Sedici mesi di Guerriglia sull’Appennino Parmense – Ligure


PREFAZIONE
Don Luigi Canessa, cappellano capo di una delle formazioni più rischiose e operose dei Volontari della libertà nel periodo della guerra nazionale contro i. Tedeschi, ha raccolto in questo volume i ricordi di quel glorioso periodo della sua vita. .
Senza retorica nè fantasiose amplificazioni egli ha narrato la verità nel suo aspetto obiettivo: donde viene al suo libro maggior interesse, per chi ama) al di là delle forme e delle formule spesso stereotipate e insincere, il contatto immediato col dramma della vita.
Ho avuto sotto i miei ordini Don Canessa nel periodo finale della guerra, quando le brigate, comandate da quel puro eroe di Richetto, vennero sugli Appennini Liguri-Emiliani, a operare fraternamente insieme con le Brigate del Comando Unico Parmense. Ne ho conosciuto e apprezzate le virtù di sacerdote e le qualità di uomo, semplice e modesto tanto quanto valoroso; mai dimentico del carattere sacro onde era rivestito e della missione che al sacerdote compete, quando partecipa ai tragici urti umani.
E perciò, facendo eccezione ad un mio vecchio proposito, sono lieto di aprire il suo volume con queste parole, che vogliono essere l’attestazione della simpatia e della ammirazione delle quali egli è degno.
ACHILLE PELLIZZARI
ALCUNI CENNI STORICI DI UN
VALOROSO UFFICIALE INGLESE
Considero un grande privilegio l’essere stato richiesto dal mio amico Don Luigi di comporre alcuni cenni introduttivi al suo libro: il compito mi è facilitato dal fatto che avendo condiviso con lui tante esperienze nella Divisione Centocroc, la vita dei partigiani nella zona di Varese Ligure è divenuta anche parte della mia vita.
I! mio primo incontro con Don Luigi Canessa avvenne ad Albareto, in provincia di Parma, subito dopo il rastrellamento del 3 agosto 1944. Gli uomini di Richetto avevano opposto una fiera resistenza respingendo il nemico fino a Borgotaro e infliggendogli forti perdite. Essi salvarono in tal modo la IV Zona Operativa dall’annichilimento completo ad opera dei nazifascisti.
Don Luigi ed io ci rendemmo conto di ciò, mentre nella soleggiata giornata del 10 agosto, stavamo insieme distesi sull’erba fuori di una trattoria a Montegroppo, parlando dell’avvenire.
Richetto (quella vecchia volpe che) perfino quando fu catturato dai tedeschi e portato via per essere fucilato, non perdette il coraggio e la fede nella Causa, ma evase per continuare a guidare i suoi uomini alla vittoria) Mario Delucchi, Aldo Tambini, e molti altri troppo numerosi per essere qui ricordati, potranno richiamare alla memoria altre occasioni in cui ci incontrammo: punto di richiamo era l’apparecchio radio trasmittente, che tutti contribuirono a tener celato, e che ottenne tutti quei «lanci» dal sud, che ci tennero armati, nutriti e vestiti. E poi vi fu quella riunione memorabile in Varese Ligure, all’Albergo Amici, nell’inverno 1944, quando la neve era alta sul suolo ed il nemico preparava ancora un altro rastrellamento sulle nostre montagne. Vi era inoltre l’On. Pro/. Pellizzari, guida e motore del Comando Parmense, che condusse abilmente i partigiani della zona attraverso molti periodi burrascosi. Il Professore ed io ci incontrammo per la prima volta durante un periodo critico a Rossano, nel Comune di Zeri.
Molte furono le staffette di Rossano che trovarono rifugio ed ospitalità presso gli uomini di Richetto. Questi non sono che una piccola parte dei ricordi che il presente libro mi richiama.
Don Luigi era noto ai partigiani come «Il Prete Combattente ».
Portava sempre l’uniforme partigiana, ed era sempre sereno, con uno spirito di lealtà e di perseveranza che agiva come tonico infallibile anche sugli elementi più pessimisti nelle nostre file – fra i quali io stesso fui qualche volta!
La storia della Divisione Centocroci è una serie di avvenimenti epici ben degni di essere esaltati nei ricordi della Nazione Italiana: il suo valore sta particolarmente nel quadro che dipinge alla mente della lotta e dell’ eroismo della Gioventù d’Italia, nella sua battaglia per la libertà contro un nemico senza scrupoli e senza pietà.
Circostanze come quelle qui riferite, nonostante la modestia del!’ autore, potranno contribuire molto a guadagnare all’Italia la simpatia dei popoli, in un momento come l’attuale, in cui la simpatia e la comprensione dei problemi reciproci è essenziale se si vuole che le nazioni godano i frutti delle loro e delle nostre fatiche durante la lotta per la Liberazione. Il racconto contenuto in queste pagine è reso con un ritegno che fa onore all’ autore e con una schiettezza che dovrebbe far rientrare nell’ombra molte pubblicazioni nefande che hanno visto la luce dopo il 25 aprile 1945.
Concludendo, desidero ringraziare ancora una volta i miei amici partigiani per la loro fiducia, i loro sacrifici, e quello spirito cameratesco che hanno sempre dimostrato: particolarmente questi ultimi mesi non sono stati facili per essi. Che questo libro possa ottenere il successo che merita, e possa rendere maggiormente consapevole il pubblico dell’immane debito di gratitudine che esso ha verso i partigiani del Nord-Italia.
GORDON LETT Major British Press & Information Officer
LA NASCIT A
L’8 settembre era giunto improvviso, ma non inatteso. Quella sera, più di una campana delle parrocchie sparse sui monti e per le valli dell’ Appennino ligure-emiliano, salutò con gioia il comunicato che annunziava al popolo italiano la fine di una belligeranza ormai disastrosa alla Patria.
Gli abitanti delle montagne, le migliaia di soldati ai fronti, nelle caserme, ai posti di blocco, l’Italia tutta, non mancò di manifestare anche clamorosamente uno schietto entusiasmo. Era l’espressione di una gioia inconsiderata che esplode all’annuncio troppo lungamente atteso: era il grido frenetico della massa incapace di comprendere o di intuire la tragicità di un’ora tanto difficile per la Patria e la gravità della decisione di chi, sanzionando in un breve comunicato la volontà di tutto un popolo dopo tre anni di sacrifici, di distruzioni e di sangue, proclamava irrevocabilmente che l’Italia non aveva voluto e non voleva la guerra.
L’ultima parte del commiato non lasciava dubbi: qualcuno non voleva questa decisione, il conforto di questo ritrovamento. Eppure il passo doloroso, anche se gli Alleati rifiutarono di prendere quelle misure intese ad impedire qualsiasi atto di forza da parte dei nemici di dentro e di fuori, fu fatto, ad estrema salvezza nostra.
Nei giorni seguenti si iniziò la temuta tragedia: il disfacimento delle nostre forze armate. L’Esercito italiano non esisteva più.
Soldati di tutte le armi, veterani di più guerre, vecchi combattenti per la libertà, gloria della nostra cultura e del nostro lavoro, reduci da Ponza, Ventotene e dai cento luoghi di confine, perseguitati di tutte le età e categorie; sociali, che nei quarantacinque giorni erano rientrati in Italia a rivedere dopo dieci, venti anni il volto dei loro cari, presero la via dei monti e per amor della Patria tradita divennero « fuori legge».
Le vecchie case, i ruderi sperduti sulle cime delle nostre montagne ebbero i più illustri e gloriosi abitanti che mai avessero ospitato nel giro forse più che secolare della loro esistenza. L’autunno del ’43 vide sui campi l’uomo della cattedra e dell’officina affratellato col lavoratore della terra, a gettare il seme per il pane dei Partigiani: l’Italia vera non aveva piegato.
Venne l’inverno e presso il fuoco dei poveri all’ombra dei campanili si elaborarono i piani della riscossa, il secondo Risorgimento d’Italia.
Avvenimento forse unico nella storia, si svolse sui monti; la guerra inconfondibile non fu combattuta sulle barricate della città se non all’epilogo, quando nell’aprile del , 4 5 si riversò nella pianura e nei grandi centri abitati come un’onda imponente che si infrange alla riva dopo avere spaziato sul mare. Ed allorché nuovo sangue fu richiesto per la guerra tedesca, tutti gli onesti – ed erano molti – compresero che il nemico della Patria, il nemico da combattere, il nemico da distruggere, per assicurare alla nostra ed alle future generazioni l’esercizio degli inviolabili diritti concessi all’uomo dalla Provvidenza, era il nazifascismo.
Fu allora che i pionieri della riscossa si videro circondati da centinaia di giovani; fu allora che le armi divennero sacre come il martello dell’operaio e l’aratro del contadino: strumenti estremi a difesa e a tutela di una secolare civiltà.
La valle del Gotra, tra il Taro e il monte Gottero, è coperta di neve: sono gli ultimi giorni dell’anno 1943.
Sotto i tetti di Groppo, Boschetto ed Albareto, attorno ai fuochi, indugiano solo i vecchi e i piccini che tremano e piangano: gli altri sono fuggiti.
Nella valle, da Borgo VaI di Taro per razziare gli uomini da mandare in Germania, ci sana i tedeschi e i fascisti. Pressa il torrente Gotrina, in una tana, vicina alla strada gremita di truppa, sana rannicchiati undici giovani: Guido Varacchi, Osvaldo Franceschini, Giuseppe Riccoboni, Ernesto Varacchi, Ubaldo Riccoboni, Elia Signorastri, Guido Sabini, Attilio Sabini, Ernesto Meloni, Ubaldo Bucchiotti e Aldo Tambini. La maggioranza di essi reca sulla carne i segni di malti mesi di guerra. La vergogna fascista ha strappata dalle loro mani le armi che dovevano essere della riscossa. .
Guardono trepidanti i nemici che passano intorno. Non ne passano più.
– Non si può andare avanti così! Bisogna difenderci con le armi! Bisogna attaccare!
– Difenderei? Non ci siamo difesi quando avevamo le armi in mano, quando il nastro esercito era efficiente! Casa vuoi fare ara?
– Tutti non si nascondano, sai! Se facessimo carne i giovani del Piemonte, questa canaglia non verrebbe con tanta frequenza a farei scappare “
– L’ho sentito dire io pure che in Piemonte ci sano i partigiani!
– E come combattono!
– Se avessimo le armi…
– Le armi si possano trovare!
Il mattina del giorno seguente Varacchi corre da Tognû da Memia a Montegroppo.
– Tognu, sai dove siano delle armi?
– Delle armi, cosa vuoi farne?
Varacchi lo mette al corrente del disegno.
– A Montegroppo non ce ne sono; piuttosto a Sesta Godano. Ce ne sono parecchie; quasi tutte quelle degli alpini che erano laggiù di stanza, ma attualmente le hanno i contadini i quali non le consegnano senza compenso.
Tognû parte con Osvaldo lo stesso giorno. In un’osteria di Sesta Godano trovano il sempre sorridente Pinotto il quale sottopone ad Osvaldo i listini dei prezzi.
Ci sono mitragliatori, fucili, pistole e munizioni, ma costano caro. In compenso però i contadini regalano le bombe a mano.
Al ritorno di Osvaldo, gli undici si riuniscono per risolvere il grave problema dei soldi. Si guardano l’un l’altro in viso: non ne hanno affatto.
A Borgo Val di Taro ci sono i fratelli Beretta che hanno mezzi. Varacchi và e parla con Guglielmo; ottiene cinquemila lire: e il 1 febbraio 1944 Osvaldo, Giuseppe ed Attilio partono per Sesta Godano con quella somma ed un blocco di buoni così concepito:
« Volontari della Libertà»
BUONO di REQUISIZIONE delle SEGUENTI ARMI:
presso il sig.
Pago per il presente la somma di L. .
Resto a dare la somma di L. .
Il Comandante
Viene la sera di quel giorno e del giorno seguente ed i tre non tornano. Che ore di angoscia! A mezzogiorno del 4 febbraio ne arrivano finalmente due, ma sconvolti, come se avessero subito qualche cosa di grave.
Mentre erano, con Pinotto, in una cascina a contrattare le armi, un uomo era corso atterrito ad avvertirli :
– Fuggite, ragazzi! Ci sono i fascisti!
Saltarono fuori. Una nutrita sparatoria li investì dalle case vicine. Si gettarono in terra col cuore in gola: poi, strisciando sotto il grandinare del piombo, riuscirono ad oltrepassare la costa ed a mettersi in salvo. Di Giuseppe non sapevano nulla. Catturato od ucciso?
Quella del 4 febbraio fu una giornata triste: quella notte nessuno dormì.
Al mattino Giuseppe giunse sano e salvo a casa. Fu una festa.
E il giorno 7, con le munizioni, si ebbero anche le armi: dieci moschetti, due pistole e quattro bombe a mano, portate sul Gotra dai contadini di laggiù.
Poche armi, troppo poche, se si vuole, ma sufficienti perché la «Centocroci », terminato il periodo d’incubazione, uscisse alla luce e, al comando di Gino Beretta, passasse decisamente all’attacco.
IL PRIMO SOLE DI PRIMAVERA
La vittoria di Alpe e quella più clamorosa di Centocroci contro la « decima flottiglia mas », dalla quale località prese nome il gruppo, hanno acceso nel cuore degli uomini un’ardente fiamma di riscossa.
Il sole di aprile ha ora fatto sciogliere l’ultima neve, e, i faggi delle nostre montagne, i brulli roveti, ogni sterpo, si riveste di verde. La primavera alleata con i « ribelli », prepara le trincee della guerriglia.
Tra sei giorni sarà Pasqua e gli uomini, in questo tempo di Passione, sono tristi anche perché non hanno armi.
Al comando di Groppo, Carmelo e Lupo con dieci uomini sono in partenza per Sesta Godano, arsenale dei « ribelli».
– Siamo intesi – raccomanda loro Gino Beretta procurate di portare armi e soprattutto armi automatiche.
Partono in colonna. A tarda sera giungono a Chiusola e si gettano sulle strame di una cascina. Il sonno tronca il fervore delle loro speranze: domani vedranno Pinotto.
Nelle tenebre un’ombra corre verso Sesta Godano, passa per la cittadina deserta, bussa alla porta dei traditori.
– Correte a Chiusola! Ci sono i «ribelli »!
Una telefonata a Sestri Levante, ché i fascisti non se la sentono di attaccare da soli dodici «fuori legge» e, al primo albeggiare, i nostri sono circondati anche dai tedeschi.
Elio Pavesi, Lupo e il tenente Pino sparano sino all’ultima cartuccia: sei sono fatti prigionieri.
Nella mattinata di quel martedì santo le campane del
la chiesetta di Chiusola suonano a festa. Ma i montanari non vanno in chiesa perché per loro non può essere festa. Allora i nazi-fascisti irrompono in tutte le case e, armi spianate, spingono la povera gente sul piazzale. Sono vecchi, donne e bambini, pallidi dal terrore, con i capelli scarmigliati, con le scarpe e quei miseri cenci che, sotto la minaccia del fucile, hanno fatto a tempo a raccogliere.
Il piazzale è circondato di armati; nel quadrato, il popolo; vicino al muro, il tenente Pino, fiero di fronte al mitra di un traditore, che gli impone di gridare: «Viva l’Italia e viva il duce! » risponde:
– Viva l’Italia, viva Badoglio! Abbasso i traditori!
Una raffica e, vecchi, donne e bambini, in fila indiana, sotto la minaccia delle armi, ad uno ad uno, sputano sul corpo del martire.
Saranno duemila i fascisti ed i tedeschi che hanno invasa la zona del Gottero. Lupo e Sabini sono sugli autocarri dei fascisti che salgono verso il passo di Centocroci. Giunti lassù, i nemici scendono, si mettono in colonna. I nostri due sono in testa.
– Accompagnateci alle posizioni dei vostri e sarete liberi
Sotto due zaini pieni di munizioni Lupo e Sabini camminano tutto il giorno. Sulla sera sono nuovamente al passo di Centocroci, ma dove siano le posizioni dei partigiani gli aguzzini non lo sanno ancora.
– Salite su quell’autocarro! – ordina il comandante. Il motore si mette in moto. Sabini e Lupo, pallidissimi, tra la canaglia, sostengono dignitosi il ludibrio del loro venerdì santo.
– Scendete, scendete da quella scarpata, potete andare a casa.
I nostri scendono. La canaglia ride. Fatti sotto la strada sono colpiti nella schiena dal piombo fascista.
Nella notte i loro cadaveri sono trasportati a Caranza. Sono irriconoscibili. Don Garibotti apre l’oratorio. Il capo degli scherani si avvicina a lui e, in tono che non ammette replica:
– Intendiamoci bene, reverendo; spero che domani non avrete intenzione di suonare le campane per sotterrare cadesti due cani!
Le campane di Pasqua trovano la Centocroci a Cadorso, sulla sinistra del Taro. I montanari sono in festa. L’« Alleluia» canta nel cuore di tutti i partigiani, ma al gaudio pasquale manca la fragranza della casa. Per due giorni quella buona gente sale ai diversi casoni con ogni ben di Dio. Più di una madre, porgendo i doni ai nostri ragazzi, piange. Guardando quei volti, vedono e sentono in quei giovani i loro figli lontani, dispersi nel grande teatro della guerra tedesca, oppressi da una stessa tirannide.
La domenica seguente giungono al comando voci molto allarmanti: il nemico ha progettato un rastrellamento per il 22 aprile. Il mattino dopo partono tutti e, attraverso una faticosa marcia per le macchie tra la nebbia, oltrepassano il Penna e si accantonano in un gruppo di case sopra Rezzoaglio.
C’è una caserma di carabinieri laggiù. Si pensa di attaccarli per impossessarsi delle loro armi, ma l’idea è abbandonata perché si viene a sapere che è protetta da reticolati muniti di fili d’alta tensione.
In una di quelle sere attorno al fuoco dei montanari, i « ribelli» parlano calorosamente di ordine, di disciplina. Ne viene fuori un regolamento: questi diciotto articoli, che ancora risentono dell’asprezza della macchia!
« Volontari della Libertà»
« Regolamento di disciplina»
« Volontari della Libertà»
GRUPPO CENTOCROCI
« Regolamento di disciplina»
« Il 2 febbraio 1944 si è costituito un Gruppo rego- »
« lare di patrioti col compito di operare nella zona anco- »
« ra occupata dai nazi-fascisti e di disturbare con azioni di »
« guerriglia le retrovie del nemico e di impedire in tutti i »
« modi la ripresa del movimento fascista ».
«Tale costituzione vuol essere, indipendentemente»
« dall’efficacia dei risultati, umile prova al mondo, del pa- »
« triottismo, dello spirito di sacrificio, del sentimento del »
« dovere dei suoi componenti».
« Art. 1. – L’adesione al gruppo comporta la completa»
« sottomissione del patriota allo statuto del gruppo stes- »
« so ed impegna ogni suo componente ad offrire il con- »
« tributo della mente, del braccio e del cuore alla causa»
« della liberazione della Patria ».
«Art. 2. – L’appartenenza al gruppo è «continuati-»
« va » e dura fino alla liberazione della zona, ed oltre, a »
« seconda delle disposizioni che saranno prese dal Coman- »
« do Supremo».
« Art. 3. – Il patriota deve obbedienza » : « al comandante »,
« al vice-comandante »,
« al commissario politico»,
« al comandante di squadra »,
« al vice-comandante di squadra ».
« Deve inoltre rispetto a tutti i superiori ».
« Art. 4. – I componenti del comando, i comandanti »
«e vice – comandanti di squadra, possono essere desti-»
« tuiti dal Comandante, a prescindere da ulteriori punizioni ».
« Art. 5. – Chi « scientemente » con parole o con fat- »
« ti, reca danno al Gruppo, è punito con la morte ».
« Art. 6. – Le pene sono inflitte dall’« Organo Giudi- »
« cante », composto» :
«dal Comandante»
« dal vice-comandante»
« dai comandanti di squadra ».
«Perché una sentenza abbia valore bisogna che ad»
«essa sottoscrivano almeno» :
«il Comandante »,
« il Commissario politico »,
« tre comandanti di squadra».
« Art. 7. – I Comandanti di squadra, con l’autorizza- »
« zione del comandante, possono applicare punizioni disci- »
« plinari di cui agli. articoli 8 paragrafo a), 14 paragrafo a) ».
« Art. 8. – Chi disobbedisce al Comandante o ai Co- »
« mandanti di squadra, chi manca in servizio, chi smarri- »
« sce le armi e le munizioni o altro materiale affidato in »
«consegna, è punito a seconda della gravità della colpa»
« con» :
« a) aumento del servizio di guardia ».
« b) fustigazione, da un minimo di tre ad un massi- »
« ma di dieci colpi ».
« Art. 9. – Chi con atti o con parole riprovevoli reca»
« danno alla reputazione ed al buon nome di un compagno»
« è punito con la fustigazione da un minimo di tre ad un »
« massimo di dieci colpi ».
«Egualmente punito è chi reca danno al buon nome» « del Gruppo».
«Art. 10. – Chiunque s’impossessa di un oggetto»
« o di denaro appartenente ad altri compagni, o al Gruppo»
«o ad un civile, è punito, a seconda della gravità del»
« furto commesso con» :
« a) fustigazione, da un minimo di otto ad un massi- »
« mo di venti colpi, disarmo e rinvio a casa ».
« b) fucilazione».
«Art. 11. – Chiunque, con parole o atti inconsulti, »
« senza il fine di tradire, reca danno al Gruppo è punito»
« con la fustigazione da un minimo di cinque ad un mas- »
« simo di dodici colpi ».
«Art. 12. – Nessuno può compiere un colpo di ma- »
« no senza l’autorizzazione del Comandante o vice-Coman-»
« dante ».
« Chi trasgredisce quest’articolo è punito con la fu-»
« stigazione da un minimo di cinque ad un massimo di do- »
« dici colpi, per la prima volta ».
« In caso di recidiva è punito con la fustigazione da »
« un minimo di cinque ad un massimo di dieci colpi, il di- »
« sarmo e rinvio a casa».
«Art. 13. – Il materiale acquistato in dipendenza di »
« un colpo di mano appartiene al Gruppo e viene suddi- »
« viso fra le varie squadre, dal Comandante ».
«I trasgressori sono puniti a norma dell’art. 10 ».
« Art. 14. – Nessun patriota, per nessun motivo, deve»
« allontanarsi dalla propria sede, senza espressa autorizza- »
« zione del Comandante o del vice-Comandante di Squa- »
«dra. Per i trasgressori si comminano le seguenti pene: »
« per la prima volta» :
« a) Aumento del servizio di guardia,
« b) fustigazione, da un minimo di tre ad un massi- »
« mo di otto colpi ».
« A seconda del tempo pel quale è stato lontano dal- »
« la sede»;
« In caso di recidiva» : « fustigazione, da un minimo di tre ad un massimo di otto »
« colpi, disarmo e rinvio a casa ».
« Art. 15. – Chiunque, per proprio interesse persona- »
« le, preleverà viveri a nome del Comandante sarà punito, »
« per la prima volta, con la fustigazione da un minimo di»
« tre ad un massimo di otto colpi. In caso di recidiva con»
« la fustigazione di cui al paragrafo precedente, il disarmo »
« e rinvio a casa ».
«Art. 16. – Chiunque è colto in stato di manifesta»
« ubriachezza è punito con tre colpi di frusta. In caso di »
«ubriachezza abituale, il colpevole è punito con tre fru-»
« state, disarmo e rinvio a casa ».
« Art. 17. – Chi importuna donne o con esse provoca»
« scandalo fra la popolazione civile è punito con l’aumen- »
«to del servizio di guardia».
« Art. 18. – Chiunque percuote o viene alle mani con»
«un altro patriota o civile, è punito con» :
« a) aumento del servizio di guardia »,
« b) fustigazione da un minimo di tre ad un massi- »
«mo di sei colpi ».
« NOTA. – Non vi è patriota che non comprenda la»
« gravità del disarmo. Per chi abbia senso d’onore, niente»
« può essere più disonorevole ed umiliante dell’essere pri- »
« vato della propria arma, privato cioè della possibilità di »
« poter ancora combattere per la liberazione della Patria»
« e della possibilità di essere domani insignito dell’attestato»
«del Comando supremo alleato».
«Fatto, letto e sottoscritto da tutti i Componenti»
« il Gruppo Centocroci, il giorno 24 Aprile 1944 ».
Allo scopo di far perdere al nemico il controllo dei nostri movimenti, dopo sette giorni di sosta, la Centocroci si porta a Barbagelata. .
Dopo il rancio del 28 aprile una nostra pattuglia conduce dal Comandante un giovane meridionale. E’ elegante, piccolo, dalla faccia mora, complimentoso. Nella valigetta ha gli arnesi del suo mestiere: ferri per ondulazione « Marce! », macchinette, rasoio, forbici e sapone per far barba e capelli. E’ un certo Elia, figaro ambulante, che per campare la vita senza rubare, viene ad offrire la sua opera quassù. Ha tutte le apparenze del galantuomo e quella sera ne approfittano non solo i partigiani, ma anche le ragazze del paese. Molte teste sono ingentilite dalla sua mano prodigiosa; sennonché i complimenti, le cerimonie di Elia hanno qualche cosa di più dei complimenti e delle cerimonie dei barbieri; gli uomini sospettano e lo portano di peso dal Comandante.
– Confessa! Ormai tanto sappiamo chi tu sia – Vedi quella pistola? Se non parli ti «cricco ».
– lo, io non sono una spia!
– Ma se lo sappiamo, non negarlo, barbiere della malora!
La mano del Comandante si allungò sulla pistola posata sul tavolo.
– Un momento, signor Comandante, non sono una spia; bazzico sì con i fascisti, ma per motivi di lavoro.
– Lo sapevamo.
Era al servizio della Ghestapo.
Si radunarono i Comandanti delle squadre. Quando si trattò di fucilarlo, molti si opposero:
– Non conviene ucciderlo, vuole ci sarà utile per il controspionaggio e caserme.
– Macché controspionaggio, macché aiuto! E’ della Ghestapo; ci tradirà. Elia fu fortunato. Quella adunanza di comandanti, che doveva essere un tribunale, si trasformò in un consiglio di guerra:
– Sul Freciallo c’è un posto di avvistamento fascista. Vuoi portarci lassù?
– Vi consegnerò i fascisti senza sparare un colpo.
Alle 19 del 1 maggio tutti gli uomini, con Elia , partono per il Freciallo. La prima squadra che non si fida della mediazione di Elia, vuol attaccare:
– Perché volete sprecare le munizioni? Veli consegno io, senza sparare un colpo.
– E’ meglio attaccare, – dice Richetto, quando si arriva in vista al Freciallo. – Elia resta qui! Chi vuol venire mi segua!
Cinquanta volontari gli corrono dietro e, dopo una marcia forzata, giungono sotto la posizione fascista. Lassù, sulla cima terrosa, senza una pianta, c’è la casermetta bianca, dal tetto piano, circondata da un muricciolo con un cancelletto di fronte all’ingresso. Due postazioni di mitragliatrice all’esterno: una sul tetto, l’altra fuori del muro di cinta, sotto il cancello. Presso quest’ultima, una sola sentinella.
I nostri studiano il terreno. La sentinella smonta, si allontana dalla mitraglia, entra nella casermetta e dopo pochi minuti, esce con un altro milite, con un sacco sulle spalle. Scendono al paese per fare la spesa. Due prigionieri di meno.
Con rapido movimento i cinquanta circondano la posizione ed attaccano. I militi non rispondono al loro fuoco. Il cerchio si stringe rapidamente, sono intorno alla caserma. Picchiano. col calcio del fucile sulla porta:
– Consegnate le armi.
– A l’è questa l’ua de sveggia a gente? – risponde
una voce. Ma la porta non si apre. Richetto, Ferruccio e Piacenza l’abbattono con un tronco d’albero e:
– Mani in alto.
Un milite spara su Ferruccio un colpo di rivoltella. La pallottola gli sfiora la testa; una raffica di mitra e, poi, silenzio. Vi sono quattro uomini in quella caserma. Uno, in divisa, steso sul pavimento in un lago di sangue, tre in borghese, dei quali due con le mani alzate mentre il terzo, non ancora riavutosi dalla sventola ricevuta, cerca in un angolo, brancicando, i suoi occhiali andati in frantumi. .
Caricato sopra un mulo ed un cavallo il materiale del posto di avvistamento ed incendiata la caserma, si dirigono tutti verso Barbagelata.
I tre prigionieri non sono tranquilli. Vittorio poi è seccato, perché a dispetto della sua protesta, i « ribelli» lo hanno svegliato bruscamente e strappato dalla villeggiatura del Freciallo, che era cominciata da due giorni appena. A Genova i fascisti non lo volevano vedere, i « ribelli» nel Freciallo non lo vogliono: dove deve andare ora, con la fisarmonica sulle spalle e senza occhiali? E’ seccato, ecco; e a Barbagelata posa la fisarmonica e, per protesta, come sempre, anche quando è di buon umore, mangia per quattro!
Dalle vicinanze di Parazzolo, si domina la strada per Torriglia.
Su quella strada una colonna di autocarri carichi di fascisti, corre al soccorso dei camerati del Freciallo.
Elia, il misterioso barbiere, vuole andare con Santo sopra quella strada per osservare il movimento dei nemici. Elia, come tutte le spie, è un maestro di falsità. Chi lo tiene più d’occhio? Gino Beretta gli dà il suo mitra e il suo binocolo. Elia, la prima spia, che si era insinuata tra le file della Centocroci, non si rivide più!
A Barbagelata, quella sera, grossa bèga fra i comandanti per la beffa di Elia.
I prigionieri tremano: pensano che alla fine del grave bisticcio, pagheranno essi le spese.
