Su in Valtaro

ASSOCIAZIONE RICERCHE  VALTARESI «A. EMMANUELI»

             SU IN  VALTARO

TESTIMONIANZE ED EPISODI DELLA LOTTA PARTIGIANA

Illustrazioni di MARIO PREVI

Vuole essere, la pubblicazione presente, un modesto contributo di informazione ai giovani d’oggi, perché rammentino quanto dura e irta di difficoltà e sacrifici fu la strada che condusse alla democrazia e alla libertà.

Vuol essere anche un invito, esteso a tutti, ad approfondire gli avvenimenti di quel periodo, affinché rimanga testimonianza di episodi e fatti, accaduti nella nostra Valle, che nulla hanno di meno epico e glorioso di tanti altri.

Attesa

Vi abbiamo aspettato

quaggiù,

per strade deserte

nel Borgo.

V i abbiamo seguito

con occhi gelosi,

con cieca fiducia,

con ansia amorosa,

con mani materne.

Vi abbiamo seguito

con cuore tremante.

Vi abbiamo seguito

nel sonno

pesante

sul vostro giaciglio

di foglie seccate,

di spine,

di un letto

di foglie autunnali,

di un tetto

di travi tarlati

e ineguali.

In notti stellate

abbiamo sentito

le vostre canzoni

nel cuore

nell’ore dei sogni.

Lontani eravate!

Mistero nascosto

la vostra dimora;

speranza differta

la vostra venuta.

Vi abbiamo aspettato!

Un pianto d’attesa

nei vuoti viali,

passeggi serali

deserti

di vita, per noi!

Linari fra nebbie

la luna fra i rami

odore di vento:

un’ebbrezza

di luce

di sole

lassù:

di gloria. Per voi!

IL MAZZO DI FIORI
Vorrei essere un fiore e tu venissi piano, \ a cogliermi,. e. spiccarmi \ e m~ tenessi~ in mano.
Nel giugno del’ 44 le formazioni partigiane della Valtaro avevano portato a compimento il loro piano ambizioso La libera­zione dell’intera valle. Nel maggio precedente c’era stato, nella zona, un vasto ra­strellamento da parte dei tedeschi, ma le forze partigiane si era­no sottratte, come d’incanto, al nemico subendo poche perdite, per riformarsi, subito dopo, decise più che mai a riprendere la lotta. Anzi si può dire che l’azione dei tedeschi avesse rafforzato !’idea della Resistenza tanto che, nel mese successivo, nuovi gio­vani si erano arruolati nelle formazioni partigiane contribuendo a renderle più forti.            Già sul finire del maggio, appena passata l’orda tedesca, le formazioni erano passate al contrattacco.            .Il 29 maggio venivano infatti disarmati i presidi militari

IL COLPO ALLA STAZIONE DI BORGOTARO

Giugno, 1944

E’ la seconda sera che tentiamo il colpo. Siam venuti anche ieri notte. Siamo entrati in stazione e già eravamo sul piazzale nella notte chiara quando è arrivato l’apparecchio e i militi sono usci­ti. Punteria s’è gettato dietro una pianta, io mi son fermata im­mobile per terra, e Renzo e Ailù nelle loro posizioni più basse sulla scarpata. I militi sulla piazza hanno seguito l’apparecchio con gli occhi e abbiamo sentito le loro osservazioni.

Stasera però entreremo fino alla sala d’aspetto. Siamo partiti alle 8. Presumibilmente per far rifornimento di vino. E abbiamo fatto due viaggi da Pontolo al Boceto. Abbia­mo caricato due volte e siam tornati al luogo di partenza. Son le due e abbiamo mangiato e bevuto. Siamo stanchi e assonnati. Sta­notte abbiamo dormito poco. I ragazzi hanno aperto varie botti­glie e io seguo preoccupata con lo sguardo il bicchiere dalle loro mani alle loro bocche. Abbiamo fatto tanta strada. Dovremo ri­mandare anche stasera?

