La Sacca di Fornovo 25-30 Aprile 1945 Giacomo Ferrari

Discorso  celebrativo pronunciato  a Fornovo Taro l’ 8 maggio  1966

Il 13 febbraio, tre mesi or sono, il Comitato di Fornovo, che ringrazio per avermi invitato a parlare, presieduto dall’ illustre Sindaco, convocò, nella sala del Consiglio, i partigiani che avevano partecipato alla battaglia del 25-7-30 aprile, o che comunque potevano testimoniare su essa.

In quell’occasione il Sindaco assicurò che For­novo avrebbe celebrato l’avvenimento con una cerimonia nella primavera.

Così, oggi, noi, ringraziati con profonda grati­tudine l’Amministrazione Comunale e il Comitato, rendiamo omaggio, solennemente, ai Caduti, all’ Esercito e al Popolo Brasiliani, a Fornovo. Dopo vent’un anni possiamo ricordare gli av­venimenti, sentendone, con legittimo orgoglio, l’alto valore.

            Qui, si è conclusa, il 29 aprile del ’45, la nostra grande battaglia.

            9 settembre ’43

            29 aprile ’45. ,

E’ un arco di storia inciso nell’Appennino con. l’acciaio infuocato, come se un libro d’acciaio fos­sero i nostri monti, e su di essi il risveglio degli uomini volesse segnare indelebilmente la sua re­surrezione. Sono mille e più mille, i punti sacri  dove la  punta  d’acciaio ha sostato, quasi a saldi luminosi, del suo cammino.

Da essi sfolgorarono scintille che accesero il grande incendio che qui, a Fornovo, ebbe la sua conclusione. Non è mio compito puntualizzare, oggi, date e numeri. Questo lo faranno gli storici, raccogliendo e confrontando.

Certe precisazioni, validissime per i testi e per i posteri, per i partigiani, che quei giorni hanno qui vissuto e che, di quella storia sono stati arte­fici appassionati e consapevoli, hanno un signifi­cato di relativa importanza.

Importante è, per loro, che qui, protagonista sia stata e impetuosa la Resistenza, e, partecipe con essa, il popolo, avvolti insieme dalla stessa ban­diera: sacrificio, martirio, sangue e dolore.

Questo l’arco. Nella notte tra 1’8 e il 9 settembre, da una casa di Via Martiri della Libertà (allora con altro nome), Dante Gorreri e Brunetto Ferrari, chiede­vano, attraverso il telefono, con insistenza, al Comando militare, di resistere e di dare armi alla popolazione. . «I tedeschi devono essere affrontati con le armi. . . «Nessun timore» si rispondeva. «Il popolo può stare tranquillo ».

Poco dopo: – il sacrificio dei carristi a ponte Italia; – lo scontro alla scuola di Applicazione – la cannonata contro la torre della piazza.

L’esercito svanito. A Milano identica tragedia.

Chi vi parla (era allora capitano richiamato in servizio) ebbe la fortunosa occasione, insieme con altri, di un breve, concitatissimo, colloquio telefonico col Comandante Militare della zona. Generale Superiore.

«Dateci armi, saremo con voi in prima fila ». « State tranquilli » rispondeva « non succederà niente ». «Generale, dateci armi, sapremo batterci e morire». « Non vi è motivo per avere paura dei tedeschi: sono un grande esercito, ordinatissimo ». « Generale. . . » noi di rimando.

Il telefono tacque. Un brivido agghiacciante. Muti. .. ma con l’imprecazione nel cuore e sulle labbra, ci abbracciammo, e partimmo, ognu­no . .. per la propria destinazione: sui monti, nell’aria pura, in alto, come il cuore ci spingeva. Intanto, le squadre teutoniche, spaventosamen­te armate, cadenzavano per le vie della città (tipico ritmo della barbarie disciplinata) e passavano e ripassavano per moltiplicare, nella fantasia dei ti­midi, il loro numero. Banali, anche qui, gli invasori teutonici, come se timidi fossimo o sciocchi.

Così dovunque: esercito e classe dirigente… finiti. In fuga il primo, senza guida (il piccoletto re . . . scomparso, mimetizzato nel boschetto di Settebagni); sul piano del servilismo grottesco e ma­cabro, la seconda. Lo sfacelo. Sfacelo di una società!