– Vittorio! prendi la fisarmonica e suona! – E Vittorio, quella sera, come in tutte le sere di malinconia trascorse nel giro di un anno, sollevò i « ribelli» con la sua musica e con i suoi frizzi.
Intanto nella valle del Taro il rastrellamento è terminato: i nazi-fascisti se ne vanno. Per Bertigaro, San Siro Foce, passo del Bocco, la «Centocroci» ritorna alle sue basi di Alpe, Strepeto e Setterone. Si riprende la vita dell’accampamento.
Da La Spezia, giornalmente, arrivano gruppi di giovani, mandati ai monti dal Comitato di Liberazione Nazionale. Da parecchie settimane, c’è tra gli uomini anche Benedetto, Commissario politico della « Centocroci »: un uomo pieno di equilibrio, un grande combattente per la libertà. Ha trascorso quattro anni di carcere per motivi politici a Regina Coeli ed altrettanti di confino alle isole Tremiti.
Per la libertà ha sacrificato gli anni più belli. La cattività, gli effimeri trionfi del tiranno, non hanno spento la sua fede; vinse. Per la libertà viene a combattere, viene ad insegnarne ai giovani combattenti della montagna l’amore e il culto.
La « Centocroci » ora è forte di centocinquanta uomini e a Pontestrambo, sulla rotabile Chiavari-Parma, c’è un posto di blocco. I viaggiatori della corriera che transita al mattino e alla sera, le macchine, i viandanti della riviera e della pianura, esibiscono, per la prima volta, i loro documenti ai partigiani
Tutti gli uomini sono contenti; sono consapevoli di essere ormai una forza: per l’alta valle del Taro sta per scoccare l’ora della libertà.
Il 16 maggio, Richetto, Ferruccio, Mario e Piacenza scendono in automobile verso Bedonia. Nella cittadina è arrivato il tabacco. Gli uomini, nei casoni di Alpe, Strepeto e Setterone, non sono contenti di fumare continuamente le foglie di faggio e di patata. Bedonia è presidiata da una ventina di fascisti rinforzati da Carabinieri. Ma i quattro vanno lo stesso. Alla curva del Belvedere la macchina si ferma. I nostri scendono e si dirigono a piedi verso la cittadina. Sono alle prime case. All’angolo di una strada, incontrano un milite che va a passeggio con la moglie ed il bambino. Senza accorgersene si trova di fronte ai nostri. Un sussulto di terrore, poi, pallidissimo,. alza le braccia:
– Fila in caserma! e che nessuno esca! Bedonia è circondata! Se fate tanto di uscire, vi portiamo via tutti!
Quel milite, che non sapeva di essere tanto fortunato nella vita, scompare. Tre uomini bloccano gli accessi alla cittadina.
Richetto passa dai tabaccai a ritirare una razione per i «ribelli ». La gente, per le strade, vede i partigiani in divisa e non capisce.
Un carabiniere cade in bocca a Piacenza. Appena visto il « ribelle », se la dà a gambe.
– Fermati! Vieni qua!
Il carabiniere ritorna tremante. Giunto vicino a Piacenza, scatta sull’attenti e fa un bel saluto al « fuori legge ».
– Consegna la bandoliera e la pistola! Va in caserma e non ti muovere, che Bedonia è circondata. Non ti muovere, se ti è cara la vita, hai capito?
– Va bene. – E se ne va. Richetto ha finito il giro. Al Belvedere caricano il sacco di tabacco sulla macchina e filano, contenti, a Pontestrambo.
Alla sera del 9 maggio, il comandante telefona a Bedonia.
– Pronto? Autorimessa Carpani? Parla il Comando partigiano di Setterone. Domani mattina, prima dell’alba, provvedete che la più grossa corriera che avete sia disponibile a Pontestrambo.
E gli uomini della prima squadra. scesi sulla strada, ancora sotto le stelle, partono per Borzonasca. Andare in corriera! Un sogno! Sopra Montemoggio la corriera si ferma. I nostri scendono. Nella locanda, al bivio della strada che scende alla Chiesa, ci sono accantonati dodici carabinieri. I cinquanta circondano la locanda e, senza sparare un colpo, disarmano i carabinieri e li mandano a casa.
La corriera prosegue la sua corsa. Al bivio di Borgonovo passa la corriera dell’Aveto che viene da Chiavari. La corriera dei «ribelli» le si mette dietro e le due macchine filano verso Borzonasca.
A circa un chilometro dalla cittadina, la nostra macchina si ferma.
I partigiani, in due colonne, sui ciglioni della strada si avvicinano alle case. Borzonasca è ancora deserta. L’obbiettivo da colpire è al di là del fiume: nel palazzo delle scuole c’è un forte presidio di fascisti: bisogna disarmarli.
Improvvisamente si apre una finestra. I nostri addossati ai muri, alzano la testa. Un uomo, sulla cinquantina, ancora assonnato, ha visto, atterrito i «ribelli» violare Borzonasca!
– Aiuto! Aiutooo Ci sono i ribelli!
Uno dei nostri infila il portone di quella casa, sfonda una porta, prende per la giubba il fascistoide, quattro schiaffi ben dati e, poi:
– Grida, grida ancora, vigliacco!
Nel paese ormai c’è l’allarme. L’azione contro la caserma è impossibile. I nostri risalgono avviliti sulla corriera e si fermano al Bocco.
All’alba del giorno dopo Borzonasca è circondata, sempre dagli uomini della prima squadra. Appostati sulla destra del fiume hanno già aperto il fuoco contro la caserma e serrano il cerchio. I fascisti rispondono rabbiosamente.
Un’ulteriore azione di avvicinamento è impossibile se quelli appostati sulla sinistra del fiume, oltre l’abitato, non scendono anch’essi all’attacco. Una staffetta porta l’ordine. Di corsa, scendono dai boschi, infilano gli stretti acciottolati del paese, ansiosi di arrivare presto sulla riva.
Ma, – guarda un po’ che bella sorpresa, – dagli abitati piove sui partigiani una pioggia di piombo! Per quelle strade non si può passare. Intanto sulla strada, a cinquecento metri da Borzonasca, in una nube di polvere si sono fermati cinque autocarri.
Sono i rinforzi fascisti giunti da Chiavari. Bisogna cessare.
Anche questo secondo attacco non riesce. Uno dei nostri cade sotto il piombo di coloro che sparavano dalle finestre.
Ma lo smacco di quel giorno della «Centocroci» è compensato, ben presto.
Mentre i nostri ritornano avviliti alla loro base, a Montemoggio, catturano un autocarro germanico.
L’autista tedesco è mandato a spasso e su questo autocarro i nostri proseguono il loro viaggio di ritorno.
Alla sera di quello stesso 11 maggio, le caserme dei carabinieri di Santa Maria del Taro e di Bedonia restano senza soldati.
La squadra motorizzata di Borzonasca, compie miracoli! Ad Alpe, Strepeto e Setterone, festa.
A Santa Maria e a Bedonia anche i carabinieri brindano del loro disarmo.
– Domani torneremo a casa!
RASTRELLAMENTO DEL MONTE PENNA
Alla Casa del fascio di Chiavari, Vito Spiotta, al suo tavolo di dittatorucolo di provincia, medita con Podestà, 1’« atto di clemenza» del duce che scade fra tre giorni.
– Vedi, Podestà, il nostro popolo attraversa una crisi di coscienza. Per farlo ragionare è necessaria la forza! – Proprio così, caro Vito, proprio così, per disgrazia.
– Ma il duce ha provveduto. Pensa all’effetto psicologico di quella pena di morte, messa lì, dopo la mezzanotte del 15 maggio, alla confisca dei beni, al grande rastrellamento, che si inizierà la notte stessa della scadenza del bando con divisioni e divisioni, con aviazione, con artiglieria: chi avrà il coraggio di non presentarsi? Stà tranquillo: i nostri distretti saranno presi d’assalto!
– Anch’io sono del tuo parere, ma una cosa, ritengo, non ci voleva!
– Quale? – .
– Lo scandalo dall’alta Valle del Taro. I ribelli della « Centocroci» pare vogliano creare uno stato lassù. Tutta Chiavari parla del disarmo delle caserme. lo penso che i giovani soggetti al « bando», andranno lassù a centinaia, se non si ha la contropartita.
– Hai ragione, Podestà. Questo non ci voleva, ma vedrai che provvederò. Anzi, ho già provveduto in parte: prima della fine di maggio vedrai che lavoro!
Al comando di Setterone, la sera dell’ l1 maggio e nelle sere seguenti, si parla appunto di questo: Spiotta vorrà la rivincita.
Tutta la zona è in calma. Camillo Guglielmone, con un gruppo di patrioti del Gotra, sono sulla strada di Bedonia, diretti ad Albareto, ansiosi di rivedere i loro cari. Nella salita di Belvedere due giovani, tutti allarmati, si presentano a loro:
– Dove andate? Lo sapete? All’autorimessa di Carpani è giunta una camionetta corazzata tedesca! Per amor di Dio, non scendete a Bedonia!
– Presto, una bicicletta! bisogna avvisare i nostri.
Un partigiano corre al posto di blocco di Pontestrambo e, in autocarro, arrivano al bivio di Tornolo una trentina di uomini. Si dividono in due gruppi. Una parte sale alla curva del Belvedere e piazza una mitraglia sopra la strada che sale da Bedonia. Gli altri, con Richetto, attraversano il Taro sopra Compiano e bloccano la strada Bedonia-Borgo Val di Taro. La camionetta da Bedonia non può più uscire.
Gli uomini di Richetto avanzano verso l’abitato. Un tedesco, tranquillo, sulla strada, si dirige incontro ai nostri. A duecento metri si arresta bruscamente, osserva, vede i « ribelli ».
– Vieni qua! Fermati!
Quello estrae la pistola e, sparacchiando, fugge verso Bedonia.
I nostri gli sparano addosso: il giorno dopo viene trovato cadavere, in un campo, a cinquanta metri dalla strada.
Alla sparatoria, i tedeschi dell’autorimessa saltano sulla camionetta corazzata e si gettano verso il Belvedere. La macchina sale velocissima verso la nostra postazione. Ubaldo abbranca la mitraglia e «raffica ». La camionetta prosegue la sua corsa sotto il grandinare dei proiettili. Un rapido zig-zag sulla strada e poi si capovolge in un fosso. I ‘due tedeschi che la montano rispondono ai nostri con le loro armi. Stefano Bertolotti che spara dietro ad un cespuglio, è colpito in pieno viso da una pallottola. Si rovescia con la faccia insanguinata verso il cielo. I nostri lo scuotono, lo chiamano. Pronuncia una sola parola prima di morire:
– Vendicatemi.
Stefano Bertolotti è il primo della «Centocroci» caduto sul campo. I due tedeschi, vista l’impari lotta, si arrendono.
Del capitano che era con loro non si ebbe più traccia. Un prigioniero era gravemente ferito alla testa. Fu portato all’ospedale di Bedonia, ma il giorno dopo morì.
Mentre stanno per prendere la radio che è installata sulla camionetta, scorgono sulla strada da Borgo Val di Taro una lunga colonna di autocarri con i rinforzi tedeschi. I nostri ritornano a Setterone.
E’ la sera del 23 maggio, e, anche se a Bedonia ci sono i tedeschi, si va a riposare tranquilli.
Spiotta, sopra un autocarro di un’imponente colonna di nazi-fascisti, sale verso il passo del Bocco, contento che finalmente sia giunto il suo giorno. Il 15 maggio è passato, ma si è ancora in tempo perché la « clemenza del duce» si è prorogata fino alla mezzanotte del 25.
I suoi desideri sono stati accontentati; i suoi sforzi coronati da pieno successo: seimila uomini, tra fascisti e tedeschi, spazzeranno i monti e le vallate del Taro.
Un bel macello di « fuori-legge» ed i giovani, soggetti al richiamo, ragioneranno. Nella notte le pattuglie, arrivano, una dopo l’altra al comando: macchine e macchine passano sulla strada a Pontestrambo.
All’alba, le staffette portano le notizie sul movimento nemico dalle zone più lontane. La situazione è grave. I nazi-fascisti hanno scaglionato forti aliquote a Bedonia, Pontestrambolo, Santa Maria del Taro, Gramizza, Santo Stefano d’Aveto e il monte Anzola: il monte Penna è circondato.
I Comandanti stabiliscono di salire sul Penna. Tra quelle rocce forse ci sarà la salvezza. La « Centocroci », in tre colonne, si mette in marcia e sale lentamente verso la vetta. Giù sulla strada, sulle creste dei primi contrafforti, cominciano a crepitare le armi nemiche.
I primi colpi di cannone si infrangono sulle rocce, nella macchia, sotto i nostri.
Un aereo, la nera «cicogna », come un gigantesco uccello di rapina, rasenta le cime, si abbassa sui burroni in cerca di preda.
Il morale degli uomini è bassissimo; molti sono dominati dal panico; qualcuno si sbanda. Nel tardo mattino i nostri si trovano tra i faggi, sotto la Madonna di San Marco, che, sulla vetta, domina regina delle genti del Taro. Guardano Lei, questi poveri ragazzi, con le lacrime agli occhi: sentono che Lei sola li può salvare.
Di ora in ora la marea dei nemici sale verso la cima: la situazione precipita.
Sotto quella Madonna i Comandanti si riuniscono per prendere una soluzione che li salvi:
– Quassù non si può stare; i nemici ci si stringono attorno. Non più tardi di domani mattina alle 8 raggiungeranno la vetta. Stanotte, a piccoli gruppi, bisogna uscire dal cerchio.
Mentre si discute, arriva una notizia allarmante:
– Una colonna di un centinaio di uomini si trova tra i faggi, sotto, da quella parte, ed avanza verso di noi.
– Ragazzi, non possono essere che nemici! Dobbiamo difenderei.
Tutti si gettano sulle armi e corrono da quella parte passando al coperto delle piante per non essere individuati dalla «cicogna », che gira sempre. Si forma una linea di difesa e si attende, trepidanti, che quegli uomini siano sotto il tiro delle nostre armi. La colonna ha però qualche cosa di misterioso. Molti binocoli si puntano su di essa.
– Non mi sembrano tedeschi e neppure fascisti! – Come no?
– Ma caspita, osserva bene anche tu! Finalmente si scopre il mistero: sono i partigiani di Bill, colpiti dalla stessa sventura. Si uniscono coi nostri ed i Comandanti tengono un secondo consiglio.
– Siamo oltre duecento – dice Richetto – se non agiamo, su questa cima, ci stermineranno. Mettiamoci in colonna per una direzione bisogna spezzare l’accerchiamento!
E, in quella prima sera, una quadrata colonna, con le armi spianate, scende in direzione di Alpe. Di tanto in tanto piccoli gruppi si staccano dal grosso, tanto che a Caneso non arrivano compatte che la prima e la seconda squadra. E’ un freddo intenso. Da Carniglia il nemico spara, senza intermittenza, verso le falde del Penna.
L’uno vicino all’altro, tremanti dal freddo, si aspettal’alba.
Al primo chiarore il nemico riprende l’offensiva. E’ vicinissimo. I proiettili scoppiano intorno; la «cicogna» rasenta i faggi riempiendo la macchia del suo fragore.
Gli ultimi arrivati ai monti, ancora inesperti della vita della macchia, quelli che ancora non hanno familiare la morte, non riescono a dominare il panico. Ma le pistole dei Comandanti e quelle dei «vecchi lupi» tengono a posto i loro nervi.
Richetto e Aldo spingono delle pattuglie sopra la strada. Ma la risposta, ad ogni ritorno e una, una risposta che demoralizza sempre più: .
– E’ impossibile attraversare la strada. C’è un transito di macchine, di armati che spaventa!
Ma gli uomini della prima e seconda squadra passeranno lo stesso.
Tra una roccia, un cespuglio, un roveto, un albero, scendono sopra la strada: c’è un traffico degno di un fronte! Autocarri stipati di uomini, autocarrette cariche di munizioni, motociclette con ufficiali e porta-ordini, transito in una costante nube di polvere.
E fascisti e tedeschi appiedati, armati di tutto punto, con gli elmetti.
– Avanti ragazzi! Coraggio! A piccoli gruppi tra una macchina e l’altra, attraversiamo la strada!
Due… quattro… dieci, la squadra di Richetto e quella di Aldo hanno varcato la strada. Le macchine passano sempre, ma i nostri si sono occultati fra i densi salici sul greto del Taro, al sicuro, fuori del cerchio.
E gli altri? Sono ancora sul Penna. Ci sono lassù gli uomini di Mantovani, di Elio, di Camillo, riuniti in piccoli gruppi, un po’ ovunque, senza collegamento, atterriti dalle notizie catastrofiche di fucilazioni in massa, di torture, di incendi d’interi paesi.
Anche i nemici sono un po’ dappertutto. Frugano tutte le gole, tutti i cespugli del Penna, come bracchi.
Un fascista scopre il nascondiglio di Alfredo, di Framura. Alfredo fugge. Una raffica di mitra gli sfiora la testa. Corre col cuore in gola. Da una roccia soprastante spunta un altro fascista. Gli punta l’arma:
– Fermati o sei morto! Alfredo fa un brusco scatto e via.
Il fascista gli corre dietro. Arriva sull’ orlo di un burrone. O gettarsi giù o morire! Un colpo rintrona ancora alle sue spalle. Si sente il fascista sulle carni! Si getta giù, fingendosi colpito a morte in fondo al burrone. Passato il primo istante di angoscia, striscia verso l’entrata di una grotta. C’è più di un metro di acqua dentro, ma entra lo stesso. In quella grotta trova Camillo, immobile, pallidissimo, con l’acqua limacciosa che gli arriva al petto. Su quel viso ci sono i segni della disperazione. Camillo guarda Alfredo con gli occhi sbarrati e, sottovoce, per non farsi sentire:
– Non c’è più nulla da fare Alfredo, siamo perduti! Poi, con lento movimento, quasi pensasse alla gravità del gesto, come un forsennato, portò la pistola alle tempia. Alfredo gli strappa l’arma. Camillo non reagisce.
Intorno a quella grotta si spara sempre. I due stanno immobili in quell’acqua. Alfredo guarda Camillo. I suoi occhi sono chiusi: forse dorme.
Improvvisamente si scuote:
– Alfredo! Qui vicino c’è un mulino! Lì siamo salvi!
– Macché mulino! E’ impossibile.
– Eppure ci deve essere! Vieni dietro di me
Adagio, adagio, scendono. Trovano uno stretto torrente con gli argini in muratura. L’acqua è profonda. Vi si gettano e, con la sola testa fuori, salgono carponi verso la sorgente. Arrivano in un punto dove quel fosso è coperto da larghi pietroni. Uno dopo l’altro infilano il condotto. Il volume dei loro corpi fa salire il livello dell’acqua. Rischiano di essere soffocati. Le loro facce strisciano sotto la gelida copertura.
– Dove vuoi andare, Camillo? Qui si muore! – Vieni, vieni, al mulino ci salveremo. Avanzarono così per un bel tratto; arrivarono finalmente al mulino.
Per accertarsi che dentro non ci fossero nemici sostarono sotto la cascata dell’acqua, in ascolto per un buon pezzo. Poi salirono.
Erano tremanti dal freddo sotto quelle vesti intrise d’acqua, sfiniti, ma salvi. ‘
Camillo, sapevi che c’era questo mulino? – Assolutamente no!
– Ed allora?..
– Ti spiegherò. In quella grotta ebbi un sogno. Mi sembrava di essere ad Albareto, nella mia chiesa, di fronte alla statua della Madonna. lo fissavo quella statua.
Ad un tratto la Madonna mi sorrise dolcemente ed, accennando con la mano, mi disse:
– Scendi, scendi più sotto. Troverai un mulino: lì ti salverai!
Camillo ed Alfredo devono la loro vita a questo sogno!
La valle del Gotra è sgombra di nemici. Richetto, Aldo, gli uomini della prima e della seconda squadra sono a Groppo, culla della « Centocroci », da tre giorni.
Di ora in ora arrivano gli sbandati, a gruppi ed isolati. Giunge Elio, poi Mantovani, gli altri capi squadra: tutti gli uomini, meno uno: Alfonso Sabini, fucilato dal nemico a Bedonia.
Questi scampati sono laceri, sparuti, sfiduciati e privi di armi.
Si formano i nuovi quadri.
Richetto è nominato vice-comandante del Gruppo e tutte le squadre si spostano alle falde del monte Ribone nell’impaziente attesa dei soccorsi alleati.
In quella macchia si costruiscono decine di capanne, un vero villaggio di « ribelli ».
E nelle notti dell’ 1, del 3, 5 e 6 giugno vengono gli aerei a portare le armi e le munizioni per le nuove battaglie.
Da La Spezia, dalla riviera, dai paeselli delle nostre montagne accorrono i giovani renitenti alla leva: la « Centocroci» è più forte, più agguerrita che mai.
E Vito Spiotta e Podestà?
Sono nuovamente alla casa del fascio a discutere: – Caro Vito, avevo ragione!
STATO LIBERO DEL T ARO
La bufera del Penna è passata ed i partigiani ritornano nuovamente al sole, a questo sole di giugno, che, per la valle del T aro, è benefico come il buon Dio, che lo fa splendere lassù.
Sulle fertili colline, sui prati vicini al fiume, a perdita d’occhio, le messi, già pallide, sono una promessa. Il montanaro, delle terre fecondate col suo sudore, è contento, anche se quest’anno lo mieterà con la sua vecchietta, perché i figli hanno imbracciato il fucile e sono alla macchia.
– Salute, buon uomo! In quest’anno di fame ci sarà
pane per tutti!
– Basta che il tedesco non lo porti via!
Quest’anno il grano del Taro il tedesco non lo toccherà! I diversi comandanti delle formazioni partigiane sono sempre in bisticcio per quell’invincibile «io» che non si uccide con lo sten! Sono però concordi, anche se non si sono scambiate le idee in proposito, che bisogna combattere se si vuole a questi generosi montanari, a noi stessi, conservare quel pane.
Una serie di battaglie isolate, senza piani generali prestabiliti e, come un bel fungo, ti nasce uno Stato.
I seimila se ne sono andati e gli ariani che hanno cara la vita, lasciano a Bedonia, a Borgotaro, a Varese, a farsi ammazzare i loro compagni fascisti, la pelle dei quali, a dispetto della razza e della ideologia comuni, è per essi, di natura di gran lunga inferiore.
Alle 17 del 14 giugno i nostri comandanti a Boschetto, di fronte alla chiesa, discutono il piano per attaccare i fascisti che sono a Bedonia.
A tarda sera, tra un brulicare di armati, arrivano un autocarro ed una corriera.
Gli uomini saltano su.
– Siamo intesi, nevvero Richetto – dice Gino Beretta.
– Tu e Didon con la corriera, vi portate sopra Bedonia per la strada di Borgo Val di Taro; io con Aldo e i sabotatori, vado al Belvedere, dalla parte opposta.
– Va bene, Gino.
– Alle 23 di stanotte, l’attacco. Non aprite il fuoco sino a che non sentite due colpi di pistola.
Le quattro squadre partono. Le due macchine percorrono velocissime la strada del Gotra. Al bivio della Bertorella si dividono.
All’ora fissata, gli uomini di Richetto e Didon sono sulle posizioni prestabilite, pronti all’attacco. Ma l’autocarro di Gino non è ancora arrivato al Belvedere.
– Cosa sarà accaduto? – si domandano tutti.
– Un incidente d’auto?
Suona mezzanotte, l’una, Gino non è ancora lassù.
Qaulcuno dorme. Finalmente sentono il rumore dell’autocarro: è Gino!
I due gruppi iniziano l’azione.
Per via Roma, per tutti i vicoli, addossati ai muri, si avvicinano alla caserma.
Bedonia, con l’oscuramento, sembra la città del silenzio. Anche la natura sembra morta, ché le acque del Taro non cantano questa notte.
Sono sotto la caserma, rischiarata dal debole raggio lunare. Non si vede anima viva, neppure le sentinelle: i militi dormono tranquilli.
Due colpi di pistola.
Un crepitare di armi per qualche minuto. Poi silenzio. – Consegnate le armi!
– Il tenente non vuole! – risponde una voca plagnucolosa.
– – Fuoco con tutte le armi!
Riprende la sparatoria, le bombe a mano mandano in frantumi con i vetri delle finestre anche i tegoli del tetto. La caserma è investita da tutte le parti. Le bombe incendiarie accendono i primi roghi. Le fiamme illuminano sinistramente gli uomini, che tra le urla, sparano e si agitano dietro i muriccioli, all’angolo delle case e dei portoni.
Tra quel fragore, la voce di Gastone, il sabotatore. – Primo mortaio! Fuoco!
Pochi secondi, e, una grossa bomba « signorina» sfonda il tetto. Il gioco si ripete per tre volte.
– Consegnate le armi! Arrendetevi! -,
– Ci arrendiamo!
Si apre la porta ed escono tremanti. Si allineano in silenzio sulla strada: trentadue!
Monsignor Cecchi, arciprete di Bedonia, è sceso in mezzo ai « ribelli », angelo di pace.
– Perdonate, figlioli; non li uccidete.
Il sacerdote ha troppo potere sul cuore di questi ragazzi per non essere ascoltato.
– Stia tranquillo, monsignore!
Le nostre due macchine si avvicinano alla caserma.
Sull’autocarro si caricano: una mitragliatrice Breda 37, due mitragliatori Breda 30, cinque mitra, ventitré moschetti e i prigionieri.
Partono tra gli evviva dei pochi bedoniesi scesi sulla strada.
Sul ponte della Bertorella le due macchine si fermano. Fate scendere i prigionieri!
Scendono tremanti, implorando.
– Allineati! Ci siete tutti?
Un grande silenzio.
– Promettete di non servire più gli oppressori della Patria?
-:- Si – rispondono, dopo un po’ di titubanza, itrentadue.
– Lo promettete sul vostro onore?
– Si!
– Allora siete liberi! Siamo soldati e non briganti! I motori si rimettono in moto e tra gli evviva riconoscenti dei fascisti, i partigiani proseguono per Borgo VaI di Taro.
Le « Fiamme Verdi» di Dragotte hanno nel frattempo attaccato le due caserme della cittadina. Una trentina di fascisti, al primo sentore di battaglia, si danno alla fuga per la montagna: le guardie di finanza, senza sparare un colpo si arrendono, Borgo VaI di Taro, capitale dello « Stato libero» è liberata!
Ma la liberazione è di breve durata. Tre giorni dopo, ecco la reazione nemica.
Una fortissima colonna di tedeschi investi la cittadina
dal monte Molinatico; un’altra colonna, composta di tre autocorriere di fascisti scortate da quattro autoblinde, scende da Centocroci: Borgo VaI di Taro è in balia della rabbia nazi-fascista.
Un palazzo vicino alla stazione ferroviaria è in fiamme, i negozi, le abitazioni civili sono barbaramente saccheggiate. L’azione del nemico è fulminea; i nostri ne hanno notizia quando il nemico è già sulla via del ritorno.
Didon parte, con la sua squadra, verso Centocroci per attaccare il nemico in marcia. Prima ancora che essi arrivino, le quattro autoblinde girano sotto il passo! si fermano ormai convinti di non aver più nulla da fare. Il rumore di un motore attira la loro attenzione. Sotto Spallavera c’è un autocarro che sale; più sotto un carro.
Corrono sulle alture di Miramonti e si appostano e sopra la strada. Quando l’autocarro arriva sotto, aprono il fuoco e lo bloccano. Un fascista è ucciso, tre son fatti prigionieri.
Il carro, alla sparatoria, volta indietro e corre verso Borgo Val di Taro. Ma un altro gruppo di nostri partigiani lo ferma a Pieve di Campi catturando i tre fascisti che lo conducono.
Su quell’autocarro e su quel carro c’è la refurtiva di Borgo VaI di Taro.
Il mattino del giorno dopo, la refurtiva è restituita ai derubati sulla piazza della cittadina.
La nostra capitale è nuovamente libera, presidiata per tutto il tempo della sua libertà, dai comandanti della prima Julia: Gek, Libero, Lupo, Rufo, Rosa e Tarolli.
Con una serie di battaglie vittoriose, Dragotte, Vampa, l’eroico Zanrè, Peppino, Bill, Trasibulo, del nuovo Stato allargano i confini che vanno dal Bardigiano alla valle del Manubiola, dai passi di Centocroci e del Bocco a Serravalle Ceno.
Oltre duemilacinquecento chilometri quadrati di territorio, col controllo di un buon tratto della ferroviaria Parma-Spezia!
In questo Stato, unico forse in tutta l’Italia occupata, fino al 15 luglio trionfano le libertà democratiche.
In tutti i comuni si insediano i sindaci e i Comitati di Liberazione Nazionale prendono in mano, con l’alimentazione, tutta l’amministrazione civile.
A Borgo VaI di Taro gli operai lavorano per ripristinare il campo di aviazione, sulle strade circolano numerosissime le macchine, alimentate dal carburante di Bèttoia e la polizia patriottica ha sostituito nelle caserme la milizia fascista.
Ai caffè dei centri maggiori, affollatissimi di ebrei, partigiani, antifascisti, di tutti i colori e di tutte le provenienze, si discutono con calore i problemi della guerra che non finisce e quelli della pace che non può tardare.
La gente passa tranquilla per le strade e legge sui muri le ordinanze del nuovo governo sugli ammassi dei cereali e del bestiame e gli avvisi funebri per le onoranze ai patrioti caduti.
Alla sera, nei cinematografi, girano pellicole americane, documentari del mondo libero, della guerra tedesca e scene di guerriglia sui monti dell’Italia già liberata.
Uno Stato ordinato in tutti i suoi settori, quello del Taro; uno Stato che ha il riconoscimento entusiastico del popolo e anche quello delle Nazioni Unite!