Finalmente alle tre si parte. C’è Tuono, Renzo, Ailù e Punte­ria. Arriviamo alla Pieve e seguiamo la siepe lungo la strada per avvicinarci alla stazione in un vano tentativo di renderei invisi­bili. Davanti e sopra noi la stazione, ed il ponte, in linea netta e precisa nel chiaro della luna. E’ una luna da palcoscenico in un cielo buio, ma a tinta unita. E ogni cosa è illuminata a giorno e ogni ombra si proietta a contorni netti e precisi. Vicino a noi la strada si allunga fino al sottopassaggio e distinguiamo il più pic­colo sasso, e sul ponte ogni palo. Mentre mi guardo attorno sdra­iata sull’erba mi accorgo che Ailù e Tuono russano. Si sono addor­mentati. Si svegliano e a carponi raggiungiamo la centrale elet­trica. A fucili spianati facciamo le scale fino al secondo piano. Tre uomini di turno. Chiediamo del pattuglione di militi che ab­biamo informazione a quest’ora sarà di guardia nelle vicinanze del ponte. Non ne sanno nulla. Uno di loro telefona ai « freni» ma il ferroviere non vuole attraversare i binari a quell’ora, nep­pure con la lanterna.

Una seconda telefonata. Aspettiamo. Verrà. Ed ecco una luce lungo i binari. A mezzanotte la pattuglia era ferma sul pon­te. Ed ora? E’ rientrata? E’ all’imbocco della galleria? Mandia­mo il ferroviere in perlustrazione. Son quasi le quattro e decidia­mo i nostri piani su due piedi. Renzo, Punteria e Tuono, fra i bi­nari a coprire il ponte. Ailù ed io in stazione. Scendiamo le sca­le e sulla strada ci lasciamo. Ailù ed io attraversiamo di corsa il sottopassaggio, la scarpata, la piazza, ed entriamo. Luci smorzate, e sotto la tettoia alcuni passeggeri che attendono l’ora del treno già pronti in stazione e girano sonnolenti e sbadiglianti.

Sulla panchina un milite con due valigie, e con i gomiti ap­poggiati alle ginocchia studia la punta delle sue scarpe. Vediamo sulla sua faccia gradualmente un barlume d’intelligenza e se ci fosse il tempo si riderebbe. Chiedo dove sono i militi. Nella sala d’aspetto. E Ailù si occupa del vecchio che finalmente s’è sveglia­to dal suo dormi-veglia e dalla sorpresa alla vista della canna. Al­lora bussò. . . – Santoni, apri.

« Sono io apri » « Chi c’è? » « Io, apri » « Chi, io? » « Non mi riconosci ?apri ». Una chiave gira. La stanza è buia. Dietro di me la luce. Mi metto contro la metà della porta al buio. « Accendete! » Quanti saranno? « Attenzione a non muovervi». Otto o dieci?

S’accende. Sono due. Due che si affiancano. Sul tavolo una rivoltella, nell’attaccapanni alcune carabine, sul camino munizio­ni e bombe a mano. Me ne impadronisco senza posare la rivoltella mia. E Ailù entra e mi aiuta. Carichiamo i tre militi e passiamo attraverso la gente che guarda disinteressatamente. Attraverso la piazza, lun­go la scarpata, la strada. Un fischio e la guardia arriva.

E ci sentiamo nel chiar di luna padroni del mondo. E abbiamo dimenticato la stanchezza, il sonno e ci scuote un desiderio irrefrenabile di ridere. Ci affrettiamo perché nel chiarore siamo ancora un buon bersaglio. E arriviamo alle prime piante del bosco. E non sappiamo cosa far loro. Abbiamo bisogno di vestiti. Li svestiamo delle loro fiammanti e morbide divise e in un cerchio facciam recitare loro un’ave di ringraziamento per il pe­ricolo scampato.

E’ un’ave sentita, in una voce commossa, incerta, supplice, disperata, agonizzante. Una protesta contro la morte, un inno alla vita, un abbandono alla disperazione, alla speranza. . . Noi invece siamo ubriachi di gioia e facciamo i generosi. Ci accontentiamo di far strappar loro la camicia del brutto colore della morte e restituiamo loro gli orologi. Partono in tenuta da bagno.