Non è facile, cittadini giovani, immaginare la immensità della tragedia, da chi non l’ha vissuta, o comunque se ne è estraniato. ­ Il caos, con incendi, morti, prigionieri. .. ca­ricati come imballo, e spediti. . ., paure e viltà. . ., atti isolati di immenso, spasimante coraggio. Noi. . . angosciati, ma. . . decisi ad affrontare la situazione.      La bufera agitò le fiamme dei Resistenti, custo­dite nelle prigioni, nelle isole del confino, nei lon­tani paesi dove stranieri vivevano, e accese sui monti, nei boschi, nei bivacchi… i fuochi.

La leggenda incomincia. Chi i comandanti? Eletti dai combattenti, fra di loro quasi sco­nosciuti, quanti nel cuore di ognuno costituivano una speranza. Le armi? Quelle tolte al nemico, con gli assalti.

La guida? Il sangue dei morti e il lamento dei vivi. La bandiera? L’ansia di libertà, il tremore della speranza. Una atmosfera di eroismo, nella quale tutto quello che non era lotta cadeva.            Solo il sacrificio, contava, senza condizione, spontaneo e maestoso, volontà ferrea. Un incontro molto segreto, sulle pendici sud del Carameto, subito dopo il 9 settembre, fra alcuni di noi e alcuni ufficiali dispersi di varie nazionalità (italiani, inglesi, canadesi, serbi, statunitensi), fissò le caratteristiche della nostra battaglia: la guer­riglia: – assalire, assalire sempre e nascondersi; – muoversi in piccoli gruppi con grande autono­mia ma con assistenza sempre e aiuto reciproci; – sorpresa e velocità; – coraggio e decisione; – silenzio sempre, soltanto quando accorrevano, urli sfrenati;- incutere paura. Bisognava trovare in noi stessi tutto.

Poi vennero. . .- le organizzazioni;- le grandi unità,- gli alti comandi,- gli stati maggiori, – gli uffici di vettovagliamento, di assistenza, – i tribunali, l’amministrazione della giustizia, – i liberi comuni, amministrati dai cittadini in loro autonomia e responsabilità (Bardi, Bor­gotaro) , – i bollettini, – i giornali.

I termini spionaggio e contro-spionaggio non esistevano. Sentivamo istintiva e imperiosa la ne­cessità di garantirci dai tradimenti e dalle infiltra­zioni e diventammo abilissimi. Avevamo così gli uffici di informazione distribuiti a rete segretissima. Purtroppo pagammo tragicamente l’esperienza. L’episodio di Bosco è una pagina gloriosa e dolorosa di questo libro. Ma . .. non ci turba.

Anche allora abbiamo compiuto il nostro dove­re. Subito dopo l’immane tragedia, mentre ancora l’incendio fumava, e l’eco degli avvenimenti por­tava, lontano da essi, in tanti che attendevano, lo strazio e forse lo scoramento, i superstiti tentavano l’accerchiamento dei tedeschi dietro il Cirone, e il mattino successivo, dopo aver reso onore ai Caduti e giurato sul loro sacrificio, nella deserta chiesetta, procedevano al passaggio interinale del Comando e alla convocazione a Pietra di Belforte, dei Co­mandanti di tutte le formazioni, per la nomina del nuovo Comando. Ecco la nostra forza: la continuità della bat­taglia, senza macchie, senza paure, senza soste.

La discesa organica in città aveva costituito argomento continuo di studio e di preparazione. L’incontro stesso di Bosco aveva avuto questo problema in esame. Menconi, il nostro glorioso Renzi, con Casaburi, altro valoroso caduto, dovevano prendere accordi con noi. Avevamo tutti la consapevolezza dell’avveni­mento che sarebbe maturato presto, e nessuno pensava di poter lasciare al caso lo svolgimento e la conclusione di esso.

La posta in giuoco era troppo grande, perché potessimo rimanere inerti di fronte alle responsa­bilità che ci incombevano. Così nell’ottobre del ’44 avevamo in accordo predisposto per l’azione e per l’assunzione di impegni dei Comandi.