L’aviatore Anderson, di San Francisco, colpito dalla contrae rea nel cielo di Cremona, si getta col paracadute sui prati di Tarsogno con la stessa sicurezza con la quale sarebbe sceso in un campo della Raf. Alla meraviglia dei nostri, che lo circondano, tira fuori una carta geografica dell’Alta Italia sulla quale, in matita rossa. sono segnati i confini del nuovo Stato.
La radio fascista è l’unica a non parlarne!
Manca inoltre il riconoscimento più ambito quello della Germania!
Ma questo verrà; verrà nella tristezza del 18 luglio1944.
Sulle frontiere del Taro le brigate partigiane vegliano in armi perché sanno che l’offensiva nazi-fascista deve scatenarsi, terribile.
Oltre il confine del passo di Centocroci, i giovani renitenti, le popolazioni del Vara, sono sotto il terrore dei fascisti e delle spie che stanno a Varese Ligure.
Le poche scorte di viveri, il bestiame, unica ricchezza di questi montanari, sono giornalmente preda alle razziedi questi briganti.
Il popolo soffre e tace.
Sera del 20 giugno.
A Groppo, nel Gotra, a Centocroci, gli uomini sono impazienti di partire. Aspettano le macchine. Didon, girando tra i suoi, canterella la romanza « Mon pajs c’est Paris » e Ferruccio, che ha cara la vita, medita sul motto, che ha inciso sul mitra: « Non ti fidar di me se il cuor ti manca ».
A mezzanotte arrivano cinque macchine. Gli uomini le prendono d’assalto e partono.
– Gliele diamo, stanotte!
Alle prime luci del giorno, intorno all’ex-caserma dei carabinieri, trasformata dai fascisti in una casamatta, infuria una battaglia furibonda.
Una Breda 37 batte una nostra mitragliatrice e gli uomini di Aldo sulle alture di Nugè. Due mitragliatori tengono lontani gli attaccanti del parapetto del Vara.
Vittorio, Richetto, Piacenza, Rinaldo e l’ardimentosa Rosetta sono arrivati sotto le finestre della caserma, addossati ai muri. Il fuoco dei compagni, che sparano sempre, fa piovere sulle loro teste i calcinacci della facciata.
All’intimazione di resa rispondono le raffiche, sempre più arrabbiate dei fascisti. Vittorio lancia una << signorina >> contro la finestra da dove spara la mitraglia. Quell’arma non crepita più.
Si combatte da oltre tre ore.
Un’altra intimazione di resa resta senza risposta. Solo qualche fazzoletto bianco sventola dalle finestre del pianterreno. Le nostre armi intensificano il fuoco contro le finestre, gli uomini saltano all’attacco ed irrompono nella caserma dal portone andato in frantumi. .
Il tenente, comandante del presidio, tra i rottami dei mobili, spara un colpo di pistola contro i nostri. Il colpo fortunatamente non va a segno. Ferruccio gli salta sopra e lo atterra con un pugno.
– Disgraziato! Ordina la resa! Quelli di sopra sparano ancora!
In testa ai nostri sale le scale ed ordina ripetutamente : – Cessate il fuoco.
Quelli continuano a sparare.
Devono strappare loro di mano le armi.
Diciassette prigionieri e tre spie salgono a Centocroci.
Undici militi, ragazzi ancora imberbi, vengono mandati a riabbracciare la mamma. Nove sono condannati a morte.
A dispetto di tutto, quella sentenza dispiacque a più di uno.
La « Centocroci » vedrà, nel corso di un anno, cadere sotto il piombo nazi-fascista i suoi patrioti, ma, combattente per una maggiore giustizia, non userà la misura dei tiranni: non fucilerà mai più nemici!
Quando gli ultimi partigiani lasciano Varese Ligure, una esplosione scuote la cittadina: il « ponte lungo» sulla rotabile Parma-Spezia salta in aria.
Perché lo «Stato libero del Taro» avesse nel Vara i suoi confini!
IL FRONTE TEDESCO DEL T ARO
La radio nazi-fascista non parla di questo Stato; però la guerra è già dichiarata.. L’offensiva è già in atto dalla pianura.
Il 30 giugno una colonna di otto autocarri, carichi di tedeschi, attacca le forze della Julia nella valle del Manubiola. Le esigue forze che sono laggiù non riescono a fermare il nemico. I tedeschi avanzano e si fermano a Pontolo, a sedici chilometri da Borgo VaI di Taro. Saccheggiati negozi ed alcune abitazioni, prendono un buon numero di donne e di ragazzi come ostaggi e si mettono sulla via del ritorno.
A Borgo VaI di Taro il nostro comandante Gino Beretta, con la prima, terza, parte della quarta e tutta la quinta squadra, rinforzata da una aliquota della Julia, su autocarri, si mette all’inseguimento del nemico. A Roccamurata raggiungono la colonna che devia verso Ghiare di Berceto.
Quella strada è per gli autocarri nemici un vicolo cieco, perché i nostri sabotatori, in cooperazione con quelli di Poppai, cinque giorni prima hanno fatto saltare il ponte del Diavolo. Al ponte rotto la colonna si ferma. Gli autocarri, con lenta manovra, scendono nel greto del fiume. I nostri reparti, rapidamente, piazzano le armi sulle alture di destra e di sinistra della strada che sale a chiocciola tra Ghiare di Berceto e il fiume Manubiola.
I tedeschi sono accerchiati.
Alle 15 i partigiani aprono il fuoco contro gli autocarri nemici. Il primo della colonna, preso sotto il tiro di una mitraglia, si incendia e si rovescia in fondo alla scarpata tra gli scoppi degli esplosivi che porta. I tedeschi sono colti dalla sorpresa. Saltano giù dagli autocarri, si appostano e si difendono come possono. Hanno, sì, due mitragliere da venti millimetri e due mitragliatrici pesanti, ma sono rimaste sugli autocarri mute ed inoperose.
La battaglia si accende furibonda, a distanza ravvicinata. I nemici cercano di farsi scudo degli ostaggi, che gridano disperati. Uno di questi ostaggi, un ragazzo di quattordici anni, è sotto a due povere donne: una vecchia morta e l’altra gravemente ferita. Allunga la mano verso un tedesco, che è caduto vicino, afferra la sua arma e, per tutta la battaglia, spara sui nemici.
Zio, dietro ad un cespuglio, è gravemente ferito ad una gamba. Scarica ripetutamente la pistola contro i tedeschi e viene meno.
I nostri serrano da tutte le parti. Le bombe a mano fanno paurosi vuoti. .
Vicino al ponte una cinquantina di tedeschi, allo scoperto, bersaglio del nostro fuoco, gridano:
– Cessate il fuoco! – Ci arrendiamo!
Con le mani alzate salgono sulla strada ed alzano bandiera bianca.
Tra questi prigionieri c’è il capitano, comandante della colonna.
Un partigiano scende coraggiosamente verso il gruppo, strappa dalle mani del tedesco la bandiera bianca, la consegna al capitano e, puntandogli lo sten :
– Va’ laggiù! Fa arrendere gli altri!
Il capitano s’avvicina all’altro gruppo, che sotto la strada, vicino a Ghiare di Berceto, continua a sparare e comanda la resa.
Sono le 17: due ore di battaglia accanita.
I leoni della Centocroci saltano, sulla strada da tutte le parti, disarmano i nemici, li mettono in colonna, raccolgono le armi, altri portano soccorso ai feriti.
Tra gli ostaggi, trovano due creaturine: una di tre anni e l’altra di quattro mesi.
Sul terreno disseminati quà e là, sono stesi cinquantasei morti!
Un tedesco, orribilmente sfracellato, porge la sua arma ad un ragazzo:
– lo non prigioniero; io contento morire.
Un altro esce da una siepe col mauser a tracolla e si presenta ai partigiani:
– Bravi combattenti, io non aver sparato perché tutti patrioti: voi in Italia, io, se potessi, in Germania!
Due autocarri sono distrutti. Sugli altri sei, col bottino e le armi, si caricano settantadue prigionieri!
Dei cinque ostaggi feriti altri due muoiono all’ospedale di Albareto.
Da parte nostra: un morto della Julia e due feriti della « Centocroci ».
Ad Albareto c’è un movimento di macchine da retrovia di un fronte. Le mamme, le spose, tutti i perseguitati,’ abbracciano i partigiani vittoriosi.
Nella notte, mentre i partigiani dormono, il Comando prepara il piano per prevenire l’offensiva nemica all’altra estremità dello «Stato ».
Mario e Vittorio, nella notte del 17 giugno, hanno fatto saltare il ponte di Borsa sulla rotabile Sestri Levante La Spezia-Varese Ligure. Gli operai della Tod stanno da diversi giorni lavorando per riattivarlo, protetti dalle armi di una trentina di tedeschi.
All’alba, Didon, Aldo, Pippo, Ferruccio con le loro squadre, si gettano come furie sulle tre postazioni di mitraglia e, a bombe a mano, annientano le difese esterne dell’accerchiamento tedesco. Gli altri, trincerati nella casa, oltre il ponte, si difendono disperatamente. Tullio, uno dei più giovani patrioti della « Centocroci », corre allo scoperto verso il nemico. Una pallottola gli trapassa la mascella.
Didon ed Aldo Lombardo sanguinano per schegge di una bomba a mano che per poco non li uccide.
Giovanni Rinaldi agonizza tra i salici del fiume.
Dopo tre ore di durissima lotta i nemici si arrendono.
A mezzogiorno dodici prigionieri passano sulla piazza
di Varese Ligure seguiti da Giovanni e Tu1lio portati dai compagni su lettighe improvvisate.
Il giorno dopo Don Gatti, parroco di San Pietro Vara,
cura il seppellimento di altrettanti morti.
L’offensiva nemica aumenta giornalmente le sue proporzioni.
Il 6 luglio la «Centocroci », rinforzata da distaccamenti della Julia e di Bill, ricaccia il tedesco sul monte Bratello. Ancora ventidue morti e nove prigionieri. Tra il bottino ci sono: un mortaio da 81 millimetri, due Breda 37 e parecchi fucili mitragliatori.
L’8, con la « Gramsci », lo batte a Valdena, mentre la quarta squadra, con gli uomini di Fortunin, al passo del Bocco, spara le prime fucilate sulle avanguardie nazi-fasciste che aprono la strada alle forze preponderanti del nemico.
E’ probabile che il nemico attacchi da tutte le parti.
I comandanti delle formazioni del Taro si dividono i compiti della difesa. Richetto e Fortunin difenderanno i passi di Centocroci e del Bocco; Gino Beretta i passi che dal Pontremolese portano alla valle del Taro.
Per ora la minaccia è sul Bocco.
Le squadre di Richetto e Bernieri corrono lassù e si
affiancano ai compagni schierati tra i vivai dei pini sopra la strada, il poggio Buenos Ayres e tra gli sterpi dominanti il passo.
Il nemico sale da Montemoggio per la strada e da tutte le scorciatoie. Dopo sei ore di combattimento accanito, alle 17 il nemico raggiunge il passo e si accantona nell’albergo e nelle case per passarvi la notte.
I nostri hanno ripiegato per evitare l’accerchiamento. Nella notte pattuglie partigiane si spingono oltre Santa Maria del Taro, arrivano alle prime case di Giaiette per controllare i movimenti del nemico.
I comandanti hanno già presa la decisione.
Se i tedeschi scendono nella valle del Taro gli daranno battaglia nella strettoia di Pelosa.
Nel pomeriggio del 10 una staffetta arriva a Centocroci ad avvertire che il nemico ha lasciato il Bocco e si dirige verso Santa Maria del Taro.
Son trecentocinquanta SS tedesche rinforzate da reparti fascisti.
Ottanta partigiani della «Centocroci» e settanta di Bill alle prime ombre della sera si appostano sulle alture dominanti la strettoia. La prima e la seconda squadra, agli ordini del vice-comandante Richetto, sono sulla destra, lungo la criniera che scende dal Ventàrola. Hanno sotto la strada che fiancheggia il Taro. I settanta di Bill e la squadra di Nino, sono di fronte, sulla sinistra; Gino al centro, schierato sulle alture che dominano il ponte, rotto dai nostri sabotatori, e le poche case di Pelosa, congiunge le due ali dello schieramento. Da queste posizioni si dominano i cinquecento metri di strada compresi tra il ponte di Pelosa e quello del Chiapparino.
Se il nemico entra in questa trappola non ha una sporgenza, uno scoglio, per ripararsi dall’uragano di fuoco che gli rovesceranno sopra i partigiani.
I tedeschi pernottano a Santa Maria del Taro, i nostri appisolati tra i faggi, vicini alle armi, aspettano con impazienza il giorno.
Alle 5 dell’l1 luglio il nemico lascia Santa Maria del Taro e si dirige verso Pelosa.
I nostri sono alle armi.
Lo aspettano.
Improvvisamente l’avanguardia nemica spunta alla svolta della strada. Sono cinque tedeschi. Hanno le armi spianate. Osservano guardinghi le alture e, lentamente avanzano.
Sono a tiro. Gli uomini si bisbigliano l’un l’altro: – Non sparate! Ci cascano tutti!
Un istante, ed ecco: il grosso dei nemici, in ordine sparso, per tutta l’ampiezza della strada. avanza lento verso la morsa di ferro. Un ordine secco: le armi all’estremità delle ali, alle spalle del nemico, aprono il fuoco; tutte le creste boscose della strettoia prendono fuoco.
Un vero macello!
I nemici gridano disperatamente. Cadono a decine sulla strada; altri, colpiti sul ciglione, rotolano per la scarpata e finiscono nel fiume. I tedeschi reagiscono. Sparano, sparano: sentono che ormai sono tutti irrimediabilmente perduti.
Santo Barbagatto e Ghiorsi si lanciano a bombe a mano sui nemici. Il patriota diciassettenne Angiolino Callegani è anche lui saltato laggiù. Una pallottola di moschetto lo ha raggiunto: è steso bocconi sulla strada. Ghiorsi. incurante del fuoco nemico, gli è sopra per soccorrerlo. Sono abbracciati, si stringono l’un l’altro come fratelli. Insieme, in fratellanza, muoiono. Anche Santo è morto, anche Piazza Fioravanti, della Bill. Anche l’eroico comandante Fortunin sta morendo tra le braccia di Richetto.
Sono il prezzo della vittoria.
Le armi pesanti non sparano più. I partigiani si gettano sugli ultimi nuclei di resistenza a bombe a mano. In breve i nemici sono sopraffatti.
Molti tedeschi si suicidano, altri rantolano nel loro sangue, altri, sulla strada e tra i cespugli del fiume, alzano le mani.
Quanta giovinezza stroncata nel giro di quattro ore! Ottantadue morti!
Un autocarro porta a Montegroppo sessantaquattro prigionieri e molti feriti all’ospedale di Albareto.
Bedonia e Borgo VaI di Taro applaudono gli autocarri dei partigiani carichi di gloria.
Non c’è tempo di celebrare la vittoria.
Nino che è rimasto a Casale per vigilare sull’ulteriore
sviluppo dell’offensiva nemica, alle 10 del 13 manda ad avvertire che altre forze tedesche avanzano verso Pelosa.
Il comandante Gino Beretta e il vice-comandante Richetto con le squadre di Aldo e di Didon, si precipitano laggiù e piazzano le armi sulle posizioni della battaglia precedente e più avanti, dalla Cappelletta a casa Fazzi. Sotto ci sono ancora i morti come li ha lasciati la nostra vittoria.
Il nemico avanza sopra una colonna di autocarri cingolati protetti da quattro autoblinde.
Sono le 15.
Aldo s’avvicina al suo mitragliere:
– Tirati un po’ indietro: lasciami sparare.
Richetto, al suo fianco, gli dà il bersaglio. Punta l’arma sulla prima autoblinda e vuota un caricatore. La macchina accelera la marcia sparando a casaccio, si sbanda paurosamente, poi si arresta. Non spara più. Lupo, Nino, Michelin, tutti gli uomini attaccano a fondo. Il nemico, colto dalla sorpresa, rapidamente si riprende. Al fuoco delle armi individuali si uniscono il crepitare lento, sordo, quasi solenne delle mitragliere da venti millimetri e il rombo dei loro mortai. La stretta vane si riempie di sibili, di fuoco e di boati.
I nostri sostengono e controbattono il poderoso fuoco avversario.
Il nemico è deciso a passare.
A Santa Maria del Taro è arrivata da Chiavari un’altra autocolonna nemica. Queste nuove forze danno la scalata alle alture sulla destra del Taro ed avanzano sul crinale con l’intento di prendere i nostri alle spalle. Tra i faggi di questo crinale Aiello ostacola la loro avanzata con la sua mitraglia. I nemici lo circondano. Spara finché ha colpi; cade poi, crivellato sulla sua arma.
I nemici avanzano. Gli uomini della seconda squadra sono quasi circondati, ma resistono fino a sera. Durante la notte tutte le squadre ripiegano su Centocroci.
I nostri partigiani sono stanchi, difettano le munizioni, sono dominati ormai dalla sfiducia.
I tedeschi non si possono più fermare.
Il nemico porta via i suoi morti e il giorno dopo li vendica sulla inerme popolazione. Nello stabilimento forestale di Santa Maria del Taro hanno concentrato oltre duecento persone. Il parroco è consegnato a Spiotta, diciotto sono fucilate e inumate nelle fosse che i barbari hanno fatto scavare alle stesse vittime!
Un gran numero di ostaggi è costretto ad aiutare i genieri che riattivano il ponte di Pelosa.
I nemici, sulle armi, proteggono il loro lavoro.
Alle 11del 15 luglio la « Centocroci » e gli uomini di Bill e di Franco, dal Ventarola e dalle falde dell’Orocco, alla destra ed alla sinistra del Taro, fanno l’ultimo tentativo per ricacciare il nemico.
Combattono per oltre cinque ore.
Il nostro mortaio è muto, non ha più proiettili, la mitragliera da venti millimetri s’è inceppata, le armi pesanti hanno esaurito le munizioni. I tedeschi hanno subito gravi perdite, ma sono ancora laggiù. Nel tardo pomeriggio avviene il doloroso ritorno dei nostri a Centocroci. Cesare Brusoni non è più con loro. Dorme nel sonno degli eroi sulle tormentate balze di Pelosa.
Quindici giorni di lotta continua hanno esaurito, con le munizioni, anche le forze fisiche, lo spirito combattivo dei nostri partigiani. A Centocroci gettano le armi negli angoli degli accantonamenti: ormai non servono più!
Non li ho visti mai tanto demoralizzati.
Al tramonto mangiano, muti, un pezzo di pane. E’ l’unico pasto della giornata, ma nessuno ci bada.
Un improvviso allarme interrompe questa tristezza. Altre forze nemiche, all’altra estremità, scendono da Buzzò su Albareto. Una colonna punta sul Gotra dal pontremolese. Richetto, Guglielmo Beretta, Fontana, Dario e Pietrino, con un mitragliatore, si dirigono in macchina ad Albareto. A Campi la macchina si ferma. Una colonna di oltre duecento uomini avanza sulla strada Bedonia-Borgo Val di Taro. I nostri osservano attentamente. Quella colonna ha un po’ di mistero. Un uomo che è fuggito dalla valle, riferisce ai nostri che sono i prigionieri dei partigiani rilasciati a Compiano dal Colonnello Lucidi.
– E’ una pazzia! I prigionieri sono la nostra salvezza!
Risalgono avviliti sulla macchina e tornano indietro. Non hanno fatto un chilometro: la macchina è investita da intenso fuoco di armi automatiche tedesche!
I nostri si gettano nella boscaglia; vagano tutta la notte.
Oltre Borgo Val di Taro i razzi colorati dei nemici s’alzano nel cielo senza stelle.
Alle prime luci del 16 luglio arrivano a Centocroci. Non trovano anima viva!
Gino Beretta aveva ordinato il « si salvi chi può»! La «Centocroci» non esisteva più.
Quanti partigiani ho visto piangere quella notte! Lo « Stato del Taro », dopo quindici giorni di lotta e di sangue, aveva perduto la « guerra »!
IL TRATTATO DI PACE
Dopo le quattro battaglie di Pelosa il caos regna sovrano in tutto il nostro territorio. Le formazioni partigiane, prive di munizioni e con gli uomini sfiniti dalle fatiche, si sono sgretolate.
Patrioti errano un po’ dappertutto. I locali hanno cercato una salvezza nei nascondigli delle proprie case, gli altri nelle baracche e nelle casupole sperdute sui monti.
In questa, come nelle altre occasioni, rifulge lo spirito patriottico, la solidarietà della forte gente del Taro. Sono i vecchi e le donne dei monti che accolgono, confortano col sorriso affettuoso, col loro pane, i figli migliori della Patria, i difensori dei loro beni e della comune libertà.
Se il nemico conoscesse la nostra situazione, si lancerebbe alla caccia all’uomo; ben pochi scamperebbero allo sterminio.
La povera popolazione vive ore di spasimante angoscia. Tutti gli occhi sono rivolti verso l’alta valle, dove già regna l’impero del terrore.
Lunghe colonne di fumo dei casolari dati alle fiamme, segnano l’avanzarsi lento, ma inesorabile, della vendetta tedesca.
L’unica speranza sono i sessantaquattro prigionieri di Pelosa che, per sicurezza, sono stati trasferiti nello Zerasco. Nell’ora dello sfacelo ci fu chi pensò di sopprimerli! Se questo delitto fosse avvenuto, dei popolosi e ridenti paesi del Taro non resterebbe oggi che un cumulo di rovine e di cenere a testimoniare, con quelle di cento altri dell’Italia martire, il passaggio della tremenda bufera.
Sono appunto l’ignoranza della nostra situazione da parte del nemico e i prigionieri che salvano la zona!
Appena il nemico è entrato nella valle del Gotra, un ufficiale si presenta al parroco di Albareto e notifica l’ultimatum :
– Se entro le ore 8 del 18 luglio non saranno consegnati i prigionieri tutta la valle del Taro sarà messa a ferro e fuoco!
Raccomanda al sacerdote di rendere edotti i « banditi » e se ne va.
La notizia viene comunicata all’unico nucleo di partigiani rimasti in zona: in tutti, col comandante Mantovani, una trentina, sulle alture di Montegroppo. Guglielmo Beretta, con questi uomini, corre a Zeri a prendere i prigionieri per sventare il barbaro disegno.
La notizia dell’ultimatum, come tutte le brutte notizie, trapela tra il popolo.
Scende la sera del 17, è notte, ma nessuno dorme. Tutti aspettano con trepidazione il mattino.
Spunta il primo sole, sono le 8 e i prigionieri non sono ancora arrivati!
I partigiani Roberto e Piero si spingono verso Albareto per vedere se i tedeschi mettono in pratica la minaccia. Nulla. Sulla strada, salgono cinque persone. I nostri osservano trattenendo il respiro. E’ Zio, uno dei tre nostri patrioti che i tedeschi hanno catturato al loro giungere sul Gotra, il signor Poletti, cittadino svizzero, la signorina Gotelli, intrepida crocerossina ed il parroco di Albareto col bracciale della Croce Rossa. I due vanno loro incontro per comunicare il doloroso contrattempo. Ma non è lunga l’attesa. Una staffetta corre ad annunciare che i prigionieri stanno arrivando.
I due gruppi proseguono. I nostri verso Albareto, i neutri verso Montegroppo, all’osteria dei Bini, luogo fissato per l’incontro e lo scambio dei prigionieri.
Lungo la stmda Roberto e Piero hanno un amaro rilievo: in tutti i cespugli, dietro tutti gli alberi, soprastanti e sottostanti la strada, ci sono tedeschi minacciosamente appostati.
Il nemico ci crede un’armata!
Ma ecco: alla svolta della strada, spuntano i parlamentari tedeschi: un capitano, un tenente, due sottufficiali ed un sergente. Il capitano è rosso in viso e sudato per la corsa fatta, e, sotto le lenti scure, lascia trapelare un cipiglio ancor più scuro. Roberto e Piero si uniscono a loro ed, insieme, risalgono ai Bini di Montegroppo.
Nell’osteria incontro cordiale con gli altri e, i dieci, si siedono a trattare.
Prende la parola il capitano. Parla in tedesco e ad ogni periodo fa pausa per dar tempo al sergente, interprete, di tradurre:- …dice il signor capitano che nessun accordo è possibile se prima non avviene lo scambio dei prigionieri.
Il parroco, per tutti gli altri, accenna: – Va bene.
Egli pensa che, oltre la cerchia di quelle quattro mura, ci sono centinaia di famiglie che vivono in trepidazione.
Improvvisamente un rumore di passi sulla strada attira la loro attenzione. La colonna dei sessantaquattro prigionieri, perfettamente inquadrata, scortata da una diecina di partigiani, si ferma davanti all’osteria. Tutti i parlamentari si alzano, vanno verso di loro.
– Attenti! Fianco destro – ordina secco il comandante la scorta. I sessantaquattro scattano. Il capitano, nel più grande silenzio, li passa in rivista, poi:
– Riposo – comanda ancora il partigiano.
I prigionieri sorridono, parlano animatamente mentre il capitano s’intrattiene con loro. Tra essi ha trovato un ufficiale. Gli stringe calorosamente la mano e lo invita a partecipare alle trattative.
Tutti ritornano nella sala dell’osteria.
L’impressione provata dal capitano a quella insolita rivista deve essere stata buona, le referenze dei suoi camerati ben trattati, i feriti curati all’ospedale, i morti seppelliti con tanto di esequie.
– Ma questi sono «banditi» buoni, che rispettano le leggi di guerra!
Certamente egli pensa così.
E, tirato fuori dalla borsa un foglio, lo presenta ai nostri nello stesso modo che un babbo burbero, dopo aver provato che il piccolo non ha commesso la birichinata, gli dosa un confettino: il patto donato ai « ribelli» dalla bontà tedesca!
E’ scritto in italiano e in tedesco, su due colonne.
Dopo aver premesso che ha pieni poteri, dice che, a scambio avvenuto, i tedeschi si impegnano a non compiere alcun atto di rappresaglia sulle popolazioni della valle del Gotra. I nostri fanno giustamente osservare che questo impegno deve estendersi a tutta la valle del Taro. Dopo un po’ di riluttanza, si rimette nella borsa il foglio incompleto e, sopra un foglio di protocollo rigato, si accordano come segue:
« DICHIARAZIONE»
« Lo scambio dei prigionieri è regolarmente avvenuto». « Come da precedenti accordi, nessuna rappresaglia, << sarà arrecata alla popolazione civile delle vallate del Taro >>. «Montegroppo, 18 luglio 1944 ».
L’interprete riscrive sotto, parola per parola, la dichiarazione in lingua tedesca e, prima Guglielmo Beretta, poi il capitano, la sottoscrivono.
L’ufficiale, ex-prigioniero, visto nell’osteria il suo carceriere, parlotta col capitano. Questi, soddisfatto, si alza, va a stringergli la mano ed a ringraziarlo del trattamento usato verso i suoi camerati.
Il capitano che, fino a questo momento, aveva parlato con la faccia appoggiata sui pugni e, con lo sguardo invariabilmente fisso al tavolo o al muro, ricredutosi dall’evidenza dei fatti, guarda i partigiani con evidenti segni di simpatia. E’ l’ora del pranzo: si mangia insieme.
Alla fine, l’interprete traduce per la centesima volta. – …dice il signor capitano che come si è felicemente concluso il problema dei prigionieri e della popolazione, con lo stesso spirito, si risolvono i rapporti di belligeranza tra le parti.
– Benissimo.
Ma i nostri, nell’intento di guadagnare tempo, pregano il capitano di voler fissare un altro incontro tra quattro o cinque giorni, di comunicare lui il giorno, l’ora e la località.
Acconsente.
Noi riabbracciamo i nostri tre prigionieri e il capitano, con la colonna dei suoi, parte per Albareto.
Per la strada, i « liberati» cantano.
Anche i partigiani sono contenti, che, per il momento,hanno salvato la popolazione e guadagnato parecchi preziosissimi giorni. Sennonché una spiacente sorpresa li attende. Il mattino seguente una staffetta arriva trafelata a portar la notizia che parlamentari tedeschi sono giunti ad Albareto in macchina ed attendono i nostri.
Gli ufficiali della « Centocroci » sono tutti assenti, intenti al febbrile lavoro di ricostruzione per le montagne. L’unico libero, ufficiale partigiano, è Roberto. Va lui ad Albareto. Laggiù trova una macchina ferma a casa Ferrari. L’autista, un fulvo tedesco, osserva, guardingo, il panorama.
Roberto infila le scale ed entra. Col capitano di ieri, sono presenti: un ufficiale, il sergente interprete, il dottor Ugolotti e il signor Ferrari. In seguito arriva Aldo, comandante di una nostra compagnia.
Si riprendono le trattative.
Ad un certo momento entrano nella sala ad interrompere la discussione tre coraggiosi montanari ad informare che nella zona di Compiano, Strela e Porcigatone i tedeschi si abbandonano ad uccisioni, saccheggi ed incendi.
– Strela è in fiamme! I tedeschi hanno ucciso il parroco, Don Sozzi, il Padre Bracchi ed una – quindicina di persone!
Nel loro accorato annuncio non nascondono ai nemici il loro risentimento:
– Che uomini siete? State trattando la pace e fate di queste cose?
Il capitano accortosene si rivolge all’interprete:
– …dice il signor capitano di essere molto addolorato per questo. Essere arbitrio, ma lui non poterlo impedire perché la sua giurisdizione non oltrepassa il ponte della Bertorella. Per impedire bisogna trattare col comando di Divisione a Fornovo. Se lo credete vi porta in macchina laggiù. Per vostra sicurezza vi offre tre ufficiali in ostaggio fino al vostro ritorno.
