Alberto Zanrè, «Tarolli»,
Dottore «ad honorem» dell’Ateneo parmense Medaglia d’oro al V. M.



Alberto Zanrè eroe purissimo della Resistenza Cattolica
Dott. Carlo Ghezzi
Nel momento più intenso e cosciente di ripensamento sui valori e sugli uomini del Movimento della Resistenza che anima il Paese in questo XX Anniversario, mi è grato annoverare e ricordare fra gli eroi più validi e sinceramente cristiani della nostra zona dell’Appennino Parmense il comandante Alberto Zanrè, Medaglia d’argento al Valore partigiano.
Era nato a Borgo Val di Taro – ridente cittadina dell’Appennino Parmense – il lO settembre 1921, da una famiglia che, dopo aver raggiunto l’agiatezza col lavoro in terra straniera, aveva saputo conservarsi, con ammirevole fedeltà, legata alle tradizioni cristiane dei suoi padri; e proprio dal tronco familiare era derivato ad Alberto la linfa di una educazione solidamente religiosa, morale e civile che fece di lui un giovane straordinario, stimato e benvoluto da tutti per l’adamantina rettitudine dell’animo, per la forza del carattere, per la profonda sensibilità del cuore.
Compiuti gli studi elementari, iniziò quelli ginnasi ali presso il Collegio Salesiano di Parma, terminandoli poi al Collegio «S. Luigi» di Bologna; passò quindi al Liceo presso l’Istituto «Zaccaria» dei Padri Barnabiti a Milano, dove conseguì la maturità. classica con brillante successo.
Lasciò nei compagni di studio e nei Superiori il ricordo di un carattere sano, volitivo, che mirava all’essenza delle cose, senza tentennamenti, con sicurezza.
“Il germe della sua condotta lo vedevo nella Sua persona. Era il giovane, potrei dire l’uomo, dalle poche parole ma dalle convinzioni ferme, dagli affetti sinceri e forti”. Così ebbe ad attestare di Alberto Zanrè padre Angelo M. Piontelli, Barnabita, vicedirettore del Collegio.
Nel 1939, diciottenne, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina presso l’Università di Parma; ma quando fu per entrare nel IV Anno accademico venne chiamato sotto le armi e destinato alla Scuola degli alpini di Aosta.
L’8 settembre 1943 lo sorprendeva a casa in licenza col grado di sergente degli alpini. Ma nel tragico disorientamento di quei giorni, intuita la grande importanza del momento storico, ruppe ogni indugio e, abbandonati gli studi, senza lasciarsi neppure sfiorare dalla suggestione di una vita comoda e sicura presso la famiglia agiata, si gettò nell’arduo cimento della rivolta. Dapprima si prodigò nell’assistere e confortare, con la passione del suo animo generoso, i soldati che – impauriti, laceri, stanchi – erravano, come poveri cervi braccati, per le montagne e per i boschi; poi s’adoperò a trarre da quella torma di sbandati gli elementi migliori, infondendo nei loro animi il fuoco del proprio ardore spirituale e del proprio entusiasmo, per la formazione dei primi nuclei di partigiani.
A costoro vennero ad unirsi ben presto uomini e giovani di quelle vallate, montanari solidi e temprati dalle asperità della vita, ex-alpini, reduci dai fronti della Grecia e della Russia, militari che avevano conosciuto le dure esperienze di tre anni di guerra: tanto era il prestigio di cui ormai godeva Alberto Zanrè! Una cosa è certa, come del resto testimoniano quanti poterono seguire l’itinerario «partigiano» di lui, che cioè la presenza e l’opera di Alberto Zanrè furono determinanti per l’adesione piena, incondizionata e, spesso, eroica delle popolazioni della Val Taro alla lotta di Liberazione.
