Rosetta Solari AI MONTI LUNGO IL TARO – VIVACE MA NON TROPPO

Più volte mi sono sentita chiedere: << Ma come  mai, per quali ragioni sei andata ai monti con i partigiani? Che cos’era un senso  di  rivolta, d’avventura, di patriottismo?>> Le  ragioni, più o meno, che allora si potevano  attribuire agli uomini. Nel mio caso la spiegazione era più semplice ed anche più prosaica. Era una decisione che non ho preso io.

Quando i fascisti  sono venuti ad arrestarmi – nel gennaio del ’44, se  ben  ricordo – io avevo ben altre cose per la  testa. A quel tempo insegnavo alle medie  di  Borgotaro, ero iscritta  a Lingue a Venezia, stavo preparando due esami per la sezione  di febbraio e in più facevo  anche i lavori  di casa che  di  solito, che  allora non c’era. Con tutto questo avevo ben poco tempo,  e ancora meno l’inclinazione, per occuparmi delle  attività dei miei fratelli.

Ricordo che  quella notte quando piombati i militi in casa – s’aspettavano di trovare Eugenio -, mentre due  di loro mi tenevano retta dritta contro il muro in corridoio, e gli altri  che  cercavano in ogni stanza e aprivano i cassetti, e poi, più tardi in caserma, ricordo che  quello che provavo era un sentimento di rabbia. E andavo ripetendo: << Ma io insegno. Mi aspettano a scuola domani mattina >>.

Per me l’arresto era una vera tragedia. Avevo preparato due  esami. Uno, quello di Pedagogia , non avrei potuto ripeterlo più tardi. Avrei potuto ricominciare con nuove dispense, fare un nuovo corso. Come perdita di tempo, e anche economicamente, per me era un vero disastro. Il giorno dopo mi hanno portato in macchina a parma, al  Comando fascista di Santa Fiora. E l’interrogatorio di ogni giorno era press a poco lo stesso. << Dove sono i tuoi fratelli ? Ai monti con i fuori legge, no? >>.- Allora non si  chiamavano partigiani. A Santa Fiora, li chiamavano ribelli, fuorilegge, bande di banditi -. Poi seguiva la predica – I fascisti avevano loro la patente e il brevetto del patriottismo e dell’amor di patria -. << Ma non ti vergogni? Ma che tipo d’italiana sei? >>.

Poi cambiavano  tono. <<Stiamo preparando una puntata. Li fucileremo a vista i tuoi fratelli. Come puoi dormire e sentirti  responsabile? >> E cosi via da capo. Stanchi di tenermi a Santa Fiora m’hanno trasferita nelle  carceri comuni, a San Francesco. Ora qui la cosa era diversa. A  Santa Fiora sofferenze fisiche non ne  avevo subito. Dormivo su di una branda sotto due  coperte militari, due  volte mi portavano il rancio che  davano  ai  soldati, e per il resto stavo seduta a fissare il muro o guardavo dalla finestra giù nel  cortile,  e aspettavo l’interrogatorio.

Cosa m’ero aspettata di trovare a San  Francesco non lo so. Certo non quello che  trovai. Se posso parlare di una coscienza politica, è stato allora che m’è venuta. Le prigioniere erano  di  due tipi. C’erano quelle comuni e con mia  grande sorpresa, trovai che quasi tutte queste erano prostitute, e c’erano quelle che chiamavano politiche. Ed erano veramente politiche, donne che avevano lavorato, scritto, sabotato, agito , non come  me. Si capisce che tra di loro c’erano anche  le vittime della crudele miopia fascista.

Per esempio una sedicenne, appena uscita da una operazione e dall’ospedale. L’avevano arrestata per aver dato da mangiare a un fuggiasco inglese. C’era una vecchia infermiera, arrestata per aver lavorato per un dottore sospetto, anche lui a San Francesco. Coscienza politica, anche se non  si vuole, si fa in un posto come quello. L’infermiera si alzava la notte e girava in cella. Era terrorizzata dell’interrogatorio del giorno dopo: la  facevano svestire. A volte sognava e gridava << Sono una  vecchia, no per l’ amor del  Cielo, ragazzi no >>. Era lo stesso  Capitano che  a Santa Fiora interrogava me e se  ne stava seduto dietro la scrivania ( era piuttosto basso ).

