Davide ha stretto amicizia con altri anche più giovani di lui non direttamente impegnati in reparti combattenti e un giorno offrono la loro collaborazio­ne al comandante partigiano ottenendo per tutta ri­sposta: quando sarà il momento. Intanto Pino, venendo meno la necessità di la­vorare nei campi di Emilio non si sente di abusare più lungo della sua ospitalità.

Un abbaiare lontano

m’accompagna

e uno stridor di cornacchia,

l’aria fresca autunnale

scende nel petto

e n’esce un sospiro:

or tutto è silenzio attorno

dopo la tempesta estiva

      La mano svelle

lo stelo d’un fiore

e un petalo bianco

cade alla scossa

mentre il pugno si serra

il vento lieve spirando

lo culla pian piano,

cade.

     Un di la furia del temporale

lo macchiò di fango

ma risorto nella luce

una farfalla lieve

lo portò alla gioia

ebbe timore dell’ombra

odiò la notte:

come la mia vita.

Colto sulla roccia

te lo reco in dono.

Ottobre 1944 Davide girovaga nella Vallata quando la febbre glielo consente e vive e sogna sulle esperienze degli altri, dei quali condivide almeno gli ideali non poten­do fare altrettanto coi rischi. A Caffaraccia, sede del comando della la Julia si trova di fronte a una real­tà insospettata.

 Adolescenti,

hanno smesso i balocchi

cresciuti velocemente

nel caos della guerra:

sono un gruppo di fanciulli

avvezzi come i grandi

nell’uso delle armi

e senza indugio

hanno sottratto a un lancio

il carico micidiale

di fucili automatici

nascosti nel bosco.

     Ogni giorno si ritrovano

spuntando dalla terra

desiosi di provare

il gioco della guerra.

Sparano simulando azioni

con l’emozione degli eroi

paladini di tanta lotta.

    A sera raccontano ai vecchi

di storie di attacchi

e increduli, dileggiati

questi nuovi prodotti

della follia umana

son pronti a combattere

per la libertà.

Novembre 1944 Con le prime nebbie dell’ autunno in montagna il grosso dei lavori agricoli è terminato. Il padre di Davide ha trovato un’ occupazione come magazzinie­re alle dipendenze del Comune di Borgotaro e si è sistemato in un alloggio di fortuna ricavato nell’ edi­ficio scolastico al piano delle cantine.

Cadono le foglie

tristezza di un’età passata

come l’estate cruenta, lontana;

le nuvole in cielo

s’addensano, ingrossano e piove:

fini come polvere e rade

le gocce si sperdon nell’aria;

non più voli di rondini attorno

soltanto guizzar d’uccelletti.

    Il monte nasconde la nebbia

e la famiglia riunita

al ceppo del camino:

ricorda il nonno d’un tempo lontano

di usi e costumi sorpassati

racconta il vicino di crudeltà inaudite

di fatti mostruosi che paion d’altri tempi

ascoltano i piccoli

le gesta di nuovi eroi leggendari. . .

     Intanto fuori ulula il vento

e sbatte la porta d’un cascinale.

Dicembre 1944 Vivendo al Borgo, ogni giorno non mancano le emozioni dei racconti dalla viva voce dei protagonisti o il contatto diretto di azioni come il pomeriggio che a cento metri da casa in un boato di fuoco e calcinacci saltava in aria l’edificio al cui piano terra era disloca­ta la trattoria Pellacini, con lui dentro, per rappre­saglia dei tedeschi a un’ azione partigiana; c’è di che rimpiangere il soggiorno tranquillo del m. Rizzòne.

Ogni tanto poi l’incontro problematico con le pattuglie tedesche dai convogli in sosta alla stazione: Davide ha un pastrano visibilmente tedesco sotto la tinteggiatura casalinga e non avendo più nessuna possibilità di sottrarsi, prosegue disinvolto, ma col cuore in gola. – Hir ist eine! (qui ce n’è uno) sente distinta­mente e tutti gli sguardi sono su di lui e automaticamente la direzione delle canne delle machine-pistol.