Non solo: «la forza dell’esempio da Lui conferita al movimento partigiano attirò presso di Lui i giovani più ardenti e qualificati del paese». In questa sua opera di convinzione e di organizzazione non badò a sacrifici; e chi lo avvicinava non sapeva resistere all’entusiasmo e alla fede che Egli, pur con la cosciente previsione dei rischi e dei disagi che indicava con tutta sincerità, nutriva per gli ideali di giustizia e di libertà. Uomini della Resistenza, di diverso credo politico e di opposte convinzioni ideologico-religiose, sono concordi nell’attestare la dignità e l’onestà di questo giovane che era sempre disposto a discutere e mai a transigere su questioni di fondo, per lui sacre e vitali.
Nei lunghi mesi dell’inverno 1943-44, egli si dedicò a gettare le basi organizzative di un Gruppo Autonomo, forte di un centinaio di uomini, debitamente addestrato, mobilissimo, ardimentoso, che portava lo stesso nome di battaglia scelto da Alberto per sé, partigiano e comandante di partigiani: «Tarolli». Il Gruppo era dotato di armi moderne ed efficienti che egli stesso aveva acquistate con propri mezzi, di contrabbando, a La Spezia. E tutto questo, congiunto con l’addestramento tattico e strategico, con l’ardore e il coraggio degli uomini, contribuì a fare del Distaccamento «Tarolli» un modello di unità partigiana operante, che fu in grado poi di affrontare vittoriosamente, in molti scontri, le forze fasciste e tedesche.
Quando nell’estate del 1944 si accese in queste vallate l’eroica ed impari lotta fra le forze partigiane e le forze nazifasciste, fu pronto con tutto il suo Gruppo a coordinare la sua azione con gli altri gruppi, non solo per ostacolare le operazioni delle truppe nemiche, ma per anticipare sul nostro suolo quella liberazione che avverrà solo un anno circa più tardi.
E’ rimasta memorabile, fra l’altre, l’azione del Ponte dell’Occhiello (Pontolo-Borgotaro), l0 giugno 1944, che costò al nemico 13 morti e vari feriti. Il 18 dello stesso mese, a capo di 30 partigiani, proveniente da Lozzola, liberava un gruppo di partigiani che da dieci ore resisteva, accerchiato da un forte reparto tedesco in località Grifola.
15 giugno 1944 – Data fati dica per formazioni partigiane che con azioni improvvise ed ardite conquistano Borgotaro e l’intera vallata del Taro instaurando un primo modello di repubblica libera che deve continuamente difendere la zona, da Berceto al Bocco, dagli assalti sempre più massicci del nemico, impegnato a liberare la zona, data la vitale importanza per i rifornimenti al Sud – della linea ferroviaria Parma-La Spezia, completamente paralizzata.
Anche in questo periodo risalta nitida la figura di Alberto, intrepido, infaticabile, tutto proteso, oltre che alle azioni militari, all’applicazione nel libero Governo di Borgotaro, di quei principi di leale e cristiana democrazia che già aveva attuato nel comandare il suo Gruppo. «Durante i folgoranti giorni dell’occupazione di Borgotaro non dormì mai più di tre ore per notte; andava in pattuglia o di guardia o in missione»: così dice di lui un suo partigiano, Olimpi Domenico (Barba). E’ in questo sogno di libertà che va registrata l’azione più brillante della campagna nel Borgotarese e che deve essere ascritta all’abile comando di Alberto. Il 2 luglio nei pressi delle Ghiare di Berceto al ponte della Manubiola, una colonna di tedeschi che tentava di sfondare verso Borgotaro viene dal «Tarolli» decisamente attaccata e duramente battuta: 15 morti, 76 prigionieri, 6 autocarri e 2 motociclette catturate, un automezzo incendiato, ricco bottino di armi e munizioni rappresentano il bilancio della vittoriosa «giornata» di Alberto.
La piccola Repubblica della Valle del Taro aveva però i giorni contati. Non poteva resistere all’urto di un esercito che ancora controllava tutta l’Alta Italia.