Con me mi svestiva solo con gli occhi. In quel clima di allora ci voleva  ben poco per essere arrestati. Ricordo che quello che mi faceva più arrabbiare era vedere che le altre prigioniere avevano dei  diritti, loro, le prostitute e le ladre. Se condannate avrebbero espiato la loro pena e sarebbero uscite. Noi politiche invece no . Per noi bastava il sospetto, e ci arrestavano, ci  rinchiudevano e ci tenevano a disposizione. Erano i giorni della  rappresaglie quelli. Scoppiava una  bomba in piazza, cadevano alcuni militi, e prendevano ostaggi.

Venivano a San Francesco a prenderli, nella  sezione degli uomini li fucilavano in piazza Garibaldi. Ricordo che una mattina abbiamo sentito la sparatoria all’alba e, più tardi abbiamo saputo che ne avevano presi otto. Una delle politiche nel  silenzio mia  aveva guardata un po’ e poi mi aveva detto: << noi siamo  ancora  al  sicuro, almeno per ora. Fuori pericolo, ma pensaci sai se ti saltasse in mente di parlare e di tradire i tuoi fratelli. Pensaci  due  volte>>.

Ed io avevo risposto << Ma come  posso fare? Io dove sono  non lo so >>. E di scatto si  era messa ad urlare. << Ma per chi mi prendi? Per una spia? Io non voglio sapere dove  sono i tuoi fratelli? Tienitelo per tè>>. Anch’io come lei ero sempre arrabbiata e pronta a scattare.<< Ma a  me  non me ne  importa se lo vuoi sapere  o no . Io dove sono non lo so >>. S’era  calmata subito. Eravamo veramente buone amiche e s’era messa a ridere. << Ma davvero non lo sai? Dici  sul serio ?>> e aggiunge: << E sì, proprio così, così i fascisti, inutile dire la  verità. Per loro è troppo semplice >>.

C’erano anche  le  comuniste, quelle  di  Parma  vecchia. Veri tipi quelli, quest’ultime, esperte in raggiri e strategie, ci canzonavano tutte, erano in comunicazione col di  fuori, ricevevano cibo, torte, vino. Non si lasciavano intimidire da  nessuno, fascisti o guardie di prigione. Dopo il bombardamento  di  Bologna ne arrivarono ancora di più e non c’era più posto. La sua  fortezza, San Francesco, Maria Teresa l’aveva costruita con muri massicci esodi, ma posto  per tutte non c’era. Hanno aperto le porte delle celle, le hanno messe  nei corridoi. Ricordo che una era entrata  nella nostra  cella, ci aveva guardato, diceva di essere stata  privilegiata a Bologna, una persona importante.<< Io  nei  corridoi non ci  sto >>. Aveva detto.

Voleva uno dei  nostri posti, e così per scherzare Renata un equilibrista del circo equestre, aveva mostrato me col dito: << Quella là, domandalo alla professoressa, il posto >>. Le atre dormivano sulle  brande, io sul  materasso sotto la finestra all’angolo. La donna si  era fermata ai miei piedi e ci aveva squadrato. Dev’essere una tinta universale quella della prigione. Le facce  delle  bolognesi si  assomigliano alle  nostre. Una tinta fra il bigio e il giallo sporco. Ma la donna aveva cambiato idea, il mio posto non la interessava più. Andò a dormire nel  corridoio. Stavamo sedute sul letto tutto il giorno.

Faceva un freddo terribile. Quando venivano a prendermi da Santa Fiora, Renata si metteva nel mio letto per tenerlo caldo ma io, in compenso, dovevo chiedere una sigaretta ad un milite, o in qualche  modo trovargliela, infilarla dentro l’orlo del cappotto e portargliela. Non stavo bene ed avevo chiesto di vedere un dottore e di fare il bagno. Ma, invece del bagno, così, all’improvviso il giorno dopo la  mia  richiesta, m’anno messa fuori. Così senza complimenti. << Solari, porta tutto. Sbrigati. Aspettano di  sotto. Esci >>.Prigioniera 2023, libera. Senza prolungati addii, senza processo, fine  della condanna. Non ero convinta.