Stimando questo anche un buon appiglio per guadagnare tempo, Roberto approva facendo però presente che non occorrono ostaggi :
– Mi basta la vostra parola di soldati!
A questa dichiarazione di lealtà e di coraggio i tedeschi scattano in piedi, si irrigidiscono sull’attenti, poi, in silenzio, solenne, il capitano gli porge la mano.
Ma come andare a Fornovo senza Guglielmo Beretta? Era andato col cavallo verso Folta. Dove sarà? Una staffetta parte alla sua ricerca, ma inutilmente. Il capitano offre la sua macchina per rintracciarlo. Uno dei nostri con l’autista. Mentre la macchina sale verso Folta, il partigiano col torso fuori gesticola verso le alture come per assicurare: non sparate! non sparate! ai partigiani che non ci sono! Ma ritornano senza Guglielmo. Arriva a mezzogiorno con Fontana, un nostro ufficiale, mentre si sta pranzando da Bosi.
La partenza è decisa. Il capitano ripete l’offerta degli ostaggi, ma è ancora rifiutata.
Scendono. Sulla strada ci sono due macchine pronte, circondate da molta gente. E questa buona gente, che trepida con i suoi patrioti, con una parola furtiva, con un gesto e più con lo sguardo, dice ai nostri :
– Accettate gli ostaggi, che se vi portano via non vi lasciano più!
Sulla prima macchina, una millecento, salgono: il capitano, l’interprete, Carletto, della « Zanr » e Libero, della « Dragotte »; sulla seconda, una torpedo: l’ufficiale tedesco, Roberto, Guglielmo e l’autista tedesco.
Partono accompagnati dai voti e dagli sguardi di tutti.
A Borgo Val di Taro, stipata di tedeschi, uomini e donne si avvicinano alle macchine scongiurando i nostri ad accordarsi per evitare – dicono – il macello.
Gli abitanti lungo la strada credono i nostri prigionieri: le due macchine fanno versare più di una lacrima!
La mancanza di carburante provoca una fermata forzata al passaggio a livello di Roccamurata. Oltre trecento fascisti avanzano sulla strada, in disordine, come un gregge senza pastore. Si fanno intorno alle macchine sgranando tanto d’occhi al vedere che tedeschi e « fuori legge» fumano « cameratescamente » e danno scandalo per la loro perfetta identità di vedute!
Oltre Roccamurata un branco di bestiame, depredato alla popolazione della valle, è spinto da un branco di tedeschi. Le macchine si fermano per lasciar passare quelle bestie doppiamente infelici. Che cosa ha letto il capitano negli occhi dei nostri? Certo un dolore, una desolazione non abbastanza repressa. S’avvicina all’interprete, gli parla:
– Questo fatto dispiace al signor capitano. Dà assicurazione che farà il possibile per far fermare questo bestiame al primo centro di raduno.
Al ponte sul Manubiola devono scendere. Come è noto, questo ponte era stato fatto saltare dai nostri sabotatori. Una squadra di mongoli sta riallacciando l’interruzione con un passaggio sul greto del fiume. Le macchine superano quel fiume vuote e i nostri se ne vanno a piedi. Arrivati sotto il ponte spezzato, il capitano osserva e commenta:
– Lavorare molto bene vostri guastatori. Nel pomeriggio arrivano a Fornovo e scendono di fronte ad una villa, dove ha sede il comando di reggimento.
L’incontro avverrà domani alle 10. Conferiranno con l’ufficiale, capo di stato maggiore della Divisione. I nostri, – il tempo c’è, – vorrebbero andare dal barbiere, ma il capitano li sconsiglia perché in città vi sono delle SS. che potrebbero provocare qualche disgustoso incidente. In compenso di quel sacrificio offre il suo attendente perché se ne servano. I nostri ringraziano e, uno dopo l’altro, passano sotto il rasoio taglientissimo del tedesco!
Come non pensare alla Ghestapo? Ma l’operazione va bene, come pure la cena, consumata in compagnia di parecchi ufficiali austriaci. Durante la cena, – sono le confidenze che non mancano mai tra un cucchiaio e l’altro, – vengono a sapere che anche il capitano è austriaco.
Nessuno pensa ai bei tempi di Cesare e Giovanni Borgia!
E vanno a dormire tranquilli nelle stanze attigue a quelle dei tedeschi e si cullano nei sogni dorati come se fossero sui morbidi letti dello « Stato del Taro ».
Nel tardo mattino si recano in macchina a Sant’Andrea,
quattro chilometri fuori Fornovo.
I tedeschi temono le incursioni aeree!
Arrivano ad una magnifica villa requisita per l’occasione.
Entrano in un’ampia, luminosa sala. Al centro un gran tavolo, -il tavolo della pace! Sul ricco tappeto spiccano dieci fogli bianchissimi, dieci calamai e dieci penne. Attorno al tavolo dieci seggioloni.
Un apparato degno di Versailles!
Mezz’ora di attesa ed altre due macchine si arrestano
di fronte alla villa. I tedeschi si irrigidiscono: colpi di tacco, scatti, saluti. Tutti lo comprendono: è il capo di stato maggiore della Divisione. Entra col seguito. Saluta, stringe la mano cordialmente ai partigiani e, poi, si asside attorno al tavolo. Il maggiore e Roberto alle due testate, gli altri ai lati. Il capitano riferisce in tedesco sui precedenti di questo incontro. Il maggiore ascolta con interesse e poi, in italiano inizia il suo dire esordendo poco felicemente e, per lo meno, in modo inaspettato:
– Tutti gli uomini della zona andranno in Germania!
Che discorsi son questi?
– Un momento, signor maggiore, – replica Roberto
– noi siamo quì per difendere la nostra libertà e il nostro paese. Per questo combattiamo. Non vogliamo imposizioni! – .
– Combattere per la vostra libertà? Voi siete comunisti e con la vostra guerra preparate il terreno ad un regime più intollerabile di quello fascista!
– Noi, signor maggiore, siamo contrari a qualsiasi forma di dittatura. Vogliamo l’Italia libera e democratica.
A queste energiche affermazioni di Roberto il maggiore non parla più di Germania né di politica, ma porta la discussione sull’ argomento dell’incontro:
– Le rappresaglie sono inevitabili se voi non desistete dal distruggere i ponti e dall’attaccare i nostri traffici. Noi facciamo la guerra non a voi, ma agli anglo-americani. A noi non interessano le questioni che avete con i fascisti. Fate la guerra a loro, ma non a noi.
Le dichiarazioni del maggiore sono interessanti e suscettibili di sviluppi. Dopo una lunga discussione i nostri azzardano queste richieste:
1 ). Sospensione di qualsiasi atto di rappresaglia contro le popolazioni delle vallate del Taro.
2). Libertà per i partigiani di circolare per tutta la valle armati.
3 ). Immediata partenza di tutte le forze fasciste dal nostro territorio.
– Se siete disposto ad accettare queste condizioni, noi, signor maggiore, lasceremo libere le strade che attraversano il nostro territorio al vostro traffico.
Le strade sarebbero state interrotte egualmente oltre il confine della nostra zona.
Il maggiore non trova esagerate le richieste dei nostri, anzi insiste che si adoperino ad estendere l’accordo anche alle formazioni più lontane.
E’ chiaro che al tedesco, interessano le strade, ai nostri interessano le popolazioni, interessa guadagnar tempo.
Il tempo è la necessità dei comandanti della « Centocroci». .
Senza il tempo non è possibile riorganizzare le nostre forze.
– Benissimo, signor Maggiore, ma per poter conferire con i comandanti delle altre unità partigiane occorre un po’ di tempo: una decina di giorni, come minimo.
– Non è possibile accordarne più di quattro perché l’esercito tedesco è una macchina che non soffre arresti. Io ho preso una nota delle vostre richieste, riferirò al mio generale e, se darà il suo parere favorevole, stenderemo l’accordo.
Si alzano, escono dalla villa, saluti, convenevoli e le due macchine ripartono per Albareto.
Da Fornovo accompagna i nostri un solo ufficiale tedesco: un tenente medico.
– A Berceto, le macchine ferme sono circondate da fascisti. Un ufficiale s’avvicina al tenente tedesco e gli chiede gentilmente di portarlo fino a Borgo Val di Taro. Il tedesco lo guarda quasi meravigliato e, poi, una risata accompagnata da un gesto di disprezzo. Quando si volta ai nostri :
– Figuratevi, vuole venire con noi, lui! Ma l’ho cacciato!
La ricompensa tedesca alla servitù camerata! Nel pomeriggio arrivano ad Albareto.
Tutti sospirano contenti: finalmente sono arrivati!
Allo scopo di lasciare l’impressione che effettivamente ai partigiani interessi concludere ed allargare quel patto, Libero chiede al tenente un lasciapassare. Gliene consegna uno provvisorio sprovvisto di timbro promettendo di ottenerli dal suo comando anche per gli altri. Pochi giorni dopo Libero, fidandosene, a Borgo Val di Taro, viene arrestato da fascisti del battaglione San Marco e condotto alla casa del fascio di Chiavari. Dopo questo incidente, capita ad Albareto il capitano austriaco per riprendere le trattative. I nostri protestano :
– Non possiamo più oltre trattare con voi se non liberate il nostro parlamentare.
Gli narrano l’accaduto. E’ molto seccato e :
– Avete ragione! Non ritorneremo finché non sarà liberato!
Se ne ripartì avvilito.
Rivedemmo Libero; la «San Marco» lasciò la valle del T aro dopo una battaglia che vedremo
Anche i tedeschi se ne andarono.
– E il trattato di pace?
– Chi ne parla più?
BRIGATA CENTOCROCI
Mentre si sta negoziando la pace, i pochi partigiani rimasti in zona riuniscono le armi che, nell’ora della catastrofe, hanno occultate nelle macchie. Richetto e Benedetto passano per tutti i paesi, girano tutte le case delle montagne a richiamare i patrioti sbandati.
Arrivano con centocinquanta uomini.
Di ora in ora, altri, isolati o a gruppi, ritornano. Ci sono tutti i vecchi e tutti i capi-squadra.
La «Centocroci» è nuovamente in piedi!
E’ la caratteristica di queste formazioni partigiane:
sciogliersi ad una ventata e ricomporsi con la stessa rapidità.
Ad Adelano, nello Zerasco, il colonnello Turchi (Mario Fontana) comandante designato dal Comitato di Liberazione Nazionale di La Spezia e riconosciuto da tutti i comandanti delle formazioni di quella che sarà la quarta zona operativa, sta lavorando febbrilmente per costituire la prima Divisione Liguria.
La «Centocroci» ne entra a far parte come brigata. Al mattino del 20 luglio nella sede del nuovo comando, agli Squarzi del Montegroppo, si procede alla nomina del nuovo comandante ed alla costituzione dei nuovi quadri.
Le elezioni danno questi risultati:
Comandante di brigata: Federico Salvestri (Richetto).
.Commissario politico: Terzo Ballani (Benedetto).
Vice-comandante di Brigata: Camillo Orlandazzi
Vice-commissario politico: Aldo Costi (Zio).
Capo di stato maggiore: Gino Fontana.
Ufficiale ami matricola: Oreste Orsi.
Ufficiale all’intendenza: sotto tenente Vittorio Del Vecchio.
Ufficiale alla propaganda: capitano Giorgio Leonardini.
Ufficiale consigliere: sotto tenente dottor Roberto Bertè.
Ufficiale all’amministrazione: Pietro Parmigiani.
Cappellano militare: Don Luigi Canessa.
Comandanti di Compagnia
Compagnia comando: sotto tenente Mario Delucchi.
Prima compagnia: Camillo Orlandazzi.
Seconda compagnia: Aldo Tambini.
Terza compagnia: maresciallo d’artiglieria Giuseppe Pavesi (Mantovani).
Quarta compagnia: Osvaldo Abelli (Piacentino).
Comandanti di plotone
Modesto Castagnoli – Giuseppe Figone – Armando Orlandazzi – Luigi Cabrelli – Nello Bertieri – Enrico Cozzani – Piero Galati – Ferruccio Pellegrinelli – Amedeo Signorini – tenente Igor T agliaferri – Antonio Nicefaro – Raffaele Cresci (Didòn) – Rino Parmigiani Nanni Ivani – Nino Siligato – tenente dei carabinieri G.B. Loero.
Sono tutti giovani decisi ad arrivare combattendo fino alla liberazione e con idee molto chiare. L’esperienza ha insegnato loro che senza una sana disciplina militare non si. può fare neppure la guerriglia. E’ questo il primo problema che imposta il nuovo comando.
Il 25 luglio è trasmesso a tutte le unità dipendenti il seguente ordine del giorno:
La Brigata « Centocroci » si è costituita.
Fede di Patrioti e volontà di Comandanti hanno fatto si che nel giro di pochi giorni le squadre disgregate si siano riunite in un sol blocco, decisi più che mai a combattere e, se necessario, morire per la ricostruzione della Patria.
Il comando della Brigata è stato assunto da Richetto.
Le squadre prendono il nome di Compagnia.
Dopo il trapasso del comando da Gino Beretta, recatosi in missione, a Richetto, è stata operata una fulminea e radicale trasformazione, determinata da essenziali esigenze organizzative.
Si sono snellite le pratiche d’acquisto e di distribuzione dei materiali del lancio avviene equamente; soprattutto si è fatto un passo avanti per ciò che riguarda l’assegnazione dei patrioti alle varie compagnie.
Mentre prima si trovava qualche tipo che, sotto il nome di patriota se la spassava per le vie dei vari paesi, ora tutti gli uomini che non hanno una occupazione precisa, devono trovare posto nelle compagnie.
Severe istruzioni saranno impartite ai comandanti le compagnie, riguardo la concessione di permessi. Chi sarà trovato in giro senza autorizzazione, sarà senz’altro disarmato ed inviato a casa. Non vi è patriota che non comprenda la gravità di tale provvedimento: essere privato delle armi è la più grave punizione ed il più grande disonore che si possa infliggere ad un patriota.
L’ex-gruppo «Centocroci» è ora diventato brigata: è quindi necessario creare un vero e proprio organismo militare, per quanto è consentito dagli attuali momenti e dai luoghi nei quali ci troviamo.
Pertanto si esige che tanto i comandanti quanto i «patrioti, facciano il loro dovere. Per dovere, dato che « molti non hanno il concetto esatto di questa parola, s’in« tende essere consci dell’importante compito che è affidato a ciascuno di noi ed eseguire strettamente e con coscienza quanto ci viene ordinato.
Ogni patriota deve capire che è nella sua e propria convenienza e per il suo stesso bene, assoggettarsi ad una sana ed intelligente disciplina.
All’uopo si fa presente che tutti, dal comandante all’ultimo patriota, devono assoggettarsi al Regolamento di «disciplina della brigata. Se vi sarà ordine, implicitamente vi sarà disciplina, con la quale si potrà giungere a un’organizzazione veramente efficiente.
Quando si avrà – e questo dovrà avverarsi perché la volontà dei comandanti è unicamente tesa a questo una vera e propria organizzazione, la brigata « Centocroci » potrà marciare compatta e decisa ovunque sarà chiamata ad operare, per la cacciata dell’eterno ed odiato nemico: il tedesco ed il suo succube schiavo fascista, per la liberazione, la gloria, la fortuna della nostra amata Italia.
« Viva la libertà! ».
Il comandante Richetto
Il 31 luglio il comandante trasmette ai reparti il vecchio regolamento di disciplina, con qualche modifica di aggiornamento, specificando che …Il nuovo ordinamento della prima Divisione Liguria, ordinamento fondato essenzialmente su basi militaristiche, esige da voi una nuova disciplina dell’antico Regio Esercito. Questa disciplina, essenzialmente nostra, è fatta soprattutto di comprensione e di buona volontà e solo applicandola intelligentemente si potranno avere risultati tangibili mentre, mancando la disciplina si determina uno stato di anarchia deleteria per la nostra compattezza e ne abbiamo avuto numerose prove.
Lo stesso giorno il colonnello Turchi informa i nostri reparti che in data odierna è stato passato per le armi un patriota di una brigata dipendente perché sorpreso dalla polizia militare a sparare con lo sten per proprio diletto, contravvenendo alle ripetute tassative disposizioni in merito .
Questo sforzo organizzativo, del quale è tenace sostenitore il colonnello Turchi, non si limita ai settori strettamente militari, ma si estende a tutte le attività che interessano sia il partigiano che l’uomo della montagna.
Un’ordinanza del comandante, in data 14 agosto 1944, stabilisce i compiti della nostra polizia patriottica agli ordini del tenente dei carabinieri dottor Giovan Battista Loero:
…come è noto ultimamente è stato istituito uno speciale corpo di polizia patriottica, con il compito di salvaguardare l’incolumità personale ed i diritti dei cittadini, di difendere la privata proprietà e di tutelare le pubbliche « istituzioni ».
Un apposito regolamento di polizia disciplina l’attività del predetto reparto.
Tutti i servizi di istituto dell’arma dei carabinieri, della polizia giudiziaria, annonaria, stradale, forestale, tributaria, fluviale, ecc., dell’amministrazione della pubblica sicurezza in genere, sono trasferiti, nei territori soggetti alla giurisdizione di questa brigata, al nuovo Corpo di polizia patriottica.
L’esercito dei patrioti, depositario nel territorio invaso della Patria, dei poteri del legittimo governo nazionale, si assume uno dei principali compiti: la difesa della legge e delle pubbliche istituzioni.
Al reparto di polizia spetta inoltre, nelle zone teatro di eventuali operazioni militari, l’assolvimento dei compiti previsti dal regolamento per i servizi di guerra dell’esercito.
Ciò premesso, si invitano i dipendenti reparti a volere rendere noto quanto sopra alle popolazioni ed a volere tenere sempre presente i compiti deferiti al corpo di polizia patriottica nel senso che le formazioni militari patriottiche non devono per nessun motivo invadere il campo di azione della polizia. Le compagnie, i plotoni, le squadre non possono procedere ad arresti, a requisizioni di merci, a perquisizioni a domicilio, ad operazioni di pubblica sicurezza in genere, ma limitarsi a segnalare le eventuali infrazioni al capo della polizia per i provvedimenti del caso che risiede al Boschetto nei locali delle scuole elementari.
La cognizione dei resti di qualsiasi entità spetta al tribunale militare patriottico.
Contemporaneamente si comunica che le compagnie, i plotoni e le squadre non sono affatto autorizzate a rilasciare ai civili i permessi per il trasferimento oltre il comune di residenza, essendo competente per tale operazione unicamente l’ufficio di polizia, il quale, con i suoi servizi di informazione, può salvaguardare gli interessi della Brigata in particolare e della causa patriottica in genere dalla nefasta opera delle spie.
Quanto prima verrà inviata copia del regolamento di polizia ai dipendenti reparti .
Il commissario politico
Benedetto
Il comandante della brigata Richetto
Nei paesi della valle del Gotra molti partigiani sono impegnati al controllo della trebbiatura del grano per assicurare il pane ai giovani che combattono ed al popolo che lavora.
Al nemico interessano le strade. Lo hanno fatto capire al tavolo della pace.
E Vittorio e Mario, con i loro sabotatori, ogni sera imbastano la mula di dinamite! Una mula più mansueta e più giudiziosa di loro, la quale, stanca di camminare con gli zoccoli fasciati di stracci in mezzo ai nemici, ha imparato a strisciare in silenzio, nel buio, per non farsi sentire.
E tutte le notti, in lontananza, è una fiammata, un boato: un ponte che salta in aria!
Quello di Casali, del Roccione, di Ziona, del Buggio, di Ferdinin, di Piane e del Groppin, sono sette ponti distrutti sulle principali rotabili che dalla riviera e dalla pianura portano al Taro; gli ultimi sette ponti che collegavano la valle della libertà con la repubblica dei tiranni.
Il nemico passerà ancora, ma a piedi!
Dopo questo intenso lavoro di organizzazione militare
e logistica; due unità: la nuova Brigata ed il battaglione San Marco, riceveranno, sullo Scassella, il battesimo del fuoco.
DIVISIONE MONTEROSA
Era vicino il tempo in cui la Monterosa, varcato il Brennero, doveva rientrare in Italia. Era la prima divisione neo-fascista addestrata negli ergastoli tedeschi, l’unica unità veramente equipaggiata e che raccoglieva gran parte delle speranze del rinato fascismo. Tra i partigiani se ne parlava molto. Correva voce che questa divisione, giunta in Patria, avrebbe fatto causa comune con i patrioti e che il comando alleato aveva tutto già predisposto per mantenerla in efficienza al nostro fianco. Tutto questo, non so con quale fondamento, si diceva: certo che molte speranze si erano accese nei cuori. Si guardava al suo arrivo e al suo impiego come prova del fuoco delle possibilità di ripresa della cricca militaristica capeggiata da Graziani. Se questo fosse avvenuto, oggi registreremmo un atto di meno, importantissimo atto, della tremenda tragedia che ha fatto piangere e sanguinare il volto tormentato della Patria.
Venne la Monterosa: le speranze furono deluse. Si parlò di epurazione nelle file e gli pseudo alpini fecero la guerra contro i fratelli. Le popolazioni trovarono in essi i saccheggiatori e gli incendiatori delle loro case; i partigiani, i più tenaci rastrellatori; la chiesa, si anche la chiesa, è in lutto per essi che si macchiarono de1l8 fucilazione di suoi ministri.
Se la storia si fosse capovolta e l’8 maggio 1945 fosse stata la giornata dell’ex-duce, alla Monterosa non sarebbe mancato il trionfo, meritatissimo, e lui, lassù, dal balcone di palazzo Venezia, avrebbe certo elogiato i «suoi» alpini,fascisticamente fedeli alla consegna data in terra straniera – Andate! Scopate e spretate l’Italia!
Vennero e si schierarono. Parecchi battaglioni furono scaglionati lungo la linea di demarcazione della zona da noi controllata: Bracco, passo di Velva, passo di Centocroci, passo del Bocco, Bedonia e Borgo Val di Taro: sei munitissimi caposaldi contro la «Centocroci». Per misura di sicurezza, quelle che chiameremo le posizioni tradizionali delle nostre forze furono rettificate, pur restando libera al nostro traffico e ai nostri rifornimenti tutta la valle del Gotra fino al bivio della Bertorella.
La « Centocroci » si schierò lungo la linea leggermente curva che va dal monte Gottero al monte Focetto, col controllo dei passi che dalle valli di Zeri e del Vara portano a quella del Taro.
La mattina del 30 agosto, sui muri dei paesi controllati dalla Monterosa, il comandante Carloni aveva fatto affiggere un bel manifesto verde nel quale, in una lunga enumerazione di reati, minacciava di fucilazione le autorità e le popolazioni che avessero comunque prestato aiuto ai « fuori legge» e fissava, per i giovani di leva, un ultimo atto di clemenza: …« Chi non si presenterà a quésti comandi entro le ventiquattrore del giorno 15 settembre 1944, sarà deferito al tribunale divisionale e condannato a morte ». Nella notte del 2 settembre, al centro di quel manifesto ne fu attaccato un altro, un po’ più piccolo:
«VOLONTARI DELLA LIBERTA’ » «Brigata CENTOCROCI » «Ufficio comando»
A CHI DI COMPETENZA
In risposta al manifesto a stampa in data 22-8 U.s., a firma dell’ex-tenente colonnello Mario Carloni, sedicente comandante della pseudo divisione repubblichina» « Monterosa », notifichiamo ufficialmente a chi di competenza, in nome e per incarico del legittimo governo nazionale, quanto segue :
1). I cittadini italiani che militano nelle cosiddetta» « divisione « Monterosa » o in altra unità neo-fascista, servendo vigliaccamente il supremo nemico della Patria o vestendone la divisa, saranno deferiti ai competenti tribunali militari dopo la imminente vittoria alleata e condannati a morte per alto tradimento, a norma del vigente Codice penale militare di guerra .
2). Per ogni cittadino fucilato da elementi della» « Monterosa » per i casi previsti dai numeri 1-2-3 e 4 del nominato avviso alla popolazione, saranno immediatamente passati per le armi dieci fra neo fascisti, spie, ufficiali e soldati traditori della «Monterosa» o di altra unità o reparto neo-fascista ecc. Nel caso venisse consumato anche un solo assassinio di quelli previsti dal ricordato manifesto, l’ex-tenente colonnello Carloni, tutti gli ufficiali traditori della « Monterosa », ivi compresi i membri del cosiddetto tribunale divisionale e gli eventuali componenti il plotone di esecuzione, verranno, dopo la certissima vittoria, a norma della nota dichiarazione elaborata dalla conferenza alleata di Mosca, GIUSTIZIATI SUL LUOGO STESSO DEI LORO MISFATTI .
3 ). Chiunque denunciasse a comandi tedeschi o neo fascisti la presenza o il passaggio in una determinata zona di reparti patriottici, sarà immediatamente deferito come spia al tribunale militare patriottico e condannato a morte.
4). I cosiddetti podestà o commissari e qualsiasi altro funzionario delle amministrazioni Comunali o di altra pubblica amministrazione che prestassero aiuto od assistenza a reparti militari traditori o tedeschi o che comunque ubbidissero alla disposizione numero 6 del nominato manifesto 22-8-44, stabilendo eventualmente con elementi civili un servizio di vigilanza presso le opere d’arti e negli abitati, saranno deferiti ai competenti tribunali militari di guerra per intelligenza con il nemico e duramente puniti .
5). NEI CONFRONTI DEI CITTADINI ITALIANI CHE MILITANO NELLA «MONTEROSA» nella ITALIA ecc. CHE ABBANDONERANNO ENTRO IL 15 SETTEMBRE 1944 I REPARTI DEL DISONORE E DELLA VERGOGNA NON SARA’ APPLICATA LA NORMA DI CUI ALL’ART. 1.
«I militari si rivolgeranno ai nostri reparti per le informazioni e gli aiuti loro necessari. I militari saranno accolti fraternamente dai partigiani ».
«NESSUNA FUGA O MIMETIZZAZIONE VARRA’ A SALVARE I TRADITORI DAL GIUDIZIO INESORABILE CHE LI ATTENDE I VARI TENENTI COLONELLI CARLONI, MAGGIORI MARIO GINARDI E TENENTE MELEGHETTI DELLA GUARDIA FASCISTA, CAPITANI GALLIANI DEL BATTAGLIONE «LUPO» MAGGIORE CADELO DEI BERSAGLIERI REPUBBLICHINI ECC. ECC. NON CREDANO DI RIMANERE IMPUNITI! LI INSEGUIREMO FINO AGLI ULTIMI CONFINI DELLA TERRA! I NOMI E GLI INDIRIZZI DEI TRADITORI E DEI CRIMINALI SONO GIA’ ASSICURATI ALLA GIUSTIZIA. E’ DI QUESTI GIORNI L’IMPEGNO UFFICIALE ALLEATO DI OTTENERE, NON APPENA ULTIMATA VITTORIOSAMENTE LA GUERRA, L’ESTRADIZIONE DEI TRADITORI ANCHE DAGLI STATI NEUTRALI ».
QUALI REPARTI DELL’ESERCITO REGOLARE CI IMPEGNIAMO SOLENNEMENTE, IN NOME DEI NOSTRI GLORIOSI CADUTI, DI CONTINUARE, CON TUTTE LE FORZE, LA LOTTA EROICA CONTRO IL TEDESCO INVASORE ED A STRONCARE CON OGNI MEZZO IL RIBELLISMO ED IL BANDITISMO NEO-FASCISTA .
IN QUESTO SECONDO RISORGIMENTO DELLA PATRIA TENIAMO ALTA QUELLA STESSA BANDIERA CHE UN GIORNO NON LONTANO INSEGUI’ IL TEDESCO NELLA GLORIA DI VITTORIO VENETO ».
XXX li 1 settembre 1944.
Il comandante la brigata
Richetto
I nostri bravi montanari gioirono. E gli alpini?
Giornalmente si notavano i sintomi dello sfaldamento
della unità avversaria. Gruppi, anche numerosi (l’eroico sergente Confortini ne condusse sessanta), si presentavano ai nostri posti di blocco. Erano i primi, i migliori, che non furono sordi alla voce della Patria. Erano accolti con festa: come fratelli. Gli uomini del battaglione « Brescia» si imposero presto al rispetto dei «vecchi»: scrissero pagine di vero valore. La Centocroci ne annovera ben sei nell’albo di gloria dei suoi Caduti: Tra essi, Giorgio Susani, proposto per la medaglia d’oro alla memoria e Zamboli Angelo proposto per la medaglia d’argento alla memoria.
Ma furono sintomi, soltanto sintomi di sfaldamento, che effettivamente la «Monterosa» restò fino all’ultimo fedele al nemico: più di qualsiasi altra unità dell’esercito fascista ostacolò la riscossa del popolo italiano.
Sulle nuove posizioni iniziarono due mesi di vita veramente alla macchia, due mesi di vita sotto la tenda, due indimenticabili mesi pieni di nostalgia, incancellabili dal cuore di ogni partigiano della « Centocroci », che te li richiama in un quadro mentale dal titolo: « Al lago di Scala ». Un avvallamento acquitrinoso formava un ampio prato sulla parete del monte Focetto che scende leggermente degradante fino a Boschetto. Tutt’intorno una foltissima foresta di faggi alla cui ombra cresce il mirtillo e zampillano freschissime le acque di due ricche sorgenti.
Questo il campo di lancio n. 1 dove più notti si posarono i «bidoni» piovuti dal cielo. Venti, trenta paracadute, bianchi e colorati – le tende dei partigiani – sono disseminati per la macchia: fiori giganteschi della nuova primavera italica! Ribelli dappertutto, a centinaia!