Dal diario inedito di Rosetta Solari

UN BAGNO… DISUDORE
Nell’estate del’ 44 il distaccamento Dallara della l a Brigata Julia, si trovava dislocato in località Agnidano nei pressi di Ba­selica. Si componeva di circa cinquanta ‘partigiani sotto il comando di Gomel. I collegamenti con il comando di Brigata, situato sull’oppo­sto versante della valle, nei pressi di Caffaraccia, venivano assi­curati con l’ausilio di staffette le quali, spesso, dovevano attra­versare zone « calde» con possibilità di incontri poco piacevoli. Un giorno di quell’estate, presso il Comando ,di Brigata, si trovava il partigiano Formentino ch’era lì giunto con un messag­gio inviato dal Comandante di distaccamento Gomel. Attendeva la risposta da parte del Comandante Dragotte per poi ripartire. Verso sera venne chiamato e il Comandante gli disse: « Ecco la risposta. Per questa notte però ti fermerai, già ho dato ordine di provvedere: partirai domattina ». Formentino fu contento delle disposizioni del Capo: pote­va trascorrere una serata con gli amici che ,da tempo non vedeva. C’erano fatti da raccontare, qualche coro e molte risate. . .
. Più tardi, quando si coricò, mentalmente ripassò la strada che avrebbe percorso il mattino seguente. Si trattava di andare ad Agnidano, bisognava scendere in fondo valle, attraversare la fer­rovia Parma-La Spezia, guadare il Taro e risalire quindi l’oppo­sto versante ove correva la rotabile Borgotaro-Berceto. Poco piùdi un’ora di strada, in tempi normali, ma la parte mediana del percorso, quella in corrispondenza del fiume, andava percorsa con grande cautela. Lungo la linea ferroviaria e lungo la strada Borgotaro-Berceto che correvano parallele e vicine al Taro, sia pu­re su sponde opposte, era facile imbattersi in pattuglie e poi c’era il Taro da guadare . . . un tratto scoperto, facilmente controlla­bile. . .
Verso le sette del mattino Formentino si mise in marcia. La giornata si prospettava bella; dal Molinatico baluginava però un sole che lasciava prevedere caldo ed afa. Per ripidi pendii, or tra boschi or tra radure, scese Formen­tino e si trovò presto su un poggio dal quale poteva osservare la sottostante ferrovia. Ora doveva discostarsi leggermente dalla direzione di mar­cia,allungando, sia pur di poco, il percorso perché presso l’en­trata della sottosl’ante galleria vi era il casello ferroviario n. 60 presidiato notte e giorno da una decina di tedeschi. Costoro si e­rano sempre limitati alla sorveglianza della ferrovia e mai si era­no spinti all’interno della zona partigiana. Per non farsi sorpren­dere da possibili imboscate notturne, i tedeschi avevano perime­trato una zona attorno al casello, con un filo di ferro al quale ave­vano appeso barattoli, bottiglie, lamiere e altri aggeggi capaci di produrre rumori al minimo contatto, in modo da richiamare co­sì la loro attenzione. Formentino deviò quindi per qualche centinaio di metri
dalla naturale direzione di marcia, attraversò la ferrovia e rapi­damente si precipitò verso il Taro il cui greto era poco lontano. Giuntovi, s’inoltrò tra i fitti cespugli di « gorini » che vi na. scono spontanei, numerosi e alti. Era un tratto sicuro come po­chi altri, prima di affrontare il guado del Taro. Avanzava con fatica, ma era tranquillo; lo « stein » gli serviva per farsi strada in quel groviglio di rami. Sentiva ormai lo scorrere delle acque del fiume quando, al­l’improvviso, oltrepassato un ennesimo e aggrovigliato cespuglio. ne, si trovò allo scoperto. . . con un tedesco di fronte con l’arma puntata.          