A Borgotaro sono arrivata col treno, la sera. C’era il controllo in stazione.Al cancello d’ uscita due militari facevano aprire  le valige e uno mi ha  chiesto  cosa ci fosse nella mia. << Dei pidocchi, ho risposto, tutti i pidocchi che ho preso nelle vostre carceri >>. L’altro gli ha detto. << Lasciala passare, stupido >>.Nel viale verso casa m’ero accorta d’essere seguita e sotto un fanale mi fermo.

È un ragazzo. << E tu cosa vuoi? >> gli  ho chiesto. << Non mi riconosce signorina? >>. Era un mio scolaro. Voleva portarmi la  valigia, e camminando verso casa, mi raccontò che i miei  allievi erano divisi in due: quelli che pensavano fossi una traditrice e mi volevano  fucilata, egli altri. E lui era fra  gli altri, per loro  ero una  vera eroina. Quanto  tempo sono rimasta in casa? Una, due  settimane? Il tempo passato, nel ricordo, si fa elastico, s’allunga, s’accorcia, io non so.

La  casa era sempre sorvegliata. Una sera arriva qualcuno a dirmi che devo  andarmene, uscire e attraversare il Taro, quella sera stessa, recarmi all’Appennino dove mi aspettava una macchina che m’avrebbe portato  da loro. E così  è stato. Ed eccomi a Tomba. Eccomi arrivata fra le  bande dei fuorilegge, quei banditi che  uccidono e non seppelliscono i morti, come m’avevano detto  a Santa Fiora.

Vedo Eugenio che mi chiede se i fascisti m’hanno fatto del male; sono alloggiata in una  famiglia di  sfollati  di  Parma e respiro  aria libera. Alcuni di  questi banditi vengono la sera ad ascoltare la  radio trasmissione. Vestono alla buona, in un miscuglio civile – militare. Uno porta un berretto di astrakan nero, con sopra ricamata una parola << Libertà >>. Ai miei occhi, dopo il grigio e le  facce di  San Francesco, mi sembravano tutti belli, questi banditi.

Ascoltiamo Radio Londra. Io non ci  capisco niente. Faccio attenzione. Degli enigmi: << Un pesco  è in fiore >>. << Giovanni ama Maria >>. << Ritorneremo >>. << Ciao Mariù >>. << I Promessi  Sposi >>. << Il cancello  è aperto >>. Ad un tratto smettono  di fare attenzione. Le frasi continuano ma loro se ne vanno.

E così arriva la Pasqua, e una di  quelle puntate di cui mi parlavamo a Santa Fiora. Ma invece di  sorprendere i ribelli e di  fucilarli a prima vista, sono i fascisti che hanno la sorpresa. Sono loro ad essere attaccati e fanno dietro front. Ci sono ancora delle chiazze di neve, ma le scarpate sono nude e scoperte. Io e un’altra curiosa del paese seguiamo l’azione e li vediamo letteralmente darsela a gambe. Ma è una gioia  che  dura poco; una vittoria che non viene  festeggiata.

Si  seppelliscono le armi che non servono, e si parte. Io pure devo andarmene e mi metto in marcia col gruppo. Un ragazzo mi offre un paio di calzoni militari, vado  dietro una siepe, tolgo la sottana e metto i calzoni. Eugenio mi consegna un fucile: <<  Ma non farti delle  idee, mi dice. È scarico. Lo porti tu perché non possiamo lasciarlo in mano al fascista, ma soltanto per questo >>.

Avevamo un prigioniero fascista con noi. Quando le cose sono cambiate torniamo  a Tomba. Ora io sono alloggiata da un’altra famiglia, ma per il resto non c’è niente di cambiato. I ragazzi partono a fare i loro colpi, fanno la guardia, ascoltano Radio Londra. Ma l’azione di Pasqua m’aveva dato il gusto della lotta. Capivo che con mio fratello non c’era niente da fare. Lui mi avrebbe  protetta, m’avrebbe procurato  da mangiare, seduta vicino  al fuoco avrei potuto fare  la  calza se volevo, ma fare parte del gruppo, essere una di loro?