– Buon giorno, riesce a spiccicare… Venti metri più avanti la pattuglia istituisce un posto di blocco e chiede i documenti a tutti i passanti. Il rumore di un aereo richiama l’attenzione di un soldato del Reich intento a trangugiare una birra nell’osteria sul viale alberato e proprio in quel mo­mento il partigiano «Dado» sta transitando in bici­cletta, armato fino ai denti. E’ un momento dram­matico: entrambi mettono la mano chi sul mitra, chi sulla pistola, a pochi metri l’uno dall’altro, hanno all’incirca la stessa età e la capigliatura bionda… poi per strana e fortunata ispirazione il tedesco porta la mano al berretto accennando il saluto militare; l’altro risponde, pronto a sparare possibilmente per primo: non succede niente.

Davide sta passeggiando per via con l’amico Ivan della polizia partigiana, naturalmente in borghese, che sta raccontando come giornalmente i trafficanti clandestini si facciano accompagnare al suo ufficio dai tedeschi per protestare sui sequestri operati dei generi di contrabbando: – Ma quello l’ho fatto prigioniero la scorsa settimana, per poter fare uno scambio. .. (e indica uno dei due tedeschi che avanzano sullo stesso lato del marciapiede) si guardano, sorridono per saluto, da vecchi conoscenti. E’ come se esistesse un tacito accordo, che però non funziona coi fascisti e tanto meno con quelli della xa mas; il giorno prima il solito Ivan, avvertito che uno di questi ultimi stava acquistando qualcosa in un negozio, si avvicina non visto, gli punta la pistola al fianco, lo disarma e lo avvia al Comando, a Caffaraccia.

In effetti si respira un’ atmosfera di tensione continua e la scarsa popolazione residua, o meglio, ritornata in vista dell’imminente rigore invernale, è sottoposta a un logorio nervoso notevole, anche per­ché il presidio della stazione è stato rinforzato e si­stemato nel palazzo Ostacchini come in una fortezza e le pattuglie con chiari intendimenti informativi in ogni ora del giorno e della notte si spingono nel centro dell’abitato (a meno di Km). Naturalmente il comando tedesco è al corrente dell’ esistenza di una polizia partigiana camuffata in funzione di vigilanza annonaria. – Vivere qui è più rischioso e difficile che anda­re coi partigiani. Confessa Davide a suo padre, ma ben sa che non può farne a meno.

Gennaio 1945  La neve nei primi giorni dell’ anno è caduta abbondante più che mai, dappertutto. Davide pensa che l’occasione sia propizia ai nemici per colpire an­che se è abbastanza agevole l’occultamento perché gran parte dei patrioti aborigeni si è sistemata al sicuro nelle abitazioni rurali e cittadine dove pre­ventivamente si sono creati rifugi per nascondersi; ma c’è da stare con gli occhi ben aperti per evitare sorprese: Brunetto e Tonino scherzavano tirandosi palle di neve e malauguratamente colpivano un tede­sco della pattuglia che li ha inseguiti fino nella can­tina d’un palazzo della via principale, ha rinvenuto indosso a uno di loro il tesserino partigiano e li ha catturati. Avranno del bello e del buono a squagliar­sela e far ritorno più tardi. Ma anche per eventuali azioni di rastrellamento non c’è altra possibilità che percorrere le strade sgomberate dalla neve a meno che non si tratti di truppe specializzate e attrezzate per questo tipo di ambiente. sono proprio di questi reparti quelli che, arrivati nel corso della notte alla stazione, hanno sorpreso il servizio di informa­zione partigiana e hanno puntato direttamente sulla sede del comando di Caffaraccia. Tuttavia la sorpresa non è riuscita in pieno; l’eco della battaglia ingaggia­ta furiosamente fra le case del piccolo centro, arriva materialmente al distaccamento di Tocalèto dove si intuisce la verità e la formazione si mette in marcia per portare aiuto: la via più breve passa per il S. Don­na; la neve è alta, la visibilità è nulla. Il reparto si trova improvvisamente sotto il tiro delle armi auto­matiche e i sette giovani della pattuglia di punta ca­dono falciati dalle raffiche. . .

Viandante non sostare

chè ricordare è triste:

vivo il nostro spirito

aleggia su quest’arida terra

fra la nebbia

e la tormenta.

   Segui la via sicura

dal monte verso valle

ma alza lo sguardo al cielo

per chi non ha potuto

fra il cupo rumor della guerra.

 

  Di’ alla Santa Donna

di non piangere:

noi 1’attendiamo

e la calda sua carezza

e la sua voce cara.

