Gnecchi Pietro classe 1925 _
Partigiano “Bedonia” e “Garibaldi” della 32“ Brigata Garibaldi Monte Penna
Avventura partigiana dal 2 Novembre 1943 al 25 Aprile 1945 Il giovane Pietro abitava con la famiglia nella frazione di Bossi di Bedonia dove il padre prima dipartire per il servizio militare esercitava la dura professione di carbonaio.Le condizioni di vita non erano delle più felici, Pietro era l’unico grande aiuto alla famiglia.
La svolta della sua vita stava per arrivare. La cartolina di chiamata alle armi giunse anche lassù in quella piccola frazione e, come un fulmine a ciel sereno, sconvolse la vita del giovane Pietro.. Il suo spirito ribelle prese ii sopravvento e la decisione di non presentarsi fu immediata. I carabinieri che avevano il compito di far rispettare la legge chiesero di lui, ma questi si era già nascosto nei boschi sopra la casa per rientrare alla sera a dormire. Un altro giovane Bedoniese divenne in quei giorni compagno di sventura di Pietro. Si chiamava Gazzoli ed ed abitava nel capoluogo.
I carabinieri non abbandonarono le ricerche e varie volte salirono alla casa degli Gnecchi, ma, visto il risultato sempre negativo, minacciarono la madre di arresto, essendo il padre militare ed in quel periodo prigioniero in Africa. Pietro osservava tutto dal suo rifugio nel bosco e da quel giorno non torno più a casa alla sera nemmeno per dormire. Bisognava trovare un espediente che giustificasse la sua assenza e facesse smettere le visite dei carabinieri. Fu proprio lui ad escogitarlo. Incarico un suo amico, tale Lagazi Camillo che era in partenza per Bologna, di spedire a suo nome una cartolina alla madre facendo cosi risultare che egli si trovava in quella città emiliana. Questo servì per convalidare le risposte date continuamente dalla madre alle forze dell’ordine ed ai fascisti che mal digerivano quelle scuse.
Dopo 1’otto Settembre tutta la zona di Bedonia venne invasa da tantissimi sbandati che, dalla Liguria (in quei mesi sotto stretto controllo dei Tedeschi) cercavano scampo sulle alte cime dell’Appennino. A casa Gnecchi giunse un giorno un gruppo di alpini per avere abiti civili anche vecchi al fine di potersi mimetizzare fra la popolazione lasciando in cambio il cappello, la mantellina e tutta la divisa. Gli antifascisti Bedoniesi avevano in Cosimo Caramatti il loro esponente di spicco. Molti si rivolsero a lui ed anche Pietro fu fra duelli che lo contattarono. ll Caramatti consigliò al giovane di salire alle grotte di Setterone sotto il monte Penna dove avrebbe trovato un groppo di alpini che li si erano nascosti. Con una lettera a loro indirizzata si incammino verso quel remoto nascondiglio. La marcia durò diverse ore e per proteggersi dal freddo pungente egli indosso proprio una mantellina lasciata dagli alpini. Dopo aver superato diverse difficoltà dovute alla neve alta. Pietro vide in lontananza una debole luce che filtrava dalla piccola finestra della baracca che gli sbandati avevano costruito in quel posto impervio ma sicuro. Si avvicino con circospezione, ma un alt deciso lo blocco a meta del sentiero, era la sentinella di guardia al gruppo. Alto la! Parola d’ordine”. A queste parole Pietro alzo le mani e deciso rispose: “Sono io. sono io. Cerco gli alpini”. nella speranza di essere riconosciuto da coloro che pochi gliomi prima avevano sostato a casa sua. Segui un breve colloquio ed egli ribadì che voleva unirsi a loro e che non era armato.
Appena entrato nella baracca mostro la lettera di Cosimo ed un alpino dopo averla letta lo squadro e gli disse: “Ma sei ancora un ragazzo! Cosa vuoi fare senza armi e senza niente?”. Anche gli alpini erano senza difese. Avevano, chissà da quale strana provenienza, una vecchia scimitarra. La diedero a Pietro dicendogli quasi per scherzo: “Con questa potrai almeno tagliare qualche testa!” in quei giorni il comandante del gruppo era Fermo Ognibene “Alberto”, antifascista di origini Modenesi che era stato inviato in alta Valceno dal P.C.I per organizzare la lotta armata. Dopo alcune settimane arrivo lassù un civile, ex detenuto politico. Era Alceste Bertoli, noto antifascista di Parma che aveva accompagnato nel il gruppo un altro fuggiasco proveniente dalla città che si faceva chiamare “Facio”. Il suo nome da civile era Dante Castellucci e raccontava di essere stato a contatto e di avere operato in pianura assieme ai fratelli Cervi che nella bassa Reggiana avevano compiuto diverse azioni di sabotaggio. ll gruppo si ingrandiva grazie ai nuovi arrivi che venivano sistematicamente messi sotto osservazione per evitare l’infiltrarsi di spie. Anche “Facio” dovette sottostare a questa regola e fu proprio “Bedonia” a dover svolgere questo compito.