Qua e là pennacchi di fumo: su due pali piantati nel terreno una stanga sostiene i calderoni del rancio. Al centro del campo, vicino ad una grande bandiera tricolore che sventola, un gruppo di partigiani sta sudando vicino ad un mulo affondato nel pantano.
E tra le tende c’è quella dell’intendenza con i viveri, quella dei radiotelegrafisti con la trasmittente e quella del comando presso la – quale si ode il caratteristico ticchettio delle macchine da scrivere: anima vitale di tutta quella vita.
Dopo il rancio della sera, sotto la tenda di Nino, Aldo e Marietto ti mettono la frenesia ai piedi riesumando le romanze della generazione passata; un gruppo di francesi canta la Marsigliese e le marce del « maqui >;.
E prima che la pace scenda sul campo, un grande. coro, come se tutto l’accampamento fosse una sola tenda sotto le stelle, chiude la storia di una giornata di più di tormento sa lontananza:
Buona notte, mamma, buona notte.
Quante volte ho visto piangere questi leoni dal cuore di bimbo! Quante emozioni, quanti dolci richiami suscitava in essi quella canzone! Era un coro solenne, un coro robusto. Spesso Richetto protestava:
– Non cantate così che gli alpini vi sentono. Smettevano un istante, poi riprendevano. Il canto era
la loro anima.
Quel campo, quei faggi che lo circondavano, non videro e non vedranno mai più tanta vita!
A turbarla pensò la Monterosa.
Tentò due volte l’ascesa di quel monte, e furono due battaglie: quella della Costazza (23-24 agosto) e quella di Montegroppo (13 settembre).
Una colonna di alpini, circa trecento, giungeva la sera del 22 agosto a casa Gotelli ad Albareto. Un’altra colonna di quattrocento si accampava a Rovinaglia.
La catena montagnosa che dalle nostre posizioni del Focetto scende a Rovinaglia, e la catena che dalle stesse posizioni scende ad Albareto formano una grande V. Sulla destra: la Costazza. Praie e monte Ribone. Sulla sinistra monte Corlo e Beccomuzzo. Da Beccomuzzo alla Costazza erano schierate le forze della «Centocroci»; a Praie la brigata «Gramsci »; all’estremità destra, nella zona con epicentro il Ribone, la brigata «Vanni ».
Alle ore 10 del 23 i quattrocento iniziavano da Rovinaglia l’offensiva contro la nostra ala destra attaccando il Ribone con grande violenza. La brigata «Vanni» presa sotto il poderoso fuoco delle armi pesanti avversarie, dopo breve lotta, si sgancia fuori zona.
L’ala sinistra dell’avversario protetta da un fuoco infernale di mortai da 81, avanza inesorabilmente verso il Focetto, mentre l’ala destra stava con le armi al piede ad Albareto.
Era manifesto il piano nemico: occupare il Focetto e le alture alle nostre spalle e con le forze ferme laggiù chiuderci in un cerchio.
Si presero accordi con Salvatore, comandante della « Gramsci » e fu decisa una azione combinata onde impedire la pericolosa avanzata. Alle 14 il nemico attaccava violentemente la « Gramsci ».
Allo scopo di alleggerire l’urto avversario, Richetto dava ordine alla prima compagnia di Camillo schierata sulla Costazza di entrare in azione e alla seconda compagnia di Aldo, schierata sulla destra (Focetto-Monte Corlo-Beccomuzzo) di aprire il fuoco delle armi pesanti sulla colonna nemica.
Otto ore di combattimento accanito.
Poche volte sentii crepitare le armi automatiche con più intensità di quel pomeriggio. Il nemico rispondeva rabbiosamente al nostro fuoco. Ma l’avanzata fu fermata. Alle 22 su tutta la zona ritornò la calma. Si aspettò il giorno senza chiudere un occhio.
Alle 8 del 24 si riaccese la lotta. Protetto dai mortai, il nemico riprese l’avanzata. La Compagnia di Camillo, occultata tra i densi faggi della Costazza, l’attendeva al varco. Allorché gli alpini furono vicini, sotto le armi, questa Compagnia rovesciò loro addosso una valanga di piombo. L’avversario, colto dalla sorpresa, si smarrì. Un fuggi fuggi generale, più che un ripiegamento. Molti morti giacevano sul terreno. La sparatoria durò tutto il giorno: in modo veramente violento nel pomeriggio.
Alle 13 Richetto fa cessare il fuoco.
Pietrino sale sulla scogliera che forma la nostra trincea del Corlo e, ritto, porta il megafono alla bocca e parla al nemico:
– Alpini della « Monterosa »! Cessate la lotta fratricida!
Venite con noi! Vi accoglieremo come fratelli!… Molti Patrioti, sulle armi, piangevano!
La voce di Pietrino si ripercuote in tutte le valli che ci stanno sotto, giunge al nemico che, cessato il fuoco, l’ascolta.
Ma per poco, che nutrite raffiche di mitragliatrice la soffocano. La lotta riprende più accanita che mai. Alle 16, Richetto contrattacca violentemente con la Compagnia Comando, la seconda e parte della terza Compagnia, il fianco destro della colonna dalle posizioni del monte Corlo; Camillo contrattacca con la prima Compagnia scendendo contro al nemico dalle posizioni della Costazza.
Gli Alpini, impressionati dall’irruenza dell’attacco e dal fuoco intensissimo delle nostre armi, ripiegano lentamente, ma inesorabilmente, verso il Monte Bratello.
E il colonnello Farinacci, con i suoi sedicenti alpini, ritorna alla pianura con le pive nel sacco, regalando alle forze della libertà: un nuovissimo mortaio da 81, un fucile mitragliatore «Breda », molte armi individuali con abbondante munizionamento.
Quella sera, senza una graffiatura, i ribelli della « Centocroci» ritornarono stanchi, ma contenti, a riposare sui mirtilli, sotto le tende. .
Difesa la tranquillità, serena, animata, riprese la vita. E la domenica di San Genesio, in una gloria di sole, la Messa al campo. Messa caratteristica: Messa da partigiani! Tre casse di munizioni coperte da un bel tricolore sorreggevano la mensa. Due strisce di latta, lucentissime, fissate ad un bastone conficcato in terra, formavano la Croce; il leggio lo procurò Vittorio, il sabotatore, servendosi di una latta da capsule per bombe «signorine» e le ampolline le procurò, raggiante, Pietro, detto «Maresciallo dell’Impero », ma con poca fatica perché erano due bicchieri trafugati a Marseille, cuciniere del comando.
Se dall’Olimpo si vede monte Corlo, Marte invidiò certamente quel complesso!
Due vecchi «lupi» della montagna, inginocchiati sull’erba, servivano la Messa. Sul campo, di fronte all’altare Richetto, lo stato maggiore, i comandanti dei reparti e un quadrato imponente di uomini. Al Vangelo mi rivolsi a loro. Li chiami « fratelli» più volte come ha fatto sempre, . perché « fratelli» li sentivo, più di tutti gli altri. Le sofferenze, la fame, i pericoli, le atroci ansie, gli inenarrabili stenti della vita sulla montagna, sofferti insieme, avevano potenziato la fratellanza spirituale che mi legava a loro: avevano stretto dei vincoli più forti del legame del sangue.
… non potete servire a due padroni: Al bene e al male.
Alla giustizia per voi, alla ingiustizia per gli altri. Beati quelli che sono perseguitati per amar di giustizia perché di loro è il possesso del Regno.
.. .non potete servire a due padroni. Al bene e al male: alla libertà per voi, alla schiavitù per gli altri, Beati i mansueti perché possederanno la terra.
.. .non potete servire a due padroni: Al bene e al male: pretendere la moralità negli altri senza frenare voi stessi. Beati i pur idi cuore perché vedranno Iddio .
Mentre parlavo leggevo loro negli occhi.
Quanto balsamo portava in quei cuori, esacerbati dalla tirannide, l’eterna parola dell’Uomo-Dio! E quando Cristo scese su quell’altare, caddero tutti in ginocchio e Lo adorarono: l’Italia ai monti, la nuova Italia, cattolica e democratica, rendeva omaggio all’Eterno Re!
Quante volte le religiose popolazioni del Taro e del Varo furono edificate da questa fede!
Di tanto in tanto, lassù. tra i faggi, arrivava qualcosa a confortare i sacrifici degli uomini. L’8 settembre il Comandante notifica un telegramma del Generale Alexander :
Brigata «CENTOCROCI » Comando
lì 8-9-44
A tutte le Compagnie dipendenti
Loro Sedi
Trasmetto a tutte le unità dipendenti l’elogio diretto alla brigata « Centocroci » da parte del Generale Alexander, comandante delle forze alleate in Italia:
La disfatta totale tedesca per la quale avete aiutato con tanto successo, est adesso in vista; perciò il generale Alexander comunica adesso nuove istruzioni.
Continuate ad attaccare tutti obbiettivi militari vie di comunicazione ei gruppi isolati di tedeschi in ritirata. Non dico distruggere impianti elettrici installazioni acqua potabile in modo irreparabile perché popolazione soffrirebbe molto più che tedeschi
Firmato: Alexander
Il 15 settembre, dopo che il colonnello Turchi, allora comandante la prima Divisione « Liguria» ha ispezionato i reparti della Centocroci, trasmette a tutte le Brigate della sua unità la seguente comunicazione:
COMANDO DIVISIONE LIGURIA
X lì 20-9-44
Al Comando della brigata « Centocroci » e per conoscenza alle brigate: «Giustizia e Libertà, « Vanni» e « Gramsci ».
« Loro Sedi»
Esprimo il mio vivo compiacimento per l’ottima organizzazione, disciplina e l’addestramento della vostra brigata, riscontrati durante la visita dell’11 settembre .
Prego portare quanto sopra a conoscenza del personale dipendente .
Il comandante Turchi
All’alba del 13 Settembre la « Monterosa» ritentò la prova contro la « Centocroci ». Questa volta non con l’arma del valore, ma con un vergognoso tradimento. All’estremità dell’ala sinistra del nostro schieramento erano dislocate due compagnie; la terza comandata da Mantovani e la quarta comandata da Piacentino. La terza sopra il monte Poggio, la quarta sulle alture dominanti gli Squarzi di Montegroppo. Di fronte a queste posizioni, circa tre chilometri in linea d’aria, la catena che congiunge il monte Scassella al Gottero. Su questa catena il valico per Caranza con la Cappelletta. E di lassù, fino al Gotra che ci scorre ai piedi, una parete scoscesa, pietrosa dove soltanto la ginestra ha trovato la terra per fissar le radici. E’ l’alba. Una staffetta di Piacentino arriva trafelata al comando, sveglia Richetto e gli consegna un foglio:
« BRIGATA CENTOCROCI »
Comando quarta compagnia
« Caro Richetto» ,
Una mia pattuglia mi avverte che una colonna di alpini della « Monterosa » sta scendendo da Centocroci a Montegroppo. Ha muli e mortai. In testa alla colonna sventola una bandiera bianca. Verranno ad arrendersi? Ho avvertito già la terza. Le due compagnie sono in postazione: qui tutto è pronto. Dammi ordini.
Piacentino
Richetto prese un foglio e scrisse.
Ai comandanti Piacentino e Mantovani
quarta e terza Compagnia – Loro sedi.
State alle armi. Attendete eventi, ordini.
Richetto
Una staffetta corse d’urgenza a portare l’ordine del Comandante. Intanto la colonna, giunta alla Cappelletta, cominciò la discesa su Montegroppo. Il nemico, vicinissimo, allo scoperto, era facile bersaglio al fuoco dei nostri. Ma per l’ordine ricevuto nessuno sparò. La bandiera bianca era visibilissima: si arrendevano. Piacentino però ne dubitava e, per accertarsi, fece sparare in aria una raffica di mitragliatrice. La colonna si arrestò e una voce ben distinta gridò verso le nostre posizioni: – Non sparate! Ci arrendiamo!
La colonna si rimette in movimento, scende, scende lentamente: arriva alla chiesa, ai Bini, tra le case: è sotto di noi. Poi con rapida manovra, piazzate le armi, apre un fuoco micidiale! La terza e la quarta compagnia rispondono con tutte le armi. I mortai, piazzati dietro là chiesa, e in mezzo all’abitato, martellano violentemente le nostre posizioni. Da Centocroci sparano contro di noi i pezzi da 75-13. Una battaglia furibonda! In quell’uragano di ferro arriva Richetto con i rinforzi che rintuzzano l’aggressività avversaria. E’ già passato mezzogiorno e la lotta non tende a diminuire di intensità.
Alle 15 anche i mortai entrano in azione. Varese, che comanda la sezione, vuota, una dopo l’altra diverse casse di proiettili, che quando Varese spara arroventa i mortai e mette molte bombe a segno! Forse per questo hanno individuato la sua posizione: un proiettile dal 75-13 colpisce quasi in pieno la sezione.
Il sergente Giovanni Calvi, già della « Monterosa », è ucciso dai fratelli rinnegati. Sette feriti sanguinano per le schegge ricevute. Tra di essi v’è Mario Castagnoli, che non dà segno di vita e muore undici giorni dopo all’Ospedale di Albareto, v’è Varese che è gravemente colpito agli arti inferiori; vi sono gli altri che se la cavano con poco. I nostri mortai tuonano sempre. Gli uomini della « Centocroci » sono ancora sulle loro posizioni del mattino.
Alle 19 di quella sera, non diversamente dalla sera del 24 agosto la « Monterosa » ritorna a Centocroci. Con quali perdite? Nessuno se ne interessò. Ma Richetto lo sa. Neppure questa volta la Monterosa passò! Passerà in seguito?
Aspetta la prima quindicina di gennaio del 1945!
GORDON LETT
Gordon Lett un maggiore dell’esercito inglese evaso 1’8 settembre da un campo di concentramento della VaI Padana.
Dopo molte peripezie, si portò sui monti del pontremolese e formò la «brigata internazionale» con lo scopo di raccogliere i suoi compatrioti e tutti i prigionieri delle nazioni unite ed operare dietro le linee del fronte.
Alto, asciutto, uomo di poche parole,osservatore attento, era buono, generoso, benefico: un vero gentiluomo.
Lo vedevi invariabilmente sui nostri monti con un paio di pantaloni bleu, con la camicia o il giubbotto militare inglese. Unico segno del suo grado: le corone di Sua Maestra Britannica sulle spalline.
Parlava stentatamente in italiano e con lo sguardo rivolto a terra nella penosa ricerca della parola per manifestare il suo pensiero.
I patrioti gli volevano un gran bene e le popolazioni di Zeri e di Rossano lo circondavano di vero affetto.
Fu Gordon Lett che, quando il movimento patriottico delle nostre zone prese una certa importanza, organizzò il collegamento e i soccorsi da parte delle Nazioni Unite. Al suo servizio venne dall’Italia liberata Alfonso, tenente radiotelegrafista dell’Esercito, che, insieme al suo aiutante Bianchi ed altri, formavano la missione Blundell per il servizio di informazioni.
Con Alfonso e Bianchi il collegamento tra le nostre formazioni e il comando alleato era perfetto.
Ogni tre ore si trasmettevano le notizie di carattere militare che interessavano la nostra zona e le zone limitrofe occupate dal nemico.
Con l’arrivo delle forze alleate nella Garfagnana, Gordon Lett perfezionò questo collegamento anche per mezzo di staffette che settimanalmente, salvo variazione del fronte, attraversavano le linee. Con la creazione della quarta zona operativa, il maggiore Lett lasciò il comando della « brigata internazionale» e coprì la carica di rappresentante alleato nel teatro della quarta zona operativa.
Nel giugno 1944 la « Centocroci » ebbe il primo lancio di armi, materiale bellico e vestiario.
E qui una precisazione.
Questi aiuti alleati, esclusi i primi, sufficienti anche perché il numero dei patrioti era ancora esiguo, furono sempre inadeguati ai troppi grandi bisogni. Se la nostra formazione poté vivere e combattere, come ha combattuto, è dovuto principalmente al valore, alla tenacia degli uomini, che si procuravano gran parte delle armi col combattimento, catturandole al nemico una ad una, è dovuto al sacrificio eroico degli uomini che superò tutte le deficienze; e se nell’inverno del ’44 la nostra formazione non si decimò per la fame, è dovuto alla solidarietà della patriottica gente del Taro che, a prezzo di sacrifici enormi, si privò del necessario per darlo ai suoi patrioti.
E qui non si può non ricordare i sacrifici della gioventù di La Spezia. Li ho visti, questi meravigliosi giovani, lontani dagli aiuti delle loro famiglie, in pieno inverno con gli abiti che avevano sotto il solleone quando dalla riviera vennero ai monti, con le scarpe rotte, varcare silenziosi il monte Gottero a milleseicentocinquanta metri e coperto da uno strato di neve che arrivava alla cintola! Li hanno visti gli abitanti delle nostre montagne, questa gloria di La Spezia, piegati dalla scabbia, carichi di pidocchi, senza possibilità di curarsi e di cambiarsi perché non c’erano né medicine né vestiti!
In compenso però non mancò mai dinamite, munizioni e fucili…
Di chi la colpa di questa situazione? Non certamente del maggiore Gordon Lett che ai patrioti, dei quali conosceva il valore e i bisogni, avrebbe dato anche il cuore.
Ogni richiesta di aiuti agli alleati si faceva tramite il comando partigiano di zona ed il rappresentante alleato Maggiore Gordon Lett, la cui sede era a Rossano nel pontremolese.
I radiotelegrafisti della Missione Blundell comunicavano le coordinate geografiche del campo di lancio, che era generalmente un fondo valle in alta montagna.
Si fissavano i segni convenzionali per individuarlo dall’alto: quattro o più fuochi disposti in forma geometrica; il segnale luminoso: punto-linea, secondo le lettere dell’ alfabeto Morse, fatto mediante una pila tascabile, e i messaggi speciali: uno positivo, l’altro negativo. Uno per ogni campo di lancio.
Hai mai sentito alle ore 16.30, 18.30, 20.30, 22.30 la proibitissima radio Londra?
Te li ricordi benissimo i due messaggi negativi della « Centocroci; «Girovago Eterno» e « La strada era tortuosa »! A quelle ore la radio li ripeteva tutti i giorni e volevano dire: – Tenete pronti i due campi di lancio: presto verremo. – E i due corrispondenti messaggi positivi: «Vincenzino aspetta» e « Il cammino è difficile »? E questi significavano: – Finisce il vostro tormento; questa notte accendete i fuochi: verremo.
Oh le penose attese dei patrioti vicini alla radio negli squallidi casoni sperduti tra i monti, in quelle interminabili serate piene di malinconia! Che abbattimento quando
il messaggio positivo tanto lungamente atteso, non c’era! Si sentiva nell’una e nell’altra trasmissione il ripetersi monotono di « Girovago eterno» e « La strada era tortuosa»! E che cosa volevano dire a te, o patriota della «Centocroci», quei messaggi, sempre negativi, se non: – Spera, spera sempre; soffri ancora freddo e miseria, continua a camminare, o eterno girovago della montagna, che verranno le scarpe per i tuoi piedi doloranti ed i panni per coprire le tue eroiche nudità: marcia, non ti fermare, che la libertà del tuo Paese devi conquistarla per una strada tortuosa, irta di triboli e di difficoltà?
Ma se il messaggio era positivo allora dal comando all’ultimo distaccamento era una festa, una grande festa. Sembrava di essere in mezzo a mille bambini alla vigilia dell’Epifania nell’attesa impaziente della più ricca delle Befane!
Subito partiva la squadra « specializzata» per ricevere il «lancio ». Preparava secondo il convenuto, cataste di ramaglie ed aspettava la notte.
Alle 22,30 circa, si accendevano i fuochi e tra quei bagliori si sognava.
Tutti gli orecchi eran tesi ad oriente. E di che cosa parlavamo in quell’attesa se non dei nostri impellenti bisogni?
– Ci fosse almeno un paio di calze per me! – diceva uno.
– Ci fossero le scarpe – diceva un altro.
– Ma che calze, e che scarpe! Ci vogliono cappotti! Ci vogliono giubbotti! – diceva un terzo.
E un quarto e forse tutti pensavano nel loro intimo:
– Non ci sarà nulla di tutto questo, ma munizioni, niente altro che munizioni!
Improvvisamente, nella notte, lontano, il rumore di un aereo.
– E’ qui, è qui; presto ravvivate i fuochi!
Allora tutti a correre sulla riserva di ramaglia e, legna, legna in quantità: tre, quattro, otto fuochi imponenti! Intanto l’aereo, invisibile, si avvicina.
Il rumore assordante dei motori lascia indovinare la rotta: un ampio giro intorno al campo.
Il segnalatore con la pila si mette al centro dei fuochi, pronto per la segnalazione.
L’aereo sorvola il campo.
Il nostro segnalatore fa scorrere il bottone d’accensione della pila: punto, linea, punto, linea. Un segnale rosso dall’alto: punto, linea, punto, linea. L’aereo ha risposto! E passa.
Un ampia curva: è ancora sul campo. Plof, plof, plof: ha lanciato il suo carico! Pochi minuti, e qua e là, nella macchia, intorno al campo, sul campo stesso, si posano i « bidoni ». Viva gli Alleati!
Ma la notte del 15 settembre l’operazione non andò così.
Quel pomeriggio i messaggi erano tutti e due positivi. Quindi due aerei: uno al campo di lancio di Boschetto, l’altro al secondo campo della Casermetta sulle alture del paesello di Nola, due ore di distanza da Boschetto.
Passò il primo aereo sul campo di Boschetto, rispose al nostro segnale, ma non senza meraviglia, vediamo che prosegue e «lancia» sull’altro campo.
Poco dopo, con la manovra già descritta, il secondo aereo è sopra le nostre teste. Il segnalatore accende la pila: punto, linea, punto, lin… Che cosa è avvenuto?
Fu un attimo. Una fiammata, uno schianto, un fuggi fuggi generale nella macchia illuminata dai fuochi. Aveva fatto un lancio di spezzoni! – E’ Pippo! – Macché Pippo: era il nostro segnalatore che, per la poca praticità per questi segnali di una pila a dinamo, li aveva sbagliati.
E quella notte l’aereo se ne ritornò alla base di partenza col suo carico.
Verso novembre, con la creazione della quarta zona operativa e della seconda divisione ligure «Centocroci» i « lanci» avvenivano in pieno mezzogiorno e con più apparecchi nella valle del Gotra e sulle alture di Porcigatone sotto il naso del presidio tedesco di Borgo Val di Taro. Al posto dei fuochi: paracaduti bianchi e colorati stesi sull’erba.
Questi lanci furono invero abbondanti di armi, munizioni, vestiario ed anche di generi di conforto: viveri a secco, sigarette e cioccolata.
Allora i partigiani poterono spidocchiarsi e un po’ più contenti corsero a frantumare i presidi tedeschi di Ostia, Roccamurata e Fornovo tanto da meritare un elogio da Clark.
E gli abitanti della pianura li videro vestiti a festa e puliti, forse per la prima volta, in tanti mesi di lotta e di sacrifici e li applaudi, frenetico, il popolo di Parma liberata.
IL COLLOQUIO DI TORZA
Ai primi di ottobre 1944 un gruppo di sessanta alpini appartenenti alla divisione «Monterosa », di stanza a San Pietro Vara, si presentava al nostro Comando a Montegroppo. Li conducevano il sergente Confortini ed il caporale Pasqualini. Essi dichiaravano che erano fuggiti dai loro reparti dopo aver distrutto tutte le armi che avevano in dotazione. Da noi furono accolti fraternamente ed immessi tra le nostre file.
Pochi giorni dopo il loro comandante consegnava all’Arciprete di Varese Ligure una lettera perché fosse rimessa ai due coraggiosi alpini.
L’arciprete si presentò al nostro Comando. Il Comandante era assente per ragioni di servizio e mi trovavo io solo per ricevere la sua commissione. Sospettando qualche cosa di grave per i due giovani, prima di consegnare loro la lettera, volli vederne il contenuto. In essa si dichiarava che se entro quarantotto ore non ritornavano ai loro reparti, sarebbero stati fucilati i loro genitori, già catturati dalle forze fasciste.
Stimando questo uno dei soliti barbari ricatti a scopo intimidatorio, non consegnai la lettera ai due destinatari, ma la ritornai al latore con una dichiarazione, a nome del Comando, nella quale si certificava che gli alpini in parola non facevano parte delle nostre formazioni, ma che in ogni modo avremmo fatte ricerche onde impedire il grave provvedimento.
L’arciprete partì dal nostro comando molto preoccupato, anche perché gli ufficiali della « Monterosa » gli avevano intimato, che al ritorno si fosse presentato a loro e si mettesse a loro disposizione. Da questo appariva chiaro che essi intendevano servirsi di lui a collegamento con le nostre formazioni. Infatti dopo pochi giorni ritornò da noi con l’autorizzazione di fissare un convegno tra alcuni ufficiali della «Monterosa» e nostri rappresentanti.
L’incontro avvenne a Torza, frazione equidistante dalle zone occupate dalle forze in campo. Per noi erano presenti: il Commissario Politico Benedetto e il dottore Roberto Bertè. Per gli Alpini: il tenente colonnello Chierici e il tenente Bernardi. Presenti come neutrali: Don Olivieri, Arciprete di Varese Ligure e Don Bobbio, parroco di Valletti.
Molte furono le parole: non mancò qualche spunto polemico. Il tenente Bernardi stenografò ogni cosa.
In quell’occasione Don Olivieri, con le lacrime agli occhi, pregò le due parti a non voler infierire contro la povera popolazione, desiderosa sola di pace e di tranquillità. La sua parola forte, ispirata solo dalla carità cristiana, fece molto buona impressione sui parlamentari.
Da questo primo colloquio una cosa appariva chiara: il tenente colonnello Chierici attraversava una profonda crisi spirituale. Ma non si venne ad alcun accordo: le due parti si salutarono e fecero ritorno alle loro basi.
Il tenente colonnello Chierici pregò i due sacerdoti di salire con lui a Velva e li invitò a mensa con gli altri ufficiali. .
Lassù si ripresero le discussioni: Don Bobbio finì per convincerli che una sola soluzione era per loro possibile: passare con le forze patriottiche. Il Chierici restò così scosso dalla parola del sacerdote, che gli consegnò il suo diario spirituale e in quella notte lo chiamò per ben due volte al telefono. Tutti gli ufficiali erano decisi a seguire questa via: volevano scendere da Velva la sera stessa con lui. Don Bobbio non volle: raccomandò di aspettare. Lo stesso tenente Bernardi pregò Don Bobbio di volersi interessare per attuare il loro desiderio. Ma costui mentiva o aveva paura.
In seguito sarà lui che spegnerà l’anelito generoso dei compagni: denuncerà all’autorità fascista Don Bobbio e lo stesso comandante. Il primo sarà fucilato al Poligono di Chiavari, il secondo sparirà dal Comando della piazzaforte di Velva la sera prima del colloquio decisivo.
Pochi giorni dopo il nostro Comando venne a conoscenza che la resa del battaglione sarebbe avvenuta, ma che il tenente colonnello Chierici voleva trattare con un comandante superiore dei partigiani, che potesse garantire dinanzi al legittimo governo la loro posizione.
Allo scopo di rendere possibile questo passaggio, inviavo una lettera a Don Bobbio, nella quale lo pregavo di fissare un colloquio pèr martedì 12 settembre alle ore 9 nella località dove era avvenuto il primo incontro.
Il tenente colonnello Chierici e gli altri ufficiali si sarebbero incontrati con il colonnello Turchi, allora Comandante la prima divisione «Liguria».
Nel mentre io partii per il Comando di Divisione, a Sasseta, nello Zignago. Nel viaggio ebbi la fortuna e l’onore di rendere omaggio, a nome dei patrioti della zona, a Sua Eccellenza Mons. Stella, Vescovo di La Spezia, allora in visita alle parrocchie dello Zignago. Si trovava a Scogna in una casa di privati. Mi feci annunciare da un ragazzo e mi presentai a Lui. Era in una ampia sala in piedi, attorniato da tutto il Clero della zona; mi sorrise paternamente e mi salutò con queste parole:
– Venga, Don Luigi! Mi gettai ai suoi piedi.
I due partigiani che m i accompagnavano, nella sala,vicino alla porta, presentavano le armi. Erano le forze dell’Italia martire, della nuova Italia, che rendevano omaggio al rappresentante della Chiesa. Consegnai al Vescovo la lettera del Comandante delle forze partigiane della zona: la lesse, mi raccomandò i suoi diocesani e, visibilmente commosso, mi benedisse, confortandomi a perseverare nel mio duro lavoro.
Nel pomeriggio, precedentemente informato dello scopo della mia visita, giunse il colonnello Turchi.
Insieme partimmo dopo esserci rifocillati e giungemmo a San Pietro Vara che era già notte.
Verso le nove del mattino seguente erano ad attendere il nostro colonnello, sulla strada che porta a Torza: Virgola, comandante della brigata «Coduri », Don Bobbio, e Pepe, studente in medicina, appartenente alla sanità della terza Divisione «Liguria », già in rapporti con le forze fasciste di Velva.
Giunto il colonnello, salimmo sopra una camionetta e ci dirigemmo alla locanda della Posta in Torza, luogo convenuto per il colloquio.
Verso le 10 giunse sul posto il Sottotenente Garuffi, Comandante l’artiglieria della piazzaforte di Velva.
Si presentò al colonnello: ci salutammo militarmente: lui col braccio teso, noi portando la mano al berretto: nel saluto c’era la separazione di due mondi ideali: una schiavitù che tramontava, una tradizione di virtù militari che prepotentemente ritornava alla storia. Egli scusò il ritardo e spiegò che gli ufficiali di Velva, per una misura di prudenza, non avevano creduto opportuno partecipare insieme al colloquio: nel pomeriggio avrebbe accompagnato un suo collega, il sottotenente Penasa e alle 9 del giorno seguente il tenente colonnello Chierici e il tenente Bernardi.