Niente da  fare. Le scelte erano due: potevo restare con dai contadini portare la sottana, aiutarli a piantar patate,  durante un rastrellamento scappare e nascondermi, o potevo unirmi a un gruppo  e fare quello che  facevamo loro, i patrioti. Ora non mi restava che tentare l’altro mio fratello, Jack, lui era giù verso Baselica. Aspetto che  arrivi la staffetta, chiedo, se non c’è nessuna difficoltà e parto con la staffetta. Arrivo a Baselica e capisco  subito il mio sbaglio .Mi mettono in casa di mia zia. Peggio di prima. Io sono a Baselica, loro su ai Linari, a chilometri  di  distanza.

Più lontani che mai. A Tomba ero in mezzo  a loro, li vedevo  arrivare, li vedevo partire. La casa della zia è posto  di  collegamento, vedo qualche  staffetta e basta. Però ci  sono dei ragazzi che non la pensano come i miei fratelli. Ragazzi  che  erano a scuola  con me o ragazzi  del paese che mi conoscono e che a volte mi chiedono: << Ci verresti con noi a fare un colpo?>><< Eh figurati se ci verrei >>. Ma non ci  credo, parlano così, così per dire, scherzano. Invece m’accorgo che alcuni di loro preparano qualcosa e  nei piani ci sono anch’io, stanno raccogliendo informazioni.

Vogliono entrare in stazione e prelevare dei militi, ragazzi che conoscono, amici, come dicono: << Imbecilli, che non hanno una idea chiara  nella testa >>. Mio fratello e Dragotte non ne sanno niente. Il giorno dell’azione partono con  due muli – Dragotte pensa siano partiti per rifornimenti di viveri – passano a prendermi  a Baselica, mi danno una rivoltella, mi fanno vedere come  si  adopera.

E facciamo il colpo. Com’era stabilito, Punteria, Renzo, Tuono si mettono  a far guardia ai binari – la pattuglia non sappiamo dove sia – io e Ailù prima dell’arrivo del primo treno Parma – la Spezia entriamo in sala d’aspetto. E tutto fila  a meraviglia. Prendiamo tre militi un mitra, rivoltelle, moschetti, munizioni, bombe  a mano.

I militi li facciamo svestire, mettersi  inginocchio per dire un’ave di  ringraziamento per la loro liberazione, e rispediamo in paese in mutande. Ancora  ubriachi di  gioia e successo ci  avviamo  ai Linari dove ci attende una buona lavata di  capo da  Dragotte: << Imbecilli, che cosa credete di fare? Sapete che cosa succede adesso? >>. Ma io ascolto a metà. Ce l’ho fatta, e penso: ragazzi miei, io ai Linari ci sono, e ci sto, se vi piace o no.

E infatti nessuno solleva nessuna difficoltà. La  famiglia del contadino ha due  ragazze, mi fanno posto tra di loro nel letto. Siamo un po’ pigiate, ma Emma e Maria gentilmente non si lamentano. Gli artigiani hanno costruito un forno di mattoni, fanno il pane ogni giorno, mi hanno consegnato la mia pagnotta, la mia porzione del rancio, se c’è vino, il mio bicchiere se lo voglio.

Sono una di loro. Se Ailù e Punteria o uno di loro parte per prelevare un fascista, per rifornimenti o per una azione mi chiedono: << e tu vieni?>>. << Figurati se vengo>>. Con tutto questo io capisco bene il disagio, l’imbarazzo che causa la  mia presenza tra di loro.

Una ragazza. Non possono agire, esprimersi, come farebbero se non  ci  fossi. E lo capisco. È per i miei fratelli era  ancora peggio poi. La  vita ai monti è abbastanza difficile senza il grattacapo di una sorella fra i piedi. Chissà quante volte mentalmente mi hanno  augurato in un convento di  suore. C’era anche la mia  reputazione, il buon nome. Trentenni fa si parlava ancora di queste cose.

Una  ragazza  per bene non agiva così, non mandava in aria le convenzioni sociali. Tutte queste cose mi passavano per la testa, ma la mia decisione non era stata un impulso passeggero, non avrei indietreggiato. Forse se i ragazzi non fossero stati  quelli del paese, la cosa sarebbe stata diversa. Stranieri, non si sarebbero mostrati subito gentili.