Le forze tedesche premevano dalle vie ordinarie di comunicazione, dai valichi, dai monti. La volontà tedesca di mantenersi uno sbocco sul mare concentrava contro la vallata ingenti forze agguerrite, impegnando in una lotta impari e mortale le formazioni dei ribelli valligiani male armati.
La sete di libertà infonde nuovo coraggio sicchè dall’S al 15 luglio è un continuo accorrere e prodigarsi per tener fronte al nemico.
In queste puntate il nemico subiva perdite gravi non precisate; il 15 mattina iniziava un poderoso attacco in forze, sostenuto da un furioso martellamento di cannoncini e mortai.
I nostri reparti, informatiche si trattava di un vero e proprio rastrellamento si ritiravano sulla sinistra del Taro combattendo, dal Bratello al Borgallo. Il nemico, dopo aver respinto il Gruppo «Gramsci», scendeva velocemente verso Gotra. Il comandante «Tarol1i», che di persona voleva accertarsi dei movimenti nemici, veniva fatto prigioniero con altri due patrioti.
Immediatamente con le forze a disposizione (circa 40 uomini) si attaccava piazzando le armi in località Costazza.
Una squadra passava il Taro e attaccava a tergo il nemico, ma veniva costretta a ritirarsi perché presa, a sua volta, alle spalle da altra colonna tedesca: Il comandante «Tarolli» veniva ucciso mentre tentava la fuga. Altri due patrioti fatti prigionieri. (Da un giornale Rinascita della Brigata Julia di Borgotaro, 1944).
Questa la nuda cronaca in stile militare che rivela di per sé tutto il coraggio e la preoccupazione che Alberto aveva per i suoi uomini impegnati in una lotta disperata. Indomito e ribelle all’idea della cattività tenta la fuga quando è già stato catturato. Una raffica di mitraglia lo abbatte.
Così, nella luce del sacrificio virilmente e consapevolmente affrontato, si concludevano la vita, la giovinezza (22 anni) e le speranze di un cuore generoso. Così, quel 15 luglio 1944, finiva l’epopea di una zona che aveva anticipato, prima in tutta Italia, quella libertà che era costato il sacrificio di anime così pure ed in contaminate.
Questa la breve sintesi di una vita spesa per i supremi ideali di DIO – PATRIA – LIBERTA’.
Ma per comprendere lo spirito di questo giovane Eroe della Resistenza cattolica, credo sia sufficiente rievocare un suo messaggio agli albori del Movimento di Resistenza: da questo messaggio si può desumere tutta la serenità e l’ardore di un’anima coscientemente cristiana, di uno spirito insofferente di ogni ingiustizia e di ogni irragionevole costrizione, di una coscienza che nel sacrificio volontario e diuturno diceva la parola del Cristianesimo ad un mondo che da esso tentava di evadere.
Eccone il testo conservato nella forma originale:
“ALPINI!
E’ a voi, baldi figli di queste montagne, che il Comando dei partigiani si rivolge, sicuro di trovare in voi gli elementi migliori di questa lotta eroica, che da mesi infuria contro le milizie fasciste e le baionette tedesche.
Penne nere! I vostri compagni del 3° Alpini, già in azione contro i nazi-fascisti, contano con certezza sulla vostra immancabile partecipazione alla lotta.
Penne verdi delle leggendarie Divisioni Julia, Tridentina, Cuneense, fate che le bande ribelli siano costituite quasi essenzialmente da vecchi alpini. Saremo allora sicuri che le epiche geste di Grecia e di Russia rivivranno davanti agli occhi attoniti dei pavidi e dei vili.
Parlino al nostro cuore generoso con accesi palpiti di mozione il ricordo indelebile dei compagni d’arme caduti, la disperazione delle madri, delle spose ed il dolore, sia pure sciente, dei figlioletti. Poveri aquilotti senza babbo!
Quando noi alpini siamo sulle alte cime, sopra di noi vi è solo Dio. Ebbene sia egli testimone del nostro giuramento, liberiamo le nostre terre dagli invasori tedeschi e dai fascisti!