Alle spalle di quello, quattro o cinque tedeschi, completa­             mente nudi, stavano bagnandosi nel Taro. ‘          Erano quelli del casello ferroviario!          I due si fissarono a lungo negli occhi. Entrambi avevano l’arma puntata.          In acqua i tedeschi s’erano irrigiditi in attesa di una deci­ sione ch’era nelle mani di quei due che si fronteggiavano. « Non so dove presi il coraggio – mi dirà F ormentino ­ma avevo capito che solo la calma poteva darmi una possibilitàdi salvezza ».          Dall’acqua giunse una frase, forse un ordine.          Il tedesco voltò la schiena al partigiano e depose l’arma a terra. Formentino guadagnò rapidamente la riva del fiume, giun­tovi osservò che la situazione non era cambiata: i tedeschi in ac­qua erano sempre immobili, l’altro sempre fermo con l’arma a terra. Volle strafare: con l’arma sotto un braccio tenne a bada i tedeschi e con la mano libera cominciò a togliersi gli scarponi. Quindi lentamente guadò il Tar.o. Al di là l’attendeva un tratto di erta abbastanza ripido con alberi e cespugli.
Giunto a riva fu però preso dal panico, corse velocemente per             una decina di metri e si gettò a terra.          Tornò quindi a riguardare verso il fiume.          S’accorse, non senza un sospiro di sollievo, che la paura non stava solamente da una parte. . . vide infatti che i tedeschi, vesti­ti sottobraccio, stavano abbandonando velocemente il fiume e ri­salivano verso il casello ferroviario.          Formentino rimise le scarpe, s’attardò un poco per recupe­ rare fiato, calma e coraggio e riprese a salire. Giunse ai piedi della smirpata della rotabile Borgotaro-Ber­ceto. Si trattava dell’ultimo ostacolo; al di là si sarebbe sentito tranquillo. S’acquattò in attento ascolto prima di compiere l’ultimo bal­zo. Gli parve d’udire un lontano rumore, forse era solo la paura che seguiva la tensione precedente. Rimase comunque fermo. Dopo alcuni minuti gli giunse chiaro e inequivocabile il rombo d’un motore. . . passò un au­tomezzo . . . poco dopo un altro e poi un terzo ancora. Formentino non si permise di alzare la testa, ma o:tIl1ai era sicuro: si trattava di una colonna. Un automezz,o si fermò. Udì delle voci. Non erano vicinissime. Forse a un centinaio di metri, forse più, sì da giungere comunque al suo orecchio: erano tede­schi. Si spostò pian piano e s’addentrò tra ortiche e cespugli di ro­se selvatiche che ricoprivano un tombino stradale. La faccia, le mani non ne potevano più, ma il pericolo era troppo grande. Dalla strada si poteva vedere il casello ferroviario ed era quindi possibile uno scambio di notizie tra i due gruppi di tede­schi. Avrebbe potuto trovarsi da un momento all’altro, bloccato su due fronti. . . Ciò non avvenne e s’udì finalmente l’avvio di un motore. Formentino uscì ‘allo scoperto, attraversò la strada e s’incamminò verso la montagna.
Il viso recava i segni delle ortiche, le spine non si contava­no; ma in alto vedeva ormai la chiesa di Pontolo, più su ancora il campanile di BaseIica e da là giungevano lenti i rintocchi del mezzogiorno.
Si fermò all’ombra di un albero, tolse le spine più superficia­li e ripartì. Era in ritardo, ma all’ora di pranzo avrebbe avuto qualcosa da raccontare.
Giacomo Bernardi
Testimonianza resa da Ercole Bazzani (Formentino).