Bionda, dolce fanciulla

il tuo canto soave

s’innalza al cielo

e l’anima tua pura

ha candore divino

         siedi su questi massi

al riparo dal vento

tra cespugli fioriti di nuovo

e sentieri smarriti nell’erba

         qui suole piangere la gente

fra ronzio di preci

e ritmo degl’inni.

         La giovane anima

vaga fra gli anfratti

cercando serenità

e invoca la luce

che non vide quel giorno

e spera di posare infine

nella quiete del monte.

        La tua voce arresta un istante

il pellegrino spirito

che il vigore non posa.

       Canta fanciulla dalle tracce d’oro

il lamento della tua bellezza

parlaci a lungo dei sogni

del tuo cuore giovanile:

noi sappiamo ancora

sospirare e amare.

Gennaio 1945  Il sacrificio del S. Donna non è stato inutile: il distaccamento comando di Caffaraccia dopo alcune ore di combattimento cedendo terreno da casa a ca­sa lungo il fil di costa secondo la disposizione del paese, si sgancia ordinatamente verso Nord evitando accuratamente la direzione da cui provenivano gli spari della colonna di soccorso, duramente provata, e l’intendimento di tagliare la ritirata si è vanificato. I corpi dei giovanissimi caduti sono ricuperati soltan­to dopo alcuni giorni, dai familiari, dagli amici.

Di uno soltanto non si ha traccia e bisognerà attendere il disgelo. . .

Il colore delle cose è rinato

il verde meno cupo del pino

il rosso riflesso delle foglie postume

l’azzurro vivido del cielo,

attraverso i campi sfumati giallo-verde

contrasta il bianco della strada

e ancor più forte quello delle vette spicca nell’indaco.

   L’aria reca rumore di voci:

sono grida di fanciulli

spensierati nel caos del mondo

e si confondono al canto degli uccelli;

rumori confusi colpiscono i sensi

voci giovanili si rincorrono

di graziose fanciulle

Gennaio 1945  Qualche giorno prima era arrivata alle pendici del Gottero una sedicente contessa, debitamente refe­renziata da comandi partigiani di altre zone, e qual­cuno aveva proposto di tenerla isolata e sotto con­trollo, ma poi, fraternizzando con la popolazione era abilmente riuscita ad accattivarsi la simpatia di tutti.

La notizia è corsa come un lampo gettando tut­ti nella più profonda costernazione: forze ingenti nazifasciste hanno nottetempo raggiunto Montegroppo e catturato l’intera compagnia comando della Cento­croci con Richetto e il suo stato maggiore. La colon­na baldanzosa arriva al Borgo col nutrito gruppo di prigionieri che sono sistemati nella sede del dopo­lavoro.

L’inganno di una spia

è riuscito a incatenarlo

come non ha potuto

sul campo di battaglia

il sibilo dei proiettili

in cento azioni di guerra

    Sulla sua testa pende

taglia e condanna a morte

ma i tedeschi non sanno

l’entità della preda.

     Passa tra una folla muta

che nasconde il suo dolore,

guardato a vista

dalle canne dei fucili

circondato dai compagni di lotta sorpresi

che tengono segreto il suo nome

avanza anonimo col gruppo

che fino a ieri ha guidato

sempre primo alla vittoria

beniamino eroe

della gente dei monti

la sua fama ha varcato i confini

ed ora il lutto della Centocroci

si diffonde sulla Valle del Taro.

Nella cella improvvisata

arriva misteriosa 1’arma della salvezza

e . . . della funesta rappresaglia

sul popolo del Borgo.

Ma sulla mulattiera impervia

col fragore d’un macigno

schianta la scorta e fugge

nel rapido pendio:

l’inseguono le raffiche

rovesciandosi nell’ anfratto

disperatamente

verso la libertà.

frementi di nuova vita

il lampo degli occhi abbaglia

e ridesta d’istinto la giovinezza.

Volano le rondini stranamente al tramonto

una linfa rinnovata vivifica i corpi

dal lungo inverno tutto si scuote:

tu solo, immoto e abbandonato,

col terreo pallore di morte

supino giaci.

Febbraio 1945 Tutti parlano al Borgo della leggenda Siligato, capo distaccamento della «Centocroci », caduto in Lunigiana in un’ azione di guerra. . .