La situazione non era tranquilla, senza cibo, con pochissime armi, la possibilità di difesa in caso di attacco era pressoché nulla. Bisognava decidere di compiere azioni atte al recupero di armi e cibo. Tutto il gruppo scelse di spostarsi verso Albareto e la Valdena attraverso il passo del Bratello. Dopo una lunga marcia, arrivati nella valle, i ribelli sostarono in una baracca fra i boschi dove vennero contattati da elementi antifascisti locali i quali li informarono che a Guinadi vi era un capostazione collaboratore dei Tedeschi e che poteva diventare il loro obbiettivo. ln quella località vi era anche un forte presidio di carabinieri sicuramente ben fornito di armi e munizioni. Era la sera del 12 Marzo 1944 quando il gruppo arrivo in vista della stazione ferroviaria e della caserma. Il ferroviere era solo: due alpini lo immobilizzarono lo condussero fuori e lo fucilarono. Un altro gruppo assaltò la caserma trovando pochissima resistenza. l militari si arresero tutti e “Bedonia” disarmo uno di loro prendendogli la rivoltella che conservo sino alla fine del conflitto. Il bottino consistette in armi,munizioni, cibo e vestiario che venne portato nella base provvisoria di Valdena. La formazione si era data una struttura ed un nome era il Distaccamento Picelli con a capo »” Alberto e come vice “Facio”. Questo distaccamento dipendeva dalla Brigata Garibaldi Parma e che sarebbe diventata dopo alcuni mesi la famosa 12 Garibaldi. .
Pochi giorni prima il gruppo era stato protagonista di un altro fatto d‘armi, aveva assaltato al passo del Bratello la postazione dei militi fascisti rei di angherie verso la gente del posto o chi di li transitava. Il presidio fu annientato, i militi fucilati e la casermetta incendiata. Era il cinque di Marzo del ’44. Gli spostamenti erano continui ed in alcune circostanze il gruppo si divideva in due parti. Fu proprio durante una di questa azioni che il gruppo composto da “Alberto” e da diversi altri venne sorpreso presso Succisa di Pontremoli nella marcia di trasferimento verso la Valparma, Vi fu uno scontro dove i partigiani subirono pesanti perdite fra le quali il comandante “A1berto” colpito da una raffica di mitragliatrice mentre proteggeva lo sganciamento dei suoi uomini. Era la sera del 15 Marzo 1944.
Il gruppo del comandante “Alberto” si sgancio e si disperse dopo la battaglia di Succisa e per questo non giunse mai all’appuntamento. L’ordine era di riunirsi al Lago Santo Parmense. I1 gruppo di “Facio” partì alcune ore prima e giunse alla meta all’imbrunire del giorno 16 di Marzo 1944 dopo aver sostato nel paese di Bosco di Corniglio per riposarsi e rifocillarsi. La neve era altissima e l’ultima parte si rivelo molto impegnativa per il gruppo dei nove partigiani rimasti. Erano partiti in dieci, uno si perse durante il percorso e non raggiunse più gli altri. Nel paese di Bosco avevano trovato ospitalità ed aiuto, ma occhi indiscreti avevano notato quel gruppo di forestieri armati ed aveva ben presto avvisato chi di dovere. “Facio” ed i suoi uomini si sistemarono nel rifugio e si organizzarono in attesa dei compagni. Il giorno seguente (17 Marzo)passo tranquillo, ma tutti stavano con occhi ed orecchie tese osservando il sentiero che saliva e le alture che avevano alle spalle. La mattina del 18 trascorse senza sorprese, ma, dopo alcune ore, verso le 15,30 o le16, il sardo Casula uscendo dalla porta sul fianco del rifugio scorse nel bosco di faggi la divisa di un milite fascista e rientrò annunciando a tutti la brutta notizia. Il nemico aveva circondato tutto il rifugio ed un buon numero si era appostato dalla parte che sale da basso. I cacciatori erano già appostati e i partigiani erano diventati selvaggina intrappolata fra quelle quattro mura. Una eventuale fuga era impossibile perché alle spalle degli assediati vi erano le alte cime del Marmagna e dell’Orsaro coperte da uno strato di neve altissimo. Il rapporto numerico e di armamenti era decisamente favorevole agli assalitori che erano circa ottanta, mentre dentro il rifugio erano solo nove comandati da “Facio”. I suoi amici erano: Castellucci Dante, Giannello Luciano, Casula Luigi, Giuffredi Giorgio, Veroni Lino, Marini Giuseppe, Zuccarelli Piero, Mori Terenzio.