Potremo allora deporre le armi, accendere la pipa e raccontare ai nostri figli, seduti sulle nostre ginocchia, l’epica di questo secondo Risorgimento, scritta con una lunga penna d’aquila.
Sciatori, Rocciatori, Arditi della montagna, in una parola “Penne nere dallo sguardo d’aquila”, quando noi caleremo dalle nostre montagne, per l’opera di giustizia, noi avremo l’impeto inarrestabile dei carri armati; sì dei carri armati degli alpini: le valanghe! – ala – a romp!”.
La prima impressione dalla lettura di queste righe è l’occasione storica che le ha dettate. E’ l’impeto giovanile del soldato che crede nella difficile missione che si è assunta e cerca «degni collaboratori» per l’opera di giustizia.
Ma ad un attento esame emergono tutte le convinzioni più profonde che lo animano e tutta la forza morale che un compito così rischioso e grande esige.
E’ Dio che si chiama a testimone del giuramento. Non l’odio, non la vendetta, non il gretto disegno politico ma il concetto di Dio, unico garante della dignità e libertà umana, fondamento reale dell’universale fratellanza ed uguaglianza degli uomini. Quel concetto, che era alla base della sua formazione ed ideologia, tornava spesso nei suoi discorsi, nelle rare confidenze che aveva con i più intimi, e si trasformava, a seconda dell’occasione, in azione o in preghiera. La generosità del suo cuore era un amore cosciente e riflessivo, con le radici in quella fiducia umana che non vede nel suo simile solo un dipendente o un estraneo, ma un fratello ed un amico. «E’ impossibile che mi tradiscano, perché sono tutti bravi ragazzi!», era solito ripetere dei suoi uomini. Amava tutti.
Spulciamo alcune fra le più significative testimonianze di coloro che con lui vissero terribili momenti.
«Era un grande altruista: a tutto e a tutti pensava prima che à sé;era il partigiano più scalcinato perché gli abiti che riceveva da casa li donava agli altri».
«Fu uno dei partigiani più puri e migliori che abbia conosciuto. Coraggioso fino alla temerità, nel combattimento era tremendo».
«Finita l’azione era buono come un fanciullo; faceva raccogliere e medicare i feriti nemici e non volle mai esecuzioni di spie o di fascisti».
Dal ricordo dei primi dispersi da lui raggruppati ed assistiti si hanno testimonianze commoventi come queste:
«Aveva conquistato l’animo di tutti al proprio ideale; votato al sacrificio, sapeva rinunciare e privarsi di tutto per il bene della collettività. Era amato e, non esagero se aggiungo, anche invidiato».
«Fra noi, oltre essere il comandante, era l’amico sempre pronto con una parola buona e tutto comprendeva…».
Dio, quindi, non sì era perso per lui nei freddi paradigmi intellettualistici di un sistema filosofico, ma era una realtà quotidiana da vivere e da onorare anche a traverso i sacrifici e le lotte per la libertà contro l’oppressore. Amore, quindi, ed altruismo coscienti perché nell’anima sua giovanile erano mirabilmente plasmate le virtù tradizionali della sua famiglia impegnata – diremmo oggi – in quelle opere di cristiana carità e civica solidarietà che lo vide sempre membro attivo o dirigente onesto e scrupoloso, appassionato dei principi sostanziali del messaggio evangelico. Chi scrive, e fu vicecomandante del suo Gruppo, ricorda l’accostamento magnifico e quasi soprannaturale di quella frase che sfiorò le sue labbra una sera dinnanzi al cancello di un piccolo cimitero dove era sepolto un suo partigiano. Si fermò – pregò brevemente – e, come era suo costume, accarezzandosi il pizzo: «Riposa in pace – disse – perché tutto hai donato». La trasposizione della frase evangelica era per lui una preghiera ed un sospiro naturale.