Poi. .. – accadde la tragedia di Bosco, —,- piombò l’inverno, – gli Alleati decisero di sostare, – fu diramato il proclama di Alexander (quante angosce in quei giorni in tutti!). Ricalcammo la nostra volontà dove eravamo, giurando a noi stessi coi denti stretti e i piedi puntati, che avremmo ripreso con più energia e con maggiore slancio.

L’obbiettivo di Parma aveva per noi compiti ben chiari ed evidenti, soprattutto gravissimi e difficili. I tedeschi avevano già minacciato di mettere tutto a ferro e fuoco, tentando con ciò di influire sulle nostre decisioni e possibilmente di farci rima­nere inerti. Bisognava essere nelle strade, nelle case, negli stabilimenti della città, per conservarne la strut­tura e l’efficienza, e, prima ancora, per salvarne gli abitanti.  Sapevamo che dovevamo salvare Parma e i paesi vicini dalla invasione delle truppe in ritirata. Sapevamo che cosa voleva dire: tedeschi in fuga, i barbari che tutto distruggono, che tutto violentano. Ci eravamo preparati psicologicamente e con­cretamente, e il Taro, con Fornovo, ancora una volta, assumeva la particolare importanza che la sua posizione gli dava.          .

 Ecco la Sacca: – la dorsale appenninica 62, (teatro di tante nostre battaglie); – la valle del Taro, la valle del Ceno, le trasver­sali ad esse arrivanti; – il crinale dal Malpasso al Penna e al Lama, volto a nord, con lo sguardo qui;- la confluenza naturale, inevitabile, delle truppe tedesche in fuga, incalzate dal versante tirrenico;- obbiettivo affannoso, spasmodico, di marcia del nemico, la pianura, il Po, il Brennero.

Bisognava ostacolare. Bisognava impedire a tutti i costi lo sfogo sadico degli Unni; non permettere che contatti vi fossero con le forze provenienti dal Sud, lungo la via Emilia. Con questo obbiettivo, con queste realtà pre­senti, erano state predisposte le azioni nostre di intesa con gli Alleati. Testimonianza è data di quanto dico dalla eli­minazione completa di tutti i presidi della valle del Taro eseguita con azione coordinata e decisiva 1’8 aprile.          

Vi furono errori? E’ possibile. Anzi… senz’altro. Manchevolezze? Senza alcun dubbio. Le quantità, i tempi, l’incalzare spaventosa­mente rapido degli avvenimenti vicini e lontani, gli interventi e i rapporti diversi, con limiti nelle reciproche comunicazioni, potevano farci scostare dalle previsioni, ma le linee fondamentali di esse e le conseguenti precauzioni erano esatte. Ad esse dovevano innestarsi, come avvenne, la intelligenza e l’iniziativa dei reparti.

Non dimentichiamo mai le caratteristiche pecu­liari della lotta partigiana, e, soprattutto, l’impeto dei partigiani, i quali, sapevano bene, come in quelle ore si raccogliessero e concludessero tutte, le loro aspirazioni maturate in venti anni di ser­vitù mortificante, e in venti mesi di lotta dispe­rata sui monti. Il 29 aprile (dopo tre intimazioni, rimaste senza risultato) con la firma della resa, il 30 con la cessazione completa delle ostilità (mi piace ricor­dare l’aiuto nobilissimo prestato dal parroco di Neviano dei Rossi), si è conclusa qui la nostra epopea.

Circa ventimila prigionieri, armi, attrezzature, vettovaglie. Siamo partiti senza un fucile, correndo all’as­salto come dannati, e fuggendo, per assalire ancora; quasi sconosciuti a noi stessi. Non avevamo nome, non avevamo registro, ave­vamo nel cuore, tutti, un sogno di libertà; senti­vamo che impetuoso, gigantesco sorgeva in ciascuno di noi il segno della resurrezione. Abbiamo chiuso con una azione di grandi Unità, per la quale ci furono scuola soltanto la nostra volontà ferrea, dirò spasmodica e l’esperienza di venti mesi di battaglia senza una tregua mai, senza un arresto, con animatore sempre l’eroismo incontenibile dei nostri combattenti.