Non avrebbero avuto istintivamente tutti quei riguardi necessari in una situazione imbarazzante per tutti. Io parlo del principio del movimento, quando  eravamo ancora pochi e molto uniti. Per la maggior  parte il gruppo Linari, era formato di  borgotaresi, un gruppo a modo suo unico. E quale  gruppo avrebbe potuto vantarsi un cuoco, Ailù, che sarebbe diventato una leggenda.?

La nostra migliore staffetta, Max, aveva un occhio solo. Ce lo fece notare lui, un giorno, dopo aver consegnato in paese un prigioniero ammalato. Avvicinandosi al paese l’aveva  bendato e assieme erano scivolati giù per sentieri e scorciatoie.<< pensa, disse al ritorno, due  uomini e un occhio solo fra due >>.

Avevamo anche un partigiano che camminava sulle stampelle. Ai monti non capitavano tutti i giorni partigiani con una gamba sola. Quando  si era presentato, Dragotte però aveva protestato. << Ma scusa, gli aveva detto – per noi due  gambe non  sono solo necessarie, ma indispensabili >>.

Ma Leo  era rimasto. E ora  avevano anche una  ragazza. Si era il principio e avevano  quel senso di unità che inevitabilmente doveva scomparire  a mano a mano   che il movimento  s’ingrandiva e si accettava ogni nuovo venuto. Allora ci  si  sentiva  responsabili  l’uno dell’altro. C’era un senso  di fratellanza.

Lo si sentiva nella colonna in marcia, l’uno dietro l’altro, in fila, in silenzio su  sentieri che erano quelli dei nostri monti in vista di tetti che  erano  delle nostre case. Si  sentivano cantando canti  di  guerra di Alpini, cori  che  tutti conoscevano e che  sapevano cantare così bene, sotto la  bacchetta del maestro Dragotte. All’imbrunire mentre cantavano, alle nostre spalle, striscioni  di  colore rosso giallo scivolavano lungo il cielo dietro la sagoma del  Santa Donna, del Molinatico.

Nel mio diario  leggo una data, 16 luglio: ieri i tedeschi sono entrati  in Borgotaro. Cosa voleva dire questo? Vittime, rappresaglie in paese. Per noi, rastrellamento, e morti. A Linari  ricordo la  morte di Mario. Per noi non era solo un partigiano che era caduto, era uno di noi,  di famiglia. Come  fare, come  mandare una  staffetta giù in paese, come  fare a farlo sapere alla madre? Ci si sentiva colpevoli, responsabili, colpevoli di  vivere, ora che lui non c’era più. E quando mamma arriva ce ne stiamo attorno, e lei sta vicino al morto in silenzio e noi ci vergogniamo di  essere vivi, noi.

Ricordo  che i ragazzi avevano raccolto un intero prato di  fiori. Ai Linari i fiori  erano piccoli, microscopici e cene volevano delle  bracciate per vedere un po’ di colore attorno alla salma. Molto è stato e verrà scritto sul partigiano: resoconti veri, espressioni liriche, elaborazioni mentali, più o meno  esatte. Ma io penso che per noi, il senso di fratellanza che  abbiamo provato allora, il ricordo, resta  netto e duro come il cristallo nella nostra memoria.

Nessun ricordo  di esperienza che seguono, belle o brutte, può cambiarlo e smuoverlo di un millimetro, cancellarne la prefazione. Ma se così all’improvviso mi sono trovata a far parte del gruppo, io non m’illudevo però con questo che ero anch’io d’un tratto diventata un soldato. Certo che  nei  sei mesi che seguirono avrei imparato molte cose.

Avrei imparato  a distinguere  lo Sten dal Mitra, la  beretta dalla maser, in una sparatoria a distinguere il suono della 20 mm da quello della bazooka – il sordo tac – pun del moschetto di Max poi, lo avrei riconosciuto da qualsiasi parte. Sotto i ponti, dai sabotatori avrei sentito  quanti  chili di  esplosivo si metteva  sotto una pila, da Richetto avrei imparato come  si  fanno le  bombe  Ballerine.Tutto questo una ragazza, o anche  un bambino, avrebbe potuto imparare in una simile situazione.