Amore convinto, quello di Alberto, che fu compreso e ricambiato dai suoi uomini. Basti l’episodio narrato dal suo commissario il giorno dopo la sua cattura.
Era il 16 luglio ’44.
Il giorno prima avevamo dovuto abbandonare Borgotaro,
Alberto era stato catturato dai tedeschi e nulla avevamo più saputo di lui.
Una ventina di partigiani, gli unici rimasti ancora uniti dei componenti del Gruppo di “Alberto”,
erano quel giorno in cammino sulla mulattiera che da Caffaraccio porta al “Melleto”.
Marciavamo in silenzio, lentamente. Eravamo stanchi, avvililiti, e la sferza bruciante del sole rendeva la marcia più faticosa.
Ad un certo punto del sentiero – dal lato a ridosso del monte – sorge una minuscola cappella di pietre corrose dal tempo tra le quali è infissa una immagine in marmo della Madonna.
Qui, quello che guidava la sparuta colonna si fermò. Tutti, quasi inconsciamente, lo imitammo; qualcuno si fece il segno della
Croce.
Rimanemmo per qualche minuto a capo chino – nel silenzio più assoluto -; infine uno di noi mormorò un sommesso “andiamo”, ma prima di riaprire la marcia trasse dalle tasche le poche lire che aveva e le introdusse in una sconnessa cassetta per offerte, posta sotto al rozzo simulacro, e accompagnò il gesto con queste parole: “Purché torni Alberto…”.
La fila riprese a snodarsi sul sentiero sassoso: e via via che passavano dinnanzi alla cappelletta tutti lasciarono cadere la loro povera offerta; qualcuno che non poteva offrire nulla si chinò a raccogliere dei fiori sul ciglio della strada e con cura li depose ai piedi della rozza immagine».
Credo che questo episodio nella sua semplicità possa – meglio di qualsiasi discorso più o meno involuto – testimoniare l’affetto che i tuoi uomini (come eri solito chiamarli) nutrivano per te, Alberto. Affetto che era nato in quanti ti furono vicini non soltanto come frutto di ammirazione per il tuo coraggio, per il tuo spirito fiero e insofferente di ogni ingiustizia e di ogni sopraffazione, ma che era soprattutto la logica conseguenza della tua grande bontà e generosità.
C’era la disperazione di una battaglia perduta, c’era la speranza di poter uscire da una morsa di ferro e fuoco che andava inesorabilmente chiudendosi intorno a loro, ma c’era soprattutto il desiderio e la preghiera di poter riavere il proprio comandante.
Dal Suo esempio però si rileva l’aspetto più convincente sul valore della Resistenza. Come per i più autentici interpreti di questo secondo Risorgimento, per Alberto la lotta di Liberazione era un atto di ribellione ad una dittatura imperante, lotta contro un invasore feroce ed anticristiano che con il solo diritto della forza aveva violato il suolo sacro della Patria e tentava di distruggerne il vero volto.
Ora vive in Lui il senso della pace e della tranquillità; ma le sue ossa non possono aver cessato di fremere nella tomba, se non dopo che furono abbattute le strutture di un regime che aveva funestato la vita della società italiana. Per ottenere questo Egli non indietreggiò dinanzi al pericolo, fu un elemento decisivo nel formarsi e nell’evolversi dal movimento partigiano n’ella nostra zona.
Chi scrive ha vissuto con lui le ore più incerte e drammatiche di quei tempi e può dire con tutta verità che Alberto – figlio di Borgotaro fu convinto conoscitore e valorizzato re delle virtù intime dei suoi conterranei.
Non solo nel suo messaggio rivolto agli Alpini, ma fin dalla sua iniziale azione di organizzatore e di comandante seppe intravedere nell’animo di ogni suo uomo quelle tacite virtù di lealtà e forza d’animo che, in un mirabile amalgama di fraternità cristiana, sono il patrimonio più prezioso della maggioranza dei soldati e degli abitanti di questi monti.
Dott. Carlo Ghezzi