Volano per sentieri innevati

le mani coperte di lana

il mitra oleato contro il gelo

tra i faggi dei Due Santi

la barba incolta

crostata di ghiaccio,

fumante,

il cuore palpitante:

corrono all’appello

della missione alleata in Lunigiana bisogna far presto,

Siligato apre la colonna

di gente provata

al rischio e alla fame

sano tredici russi scampati alla steppa.

Attraverso le maglie del nemico

gli amici sottratti

si dileguano verso la salvezza!

Ma la gioia del successo

dura poco: a Codolo l’insidia;

hanno solo una via di scampo

verso la montagna amica

e il comandante ha deciso

di restare col mitragliatore

a morire da solo

per proteggere l’unico sentiero

e sgranano i colpi della speranza. . .

      I tredici non hanno obbedito

e sono al suo fianco

per riscattare un lontano giorno funesto

nelle lande nevose della patria

Siligato s’era offerto

di morire per loro:

sono appena tredici

e sparano per mille

erano uomini

ora son leoni.. .

ancora per pochi minuti soltanto.

        Nessun lamento

quando il piombo

lacera le carni a brandelli

sono tredici appena

e sembran tanti

sono scarni e malnutriti

ma sparano per mille. . .

poi l’erba secca della pista

s’impasta col sangue

e tace il fragore della battaglia:

erano tredici appena

e sembravan tanti

quei corpi senza vita

attorno al loro comandante.

Marzo 1945 A primavera la situazione è irreversibilmente vol­ta a favore della Resistenza. Nelle vie del Borgo i par­tigiani passano tranquillamente con sgargianti divise americane, lanciate dagli aerei con dovizia. E’ diffici­le distinguere fra la popolazione i veri combattenti perché tutti hanno trovato qualche capo militare da indossare, come se fosse di moda. In realtà non ci sono altre possibilità per il guardaroba e poi, quasi tutta la popolazione ha partecipato attivamente alla lotta. Davide ha formato un gruppo di amici con An­gelo, Antonio, Francesco e Giovanni e si presentano al comandante partigiano della piazza per proporre di formare una squadra S.A.P. a disposizione per il disbrigo di attività locali, pattugliamento, guardia, scorta. Vengono armati e impiegati subito. . .

Laceri e macilenti

i prigionieri di guerra

che spavaldamente fino a ieri

avevano infierito

incolonnati e tremanti

al pensiero d’una sorte incerta

dal campo di raccolta di Compiano

camminano dimessi

sul bordo della strada

e la canna d’un mitra

è puntata su loro

minacciosa.

     La gente del villaggio

insulta e preme

col furore cieco del popolo

e stavolta il fucile nemico

ingrato li protegge

e guardano fiduciosi

al feroce clemente guardiano

dal cuore umano.

    Quante volte

in diversa circostanza

il mesto stupore avrà ghignato sprezzante

contro il vinto:

sono sorti mutevoli

di un conflitto disumano;

domani potranno raccontare

alla famiglia nella Foresta Nera

quanto è grande

l’anima dell’Italia.

Aprile 1945 Quando i tigli dei viali borgotaresi cominciano a mettere le prime tenere foglie, suona l’ora decisiva: l’investimento del presidio tedesco della Villa Ostac­chini. Sono le ultime vittoriose prove di coraggio de­gli amici borgotaresi che poi si spostano con marce forzate verso la pianura. Assolti vari compiti locali la S.A.P. raggiunge gli altri. . .

 Sotto le suole dei nostri scarponi

i chiodi consumati

nei sentieri sassosi

dei monti impervi

dove abbiamo dormito sotto le stelle

dove abbiamo sognato

col capo appoggiato

sul gelido ferro d’un caricatore

dove abbiamo pensato

fra raffiche e urla

al giorno della Liberazione.

    Sotto le suole dei nostri scarponi

i chiodi consumati

battono l’asfalto

senza il passo ritmato

d’un nemico distrutto

fra valanghe di morti innocenti.

L’eco dei chiodi logori

dei nostri scarponi

sul porfido cittadino

dice alla gente ignara

«marciano senza pompa»

gli eroi banditi

da un ordine di morte.

      Sono chiodi lucenti di tante croci

calcano la stessa terra

e irradiano la luce

di tante veglie

al crepitio dei Brenn

per fermare la nera falange.

 Sono semplici chiodi

sotto le suole dei nostri scarponi:

avanzano lentamente sul viale ombreggiato

d’una città di pianura.

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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