Il colonnello Turchi sali solo con lui e, dopo dieci minuti di colloquio appartato, fummo ammessi alla discussione. Dopo una vivace polemica, il sottotenente Garuffi era fermamente deciso. a collaborare con noi: sarebbe restato al suo posto con la batteria e gli uomini; nell’azione finale avrebbe combattuto al nostro fianco.
Alle 3 del pomeriggio, come d’accordo, Garuffi ritornò al convegno col sottotenente Penasa. Ancora saluti, presentazioni, strette di mano, colloquio appartato, discussione e perfetto accordo.
Tutti erano contenti, meno il nostro. colonnello. Egli da vecchio soldato non si nascondeva le difficoltà ancora da superare.
Accompagnai i due ufficiali per un tratto di strada; chiesi loro l’impressione di questo incontro:
– Il vostro colonnello è un uomo meraviglioso, dalla logica penetrante, ma un po’ metallico.
Mi invitarono a cena alla piazzaforte fascista, ma per ragioni facilmente comprensibili, declinai l’invito e ci lasciammo con l’augurio di abbattere la barriera che ci divideva.
Al mattino seguente ritornammo al luogo del convegno.
Si aspettava con impazienza l’arrivo del tenente colonnello Chierici e del tenente Bernardi. Nel frattempo mi ero allontanato di duecento-trecento metri verso Velva e sentivo dal Paroco di Torza i commenti della povera popolazione sulle trattative in corso.
Mentre stavo così conversando, alla svolta della strada apparve un barroccio. Lo montavano il sottotenente Garuffi e il tenente Bernardi.
E il tenente colonnello Chierici?
Andai loro incontro, scesero dal barroccio e ci salutammo.
I due ufficiali erano taciturni, più taciturno il Bernardi.
Facemmo molti passi senza proferir parola. Per rompere questo fastidioso mutismo, tentai di animare una conversazione qualunque, ma con poca fortuna.
La burrasca che sconvolgeva lo spirito del Bernardi era più preoccupante di quella che si preparava nel cielo. Allora affrontai la questione di petto:
– Come mai non si presenta il vostro comandante di reggimento?
– E’ partito per una ispezione sulle linee del fronte: non sarà presente che fra otto o dieci giorni.
Furono le sole parole che uscirono dalla sua bocca, in tutto il tragitto. E si arrivò al luogo del convegno.
Il nostro colonnello dopo aver risposto al suo saluto, lo fece salire alla solita sala squadrandolo con i suoi occhi e contemplando la buffa sagoma, quasi volesse carpirgli con quello sguardo inquisitore il suo segreto.
Restarono una mezz’ora soli: poi fummo ammessi alla loro presenza. Allorché comparimmo nella sala, il colonnello, puntando il dito contro il Bernardi, ce lo presentò con queste parole:
Ecco un uomo in perfetta malafede! Tenente Bernardi, favorisci ripetere a questi miei collaboratori le tue argomentazioni.
E Bernardi ripetè: – Noi non possiamo fare causa comune con voi perché ciò è contrario al giuramento che abbiamo prestato: siamo uomini di onore e non spergiuri.
Il nostro colonnello non poté trattenere un violento moto di collera. Era il vecchio soldato fedele di fronte ad un altro che la stessa fede aveva tradita:
– Non puoi parlare di onore tu, o tenente Bernardi, tu che servi la causa di chi opprime l’Italia, di chi l’Italia ha tradito, tu che mangi il pane tedesco, che servi il tedesco; tu sei un traditore, un venduto. Degli uomini che, oppressi, ti ubbidiscono, renderai conto alla Patria che hai tradita e la Patria ti colpirà come tutti i traditori con la fucilazione alla schiena. Questa è la fine che ti attende. Il tenente colonnello Chierici è al fronte? Tu volevi dieci giorni di tregua, ma questa tregua non l’avrai. Dalle nove di questa sera si ristabiliscono le ostilità.
Il Garuffi aveva le lacrime agli occhi: Bernardi era livido e mormorò fra i denti queste sole parole non intese però dal colonnello:
– Siamo in belligeranza anche da questo momento. Il colonnello aprì la porta e segnandola, lo invitò ad uscire facendoselo passare innanzi come un cane. Bernardi salutò. Il colonnello, fiero, non rispose. Ultimo uscì Garuffi, che guardando in viso tutti noi, con gli occhi bagnati di lacrime, allungò la mano per chiedere la carità di una stretta. Il colonnello gliela strinse e così tutti noi.
Don Bobbio accompagnò il gesto con queste parole, dette con voce abbastanza alta perché il Bernardi potesse udirle: – Finalmente ha gettato la maschera.
Queste parole dovevano, due mesi dopo, costargli la vita.
LA PASSIONE DI NATALE
Quando sentimmo la radio delle nazioni unite annunziare al mondo le brillanti operazioni delle truppe alleate sul fronte di Normandia e il rapido frantumarsi della linea « gotica» in Italia, in tutti i partigiani si radicò il convincimento che non avremmo passato il secondo inverno sui monti. Ad accrescere questo convincimento, a dargli quasi la solidità di una certezza, quelle notti gli aerei alleati lanciarono sulla nostra zona dei manifestini con un messaggio del generale Alexander nel quale si diceva tra l’altro: « Il giorno da voi tanto atteso è finalmente giunto. Faccio appello a tutti i patrioti d’Italia di insorgere contro il comune nemico .
A quello di Alexander, seguì il proclama del colonnello
Turchi, comandante la prima divisione «Liguria ».
Patrioti!
Il momento da voi tanto atteso con fede incrollabile è finalmente giunto !
Non siete stati fiaccati né dalla vita durissima dei monti, né dall’insidia della città .
Rappresaglie, rastrellamenti, fucilazioni, torture, prigionia, combattimenti, freddi, fame, diffidenza di gente inerte, odio di parte e di razza, non sono valsi a distruggere od a spegnere la fiamma ideale per la quale lasciaste case, famiglie, averi .
Sui monti di Lunigiana, sul contrafforte del Gottero, del Molinatico, dello Zerasco, del Rossanese, nelle vallate del Taro, del Vara e del Magra, avete temprato muscoli e cuori per il giorno dell’azione finale.
Esso è ormai giunto.
Le nostre formazioni, fuse in un solo incrollabile fronte, scenderanno al mare per l’ultima definitiva battaglia .
Non abbiate pietà per i nostri nemici.
A qualunque costo entreremo nel capoluogo della nostra provincia a riportarvi l’ordine, ripristinarvi la libertà.
A voi in questo finale di armata riscossa italica, la consegna di essere degni del titolo di patriota .
ORDINE, DISCIPLINA, CONTEGNO ESEMPLARE
Patrioti della prima divisione « Liguria» in alto i cuori ed avanti per l’onore e per la libertà della nostra gente.
Il Comandante la prima Divisione «Liguria»
«Colonnello Turchi»
Non solo. Ma tra i nostri incartamenti, ci sono anche i manifesti con le ordinanze, i proclami per le popolazioni, che nella nostra calata avremmo liberate; e il 19 settembre è ancora il Colonnello Turchi che informa: « In questi giorni saranno lanciati dei volantini per sollecitare le truppe tedesche ad arrendersi ai patrioti .
Tutto è pronto. Sono pronti i cuori, sono pronte le armi.
Chi pensa ai mesi terribili che dovranno venire?
Passa settembre, arriva ottobre. E poi? Tutti lo sanno: gli alleati, giunti nella Romagna, oltre Rimini, e nella Toscana, oltre Firenze e Livorno, si fermano.
L0 spettro dell’inverno incombe su tutti gli spiriti.
Al grande entusiasmo succede il più grande sconforto.
Non teme il partigiano tanto il freddo, anche se non è equipaggiato, teme l’inutile massacro. Egli pensa che chi gli dà la possibilità di combattere in una zona di montagna ristretta qual’è l’Appennino, dietro il fronte, circondata da ingenti forze nemiche, è la pressione che su queste forze esercita il fronte stesso. Se il fronte si ferma, il nemico che dispone di venti divisioni, può, senza difficoltà rastrellare, palmo a palmo, le sue montagne, annientarlo.
Per questo, alla metà di ottobre le nostre brigate minacciavano di sfasciarsi e il colonnello Turchi, consapevole della grave situazione, dà le direttive che consiglia il momento:
COMANDO DIVISIONE LIGURIA
18 ottobre 1944
«A tutti i Comandi di Brigata»
e per conoscenza»
Al Comitato di Liberazione Nazionale di La Spezia .
Questo comando in previsione che il rallentarsi dell’offensiva alleata nel settore tirrenico possa portare ad una stasi invernale del fronte, preoccupato per la situazione logistica ed alimentare delle formazioni patriottiche, tiene a portare, sin d’ora a conoscenza le disposizioni che verranno attuate in tale deprecabile eventualità, previa autorizzazione del Comitato di Liberazione Nazionale di La Spezia» :
l). – I Comandi di Brigata invieranno in licenza senza termine ed al loro domicilio tutti coloro che abbiano la possibilità di ritornarvi e di vivere.
2). – Tutti quegli altri elementi che non abbiano tale possibilità, o perché il loro domicilio si trovi nell’Italia liberata, o perché non possano farvi ritorno essendo essi oggetto di particolare persecuzione da parte dei tedeschi e fascisti, saranno, a cura dei rispettivi Comandi appoggiati a famiglie che accettino di ospitarli, dietro ricompensa, oppure riuniti in gruppi nei pressi di località abitate.
3 ). – Tutti gli elementi dovranno conservare presso di se le armi individuali. Le armi di reparto e gli altri materiali dovranno essere raccolti e nascosti a cura del Comando.
4 ). – I Comandi di Brigata ridurranno al minimo il » « loro personale e costituiranno il loro quartiere invernale in una località della zona di competenza, segnalandola a questo Comando .
5). – Il Comando-Divisione rimarrà in zona con stanza in qualche paese e ivi, oltre a svolgere tutte le attività pertinenti alla nuova situazione, provvederà a sovvenzionare quegli elementi che non possono rientrare al proprio domicilio.
6). – Nell’ipotesi che la situazione dovesse improvvisamente mutare e l’offensiva alleata dovesse riprendere facendo prevedere il più rapido concludersi degli avvenimenti, tutti i Comandi di Brigata dovranno mobilitare nel termine di quarantotto ore gli effettivi dipendenti .
Il COMM. POLITICO Il COMANDANTE di DIV.
Salvatore Colonnello Turchi
I partigiani, specialmente quelli dell’Italia liberata, assediano i comandanti, vogliono i documenti, per passare il fronte. Tanto che al 23 ottobre Richetto rende… «edotti tutti i comandi dipendenti che il quartier generale alleato ha fatto sapere che qualsiasi patriota che passerà le linee del fronte, sarà trattenuto in appositi campi di concentramento. Pertanto prega volerne informare i patrioti dipendenti ».
Furono attuate le giuste misure del colonnello Turchi?
No. Per la fede, forza degli uomini! Chi ha combattuto e sofferto per mesi e mesi, chi ha affrontato cento volte la morte, non può, sotto il peso di un momento terribile, soffocare la fede, la speranza, che in tanti sacrifici in tanti pericoli, lo ha sorretto. Ed allora spera ancora, guarda il fronte con l’arma in pugno; domani, forse, il fronte si muoverà! Arriva novembre. Gli alleati sono ancora laggiù. Il partigiano continua a sperare.
A toglierli anche quest’ultima speranza ci pensa radio Londra, la sera del 1 novembre. Il Generale Alexander, in un lungo messaggio annuncia ai partigiani che si inizia la campagna invernale. Facessero pertanto economia di munizioni, evitassero di attaccare in forze, perché gli eserciti alleati in Italia, per la stagione, non avevano possibilità di compiere operazioni su larga scala.
Non so se gli uomini l’intesero così; certo è che quel messaggio fu aspramente criticato dai nostri. Gli ottimisti vi vollero vedere una mossa inglese allo scopo di alleggerire il fronte e poi avanzare; quelli che vedevano più nero, criticarono il modo col quale quelle notizie ci erano state notificate. Se effettivamente gli Alleati intendevano marcare il passo, era proprio necessario che una notizia di carattere militare tanto importante per noi, fosse comunicata ai quattro venti con tanta pubblicità?
Se non avanzano gli Alleati contro i tedeschi, sono i tedeschi ad avanzare contro di noi.
Comunque sia, quel messaggio non ci rialzò certamente il morale .Il Comandante accortosene, rivolge a loro, il giorno dopo, il seguente proclama:
Miei amati compagni d’armi ,Radio Londra, nella trasmissione delle 18,30 di ieri, 12 novembre, ha trasmesso un radio-messaggio del generale Alexander ai patrioti d’Italia. In esso, dopo averne grandemente elogiato lo spirito combattivo ha invitato i comandanti a porgervi il suo alto compiacimento per il validissimo contributo da voi portato nella lotta contro il comune nemico e ad annunciarvi l’inizio della campagna invernale. Questo elogio nei nostri confronti non è, o patrioti della mia Brigata, che una conferma degli elogi che lo stesso Comandante Alleato ha rivolto più volte particolarmente a voi per le azioni eroiche che hanno contrassegnato il vostro cammino sin dal giorno che, in pochi, affrontammo i pericoli della lotta e i disagi della montagna.
All’inizio della campagna invernale, mentre si chiude un periodo di azioni gloriose, la fama delle quali è ormai consegnata alla storia di questa zona, lasciate che io vi esprima, o compagni di lotta e di ideale, il mio grazie sentito e la mia ammirazione. E’ il grazie e l’ammirazione della Patria. Io vi ho visti, io vi ho seguiti giorno per giorno: ho la consapevolezza di quello che avete sofferto, dei pericoli che avete eroicamente affrontati: io sono orgoglioso di voi! Il passato mi da la più ferma fiducia per i compiti che la nostra Brigata dovrà assolvere per l’avvenire. La Brigata «Centocroci» non ha conosciuta e non conoscerà sconfitte .
Voi, non bene equipaggiati, siete giustamente preoccupati per l’inverno che avanza. Queste deficienze – voi lo sapete – non sono dovute al mio scarso interessamento, ma a causa. di forza maggiore e agli insufficienti aiuti che ci hanno somministrato gli Alleati. Cionondimeno io vi dico: non preoccupatevi eccessivamente. Ho già in parte provveduto alle vostre immediate necessità: guardate con serenità all’avvenire. Anche ad essere pessimisti, siatene certi, l’inverno di questo anno non sarà più duro dell’inverno passato. Il nemico, tenuto a distanza dal valore delle nostre armi, oggi che ha libere le vie dei rifornimenti e possibilità di ricevere immediati rinforzi, come potrà creare alla nostra guerra serie difficoltà allorché le strade saranno bloccate dalle nevi invernali?
Il ricordo del passato, la vostra fede sorreggano il vostro spirito. Preparatevi alle future lotte con l’ardore dei primi giorni. La nostra guerriglia sta per sfociare nella vittoria finale: guardatevi perciò dallo scoraggiamento. Esso potrebbe farvi perdere quella palma, giusta ricompensa ai molti mesi di privazioni e di lotta, che è sopra tutte le vostre aspirazioni, che sarà il coronamento dei vostri grandi sacrifici».
Compagni di lotta, ci trovi la Vittoria, compagni nel trionfo.
Il vostro comandante Richetto
Chi ha compilato questo proclama sapeva di avervi inserito molti sofismi ed aveva la certezza che la neve non avrebbe fermati i tedeschi e che gli avvenimenti l’avrebbero confutato.
E contro tutte le previsioni, in queste condizioni morali, il Natale del 1944 ci trovò sui monti. Il Natale più indimenticabile della nostra vita! E quale arcano fascino avevano sui cuori le campane delle nostre chiesette che invitavano i fedeli montanari a prepararsi all’ultima nascita di Gesù Bambino nell’Italia martire! E con quanto ardore i « ribelli» confusi col popolo, cantavano nella novena le nenie natalizie, imparate da bambini: le sole armonie che non si scordano più: quelle stesse che una mamma in ansia, una sorella, la persona del cuore, cantavano, nello splendore di chiese più vaste, laggiù, nella lontana città!
Che comunione di spiriti in quelle sere!
Il comandante impartì disposizioni, passò lui stesso, distaccamento per distaccamento perché Natale fosse veramente Natale anche per i « ribelli ».
Tutti i distaccamenti volevano la Santa Messa Natalizia. – Don Luigi, Don Luigi, facciamo tutti la Santa Comunione, ma la Messa la vogliamo a mezzanotte: o a mezzanotte o niente!
Come sentivano il Natale questi braccati!
D’accordo con i parroci, in tutte le chiese della zona, si celebrarono le Sante Messe a mezzanotte.
Ma Nino Siligato, il glorioso «Nino» volle di più.
– Don Luigi, io voglio la Messa di mezzanotte, ma al mio distaccamento, alla Cascinetta.
Che ? Vuoi celebrare la Messa lassù? Hai la chiesa vicina, portali a Varese Ligure.
E’ impossibile, Don Luigi, ho già fatto gli inviti! Bisognò accontentarlo.
E quella notte in una sala dell’ex-Albergo Ideal Poggio, addobbata di mirto, di alloro e tricolore Don Natale vi celebrò la Messa. Nino, l’eroe gentiluomo, con Richetto aveva fatto venire lassù da La Spezia molte mamme dei loro partigiani. Fu una scena commovente! Per tutta la vigilia queste mamme tirarono sfoglie, prepararono intingoli e dolci per il pranzo natalizio dei loro figli. I partigiani erano raggianti! Sentivano l’intimità della casa, la gioia antica! Quando Don Natale, in quella indimenticabile notte, parlò a quelle madri a quei figli, quando l’Ostia divina scese in quei cuori troppo lungamente separati tra tante sventure, molti occhi erano bagnati di lacrime.
Certo, e intrepide madri spezzine, che quella Comunione, fatta alla macchia con i vostri figli non la dimenticherete!
Per Nino e per altri quattro partigiani quella Comunione doveva essere l’ultima: il loro Viatico.
E il Natale trascorse veramente in santa letizia e nella più grande tranquillità. Ma fu l’unica festa natalizia passata così.
Tre giorni dopo il Comando della Divisione « Coduri »
ci mise in allarme: da Chiavari, due Compagnie della « Monterosa» rinforzate da molti tedeschi, si dirigevano a Bedonia attraverso il passo del Bocco. E la sera del 28, lasciati i paesi del Vara, tutta la « Centocroci» si portò sulle alture dominanti la strada lungo il Taro per impedire al nemico di infiltrarsi e presidiare la valle omonima e la valle del Gotra.
La nostra Divisione viveva delle risorse di queste due valli .
Richetto dispose lo schieramento a protezione della zona. Oltre mille uomini erano schierati sul crinale: Pieve di Campi, Spallavera Tarsogno, Ravezza, Cimitero di Tornolo. Un distaccamento della Brigata « Beretta » era andato più oltre ad aspettare il nemico al varco, al passo obbligato di Cave di Carniglia. In questo punto la strada passa tra le cave che formano una gola stretta a strapiombo.
Allorché il nemico arrivò a questa strettoia, i partigiani aprirono il fuoco con tutte le armi.
Ma contrariamente a quanto si può credere, non ebbero il vantaggio della sorpresa. Dopo le prime efficaci « raffiche» furono presi sotto il fuoco intensissimo dei mortai e cannoni nazi-fascisti: dovettero ritirarsi e lasciare al nemico la strada per Bedonia, che occupata, vi si fortificò.
Erano consapevoli di essere entrati in una trappola? Evidentemente no. Infatti, cominciarono a razziare grandi quantità di frumento, bestiame e salumi, con lo scopo di portarli a Chiavari.
Le forze stavan schierate le une di fronte alle altre: noi sulla destra, loro sulla riva sinistra del Taro.
Dall’l al 5 gennaio non ci fu battaglia propriamente detta, e le ostilità si limitarono a colpi isolati di armi automatiche e leggere.
Noi aspettavamo che il nemico riprendesse la via del ritorno: era più agevole attaccarlo in marcia.
Nella notte del 5 e per tutta la giornata, la zona fu coperta da un alto strato di neve.
La situazione degli assediati era divenuta critica: come ritornare a Chiavari con la caterva di muli carichi e con le strade bloccate dalla neve?
Ma questa neve cagionava non poche ansietà anche da patte nostra. Il prolungarsi di questo assedio avrebbe assottigliato le nostre esigue riserve di viveri: la neve a noi, come a loro, impediva qualsiasi movimento. Si pensò di attendere.
Intanto anche le altre formazioni partigiane si erano piazzate sulle alture dominanti Bedonia. La Brigata di Bill e quella di Dragotte formavano l’ala sinistra del nostro schieramento. Le due Brigate di Beretta, dalle alture di Albareto battevano con i mortai e con parecchie mitragliere da 12 e da 20 mm. il ponte della Bertorella e le due strade per Borgo Val di Taro allo scopo di impedire il collegamento del nemico col presidio tedesco che si trovava in questa città o il passaggio di rinforzi che da Borgo Val di Taro fossero comunque accorsi in loro aiuto.
Bedonia era circondata.
I nazi-fascisti cominciavano a dar segni evidenti di nervosismo. Oh i lunghi, frequentissimi cifrari che intercettavamo dal telefono di Tarsogno! E quelle sortite verso la Bertorella e Belvedere che cosa erano se non puntate di assaggio per uscire dal cerchio?
Ma ogni tentativo veniva immediatamente frustato dal fuoco delle nostre armi. Erano inchiodati a Bedonia, che, sotto la neve, sembrava un grande presepio. Il presepio dei partigiani! .
Il giorno 9 si presentò al comando di Tarsogno un parlamentare. Lo mandava il parroco di Bedonia, a comunicarci che gli assediati avrebbero abbandonata Bedonia e restituita la refurtiva, non avrebbero molestato i partigiani: in cambio lasciassimo loro il passo libero per Chiavari.
– Bontà loro! – rispose il Commissario politico, Benedetto dite al nazi-fascisti se non l’hanno ancora capito perché stiamo sui monti!. Lo rimandò. E il 10 e 1’11 continuò la sparatoria da ambo le parti. Per rompere la monotonia di questa guerra di posizione, logorante anche per noi, gli uomini erano stanchi e molti febbricitanti! per il freddo e la lunga permanenza sulla neve Piacentino, uno dei nostri più giovani ed esperti Comandanti di Compagnia, con i suoi uomini scese da Spallavera verso la Bertorella nel tentativo ardito di attaccare lo schieramento nemico.
Per il ponte della Bertorella si portò sulla riva sinistra del fiume ed attaccò, con l’appoggio dei nostri mortai, i nemici asserragliati nelle case. Costoro, dinanzi all’impeto degli uomini di Piacentino e il fuoco concentrato, preciso dei mortai, cominciarono ad uscire dalle case ed a ripiegare, prima in ordine, poi disordinatamente, sparacchiando, attraverso la neve, in direzione di Compiano.
Piacentino li inseguì per un tratto ma poi si fermò: andare avanti ulteriormente correva il rischio di mettere in pericolo la vita dei suoi uomini. Ripassò la Bertorella: mandò il grosso a Spallavera; cinque dovevano stare appostati sull’altura che domina il ponte per impedire che il nemico potesse passare sulla riva destra: lui con Renato sarebbero andati al mulino a procurare dei viveri. Il mulino era situato a circa cinquecento metri dal ponte in riva al fiume. Il nemico li vide entrare nel mulino e si gettò sulla preda. Tirò due o tre cannonate sui cinque che guardavano il ponte. Fu un inganno. Nel trambusto, una pattuglia nemica guadò l’alta acqua del fiume nel tratto di fronte al mulino e lo circondò. I nostri caddero prigionieri.
La notizia della loro cattura giunse al Comando. Fu uno schianto.
Sono due Comandanti: certamente li fucileranno.
Valgono più due dei nostri che cento nazi-fascisti!
Tutti lo pensavano.
Si decise di non insistere nell’azione di assedio per non inasprire il nemico che si sarebbe certamente vendicato sui nostri due uomini e, sia pure a malincuore, armi al piede, bisognò attendere.

l Comando della Divisione: in divisa al centro Richetto e alla sua sinistra l’ultimo Comandante della Formazione Mario De Lucchi
Allo scopo di salvare i nostri due uomini, mandammo una lettera al parroco di Bedonia pregandolo di far sapere ai nazi-fascisti che avremmo desiderato parlamentare con loro per lo scambio dei prigionieri.
La mattina del 12 giunse la risposta favorevole del nemico con le modalità e il luogo dell’incontro: una casa oltre il ponte di Tornolo, sulla sinistra del Taro, vicino a Compiano.
Da mezzogiorno di oggi, 12 gennaio, su tutta la zona dovrà cessare il fuoco. Quattro parlamentari partigiani si incontreranno con quattro parlamentari nazi-fascisti. Accompagneranno i parlamentari dell’una e dell’altra parte dieci uomini di scorta: l’una e l’altra scorta sosteranno alle due testate del ponte di Tornolo. Gli otto parlamentari proseguiranno per il luogo del convegno . – Garanzia. la loro parola di onore..
I nostri partirono. Ci rappresentavano: il nostro commissario politico Benedetto, il tenente Fontana, capo di stato maggiore della prima Brigata, Don Natale, Ispettore di Divisione e il patriota Manuel francese, come interprete. Comandava la scorta l’impavido Ferruccio.
Sul ponte di Tornalo, secondo le modalità, l’incontro. I nostri con i parlamentari nazi-fascisti proseguirono ed entrarono al luogo del convegno.
Che prigionieri avete? – domandò un ufficiale tedesco.
Un tedesco ferito, attualmente all’ospedale di Albareto, e parecchi repubblicani.
– Il prigioniero tedesco, – ripigliò l’ufficiale – essendo ferito, non si può considerare prigioniero, ma deve essere consegnato senz’altro: date due fascisti e vi restituiremo i vostri due ufficiali.
Di comune accordo si fissò che i prigionieri dell’una e dell’altra parte sarebbero stati consegnati al ponte della Bertorella alle ore 17 del giorno dopo. Dopo molte discussioni, si fissò un armistizio: il greto destro del Taro segnava il nostro, il greto sinistro il loro confine. La zona d’acqua terra di nessuno. Termine dell’armistizio: le ore 24 del 15 gennaio.
Il giorno dopo, all’ora fissata, l’ufficiale del giorno precedente con una scorta di quattro alpini, munito di bandiera con la croce rossa, portò i nostri prigionieri alla Bertorella.
Mosse loro incontro «Zio» nostro vice Commissario politico, con eguale scorta e bandiera. Conduceva un solo prigioniero perché l’altro, che si aspettava da Buto, non era arrivato.
Zio si scusò del fatto, e pregò l’ufficiale di pazientare. – Sì, sì, aspetto, non vi preoccupate.
Ma l’attesa si prolungava; era quasi sera, per cui si decise di cambiarne almeno uno. Il tedesco consegnò Renato e, il giorno dopo, alla stessa ora e con le stesse modalità, fu liberato anche Piacentino.
Sempre lo stesso ufficiale, consegnato il prigioniero, pregò i nostri, a nome del Capitano Malingher della « Monterosa », di inviare tre nostri parlamentari e tre della Brigata « Beretta » per le ore 1 7 dell’indomani a Bedonia. Fu accettato.
E il pomeriggio di quel sabato: Benedetto, Don Natale e Don Luigi, partirono per Bedonia.
Nevicava.
Sui muri delle case che fiancheggiano la strada controllata dal nemico, era affisso un manifesto nel quale si ordinava per quel giorno il coprifuoco alle ore 15. Tutti gli scuri dovevano essere abbassati, le porte chiuse e la popolazione in casa. Pena: fuoco sui trasgressori senza preavviso.
Durante il tragitto non trovammo anima viva.
Da Tornolo la strada scende quasi a precipizio sul Taro. Laggiù il ponte, dove deve avvenire l’incontro con i parlamentari nemici.
Scendiamo conversando.
Oltre il ponte, la strada che sale per Bedonia, confusa nel candore della neve che copre tutta la campagna.
In quel biancore siamo soli noi tre. Ci avviciniamo al ponte.
Ecco, dalla parte opposta, scendere quattro uomini e dirigersi verso di noi; ci fermiamo tutti, alle due testate del ponte.
Sono: due ufficiali tedeschi, un italiano e un sergente pure italiano. Un istante fermi, gli uni di fronte agli altri, e, dopo che il nemico ha spiegato la bandiera bianca con la croce rossa, i due gruppi muovono incontro.
Al centro del ponte, terra di nessuno, ad un metro di distanza, si fa alt. I parlamentari nemici si irrigidiscono sull’attenti ed alzano il braccio nel saluto nazista e fascista. Noi rispondiamo portando la mano al berretto. Stretta di mano, presentazioni, e si prosegue verso Bedonia.
I parlamentari della « Beretta » non erano ancora arrivati, e, fatto un breve tratto di strada, l’ufficiale ci pregò di aspettarli. Ci fermammo sotto la neve che cadeva sempre più fitta.
In quell’attesa, il sergente repubblicano ci parlava delle sue conoscenze, delle sue bravure contro i « ribelli» e dei molti rastrellamenti ai quali aveva partecipato. Benedetto ne prese buona nota. Povero sergente Mattesini!
Ma l’attesa si prolungava, per cui si decise di ripararci nell’unica casa del luogo a circa trecento metri dal ponte. Il padrone ci ricevette sulla porta, salutandoci col braccio teso, ma in un modo così diplomatico che potevamo essere contenti anche noi.