L’era Pasqu’tta e aveivu fatu i gnôchi….

Era la notte dell’Epifania del ’45 . . . Ancora un’Epifania di guerra! Sette partigiani si rifocillavano nella piccola cucina di casa mia. Erano venuti all’osteria per avere notizie sugli spostamenti dei Tedeschi. Li aspettavano. . . Sapevano che sarebbero arrivati . . . Erano tesi, un po’ nervosi, sospettosi. . . Ricordo ancora i loro volti troppo giovani, con le barbe lunghe ed incolte, i loro pastrani stesi sulle sedie, attorno alla grossa stufa di ghisa, per asciugare; i moschetti erano ammucchiati dietro la porta.

Era lì, infatti dove mia madre ordinava sempre di deporli, dopo averli fatti scaricare. La Maria, mia madre, aveva un gran daffare: ravvivava il fuoco per far asciugare i pastrani e gli stivali « di sti povri fieu », preparare per Loro qualche panino al . . . formaggio (l’unico companatico di allora) e fare da sentinella. Erano tre anni che faceva da sentinella. . . che andava a « Ca’ d’ Russ’tto » per vedere se al Taglio avanzavano i « Tedeschi ». Quella notte nevicava forte e verso le ventidue ha cominciato a sibilare un vento di tramontana. . . quella tramontana che a volte a Porcigatone, irrompendo da Santa Donna, penetra dentro pun­gente, fa tremare le case, ondeggiare chi si trova per la strada, quasi come la Bora a Trieste.

– Sti tranquilli fieu – disse mia madre dopo essere usci­ta per l’ennesima volta. – Feura gh una bufera spavintusa; stanott n gh priculu ch’ i T’ dschi i vegnni ! I sospetti cominciavano a cedere ad una atmosfera più diste­sa. Qualcuno chiese un mazzo di carte per giocare, altri fumava­no e chiacchieravano attorno alla stufa. Uno riuscì anche ad essere allegro. Alle quattro del mattino, nonostante fuori la bufera non ac­cennasse a placarsi, decisero di ripartire per Tocaleto.« La Maria» preparò un altro panino per tutti.- U sarà l’ultimu fieu! disse il figlio della << Maria dar Canton », mentre lo addentava. . .

Nessuno rispose. . . poi un breve saluto e sparirono curvi, sotto la tormenta. La mattina dopo fummo svegliati dal silenzio. Era caduta molta neve, il vento si era placato, ma era scesa una nebbia insidiosa e fitta. . . così fitta che sembrava volesse celare qualcuno. . . qualcosa. – Gh tropp silensiu! disse mio padre guardando dai vetri. – L’Pasqu’tta – gli rispose mia madre – cun sta neiv e sta nebbia spruma ch i T’ dschi i n lassi in pace! – Vdruma! – In cheu fo i gnochi! continuava mia madre. – Spruma d pudeia mangià! rispose mio padre sempre un po’ pessimista.

Quando sono scesa in cucina mia madre impastava già << i gnochi >> e mio padre seduto davanti alla finestra, mi riparava un paio di “süpei”. Dava un’occhiata al chiodo che doveva piantare e uno fuori dalla finestra, come se fosse in attesa di qualcuno. Io godevo di quella scenetta: Maria impastava e Giuseppe si era improvvisato calzolaio. . . Era quasi come nella piccola ca­setta di Nazareth, ma fu per poco.

Improvvisamente mio padre smise di « battere» i chiodi guardammo fuori dalla finestra e vedemmo un ragazzo che cor­reva nella neve verso la nostra casa. Fummo subito tutti e tre sul­la porta. Era Peppino Ghirini che gridava: «I T’dschi! I T’dschi!». Ci sembrava impossibile. Ci portammo tutti a « Ca d Russ’t­tu » per accertarcene . . . ma non c’erano dubbi. Al Taglio una lunga colonna avanzava lentamente verso di noi. In pochi attimi a Porcigatone rimasero solo le donne, i bambini e Pèin. Gli uomi­ni erano « scappati» un’altra volta, senza avere avuto il tempo di pensare e di dire a chi rimaneva, dove si sarebbero diretti. « I gnochi » finirono nella « broda », gli arnesi da calzolaio furono nascosti e i « me süpei » rimasero così, come mio padre li aveva lasciati per molto tempo. Dopo mezz’ora circa i Tedeschi arrivarono. Entrarono subito in casa, frugarono in ogni angolo come cani da tartufo. Una diecina di loro vi rimase una setti­mana

Verso mezzogiorno Pèin che poteva circolare per il paese, ci disse che erano stati sentiti degli spari verso il Santa Donna. – O Signur !Cos sarà sücessu? – Spruma chi sii sta i partigiani a sparà. – disse la Dina di Taccon che era venuta a far compagnia a mia madre. Ma la paura, i timori per i « nostri» che ancora non sapeva­mo dove si erano nascosti, aumentava. E poi. . . non sapevamo ancora che un’altra colonna di Tedeschi era arrivata sopra il pae­se, da Caffaraccia.