Ma soldato io ? Sapevo  di non esserlo e  non avevo ambizioni di  diventarlo. I veri soldati però avevo imparato a distinguerli, quelli che non solo avevano fatto il militare, ma  anche le loro brave campagne. Naturalmente fra noi erano  quasi tutti Alpini come Eugenio, Dragotte, Corrado, Ailù, Libero. Loro si tenevano calmi nell’azione, e io senza esperienza mi tenevo vicino  a loro perché non andavano  a caso.

Sapevano quello che facevano. E il più delle volte erano in prima linea, e c’ero anch’io, non  era per fare la coraggiosa, e per provare a me stessa che potevo, ma per prudenza e anche perché fra loro mi sentivo meglio. Così quando  siamo scesi per l’occupazione di Borgotaro, io di pian i di battaglia, di strategia militare non ne  sapevo  per niente, e mi sono messa vicino  a Ailù.

Conosceva ogni metro del terreno e sapeva quante volte saremmo stati allo scoperto, in linea diretta con le  finestre del comando tedesco. E infatti ancora prima di  entrare nella centrale Ailù indica il poggio alla nostra destra e mi dice:<< Aspettiamo che la mitraglia sia a posto >>. E poco  dopo: << Vedi  quel muro, quando  Baffo è a posto e ci copre, di corsa fino là >>. E più tardi sotto Palazzo Ostacchini, sono vicina  a Libero.

I tedeschi si  sino arresi, hanno sventolato la  bandiera bianca, ma quando ricominciano  a sparare, a gettare bombe  dalla finestra, un soldato sa queste cose possono succedere, se l’aspetta. Così a Varese con Richetto. Un attacco a una  caserma di militi. Ai miei  occhi è una vera battaglia di  guerra.

Ma come entreremo in paese, come faranno i sabotatori a far saltare una  caserma di cemento  armato, ma quante  ore  ci  vorranno? È un gruppo che non conosco e me  ne sto vicina  a Richetto e mi sento  sicura. Attraversiamo le strade, corriamo attraverso i cortili, vicoli, scavalchiamo muriccioli, e io faccio  come fa lui, mi nascondo, corro, mi getto giù, mi rialzo.

Richetto sa quello che  fa. Per questo quando  mi ha chiesto cosa vuol dire fare la partigiana, non sapevo  cosa rispondere. avrei potuto dire, seguire in linea con gli altri. Ma questo  era vero per me. Io di partigiane non ne  ho  conosciute, neppure una.

Ho sentito di loro: so che  hanno  combattuto, alcune sono cadute, altre sono state ferite. Io posso solo dire di me, di  quello che ho provato, imparato, sentito. Io parlo di me, e solo di me. Perché voglio finalmente  ammettere che il parafrenalia di  guerra io l’odiavo tutto quanto, odiavo i moschetti e fucili, il riflesso blu sull’acciaio della rivoltella le lungo la  canna del mitra, il suono del mortaio e della mitragliatrice, così come  odiavo le  divise e gli stivaloni neri, e la disciplina e la prepotenza fascista.

Portavo la rivoltella, ma il fucile  non lo tenevo. Se mi faceva bisogno ne prendevo uno a caso e al  ritorno lo lasciavo cascare come  mi bruciasse le palme. Contro il fascista il mio odio era piuttosto  astratto, evaporava facilmente e all’improvviso e io ammetto che l’abitudine alla  vista dei morti, non ce l’ho fatta mai. Contro il tedesco provavo un’avversione profonda, avversione per la sua  brutta lingua che  avevo dovuto imparare e che mi sarei affrettata a dimenticare il più presto possibile; avversione per il suo atteggiamento di razza superiore e il suo senso  della  disciplina.

Ma appena il tedesco  era nostro prigioniero, il fascista  disarmato, l’odio e l’avversione, come  la neve  al  sole, scompariva. Un’ammissione  questa che non potevo fare allora. Un’ammissione che mi avrebbe subito squalificato come partigiano. Nella mia esperienza ai monti, il nemico aveva la  brutta  abitudine di farsi umano, di farmi vedere che  assomigliava a me.