« A Parma abbiamo trovato i servizi pubblici in piena attività. « Quando arrivammo trovammo che, girando i rubinetti, veniva l’acqua, che c’era la luce elettrica, e la forza motrice, cosa rara e impresa difficile, che i tribunali, la legge e l’ordine pubblico funzio­navano a meraviglia ». . Così diceva radio Londra la sera del 28 aprile, mentre qui si combatteva ancora. Avevamo, credo, operato bene.

Nel pomeriggio del 26 entrarono in azione gli Alleati, i Brasiliani.          . Ricordiamo questo inchinandoci. Vorrei rappresentare così la nostra riconoscenza con devozione. L’esercito brasiliano portò il suo grande peso e risparmiò a noi molte vite e molte cose, e noi dobbiamo ringraziarlo con gratitudine profonda che mai diminuirà, consapevoli come siamo dei sacri­fici immensi dei suoi soldati, combattenti in terra lontana.

Amici partigiani, nel ’46, ebbi l’altissimo onore di rappresentare il Governo Italiano nella prima grande cerimonia, in onore-dei Caduti Americani, ad Anzio. Diecimila croci nel cimitero, un immenso lutto bianco. . . allucinante. La riconoscenza ancora e l’angoscia mi strin­gono. . Qui, tutti Brasiliani, con noi.

Diciamo loro che li consideriamo fratelli, fra­telli generosi e valorosi, e Loro diranno di aver avuto al fianco dei valorosi, eroici guerriglieri italiani, che sapevano combattere e morire. Quanti i Caduti? Quanti i feriti?

Lo diranno le lapidi che renderanno sacri ai posteri i loro nomi e questi luoghi. Vorrei inviare alle mamme di là e di qui un messaggio. . Messaggio di sofferenza e di serenità, triste per il passato, fiducioso per l’avvenire, impegno sacro e augurio fervido. Lo consegno ai rappresentanti del Brasile. Sono un soldato e una signora, la dignità auste­ra con la gentilezza nobilissima.  .

            Il messaggio è questo:

« Piangete. .. confondiamo le nostre lacrime, ma sentiamoci insieme orgogliosi di quello che è avvenuto. Abbiamo scritto la storia col nostro sangue, insieme, gli altri la racconteranno. Se così non fosse stato, che cosa avrebbero fatto quei ventimila tedeschi scatenati, ossessionati dallo spavento, nella Bassa nostra, su Cremona, su Mantova, su Verona, su Bergamo . . .? Quante don­ne violentate e uccise, quanti bimbi straziati, quanti incendi ancora!

Raccogliamoci nel silenzio, maestoso del ricordo, pensiamo insieme, con la mente e col cuore. . .: che le mamme di domani non abbiano più lo strazio nostro. Il nostro pianto sarà così placato! ». La nostra riconoscenza a Fornovo, a questo paese generoso, che ha dato sè stesso, tutto sé stes­so, con orgoglio, con impeto, con decisione ragio­nata, con lietezza, alla grande causa della Liberazione, pienamente consapevole dei sacrifici che lo avrebbero atteso.

Ringraziamo questa piccola ma fortissima città, dove il nostro indimenticabile Sbodio, partigiano « Mario », diede alle stampe il primo :libro dei nostri ricordi. Sono pagine semplici, soffuse di bontà e di compiacimento. Sono. .. Fornovo in tutta la sua bonomia e in tutta la sua fierezza. Nel novembre del ’45 l’on. Romita, nella veste di ministro dei Lavori Pubblici, venne in Emilia e a Parma.

Visitò la Provincia, Fornovo compresa. Nella sera parlò al Teatro Regio. Così disse : (cerco di ripetere con rigorosa fe­deltà le sue parole) « . . . Fornovo: a 25 Km da qui. Sono rimasto esterrefatto. Vorrei che tutti i Sindaci d’Italia conoscessero il loro Collega di quel paese. Quasi distrutto, colpito con ferocia… è ri­sorto, come per incanto. Vadano là . .. a vedere che miracolo può fare il patriottismo dei cittadini! ».

Signori, ricordo che allora alcuni dei presenti abbassarono il capo e contrassero il viso per nascondere un sussulto. Io guardai Romita, con le lacrime negli occhi, poi cercai nel pubblico gli amici di Fornovo. Fu un colloquio muto, di spiriti, rapidissimo, incancellabile nel tempo.

Lasciatemi chiudere con questo ricordo.

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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