Entrammo nella cucina, nera dalla caligine, illuminata debolmente da una sola finestra che dava sul ponte. Ci sedemmo sulle panche, attorno al fuoco, in silenzio. Il più giovane degli ufficiali tedeschi, ci guardò sorridendo e poi: Sarebbe molto interessante conoscere vostre idee: perché ci combattete con tanto accanimento.
– Molto facile a capirsi, – rispose ugualmente sorridendo Benedetto – combattiamo per la libertà, quella libertà che voi ci negate.
– Che cosa intendete voi per « libertà»?
Qui rispose Don Natale spifferando, con Leone XIII:
«Vis electiva mediorum servato fine» e tutto quando sulla libertà si poteva dire. Ne nacque una vivace polemica. Il sergente nauseava con le sue sciocchezze, l’ultima delle quali era stata questa:
– Se la pensate così, anche noi siamo con voi, sullo stesso piano.
Benedetto non poté più resistere:
– Tra noi e voi, o sergente, non c’è un muro, c’è un oceano. Vi prego, con voi non desidero discutere.
Non ne volle sapere più.
Intanto gli attesi erano arrivati al ponte. Stavano fermi laggiù in attesa di poter varcare il confine! Un ufficiale tedesco e il sergente andarono loro incontro ed insieme proseguirono per Bedonia.
La scorta, sino allora non vista, una diecina di tedeschi armati di mitragliatore, ci prese nel mezzo, e, tra questi angeli custodi, si arrivò alla cittadina che era già sera. Sul ponte di Bedonia echeggiò un secco « Chi va là »!
– Parlamentari, – rispose il comandante della scorta, – lascia passare.
Entrammo in Canonica che, da quanto ci riferì il parroco, era circondata di alpini in assetto di guerra.
Entrammo nella sala e subito un mitragliatore fu piazzato sulla porta con la canna rivolta verso di noi.
Che cosa temevano? Escluso qualcuno che aveva la pistola, eravamo tutti disarmati. Lo non so il perché io che non ho mai portato armi, quella sera mi ero messo in tasca una bomba « OT »!
Eravamo in sei in mezzo ai nemici , a tre ore di distanza dai nostri: potevano nascere in noi idee bellicose?
Ma non si diede importanza alla cosa..
Ci avvicinammo alla stufa in attesa del Capitano Malingher.
Il parroco, vero diplomatico, ci rimproverò sottovoce.
– Perché non avete, portato l’interprete?
Ed aveva ragione.
Noi, pur andando a parlamentare col nemico, non potevamo concludere alcun patto. L’unico frutto che ci ripromettevamo da questi incontri era conoscere l’intenzione del nemico, intenzione che poteva manifestarsi da una parola meno prudente e da tutto lo svolgersi dell’incontro. In questo colloquio, più che il pensiero di Mdingher e degli altri italiani, interessava conoscere quello che pensavano i tedeschi: la decisione di Malingher, come del resto tutte le decisioni degli ufficiali italiani, sarebbe stata quella tedesca.
Poco dopo giunse Malingher. Ci salutammo e cominciammo a trattare. Questo capitano era un tipo irrequieto, arrogante, dalle pose teatrali, e non so se l’avesse posto così di proposito il suo occhio di cristallo era voltato invariabilmente verso i due tedeschi. Ad ogni sua affermazione vi girava anche quello sano come per essere ben certo che poteva continuare.
Si comprese dall’insieme che era un servo fedele perché i « camerati» approvavano sempre.
Prese la parola:
– Quali sono i vostri desideri?
– Noi non abbiamo nulla da chiedere – rispose Benedetto – siamo venuti perché invitati da voi. Come? siete stati invitati.
Ne nacque un bisticcio.
Non era una umiliazione per un uomo dell’altezza del Capitano Malingher essere sceso a patteggiare con i « fuori legge»? Ma a salvare anche queste apparenze, come si vede, tanto care al capitano, pensò il parroco presente al colloquio.
– Scusate, signori ufficiali,e perdonate se, senza alcun diritto, entro nei vostri discorsi. Qui nessuno è stato invitato. Entrambe le parti sono qui convenute animate dal solo desiderio di risparmiare dolori e distruzioni a questa povera popolazione, che subisce, con la presente, la quarta bufera. Vi prego non insistete su questo, accordatevi.
Dopo varie battute da una parte e dall’altra, avanzammo una proposta:
– Fissiamo una linea di confine, il Taro. Alla sinistra,
state voi, alla destra, noi: non ci molestiamo.
Pensavamo ai poveri nostri uomini che non avevano pane e che non si potevano lasciare sulle postazioni più oltre in quell’inferno di neve e di freddo.
Malingher rifiutò la proposta.
Lo sapeva lui e lo sapevamo ormai anche noi: cominciavano ad essere i più forti.
Infatti era giunta la notizia che nèlla pianura piacentina e parmense era in corso un grande rastrellamento condotto dai mongoli. Presto o tardi dovevamo lasciare le posizioni.
– Non è possibile fissare una linea di confine con voi perché voi non state ai patti. Al momento buono ci colpite. Noi non possiamo vivere con questo pugnale piantato eternamente nella schiena: o voi o noi bisogna sparire. La popolazione della zona deve vivere in pace.
Noi facemmo osservare che i saccheggi, gli incendi di interi paesi, i massacri di ostaggi non erano opera nostra. Si guardasse attorno e giudicasse se i «terroristi» delle popolazioni non erano loro.
Nacque la questione della legalità: se l’Italia fossimo noi o il capitano Malingher!
Ma anche qui intervenne il parroco a troncar la questione.
Oh, la compiacenza dei « camerati» quando questo capitano italiano fece il panegirico della gentilezza tedesca nei nostri confronti e descrisse a colori veramente lusinghieri il paradiso nel quale vivevano le migliaia di italiani residenti in Germania!
– Vi faccio una proposta – disse come se si preparasse ad un gesto di paterna generosità, – sono personalmente amico del duce. Posso provocare una legge, limitata alla zona da voi occupata, per la quale voi, mediante un documento che vi sarà rilasciato, potrete ritornare alla vita legale all’onesto lavoro nelle officine, alle vostre case e non sarete inviati in Germania. .
Sul vostro passato il governo metterà una pietra; diversamente potrete combattere ancora, ma non sperate di vedere la fine di quest’inverno. La Divisione « Italia », parecchie divisioni tedesche, hanno iniziato dai monti del vogherese un grande rastrellamento per annientare le vostre forze dietro il fronte: se non accetterete sarete sterminati!
In quanto alle forze che potete gettare contro di noi – rispondemmo – ne siamo consapevoli, sono ingenti; però vi preghiamo di non disprezzare le nostre: voi non conoscete le nostre possibilità.
Il parroco faceva pressione su di noi perché accettassimo.
Lì per lì restammo meravigliati, quasi che questo sacerdote, il prete più partigiano consigliasse a noi simili soluzioni!
Ma lo comprendemmo. Il rastrellamento di cui aveva parlato Malingher lo preoccupava. Gli era giunta l’eco delle distruzioni e dei massacri ai quali già si abbandonavano. i mongoli in quelle regioni.
Voleva a tutti i costi salvare la sua cittadina, culla e nido dei partigiani.
Gli perdonammo questa simpatia con il nemico. Monsignor Checchi ci conosceva troppo. Sapeva bene che noi non avremmo mai accettato una simile proposta: vero tradimento.
Benedetto, visto che non c’era nulla da fare, – erano le 20 e non avevamo ancora cenato, – assecondò il giuoco del parroco:
– Queste proposte sono nuove e di tale portata che consigliano un maturo esame da parte dei nostri comandi superiori. Tenete pure presente che gli stessi comandi non possono decidere senza il parere favorevole degli uomini. Tutto questo richiede tempo.
Allora le faccende vanno per le lunghe! Ripigliò il capitano quanto tempo vi occorre?
Quindici giorni come minimo.
Impossibile attendere tanto, l’armistizio termina alle 24 di questa notte. Scaduto il termine, ritorna lo stato di belligeranza tra noi e voi. Quando avrete il benestare lo comunicherete, io richiederò domani stesso tre salvacondotti al mio colonnello: potrete andare a Carasco a stendere l’accordo.
Il giuoco era riuscito: lasciammo in Malingher la convinzione che noi fossimo disposti a quella resa.
Scendemmo in cucina. per prendere un cordiale offerto dal parroco. Durante questa amichevole tregua tirai il capitano in un angolo; gli chiesi di Don Bobbio e dei prigionieri della « Coduri» da lui catturati nella puntata su Valletti il 29 dicembre.
Ho mancato al mio dovere, Reverendo; dovevo fucilarli sul posto, invece li ho mandati a Chiavari. E li hanno fucilati?
– Non mi risulta.
Signor capitano, voi avete parlato di umanizzazione di rapporti e molto giustamente. Non sarebbe il caso di fare un accordo che impegnasse le due parti al rispetto dei feriti e dei prigionieri?
In quanto ai feriti, nessuna difficoltà, noi cureremo anche i vostri e li raccoglieremo come feriti ogni qualvolta alzerete una bandiera bianca con la croce rossa. In quanto ai prigionieri, trovati con le armi, l’ordine è di fucilarli.
Se le cose stanno così, come impedire un inutile spargimento di sangue? Anche i nostri comandi dovrebbero fucilare i vostri: ciò che non hanno mai fatto.
Troncò l’argomento, per lui scottante, pregandomi di usare tutta la mia influenza presso gli uomini perché accettassero le sue belle proposte!
Malingher era un uomo di quella categoria che pretendono vincere le battaglie con le parole.
Il giorno dopo intercettammo una sua telefonata al suo Colonnello; annunciava la vittoria con queste parole:
Sembra che i « passerotti » mettano giudizio.
Alle 21 ci mettemmo sulla via del ritorno, accompagnati dalla scorta.
Le gambe affondavano nella neve fino al ginocchio.
Alla curva del Belvedere l’alpino di sentinella, forse sonnecchiante, impressionato chissà dal nostro numero e dall’ora insolita, intimò un tremolante « Chi” va là »!
Del suo turbamento s’accorse l’ufficiale tedesco che ci accompagnava:
– Parlamentari; – rispose, – lascia passare, maccherone!
A quelle voci una ventina di alpini, usciti dall’accantonamento si allinearono sulla strada.
Nel buio, allungavano il collo per vedere le facce dei «ribelli».
– Buon Anno! In bocca al lupo! – ci gridarono. Qualche alpino commentava:
– Si saranno accordati? Ma! Domani la faremo a fucilate, e siamo tutti italiani! – .
Quanta malinconia in quelle voci che volevano essere di giubilo!
E passammo:
– Buon Anno, ragazzi!
Il Comando della Divisione: in divisa al centro Richetto e alla sua sinistra l’ultimo Comandante della Formazione Mario De Lucchi
LA VALANGA DEI BARBARI
Giorni pieni di tristezza quelli che seguirono l’incontro di Bedonia.
Le notizie sui movimenti dei mongoli giungevano ininterrottamente al nostro Comando; la minaccia di Malingher stava per realizzarsi. Gruppi di patrioti dalla Val Trebbia e dalla Val Nure arrivavano a tutte le ore ai nostri distaccamenti per avere un pezzo di pane ed un ragguaglio per mettersi in salvo oltre le linee del fronte. Erano ragazzi e vecchi combattenti della montagna, che, con Prati e Fausto, avevano scritto le più belle pagine della guerriglia sui monti e nella pianura piacentina: uomini che non avevano mai indietreggiato di fronte al sacrificio e alla lotta: ora la sfiducia li aveva presi! Falliti i tentativi di arginare la grande valanga, cercavano di salvarsi oltre il fronte.
Dai loro racconti si raccolsero molte, preziose notizie. Ben quattro divisioni di mongoli e tedeschi, in combutta con i traditori, avanzavano a ventaglio verso il fronte saccheggiando le povere popolazioni della montagna: segnando le tappe della loro marcia con incendi e i più crudeli massacri.
La sera del 19 gennaio 1945, di questo gennaio, che la memoria dei vecchi non ne ricorda l’eguale per il rigore dei freddi e l’abbondanza delle nevicate, le notizie sui già segnalati movimenti si fanno precise: i mongoli sono vicini. Ben dodici colonne puntano sulla zona che ha per epicentro il monte Gottero! Cinque colonne, dalla linea segnata dal Magra, a sud del Gottero, si preparano a frantumare le brigate della prima Divisione ligure « Picchiara », sparse per le frazioni dello Zignago e dello Zerasco; sette colonne da Berceto, Borgo Val di Taro, Bedonia, Passo del Bocco, Statale, Velva e Sesta Godano, puntano sulle Brigate del Taro e le Divisioni « Coduri» e «Centocroci» sui pre appennini liguri, ai nord del Gottero.
Di fronte a questo imponente schieramento nemico non c’è per le forze partigiane che una sola, conveniente soluzione: uscire dalla zona prima che i punti dello schieramento nemico si congiungano in un inesorabile cerchio. In quell’inferno di freddo e di neve che condanna uomini e cose all’immobilità, non c’è possibilità di combattimento! Infatti una dopo l’altra, le formazioni del Taro si portano in Zone sicure, anche se non senza sacrifici; la « Coduri» secondo il consiglio di Bisagno e Marzo, si sgancia nella VaI Trebbia, la « Centocroci» riceve l’ordine di restare in zona e di resistere su Centocroci.
E quella sera la nostra Divisione, lasciata Varese Ligure, si schierò dalla Ventarola alla Cappelletta sopra Caranza. Notte di trepidazione per tutti gli uomini, quella del 19.
All’alba del 20 il nemico, su due colonne, iniziò l’attacco dalla valle del Gotra, puntando su Centocroci e la Cappelletta. I nostri, affondati nella neve, sparano sui mongoli che salgono verso le nostre posizioni. Dal monte Tanàn vediamo le avanguardie delle tre colonne che da Sesta Godano, Velva e Passo del Bocco entrano a Varese Ligure. Lassù si combatte sempre. I nostri mortai e le nostre mitragliatrici sparano sui mongoli sempre più vicini ai due passi. Le armi leggere nostre ed avversarie fanno fuoco senza intermittenze: si combatte accanitamente!
– Verranno i mongoli? Bruceranno la mia casa? mi domanda una povera donna che col piccino, stretto al seno, sta guardando atterrita il passaggio dei nostri muli.
– Chi lo sa? Speriamo di no.
– Non ve ne andate, bravi, resistete! Che il Signore vi assista!
Verso le 9 entrano a Varese il grosso delle tre colonne, quasi contemporaneamente.
Guardiamo quelle forze; un brivido ci scorre per tutta la vita: se salgono anche esse verso Centocroci i nostri, lassù, sono circondati. Dalla Bertorella vengono di rincalzo alle due colonne del Gotra altri contingenti nemici. Il fuoco delle esplosioni si confonde al candore della neve. E’ già parecchie ore che i nostri sono lassù, sotto un uragano di fuoco.
Alla Cappelletta, vicino ad una postazione di mitraglia, tre dei nostri: Elio Ferrari, Valentino Marchi e Riccardo Ameghino non danno più segni di vita: un colpo di mortaio ha spezzato la loro giovinezza! Ma si combatte sempre, ma si resiste, perché l’ordine è di combattere, di resistere! Le forze che stanno a Varese aprono il fuoco dei loro mortai
– Non ve ne andate, bravi, resistete! che il Signore contro le nostre posizioni di monte Tanan. I proiettili scoppiano sopra la Cascinetta e sui ruderi dell’antico castello: segno che anch’essi si preparano a salire al passo di Centocroci .
Prolungare la resistenza significa favorire il loro piano di accerchiamento e di annientamento. Perciò alle 15 il Comandante ordina a tutte le forze di ripiegare lentamente ed ordinatamente sulle alture di Porciorasco, alle falde del Gottero.
« Non vi muovete: attendete ordini» – aveva specificato.
La parete del Gottero, sopra Porciorasco, è caratteristica per le profonde gole che dalla cima, sempre più ampie si allargano a ventaglio fino al Vara che gli scorre ai piedi.
In queste gole vi sono casoni sparsi un po’ dappertutto. In questi casoni, gli uomini della Centocroci, secondo il piano di Richetto, dovevano attendere l’attuazione di un ardito piano di sganciamento.
Le colonne dei mongoli non uscivano fuori delle rotte che l’andirivieni dei montanari aveva formato nella neve. Dal passo di Centocroci per la carrozzabile, dalla Cappelletta per la mulattiera che passa per Caranza, le forze nemiche del Gotra dovevano scendere su Varese Ligure. Questo movimento del nemico non poteva avvenire prima che scendesse la sera. Quando le ultime retroguardie fossero passate sul versante ligure, dalle posizioni fissate, sarebbe stato agevole passare sul versante parmense alle spalle del nemico.
Invece, quando Richetto giunse a Porciorasco, non trovò il grosso delle nostre forze, ma gli fu riferito che un contrordine aveva fatto ripiegare la « Centocroci» a Buto. Fu questo un errore enorme, che provocò la più dolorosa marcia della campagna patriottica, un cumulo di rovine e di lacrime e mise a repentaglio la vita di centinaia di uomini.
Per la prima volta e l’unica, ho potuto esperimentare quale terribile nemico sia, per chi combatte, lo scoraggiamento! Negli errori commessi ebbe la sua parte anche Richetto: la neve del Gottero era terribile come la valanga dei barbari che ci rumoreggiava intorno! Eppure bisognava ormai salire lassù, a milleseicentocinquanta metri, varcare quella cima, con la speranza, che passando lassù, saremmo giunti egualmente a Montegroppo.
Quando i mongoli comparvero alla Cappelletta, lasciammo Porciorasco, dando inizio alla dolorosa marcia. Sopra Teviggio trovammo gli uomini di Mantovani. Sostammo con essi accanto al fuoco di una vecchia cucina e, in mancanza di pane, vuotammo molti mestoli d’acqua che una ragazza ci porgeva. Verso sera arrivò Igor. Riferì che tra i cespugli e la neve della Cappelletta c’erano rimasti dei nostri feriti. Bisognava salvarli dalla cattura.
– E’ un’impresa rischiosissima, ragazzi! Chi vuole venire questa sera con me?
Dopo un po’ di incertezza, otto patrioti, alzarono la mano. Partirono. In mezzo ai nemici, frugarono la zona del combattimento: dei feriti nessuna traccia! Evidentemente il nemico li aveva raccolti. Sulla via del ritorno, sostarono a Porciorasco per rifocillarsi. Mangiarono tranquilli un po’ di polenta calda.
Al momento di ripartire Igor mandò un patriota a radunare i compagni, sparsi nelle cucine. Quello passa tra gli stretti vicoli del paese, picchia tutte le porte: Andiamo si parte.
All’ angolo di una casa, appoggiato al muro, nella penombra, c’è un uomo armato, immobile, affondato nella neve. Gli si avvicina, gli batte forte sulla spalla:
– Andiamo, per Dio!
Quello si volta bruscamente, fissa con gli occhi sbarrati il partigiano importuno, e lancia un grido selvaggio. Fuga precipitosa dei due e, poi, una sparatoria indiavolata. Era un mongolo! Attorno ai fuochi delle poche case, in quella sera si riscaldavano, tranquilli, partigiani e mongoli!
Ci raggiunsero, trafelati, sul sentiero per Buto. La marcia era resa più faticosa dalla tormenta e dalla oscurità che avvolgeva quei boschi. A mezzanotte giungemmo a Buto, ma non si trovò un posto per riposare perché anche i più piccoli rifugi erano stati presi d’assalto dagli uomini di Aldo.
Mendicammo, qua e là, un pezzo di pattona ed attendemmo impazienti, senza chiudere un occhio, le prime luci del giorno.
Alle 3 Richetto raduna lo stato maggiore e tutti i comandanti. Il nemico ha invaso le zone circostanti: la nostra situazione è grave. Bisogna salire, senza indugi, il Gottero. Ben ottanta muli formano la testa della lunga colonna; Il sole ci trova fermi a Pian di Lago sulla parete del Gottero. Di lassù vediamo i paesi dello Zignago in fiamme. Alle colonne di fumo s’alzano improvvise dagli abitati confusi nella neve: il nemico distrugge le case degli inermi montanari con la dinamite!
Un partigiano corre da Richetto :
– Comandante! Una colonna di circa quaranta uomini avanza per la valle verso di noi!
Un momento di ansiosa attesa e, poi, ritorna Richetto sorridente:
E’ il maggiore Gordon Lett con i paracadutisti inglesi!
Arrivarono. Gordon era abbattuto: i suoi compagni più di lui. Passarono vicini ai calderoni della polenta e la sbirciarono con disprezzo. Alla polenta, alla crusca dei partigiani d’Italia preferirono la neve! Però sotto i loro baschi granata spiccava il pallore dei loro volti, volti molto più pallidi di quelli di coloro che non disprezzavano la polenta! Questi inglesi sentivano tutta la tragicità di quell’ora.
Forse, per la prima volta, forse apprezzarono gli enormi sacrifici della nostra gioventù.
Alle 9 le squadre, i plotoni, le compagnie si rimettono in marcia. In fila indiana salgono, salgono lentamente. Ora spariscono, ora ricompaiono dietro una gola, sulle candide giogaie. I primi sono già lassù che voltano, vicino alla vetta, a milleseicentocinquanta metri! Però dietro alla colonna che sale, ci sono i segni di un grande disastro. I conducenti, intorno ai muli imprigionati nella neve, scaricano, spingono, sudano: le bestie non possono andare. Gruppi di uomini, sugli orli dei crepacci, guardano i nostri muli, i nostri viveri, le nostre munizioni che sono cadute nelle forre. I feriti piangono disperati che non possono proseguire ed imprecano contro i compagni che li hanno abbandonati. Quante scene di dolore in quella scalata! Si porta aiuto come si può e si sale, si sale sempre. Ci si arrampica, con i piedi e con le mani e al tramonto anche il Comando raggiunge la vetta. Fu quello il tramonto di una domenica che nessun uomo della « Centocroci » potrà mai dimenticare.
Le cime degli Appennini, sotto il sole che muore, sembrano giganteschi rubini; le catene dei monti delle due riviere si perdono nel mare, in quel rossore.
– Guarda, Don Luigi, quanto bello è il mare, il nostro mare – mi dice commosso Benedetto – ma il mare non è fatto per noi!
– Chissà, Benedetto, se lo rivedremo più! Anche la zona dello Zerasco è in preda alle fiamme.
L’aria della sera incide le carni. I guanti bagnati s’attaccano alle armi. Un freddo polare! Scendiamo dall’altra parte, verso Montegroppo. La discesa è più agevole. La rotta è scavata nella neve. Sembra una stretta trincea e ti arriva alle spalle. Su tutti però pesa un atroce incubo. I mongoli sono dappertutto: temiamo qualche imboscata. A notte, siamo sopra il passo dei Tre Confini. Laggiù, nell’oscurità, con intermittenza, un chiaro. Ci fermiamo con il cuore sospeso.
– Chi fa questi segnali?
– I partigiani della quarta zona non usano segnalazioni a pila! .
– Che siano mongoli?
Tutti gli occhi sono fissi verso quel chiaro, pieno di mistero. Un istante, poi, Richetto, col mitra spianato, si getta giù. Lo seguiamo nell’oscurità. Il silenzio è improvvisamente interrotto dalla voce di Richetto :
-Chi va là!
– Partigiani della « Vanni»! – Parola d’ordine – grida Richetto.
– Roma.
– Controparola – chiedono gli sconosciuti. – Romeo – risponde Richetto.
– Meno male! – commentarono tutti con un grande sospiro! Allungammo il passo per salutare Sceriffo. Ambrogio e i loro compagni. Anche la «Vanni» inseguita dai mongoli, ripiegava su Montegroppo.
Nell’ultimo lungo tratto di discesa, i primi casi di congelamento. Di tratto in tratto qualcuno si accasciava sulla neve e chiamava soccorso. I compagni correvano, si prodigavano alla meglio e proseguivano, portandolo, uno dopo l’altro sulle spalle. Alle 23, dopo quasi venti ore di marcia estenuante, si arrivò agli Squarzi di Montegroppo.
Gli uomini erano sfiniti.
Il Gottero era stato varcato così.
Nel resto di quella notte, gli uomini mangiarono e si riposarono come sempre ha mangiato e riposato il partigiano nei rastrellamenti.
Non è ancora spuntata l’alba che il nemico ci è nuovamente sopra.
In gran fretta ci portiamo sulle alture di Boschetto. Tutte le frazioni del Gotta sono assiepate di nemici. La « Centocroci » non ha più notizie; non ha più collegamenti: ha perduto il controllo dei movimenti del nemico. Gli uomini, nascoste le armi pesanti, stringono la sola arma individuale per difendere la vita. Se si spara un colpo il nemico ci individua e siamo perduti. I mongoli sparano, sparano tutta la giornata: non sappiamo contro chi.
Quella notte dei nostri uomini nessuno dormi.
Le pattuglie si susseguirono senza interruzione. Al mattino del 23 Richetto va al telefono ad Albareto per avere notizie. Al suo ritorno prende il grosso delle forze e si spinge verso Zeri. Il Capo di stato maggiore Wollodia, con un centinaio di uomini, si porta più in alto, ai casoni Danielli. Dopo sette ore di marcia i nostri arrivano ad Adelano, sopra Zeri. Li accoglie un fuoco infernale di mitragliatrici. Devono ritornare indietro: anche da quella parte la strada è sbarrata.
Nelle condizioni che ognuno può immaginare, arrivano sopra Montegroppo che è già notte. Richetto con Benedetto e i comandanti scendono agli Squarzi per distribuire ai plotoni i pochi viveri che ancora restano. Quelli della osteria preparano un po’ di minestra. Fuori, sullo spiazzo ci sono le sentinelle e Benedetto è di pattuglia sulla strada che porta a Boschetto. Nell’oscurità, la sagoma di una donna che avanza verso i nostri. Benedetto si avvicina: è la « marchesa », la misteriosa marchesa, che ha rotto tanto le scatole al Comando della «Centocroci».
– Signora, c’è nulla di nuovo giù di lì? – le chiede gentilmente.
– Cosa venite a chiedere a me certe cose! – risponde seccata – cosa volete che ci sia!
Benedetto, che conosce la nobiltà della signora, la pianta in asso e prosegue con la pattuglia verso Boschetto. I nostri avranno fatti cento passi? Forse no. Ad una svolta, piomba loro addosso un pattuglione di mongoli e senza aver un attimo per tentare una reazione, sono fatti prigionieri. Non partì un colpo.
Richetto, gli altri uomini che mangiano agli Squarzi, sono ignari. Lassù si dirigono i mongoli con i prigionieri. Un’altra colonna nemica, dalla Folta, aggira gli Squarzi. I nostri sono circondati. Nessuno se n’è accorto! Improvvisamente piomba nell’osteria un ufficiale tedesco con l’arma spianata:
– Partigiani! Mani in alto!
Momento indescrivibile. Richetto, con mossa rapida tenta di afferrare il suo mitra. Un mongolo ha visto la mossa e, prima ancora che raggiunga l’arma, col calcio del moschetto, gli vibra un colpo tremendo sul braccio. Non c’è nulla da fare: i nostri si arrendono. Fuori, una nutrita sparatoria, poi, silenzio. Passano in cucina con le mani sul capo; se fanno il minimo gesto: morte. Alle prime luci del 23, diciassette prigionieri escono dall’osteria diretti a Borgo VaI di Taro.
Sullo spiazzo tra la neve, cinque partigiani sono immobili sul loro sangue!
La cattura di Richetto portò nelle nostre file la desolazione. I partigiani della «Centocroci» non sentirono mai, tanto pesante, l’incubo dello sterminio come in quel 23 gennaio!
Quel giorno il nemico frugò tutta la valle. Di ora in ora grandi detonazioni annunciavano che un altro dei nostri magazzini di armi era saltato in aria. Colonne di mongoli, tra intense sparatorie, si spingevano nelle gole, sulle alture dei contrafforti della valle. Noi, fermi, immobili per ore ed ore, dietro ai roveti, sulla neve, li sentimmo vicini: vedemmo le loro terribili quadrate facce di bronzo!
I nostri prigionieri sono rinchiusi nei locali dell’exdopolavoro di Borgo Val di Taro. Il nemico sa che tra i prigionieri c’è il comandante la Divisione, ma chi sia precisamente non lo sa. L’assegno da centomila lire che il mongolo ha trovato nel portafogli di Richetto, ha fatto sparire, col portafogli, anche i documenti. Però sospettano che sia quel prigioniero dalle spalle quadre, con la barba alla d’Artagnan. Gli interrogatori si susseguono, di giorno e di notte, senza esito. La popolazione di Borgo Val di Taro si commuove sulla sorte dei nostri prigionieri: li circonda di mille premure. Un ragazzo generoso porta a Richetto una rivoltella :
– Salvati! Comandante!
Ma Richetto, la rifiuta. Quell’arma non gli serve. Un pomeriggio lo portano dinanzi al Comandante, un generale tedesco, alto, asciutto, nervoso, prepotente.
– Sei tu il capo dei banditi! – gli grida terribile. – Comando dieci uomini, signor generale, sono soltanto un capo squadra, nulla più.
A quella negazione un maggiore tedesco, cerca di colpire Richetto con un caricatore di mitra. Richetto, con rapida mossa, evita il colpo. Il maggiore va in bestia, e puntandogli sul viso un pugno minaccioso:
– Non negarlo, bandito, lo sappiamo ormai, tu sei il comandante della Divisione!
Questa scena si ripete tre volte. Per tre volte Richetto nega quella verità, che, confermata, l’avrebbe, in quei momenti, irrimediabilmente perduto.
L’Arciprete di Borgo Val di Taro propone ai tedeschi uno scambio di prigionieri. Il nemico accetta e promette al sacerdote la liberazione di Richetto .