Prepotente s’imprimeva nella mia  coscienza, e una volta morto, non mi lasciava più. Si allineavano questi morti in colonna: il giovane della X che prima di morire ci aveva chiesto: << Fatelo sapere a mia  madre>>,  gli otto di  Varese stesi al sole lungo la scarpata al passo del Centocroci nell’erba alta che  copre a metà faccia, il sangue, i piedi  senza scarpe, la suola rivolta al cielo.

Io sto  a fissare un piede, un calzino con un grosso buco sul calcagno, un altro piede vicino a lui. È quello che poche ore prima mi aveva detto. << Io ho la fidanzata >>. Meravigliato, lui che con questo talismano che si teneva stretto a sé, dovesse morire.

Nella mia memoria conservo  ancora il ricordo  del primo uomo che  ho visto morire a Tomba. Un vecchio, presunto informatore di  Santa Fiora, che girava per i monti con la sua  cassetta di  bottoni e filo da cucire. Anche lui non ci credeva che potesse morire, e l’ultima espressione della sua  faccia è stata di  sorpresa. Io lo vedo ancora gettare le mani in aria. Ha  le dita delle mani così corte che sembrano amputate.

Io tengo un libro di un morto fascista – il volume di Salvaneschi – che un partigiano  mi ha regalato  con la  dedica. << Dono volontario di un nostro avversario fascista >>. Ho anche un foglio a righe di  quaderno  di  scuola dove un fascista del << Battaglione  della Morte >> Ha trascritto  parte di una preghiera: << Ma tu ci  conosci immutabile, madre. Abbi pietà di noi. Proteggi i superstiti. Proteggi gli innocenti fra di  noi >>.

Io nella lotta l’ossigeno per respirare non ce ’ho mai trovato. Col passare del tempo si faceva sempre più difficile  continuare. Era una debolezza psichica mia, o di una donna? Hanno provato la stessa cosa le atre partigiane? Non ne  ho conosciute, non ho potuto chiederlo. Forse per questo  ammiravo  i  veri soldati.

Perché loro appartenevano a un’altra classe. Erano  diversi da me, loro. Per Libero, per Corrado,  e per tutti gli altri soldati era un lavoro che  doveva essere fatto giorno dopo giorno senza  tante capriole e salti intellettuali. Era  il dovere. Si  chiamava appunto  Resistenza. Invece per me, i prigionieri di Ermelato mi riportavano a Santa Fiora e San Francesco e mi ricordavano che anch’io avevo avuto freddo e fame. Quelle loro facce mi ricordavano quelle  cinque  donne in cella sedute sulle  brande che io non potevo guardare il giorno che  sono entrata a San Francesco.

E allora dimenticavo che il tedesco era il nemico e andavo in giro dai  contadini a domandar calze di lana e cibo e i contadini, si capisce, mi guardavano di malocchio. Ricordo che a Ermelato mi venne una bruttissima  idea. Era un periodo  di  sosta, e non c’era molto da fare. Un giorno  chiesi  a Dragotte: << Perché non facciamo fare la  barba ai prigionieri? Li puliamo un po’ su?

Avevamo tre o quattro barbieri nel gruppo. Altissime proteste da parte di  Dragotte e dei  barbieri. Ma poi acconsentono e due o tre barbieri si mettono  a fare la  barba ai prigionieri. Un’idea balorda. Invece di  essere nascosti, ora i pidocchi, senz’essere diminuiti di numero, se ne stavano in piena libertà attraverso quelle povere facce ora scoperte  e paonazze per il freddo.

Però i miei ricordi di  quei  giorni non sono tutti brutti. Era una vita  avventurosa e mi piaceva. Mi piacevano le lunghe marce  di  notte lungo le  gobbe dei monti, le siepi spinose, i sentieri asciutti. Ricordo  che avevo imparato a dormire camminando e se mi svegliavo di soprassalto inciampando nel  sentiero, Dragotte mi prendeva il braccio e tenendomi  di  gomito, mi aiutava  a proseguire. Durante la sosta gli uomini si lasciavano cadere per riposarsi e qualcuno cominciava a cantare e gli altri a poco a poco si univano a lui, ed era sempre un coro di Alpini.