Alle quattro del pomeriggio, mentre mia madre sfornava il pane, un tedesco si avvicinò e disse: – Oggi caput a sette partizan . . . là . . . ed intanto addita­va il monte. . . Proprio dove erano stati sentiti gli spari. Mia madre con la calma che nasce dalla paura, rimase in si­lenzio tenendomi una mano sulla spalla.

A sera sempre da Pèin che per tutto il giorno aveva girato per avere notizie più precise, sapemmo che agli Scaglioni aveva­no sentito oltre gli spari, le grida strazianti di quei ragazzi. . . Erano i partigiani che erano a Tocaleto che mentre tentavano di oltrepassare il monte sono stati visti dai Tedeschi e . . . La nebbia li aveva confusi prima, poi traditi. . . – Povri fieu! sospirò mia madre, con gli occhi pieni di la­crime. Quella sera mancarono all’appello proprio quei sette che la notte prima erano stati lì . . . a gustare l’ultimo panino.

Ero a Porcigatone pochi giorni fa: fuori nevicava e sibilava la tramontana. Nell’osteria si raccontava ancora di quei giorni. . . – Quand’tira st veintu, mi diceva Luigino, il cantoniere, m dvisu d sintì ancura cui lameinti !

E la Maria: – Povri fieu! Cula nott n’pareiva propriu ch’i s lasntisi d muri! e poi continua : – L’era Pasqutta’e aveivn fattu i gnochi. . .

Giovanna Feci Querzola

Da “Voce del Taro” D. l del 1978.

Il Terzo

I corpi vennero adagiati ai piedi del muro di cinta del ci­mitero di Baselica. Era sera, non c’era tempo per una sistemazione definitiva; quelli della frazione avrebbero provveduto, in seguito, come altre volte, alle casse e alla funzione religiosa. Le salme erano due: un partigiano e un tedesco.

Dal gruppo di partigiani, una ventina circa, si levò una voce che dopo aver pronunciato quattro nomi, disse: – Vi fermerete voi quattro. Due veglieranno i morti e due staranno di pattuglia per tutta la notte. Domattina rientrerete. Fate attenzione, al co­mando si pensa che dopo i fatti di oggi possa esserci una puntata dei tedeschi. Ci vedremo domattina. Sarà stata colpa dell’oscurità, della stanchezza o d’altro, ma quando il gruppetto di partigiani si fu allontanato, i rimasti s’ac­corsero d’essere in tre anziché quattro.

– Fa lo stesso – disse Scambio – ci arrangeremo in tre. Due di pattuglia e uno qui con i morti. – Io non me la sento di restare solo vicino al cimitero ­interloquì un partigiano. – Se non avete niente in contrario – tagliò corto Scam­bio – mi fermerò io -. L’accordo fu raggiunto. Le due salme vennero accuratamente coperte con dei panni militari. Scambio dispiegò una coperta, se la mise a foggia di tabarro e si sedette appoggiando le spalle al muro del cimitero.

Gli altri due lanciarono un breve saluto e sparirono nel bosco. La notte non era fredda, si era ormai alla soglia dell’estate, anche se dai vicini boschi giungeva un’aria frizzante che aiutava Scambio a restare sveglio. Intorno il silenzio più assoluto, solo qualche grido di uccel­lo notturno e più tardi uno scricchiolare di foglie, forse provoca­to dall’andare d’un riccio.