l nazifascisti consapevoli della loro superiorità intimarono diverse volte la resa, ma la risposta fu sempre negativa, accompagnata da colpi di moschetto, sparati con precisione che causarono la morte di alcuni di loro. Dopo diverse ore di combattimento i Nazifascisti si ritirarono. I1 rifugio era diventato poco più di un ammasso di ruderi dove i nove restavano asserragliati. ll combattimento duro fino al pomeriggio del 19 Marzo, giorno di S. Giuseppe che venne ringraziato per scampato pericolo da Luciano. Erano passate circa ventitré ore dai primi colpi sparati da ambo le parti, i partigiani malconci, sfiniti e feriti dalle schegge delle bombe a mano erano, pero, tutti vivi! La preoccupazione di un altro attacco indusse i partigiani ad abbandonare il rifugio. Tutto il gruppo malconcio e stremato si diresse verso il monte Orsaro dove trovo riparo in una piccola capanna di pastori per poi proseguire verso l’abitato di Pracchiola. Qualcuno suggeri di dirigersi verso S. Stefano Magra dove uno di loro, lo Zuccarelli, abitava e li trovare un poco di conforto e di riposo.
Dopo la morte di “Alberto” ed i fatti del Lago Santo, il gruppo Picelli rimase nell‘alto Pontremolese compiendo varie azioni di disturbo contro le forze nazifasciste. l mesi che seguirono videro le formazioni partigiane rinforzate dall’arrivo di molti giovani, tanto da indurre i comandanti a formate nuovi distaccamenti. “Bedonia” venne a sapere che nella zona del suo paese si stava formando una nuova brigata che prenderà il nome di 32″ Garibaldi Monte Penna e disse a “Facio” che era sua intenzione ritornare verso quella zona. Questo dispiacque al comandante che non poté fermare il suo vecchio compagno di lotte, gli chiese soltanto se era armato. “Bedonia” estrasse dalla tasca del suo giaccone alcune bombe a mano recuperate durante la battaglia del lago e ricevette da “Facio” una rivoltella. Questi rassicurato gli disse che era dispiaciuto, ma se questa era la sua scelta nulla lo avrebbe trattenuto. Aggiunse anche che se fosse ritornato sarebbe sempre stato ben accolto. Questa fu l’ultima volta che i due si videro. Dopo alcuni mesi “Facio” troverà la morte per mano di altri partigiani che mal sopportavano il carisma che quel comandante (dipendente dal C.L..N di Parma)emanava e che tanti partigiani avevano seguito con entusiasmo.
Quando “Bedonia” arrivo al suo paese incontro il comandante “Bi11″ (Alfredo Moglia) e altri comandanti locali che furono ben lieti di inquadrarlo nella 32” brigata ed esattamente nel distaccamento “Kleps” (Bello Giacomo) di cui diverrà vicecomandante. Assieme al distaccamento il partigiano “Bedonia” (che aveva cambiato il nome di battaglia con quello di “Garibaldi”) partecipò a numerosi fatti d’arme contro le forze nemiche, fra i tanti, quello della Bertorella presso Borgotaro.
Fu anche protagonista assieme ad un suo amico, con il quale era in perlustrazione, del fermo di una camionetta tedesca e dell’arresto del conducente. I rastrellamenti di Agosto ’44 e quello di Gennaio 45 obbligarono quasi tutti i partigiani ad occultarsi. “Garibaldi” passo questi duri momenti assieme ad Alessandrini, “Sandro” e grazie alla loro conoscenza dei luoghi sfuggirono alle molte puntate nemiche. “Kleps” e tutto il distaccamento con “Garibaldi” come vice scesero verso il piano dove furono impegnati negli scontri della Sacca di Fornovo. Dopo la battaglia molti distaccamenti furono adibiti al rastrellamento di gruppi asserragliati nelle case della collina e della campagna circostante.
ll compito si rivelo impegnativo e pericoloso, molti partigiani vi trovarono la morte proprio in quegli ultimi giorni. L’incontro con le- truppe angloamericane rassicuro, tutti i combattenti che erano scesi dalla montagna. Per il giovane bedoniese era stato un percorso lungo e pieno di difficoltà che aveva messo a dura prova il suo fisico e la sua mente. La sfilata a Parma vide “Garibaldi” ricevere assieme ai suoi compagni di lotta il giusto tributo a chi aveva passato tanti mesi alla macchia per non rinunciare alla libertà e per far si che anche noi l’avessimo. .