Oppure i nostri istrioni, Saga e Renzo, si mettevano in posa e ci facevano la rappresentazione: un dialogo Hitler – Mussolini. Allucinante ascoltarli. Avevano colto la voce, il gesto alla perfezione, non una nota sbagliata. Erano Hitler e Mussolini, due  cani  arrabbiati che si  scambiavano suoni  gutturali senza pronunciare neanche per sbaglio una sola parola di tedesco.

A me piaceva la partenza per un’azione, l’attesa, il silenzio cospiratorio attorno a un ponte, un casello, o una  caserma, a volte in vista  del ponte ferroviario, alto  e sottile con la sua bella curva leggera che  si stagliava contro il cielo e che  ai miei occhi sembrava un miracolo d’arte e d’ingegneria. Mi piacevano le situazioni assurde che mi capitavano  a volte. Un ballo in campagna in un’osteria, una  ragazza m’abbraccia all’improvviso, mi fa fare tre giri tra le coppie e s’accorge  del suo sbaglio.

La discesa in pianura e il nostro incontro sulla Via Emilia con la VIII Armata americana, quel loro  buffo mezzo  di trasporto, la jeep, che sembra un brutto uccello sgraziato che fila su  quattro ruote. E i primi G.I. che ridono di  gusto di me, del mio fucile, della  mia camicia militare e uno che  tocca la  canna del mio fucile e chiede? << Lo sai  adoperare quel giocatolo? Vuoi le sigarette?>>.E, orgogliosa di capirlo, rispondo:<< Io non fumo >>

E scoppiano  a ridere ancora più forte. << La signorina  non fuma sigarette >>.E uno mi mette qualcosa in mano: credo sia  una stecca di  cioccolato, e un sigaro, un sigaro Phillips. Vicino a Castel Guelfo dobbiamo cercare due informatori e un grosso baule  di armi e munizioni in un enorme casolare di sfollati napoletani. Troviamo il baule ma, al posto delle armi, troviamo che è pieno zeppo di mutandine di seta e di reggiseno. Mentre altri partigiani cercano in altre stanze, tengo donne e bambini addossati al muro con un espressione feroce, la rivoltella puntata.

Un piccolo di  quattro o cinque anni, esce dal  gruppo per vedere meglio, il pollice in bocca, la camicia che gli arriva appena all’ombelico. Si avvicina, mi studia centimetro per centimetro dagli scarponi polverosi  alla visiera  del berretto – la rivoltella non gli interessa -, toglie il dito di bocca e mi chiede: << Perché porti i calzoni? Ma non sei una  ragazza tu?>>. Abbasso la rivoltella e rido  con le  donne.

Fra i ragazzi  borgotaresi almeno una cosa avevo imparato: a non prendermi  sul serio. Sarebbe stato  difficile prendersi sul serio  con loro. Cosa vuol dire essere una partigiana? Vuol dire fare parte di un gruppo e condividere il rancio, l’idea e il senso della  fratellanza. Vuol dire dormire con le scarpe ai piedi, molto spesso dormire sulla  paglia o il fieno, lavarsi in un stambugio  con l’odore brutto delle capre e delle pecore, mettersi in linea per ricevere il mestolo di rancio e la pagnotta.

Vuol dire essere convinti che il mondo è messo insieme malamente e sentirsi forti a sufficienza, assieme, uniti, per scombussolarlo un poco e resistere ai prepotenti. Vuol  dire credere che un ordine nuovo sia possibile e ciò vuol dire avere illusioni e delusioni. Fare la partigiana vuol dire tramare  di paura durante un rastrellamento, ascoltare il suono  della  notte, delle foglie, l’abbaiare di un cane e fissare il buio che  all’improvviso si è popolato  di fantasmi e di minacce; seguire un sentiero che può essere quello sbagliato, e all’ultimo sentirsi nuda, e scoperta sul biancore della neve .

E vuol dire anche cercare di  seppellire i morti. E poi per una  ragazza farsi partigiana, vuol dire guardare in faccia la questione della moralità e scoprire che risposte belle  fatte, pronte, non ce  ne sono, quelle convenzionali, le  regole di  condotta imparate in chiesa o dalla mamma, non servono, possono essere solo divise e di  esempio, ma il senso morale una ragazza se lo fa da sè.

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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