Due volte Scambio maneggiò per arrotolare una sigaretta, osservò il lento procedere delle stelle, poi la stanchezza ebbe la meglio: si allungò sull’erba, si coprì completamente con la coper­ta e s’addormentò. A vent’anni, tanti ne contava Scambio, il sonno è di solito profondo. Quanto tempo dormì non lo si può dire. Si risvegliò disturbato da alcune voci. Il torpore del dormive­glia quando ancora non si distingue tra sogno e realtà, non gli permise di alzarsi subito. Gli giunse distinta però una voce che diceva: – Ma reve­rendo dovevano essere due i morti, invece sono tre -. A questo punto fu chiaro per Scambio che si trattava dei frazionisti incaricati di provvedere alle due salme.

Sollevò quindi la coperta che l’avvolgeva interamente e . . . fece appena in tempo a vedere nell’incerto chiarore dell’alba due uomini e un prete che se la davano a gambe giù per la stradicciola spaventati dall’improvviso agitarsi del terzo cadavere. Scambio si alzò, s’inoltrò nel bosco in cerca dei due amici di pattuglia.

Lanciò qualche richiamo, finché ottenne risposta. Poco dopo i tre s’incontrarono. Scambio raccontò l’accaduto. – Si sta facendo giorno – disse uno dei tre – dobbiamo rientrare, più tardi quelli della frazione torneranno. La proposta fu accolta e i tre s’incamminarono.

Giacomo Bernardi Testimonianza resa da Severino Costa (Scambio).

Tagliatelle alla Tedesca

I cinque partigiani scendevano allegri il pendio. La sera pre­cedente il vecchio Molinari, che solitamente portava le notizie dal Borgo, aveva affermato che giù in paese c’era calma e, a parte, rivolto al figlio Nello aveva detto: – Domani la mamma vuol preparare le tagliatelle di castagnaccio, vi aspettiamo. Puoi por­tare anche qualcun altro -.

E così i cinque partigiani, armi in pugno, stavano scenden­do verso il Borgo.

In testa camminava Nello, lo seguivano i fratelli Zulù, Ara­bo, Gino, e il cognato Veloce. Un’ora di strada a piedi distava il Borgo, ma a vent’anni i passi sono svelti e la strada scema con ra­pidità.

Già si scorgeva la Madonnina e l’Ospedale e . . . dopo un poggio : ecco Borgotaro. Era sempre uno spettacolo da ammirare, ma Nello non lasciò agli altri il tempo di soffermarsi e da uomo pratico qual era disse: – E’ bene che ci dividiamo, arriveremo a casa uno alla volta. Per primo entrerà Zulù, quindi Arabo, Gino e in fine Veloce: io seguirò per ultimo -.

Zulù s’avviò subito distanziando gli altri. Scese per Via Ron­chi, attraversò Piazza Farnese e infilò Via Corridoni.

La via era quasi deserta. Giunse con malcelata noncuranza all’altezza del portone n. 80.

Entrò, salì velocemente i due gradini e aprì la porta di casa Molinari.

La mano di Zulù rimase bloccata sulla maniglia. Tutto po­teva aspettarsi, meno che di vedere davanti a sè due tedeschi se­duti al tavolo. . . La situazione era, a dir poco, imbarazzante. Zulù aveva il vantaggio di possedere un’arma, i tedeschi le ave­vano deposte lì vicino.

Ruppe il silenzio l’involontario responsabile di ciò che sta­va accadendo: Bergamo. Era costui parente della famiglia Moli­nari, un tipo strano, orfano in giovane età, allevato dai Molinari. Aveva, in seguito, girato alcuni paesi d’Europa; conosceva diver­se lingue, compreso il tedesco, e aveva per questo familiarizzato, durante quel periodo, con i tedeschi che presidiavano la stazione di Borgotaro.

Proprio quella sera, dopo aver incontrato i due tedeschi, aveva loro detto: – Facciamo un salto da mia zia a mangiare qualcosa, poi usciamo-. Ora, seduto al tavolo, stava invitando Zulù a sedersi. S’era appena accomodato, non senza abbandonare l’arma Zulù, quando s’udì di nuovo aprire la porta: ara Arabo.

Si ripeté così la scena precedente, con il solo mutamento che Arabo, pur sorpreso, notò Zulù seduto accanto ai tedeschi e anch’egli s’accostò al tavolo. Mamma Molinari, superato lo spavento, abbandonò un atti­mo il fornello e chiese al nuovo arrivato: – Non viene Nello? – Sì – rispose Arabo – sarà qui da un momento all’altro -. Quindi a Bergamo disse : – Dì a quei due che arriveranno altre persone -.

Nel volger di pochi minuti, infatti, arrivarono anche gli altri. Mamma Molinari scodellò le tagliatelle. Servì per primi i due tedeschi, i quali si guardarono bene dall’iniziare a mangiare. Mamma Molinari proseguì il suo giro: – Sono educati; i miei figli, di solito, appena hanno il piatto pronto non aspettano gli altri -. Ma, riempiti tutti i piatti, le forchette dei tedeschi rimase­ro inerti sul tavolo.

Nello capì: avevano paura. Prese una forchetta, l’infilò nel piatto di un tedesco, ne trasse delle tagliatelle e le ingoiò con ra­pidità. Una risata generale sciolse il ghiaccio e tosto tutti, tedeschi compresi, si diedero di buona lena a trangugiare l’appetitoso piatto. Sul tavolo stava un fiasco di quel vino che suol da noi chia­marsi « vinello » o « vinetta ».          ­

Disse Nello al padre che ancora non aveva parlato-: – Prendi un fiasco di quelli buoni che ci risolleviamo un po­co-. Papà Molinari s’alzò, contento forse di potersi muovere un poco e tornò con il fiasco. Versò da bere ai due tedeschi e disse: – Vino Buono! Bere, e si fermò alle loro spalle con il fiasco in mano, già pregustando i commenti. I tedeschi fecero finta di non capire e Bergamo ripeté l’in­vito nella loro lingua.

I due tedeschi si guardarono l’un l’altro: distolsero lo sguar­do quindi, e posarono gli occhi sui commensali. Ancora un gelido silenzio scese sulla tavolata. Cosa potevano aspettarsi quei due tedeschi da una famiglia che, dopo averli invitati, faceva trovare al tavolo anche cinque partigiani? Qual era il significato di ciò che stava accadendo? Papà Molinari stava ancora alle spalle dei tedeschi con il fia­sco In mano. – Pà – disse Nello – versa chì -. Appena n’ebbe di quel vino, vuotò d’un fiato il bicchiere. I due tedeschi lo imitarono e tra un sacco di « Javol » ripresero, con gli altri, a mangiare le ta­gliatelle.

La cena proseguì senza altri colpi di scena. S’accese una di­scussione e al Bergamo, quasi come pena per la sua leggerezza, toccò di riportare or all’uno,  or all’altro, nelle rispettive lingue, i discorsi che s’infittivano man mano che il livello di un secondo fiasco andava scemando. Solamente vi fu un poco di tensione allorché uno dei tede­schi, dopo aver mandato a quel paese il Fhürer, prese la sua ar­ma e fece l’atto di spezzarla sul ginocchio. Intervennero i Moli­nari pregandolo di desistere da un atto che avrebbe potuto provo­care gravi conseguenze e tutto tornò come prima.

Alla fine i tedeschi s’alzarono, raccattarono le armi e disse­ro: – Domani noi portare zucchero e olio per ringraziare -.Si salutarono ed ognuno andò per la sua strada, dalla parte che il destino, a volte bizzarro, aveva loro assegnato, forse da tempo. Domani sarebbero stati nemici, le armi e non le taglia­telle avrebbero prevalso. Il giorno dopo i due tedeschi non si fecero vivi. Due giorni dopo Bergamo fece il solito giro alla stazione. Parlò con qualche tedesco e seppe che i due amici di quella sera non erano più a Borgotaro . . ..

Giacomo Bernardi

Testimonianza resa da Nello Molinari (Nello)

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

Libri giornali interviste canti foto della Resistenza in Valtaro Val Ceno ANPI ALPI APC

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