Wollodia manda, con nostri parlamentari, i prigionieri che abbiamo a Borgo Val di Taro. Sono due fascisti, un maresciallo ed un sergente tedeschi, che Piero, con sei uomini, ha catturato in via Genova a La Spezia la notte del 29 dicembre.
Alle trattative l’Arciprete non c’è. I nostri protestano. I tedeschi, prima velatamente, poi chiaramente, dichiarano che non lo vogliono. Non lo vollero, l’Arciprete, per non mantenere la promessa, per non consegnare Richetto. Infatti Richetto, che figurava al secondo posto dell’elenco dei prigionieri da noi richiesti, era scartato e sostituito con un altro. In quel cambio furono liberati: Benedetto, Renzo, Bruno e Gino.
– Se avete altri prigionieri tedeschi siamo disposti ad effettuare un secondo scambio. Non cambiamo però con prigionieri che potete catturare in questi giorni – disse il Generale salutando i nostri. .
Benedetto, giunto al Comando, richiede tempestivamente prigionieri tedeschi alle formazioni della sesta zona operativa. Le difficoltà delle comunicazioni impedirono che i trenta prigionieri promessi giungessero in tempo per liberare i compagni. All’alba del 27, Richetto, Gerolamo, Raffaele, Boldano, Luigi Mezzetta e il fratello, Grilli, Zappa e Nando Bertolotti, con altri quattro partigiani della Divisione « Picchiara » partirono per Bardi.
Le popolazioni dei monti, lungo i sentieri, dai rifugi, dalle stalle, dalle case, salutavano furtivamente la colonna dei nostri, come si salutano le persone del cuore quando non si ha il mezzo per strapparle al supplizio. Camminavano curvi sotto i pesanti zaini, che i mongoli avevano tolti dai muli è messi sulle loro spalle. Le loro divise erano state sostituite con cenci tedeschi, e, sotto quei cenci, ad ogni passo, ad ogni ventata, si scoprivano le carni livide dal freddo.
Quella colonna di prigionieri, in quella neve, in quella miseria, ti strappava le lacrime.
Sulla sera arrivarono a Bardi e riposarono in una stanza del vecchio castello.
Alle 16 del giorno dopo si spalanca la porta della loro prigione. Entra il generale seguito da un maresciallo tedesco tutto ansante. I nostri, sdraiati sulla paglia scattano in piedi. Questo maresciallo viene da Borgo Val di Taro. In pessimo italiano, li fa allineare alle pareti e, poi, lungamente li fissa uno ad uno. I prigionieri temono qualche cosa di grave. In quella cella c’è un silenzio tombale.
…Grilli …Nando …Luigi …e poi Richetto. In lui ha trovato qualche cosa. Lo fissa, lo fissa profondamente, abbassa gli occhi e riflette per un pezzo, come per richiamare alla mente un ricordo lontano, che gli sfugge, poi, franco, puntando il dito verso di lui, dice al generale:
– E’ questo il capo!
Fu preso e condotto in una cella separata. Ormai non c’era per lui più alcuna possibilità di scambio. Non gli restava che la fuga. Quanti furono i piani studiati da Richetto in quella notte? Dopo il magro pasto del 29 i nostri prigionieri si rimettono in marcia. Li precede a qualche chilometro il grosso dei nemici.
Discendono in fila indiana per gli acciottolati del castello scortati da sei tedeschi; tre in testa e tre in coda alla colonna, a dieci passi dai prigionieri, con le armi a bandoliera. Un mongolo, all’uscita del castello, lascia il passo ai nostri, li osserva sorridendo e li saluta con ironia:
– Partisani, bono viaggio. A Piacenza capùt!
Nell’aperta, campagna la scorta si tiene lontana dai prigionieri. Teme di essere disarmata? Richetto, che è in testa ai prigionieri, rallenta il passo, parlotta col compagno che gli sta dietro:
– Passa agli altri se si sentono di disarmare i tre in coda, a questi penso io.
La risposta è trasmessa da prigioniero in prigioniero..Richetto ansioso, attende la risposta.
– Dicono che è un rischio; che è meglio aspettare la notte.
– Al diavolo tutti, razza di conigli, penso per conto mio!
La marcia prosegue. Alla svolta di una insenatura, raggiungono la colonna dei mongoli, che avanza lentissima per i muli che stentano a proceder. I nostri si guardano l’un l’altro con uno sconforto profondo: addio piani di fuga. Fortunatamente la scorta fa accelerare i prigionieri, passano in tetesta alla colonna e la distanziano. Rinascono le speranze. Richetto cammina con lo sguardo a terra: studia le rotte, il luogo propizio. Sono sopra il paese di Sette Sorelle, sul crinale. C’è vicino un casone di carbonai dove i tedeschi hanno messo un telefono da campo. Le tre sentinelle che sono in testa infilano la porta, entrano. Richetto coglie il momento. Avanza un passo oltre la porta, si china sul legaggio di una scarpa, dà un’occhiata alla china che scende sotto il casone, uno alle sentinelle in coda, in un attimo. Si alza, dà un colpo sulla spalla del compagno che gli è giunto vicino e via! Gerolamo, i fratelli Mezzetta e Nando gli corrono dietro, come cervi, nella neve, giù per la china.
I tre tedeschi appena ripresi dall’istante di smarrimento, con nutrite raffiche inseguono i cinque.
I prigionieri superstiti trepidano nel casone. Pochi minuti, poi, i tre tedeschi, ansanti, con le armi che fanno fumo, portano ai nostri la ferale notizia:
– Vostri camerati, tutti uccisi! Se tentate fuggire, uccidere anche voi!
Non piangete, o amici.
I «camerati» non sono uccisi! Richetto è salvo!
E’ sulle nevi del monte Lama in una gloria di sole; ritorna tra i suoi uomini, tra i suoi ufficiali.
Ma dal 28 gennaio egli non è più comandante della « Centocroci ». E proprio per questo motivo la Divisione, superato il grande rastrellamento, è spezzata dalla più grave delle crisi.
Trenta giorni di sofferenze fisiche e morali e di dolorose separazioni. Ma i comandanti dei reparti e la quasi totalità degli uomini, le gloriose « fiamme verdi» non piegano.
Già da gran tempo, nella loro attività operativa, i volontari della « Centocroci» avevano combattuto a fianco a fianco coi fratelli d’arme degli Appennini parmensi; e rapporti cordialissimi li univano, essi e i loro capi, al Comando Unico della provincia di Parma. La quale, anche per la sua situazione geografica alle spalle immediate del fronte tirreno e per !’importanza delle sue arterie, era ormai il centro più ardente della guerra volontaria. Agli inizi di febbraio i capi della « Centocroci» manifestarono al Comando Unico Parmense il desiderio di passare alle sue dipendenze. Vi furono accolti affettuosamente nelle persone dell’ingegner Giacomo Ferrari (Atta) e del professor Achille Pellizzari (Poe). Il 3 marzo 1945 guidati da Richetto, i reparti abbandonano il territorio della IV zona operativa e, con la nuova denominazione di « Vecchia Centocroci », passano alle dipendenze del Comando Unico della Provincia di Parma.
Gli uomini ritornano così nella Valle del Taro, la valle che vide la culla, i primi ardimenti e le vittorie più luminose della formazione, all’ombra dei faggi e presso i cimiteri dove riposano tutti i loro morti.
Tutto si è rinnovato in questa ripresa. Una cosa sola non è mutata: lo spirito delle origini e dei tempi difficili.
Lo vedrai ad Ostia Parmense.

Nino Siligato, medaglia d’oro al V.M. della Resistenza (alla memoria)
9 settembre 1943. La Spezia dorme ancora nel riposo di quella notte che fu piena di eventi. Le vie sono deserte. I grandi negozi non hanno ancora alzato le saracinesche. E’ l’ora dell’uomo d’affari e dell’impiegato che corrono al treno: l’ora degli erbivendoli e degli ambulanti che sul mercato montano il banco per la vendita della giornata. I primi segni di risveglio della città.
Un giovane siciliano sottufficiale di marina corre verso il mare coll’ansia di arrivare in ritardo, per risalire su una delle navi ormeggiate laggiù; una nave che è il suo orgoglio, tutta la sua vita. Non s’accorge del risveglio mattutino: corre, corre senza prender fiato. La sua mente è fissa al punto di arrivo: al mare, alla sua bella nave, che in un giorno, pieno di fuoco e di gloria, bagnò col suo sangue. Volta l’ultimo angolo col cuore sospeso, e… il mare, solo il mare! Guarda l’orizzonte: nulla! Era dunque vero: a La Spezia la flotta italiana, la « sua» nave non c’erano più!
Nino Siligato restò a terra per divenire protagonista di un sanguinoso dramma nell’Italia martire.
La sorpresa, il dolore, forse il triste presentimento,
gli fecero inumidire gli occhi. Nino pianse. Salutò il mare: marinaio non sarebbe stato mai più!
Ripassò per quelle vie. Erano animate. Ognuno diceva la sua: tutti parlavano della flotta che era salpata per i porti alleati. Ma per Nino le vie erano deserte, come prima. Giunse a casa; alla casa di colei che doveva essere la sua sposa e radunò i suoi pensieri: era un uomo finito.
Nei giorni che seguirono vide impotente lo strazio della Patria, e, in quella impotenza gli nacque nel cuore l’odio per le sue catene. Nino era un ribelle!
Passarono settimane terribili. Il suo cervello si tormentava nell’ideazione di mille piani, dal tema comune: come combattere l’oppressore? Due volte era partito da La Spezia per arruolarsi nelle forze dell’Italia liberata: due volte era dovuto ritornare indietro. Una mattina lesse sui giornali che una unità fascista, la «X.ma flottiglia mas », partiva per essere impiegata sul fronte meridionale. Afferrò l’occasione. Si presentò al comandante Borghese:
– Voglio arruolarmi nel vostro battaglione! Voglio andare a combattere, ma sul fronte meridionale!
Borghese contemplò lungamente quel viso, fissò quegli occhi pieni di vita. Quegli occhi, pur tanto belli, non gli piacquero.
– Va bene – gli disse – domani stesso partirai per il fronte!
Indossò sorridente, la divisa della « Xma » e, secondo la promessa, il giorno dopo parti. Non so se arrivò a Roma. Sceso dal treno, fu accantonato con gli altri. In quella sosta soffriva terribilmente: la pagnotta fascista non gli andava giù!
– Lo sai Nino? Si và in Piemonte a rastrellare i « ribelli»!!
– Davvero?
– Così ho sentito dire – gli disse qualcuno.
– Va bene! – E Nino, per la terza volta, salì in treno; ritornò a La Spezia!
L’ambiente giovanile spezzino, e non solo giovanile, era arroventato per la causa patriottica. Nino si mise in giro, frugò nel segreto: trovò le maglie dei cospiratori.
– Andrai ai monti con la « Centocroci »! – E Bonamini lo condusse a Spallavera insieme con Bruno. Di lassù vide per la prima volta la valle del Taro e ne gioì.
Era il 13 febbraio 1944.
Gettando il suo sacco in un angolo dell’osteria, si rivolse alla padrona con quel modo di chiedere che gli era caratteristico:
– C’è da mangiare e da bere per Nino? Nino oggi paga anche per Bruno!
Che Nino Siligato non conosceva l’uso dell’io: come Cesare, parlava di sè in terza persona!
Fu presentato a Beretta, a Richetto, agli altri uomini della « Centocroci ». Quali furono le prime impressioni dei nostri in quell’incontro? Furono pessime! I «ribelli» lo squadrarono: sotto l’impermeabile chiaro c’erano i calzoni e il maglione della « Xma mas »! Si guardarono un po’ l’un l’altro: gli sguardi avevano già espresso la decisione:
– Con queste credenziali non si può entrare nella « Centocroci », non c’è nulla da fare.
– Ebbene – gli disse Beretta – vedremo il tuo caso.
Per adesso puoi star qui.
E lo salutarono piantandolo in asso con Bruno, convinti che fossero due spie o per lo meno due esseri da tenere d’occhio! Passarono parecchi giorni e il suo caso, ormai passato agli «atti» non veniva preso in esame.
Nino lassù, girando tra un locale e l’altro dell’osteria, cercava di consolarsi con i rari avventori, più con la famiglia o la padrona dell’osteria e le sue confidenze finivano invariabilmente con le parole che dicevano tutto il tormento del suo cuore:
– Potessi avere un gruppo di uomini. Potessi combattere!
L’attesa si prolungava già di sette giorni. Nino era un giovane impulsivo, un giovane pieno di elettricità, un giovane fatto per l’azione: non poteva stare alla consegna. E cosi la mattina del 20, con Bruno, partì per La Spezia.
– Vado a prendere delle armi; – disse a quelli dell’osteria – due o tre giorni e poi ritorno.
E ritornarono. Passando per la Cappelletta una pattuglia di partigiani li fermano. Nino è raggiante: ha quattro moschetti e quattro bombe a mano!
– Sono per la « Centocroci »!
– Sono per la « Centocroci »? In divisa della …« decima »! Venite con noi!
Nino e Bruno furono condotti al comando. Nino aveva un bel dire: non lo credevano!
Furono riportati a Spallavera e piantonati da due partigiani. I sospetti si erano centuplicati! E se vuoi conoscere la incomprensione spinta al più incredibile parossismo ti dirò che i due partigiani avevano il tacito ordine di sopprimerli!
Nino s’accorge che ha poche ore di vita. Bonamini e Maggi corrono al Comando di Groppo. Il Comandante Gino Beretta non c’è. Vi è Richetto.
– Che? Lo vogliono fucilare? Sono matti! Dite ai due partigiani di condurre giù i due fermati. Li prendo in squadra con me.
E il 24 marzo Nino è a fianco di Richetto sul passo di Centocroci a fronteggiare la prima azione di rastrellamento. Sono oltre mille uomini della «Xma» e con loro c’è il Comandante Borghese!
Salgono da Varese Ligure verso il passo sopra una colonna di autocarri. Gli ottantadue uomini della « Centocroci» combattono, come leoni, per quattro ore; ma chi li ferma, chi li ricaccia, chi li batte è un gruppo di due uomini ed una vecchia mitraglia: la mitraglia di Richetto.
Ma al suo fianco vi è un giovane che gli porge i caricatori, Nino Siligato!
Dopo quel combattimento tutte le nubi si dileguano: Nino si rivela come uno dei più ardimentosi combattenti della « Centocroci »! .
Per questa dolorosa strada Nino ha trovato il suo posto: è un « ribelle»; un « ribelle» come lo vide il primo sole di La Spezia il 9 settembre, un « ribelle» finalmente armato, dopo tanto travaglio, così come lo colse la Morte, Madre degli Eroi, la notte del 17 gennaio 1945, sulla neve di Codolo.
Quando entrai a far parte della «Centocroci» tutti parlavano di Nino. Ma Nino in quei giorni non c’era. Era andato in missione. Ero impaziente di conoscerlo! Finalmente arrivò e si accantonò col suo plotone nei locali della scuola di Gacciarasca, sulle alture di Albareto.
Andai lassù.
– Dov’è il tuo Comandante? – chiesi ad un partigiano che stava fasciandosi un polpaccio, sull’erba del cortiletto.
– E’ dentro, reverendo, è dentro che tiene rapporto agli uomini. Un momento e, lo accompagno.
Preceduto dal partigiano, percorsi il breve corridoio e mi fermai sulla porta della sala piena di uomini. Nessuno s’accorse del mio arrivo.
– Eccolo, reverendo, è quello là mi disse sottovoce per non disturbare.
Era in piedi, sul tavolo, e stava arringando calorosamente i suoi uomini. Era un giovane dalla pelle di bronzo, dalla corporatura snella e con paio di pantaloncini molto sopra al ginocchio. Un cinturone nero, dal quale pendeva una pesante pistola, gli teneva aderente la camicia militare inglese, maniche rimboccate sopra i gomiti. Sotto il casco caki coloniale, gli scendevano tre dita di barba e i lisci, lucenti capelli; brillavano in un viso di bimbo due occhi meravigliosi, che, in quella arringa, facevano scintille! La più felice fantasia non potrebbe creare un tipo di capo partigiano più caratteristico di Nino Siligato!
Mi vide. Un largo sorriso, un salto, una calorosa stretta di mano e:
– Oh, caro Cappellano, scusi, sa, del ritardo e del disordine.
Poi, rivolto agli uomini :
– Ehi, ragazzi, facciamo un applauso al nostro Cappellano!
La sala rintronò di un frenetico battimani, poi fatto silenzio:
– Oggi lei è ospite di Nino! Siamo «ribelli », sa, ma siamo cristiani!
Poi mi spiegò:
– Stavamo litigando. Sparano, sparano, non vogliono capire che non devono sparare. L’ho raccomandato mille volte; eppure di tanto in tanto devo sentire qualche colpo! E sì che non scherzo! Guardi!
Guardai oltre la finestra: tre partigiani erano legati a tre alberi, sul prato! Loro malgrado, ridevano e minacciavano Ciclone che li aveva legati troppo stretti.
– Verrà il tuo turno, Ciclone della malora, ti faremo sentire l’aroma che ha la corda!
Ciclone, il pacifico Ciclone, li canzonava. Nino lo vede.
S’avvicina alla finestra e :
– Ciclone, che fai lì? Via!
– Via, Nino, – gli dissero i tre in un tono che aveva più della preghiera che del rimprovero, – quattro ore di palo sono troppe: il colpo è partito da sè mentre pulivamo…
– Cosa? E’ partito da sè? Non contiamo frottole! Beh, beh: per questa volta farete la pattuglia stanotte. Ma se sento ancora un colpo, parola di Nino, chi ci casca la paga cara! – .
Era rude nei suoi modi, sembrava che comandasse a degli ascari, ma aveva un gran cuore. Pochi comandanti furono amati più di lui!
Il suo plotone era singolare, come il comandante: era il plotone più caratteristico della «Centocroci»! In esso trovavi russi, polacchi, francesi austriaci, e, poi: cantori, musicisti, assi del pedale, del ring, cuochi e pasticcieri e i tipi più conosciuti dei fannulloni di via Chiodo! C’è uno che soffre a star tranquillo? Uno che è impaziente di menar le mani? Và al Comando, chiede la bassa di passaggio e se ne va con Nino! Perché il plotone di Nino è un plotone che deve lavorare, che non può stare inattivo, per la semplice ragione che se Nino sta fermo non è più lui.
Gli è che quando gli uomini sono fermi all’accantonamento, sia esso una casa al centro del paese o un casone nella macchia, se la sosta si prolunga, nel tedio che immancabilmente li prende, gli uomini pensano. E pensano ai chiodi per le scarpe, che non ci sono, alla giacca che ha bisogno di rattoppo, al rancio che non è in orario, alla salsa che l’intendente non ha mandato, ai muli che sono senza fieno: ai loro mille, svariati nascosti bisogni. A tutte queste sfumature deve pensare e provvedere il comandante. In mezzo alle difficoltà, della vita di montagna, il comandante, bene o male, provvede se, al dono dell’osservazione, minuzioso, diuturna, unisce altrettanta tenace, paziente calma. Ma Nino ne è; sprovvisto, di calma! Questo lo sa Richetto, e Nino non lo nasconde e perciò il suo plotone è e deve essere un plotone volante! Per questo Nino, pur avendo coraggio e meriti e capacità da comandare una Brigata, non accettò mai un’unità superiore agli effettivi di un plotone. A questo sopperì Richetto conferendogli il grado di comandante di compagnia agli ordini diretti del Comando della « Centocroci ».
Chi può elencare gli audacissimi colpi fatti da quel piccolo gruppo di uomini? Piombava, come una folgore, sui punti. più impensati del territorio occupato dal nemico. E picchiava, picchiava di santa ragione. Padivarma, Ricò del Golfo, la via Aurelia e la stessa città di La Spezia ne sanno qualche cosa!
Che meraviglia se sul capo pesava la taglia e che segreto compiacimento lo prendeva, a sentirsi chiamare, lui marinaio, «Filibustiere della Montagna »!
Nino aveva del marinaio la fierezza e il tradizionale genio delle parate. Si doveva compiere una cerimonia? Era Nino che l’organizzava! Che funerali preparò ai compagni che via via caddero nella marcia trionfale della « Centocrici »! Chi potrà dimenticare la cerimonia, veramente marziale, della benedizione della nostra Bandiera di combattimento avvenuta ad Albareto nel grigiore del 24 ottobre.
Quante comunioni in quella Messa al Campo, celebrata sotto i cannoni degli Alpini di Centocroci!
Com’era bello quel Tricolore consacrato dalla benedizione di Dio!
Quante meravigliose funzioni vide il mio povero Altarino da campo!
– A bordo si faceva così – diceva a quelli che andavano a complimentarlo.
In ottobre il colonnello Turchi, comandante di Zona, aveva pronte tutte le formazioni per la calata su La Spezia. Tre massicce colonne dovevano investire la città. A Nino aveva affidato il comando degli esploratori. Venne da me:
Un abbraccio, Don Luigi! Alle 11 di domenica 15 ottobre, voglio « inaugurare» il mio plotone con una funzione nella parrocchia di Albareto. Faremo tutti la Santa Comunione, compreso Nino!
Poche volte ho visto Nino contento come quel giorno! E la funzione di quella domenica restò memorabile. Attorno all’altare, che era una serra di fiori, un picchetto impeccabile. Nino a lato dell’Altare, inginocchiato su un apposito genuflessorio, rendeva, umile, il suo omaggio al Signore. I suoi uomini, in tre file, erano schierati sotto la balaustra. La chiesa è gremitissima come nelle grandi solennità. Messa a tre voci di Lorenzo Perosi e, poi, la Comunione: la più commovente delle Comunioni che abbia mai distribuito! E’ mezzogiorno.
« Confiteor… » e Nino sale i gradini dell’Altare, si inginocchia sulla predella e per primo riceve Gesù. Gli altri, deposti gli sten sono tutti alla balaustra: una ottantina di poveri ragazzi! Sono venuti a ricevere il Signore con gli indumenti logori, gli scarponi infangati, con i capelli arruffati, con la trascuratezza di tutti i giorni, cosi, come li aveva plasmati la vita nei boschi, l’insidiosa guerriglia, il dormir sotto la tenda, il palpito ed. il sussulto di gioie e di dolore dun’esistenza continuamente minacciata da pericoli.
Ricevettero Gesù: prima di loro pezzente, prima di loro oppresso.
Tra le molte centinaia di astanti a quella cerimonia non so se ci fu chi non pianse!
Dopo la Comunione, Nino mi fece leggere il tratto di una lettera che inviava alla fidanzata: « …quando lasciai la mia terra odiavo tre cose: l’analfabetismo dei miei siciliani, il fascismo e i preti! Da oggi, mia cara, guai a chi mi parla male della Chiesa»!
Se è vero che lo stile è l’uomo, in queste righe c’è tutto il cuore, tutta la generosità di Nino! Perché non conosceva l’aurea mediocritas: o da una parte o dall’altra fino in fondo, o nel bene o nel male.
D’accordo con gli alpini, nella notte del 9 settembre preleva un ufficiale della «Monterosa» che dorme sotto una tenda a Borgo Val di Taro. E’ il sottotenente Orlandini di Modena, del battaglione « Aosta ». Mentre vien condotto al comando di Montegroppo, si lamenta:
– Mi sento male, signor comandante.
– Abbi pazienza, gli risponde Nino, – più avanti vi è un’osteria. Sveglieremo i padroni e ti farò preparare qualche cosa.
Mentre quello si ristora, Nino azzarda qualche domanda. Ne nasce una disputa accalorata. Il prigioniero,che non conosce i partigiani, ha ormai la convinzione che nulla lo può salvare dalla fucilazione. Ed allora, morire per morire, vuole morir da eroe: fa un’aperta professione di fede fascista e, senza risparmiare di offendere Nino, tronca il bisticcio con le parole: – Ho fatto un solo giuramento! Non lo tradirò mai!
– Ebbene, – risponde Nino, se è così, ora andiamo al comando e domani questi uomini ti fucileranno!
Alle otto del mattino il prigioniero era accasciato con la testa fra le mani, seduto al tavolo, nell’atrio del comando agli Squarzi di Montegroppo. Aveva davanti un bicchier d’acqua, una pagnotta con un pezzo di formaggio: la sua colazione; non vi badava.
Era uno studente di ventiquattro anni! Pensava alla vita! Mi avvicinai a lui, lo guardai, scambiammo qualche parola: non poteva essere, quale, nella disperazione, si era manifestato a Nino!
Fuori, sulla piazzetta, Nino aspettava il Dottor Roberto e gli altri ufficiali del comando per il processo. Attorno a lui c’erano gli alpini della Monterosa che avevano disertato nella notte.
Chiamai questi alpini in disparte e li interrogai. Me ne parlarono bene: l’ufficiale era un povero ragazzo!
Ma c’era Nino, c’erano i suoi uomini: si era troppo compromesso. Presi Nino in disparte e cercai di illuminarlo.
– Non posso, Don Luigi, l’ho trattato come un fratello: mi ha offeso! Qui ho il rapporto per il Comando su quanto ha affermato. Mi ha sfidato! Capisci? Se non si fucila, che figura faccio dinanzi a lui? dinanzi ai miei uomini?
– Non puoi, per un puntiglio, perdere una vita! offri a: Dio questo sacrificio: non ti pentirai mai di essere stato generoso con i nemici!
Nino chinò il capo, pensò un istante, poi, tirato fuori il rapporto che aveva in tasca, con un atto di volontà che certamente gli costò, lo fece a pezzi.
– Digli, al prigioniero, che Nino Siligato gli dona la vita! – E se ne andò.
Salii dal prigioniero e lo rinfrancai. Si fece il suo processo; narrò la sua dolorosa odissea: si stabilì di tenerlo prigioniero e di cambiarlo alla prima occasione.
Se fosse stato fucilato, il Comandante Richetto avrebbe firmato la prima, l’unica sentenza capitale!
Il 1944 sta morendo in una tremenda bufera di neve. Il telefono del comando chiama continuamente, senza una sosta, né di giorno né di notte: i mongoli stanno per investire la nostra zona! I comandi partigiani, sparsi in tutti i monti, comunicano il loro lento, inesorabile movimento. Le comunicazioni, gli ordini da e per Varese Ligure, sede del nostro comando, si incrociano.
Pronto? Base sedici? Parla il comando della Quarta Zona Operativa. Il maggiore Gordon Lett ha un’importante ed arditissima missione da compiere nel pontremolese. Desidera che sia affidata a Nino. Si prega Richetto di voler inviare Nino a questo comando al più presto possibile per impartire ordini e prendere accordi.
Nino è malato più di quanto vuol fare apparire. E’ debole, l’itterizia ha steso un pallido velo sul suo volto; i suoi occhi non lampeggiano più! Nessuno lo vuol lasciar partire!
– Senti, Nino, quello di Gordon non è un ordine, è un desiderio! – .
– Ci sono i monti da attraversare, coperti di neve, sconvolti dalla bufera: non puoi passarli nelle tue condizioni!
Non si trova ragione per poterlo convincere a desistere! E Nino, come cento altre volte, ilare, parte per quella missione, che doveva essere l’ultima: la missione senza ritorno!
Sulla Cisa transitano da quasi tre giorni molte forze tedesche dirette al fronte: Nino deve ostacolare quel traffico. In cooperazione con i sabotatori inglesi di Gordon, in quindici giorni di audacissimi attacchi, brucia una lunga serie di automezzi ed infligge al nemico notevoli perdite.
Terminata l’azione, con i suoi diciotto uomini, si mette sulla via del ritorno.
Sono le 23 della notte infernale del 17 gennaio 1945.
Il manipolo eroico arriva sfinito in una bicocca sopra Codolo: riposeranno, come potranno, in due vecchie case abbandonate.
Posano le armi, si tolgono le scarpe appesantite dalla neve e gli indumenti madidi di acqua, ed accendono il fuoco per rifocillarsi. Intorno a quella fiamma, uno dopo 1’altro, sulle ramaglie, sui sassi, all’estremità dei tizzoni che crepitano, stendono i loro stracci ad asciugare e parlano dei pericoli affrontati, della marcia fatta e del tempaccio che non cambia.
Non è un’ora che sono arrivati.
Nino è contento.
Improvvisamente s’ode fuori un crepitio di armi automatiche.
I nostri si guardano atterriti. Un istante, poi, si gettano sulle armi.
– I tedeschi hanno attaccato i compagni dell’altra casa! – grida Nino. – Per ora state fermi qui, vado io dai nostri!
Presa la sua arma si lancia fuori in soccorso ai suoi uomini.
Fatti pochi passi, una raffica di mitraglia lo colpisce in pieno petto: cade sulla neve!
Nino Siligato, il più famoso, il più bello, il più generoso, il più caratteristico partigiano della « Centocroci », non era più!
Era morto per difendere la vita dei compagni, era morto dopo dodici mesi di durissima lotta contro gli oppressori della sua Patria; sulla neve di Codolo, come sul ponte di una nave, con la fronte al nemico, veramente come sanno i marinai d’Italia ovunque morire!
A questo purissimo eroe non mancherà l’aureola della massima ricompensa al valore militare:
Ben sapendo dov’ era l’anima della Patria martoriata, accorse per primo sui monti portando la fiamma della sua ardente passione e del suo entusiasmo trascinatore.
Unitosi nel febbraio del 1944 ad alcuni compagni diede vita e nome al Gruppo partigiani « Centocroci » divenuto in seguito Brigata e Divisione .
Araldo di libertà, in innumerevoli ed arrischiate missioni di guerra, portò alle popolazioni oppresse la parola della speranza e della fede infiammando centinaia di giovani all’ideale della lotta per la libertà .
Partecipò, primo tra i primi, a tutti i combattimenti della formazione dando ai propri dipendenti continuo, mirabile esempio di disciplina e di valore.
Provato nel fisico da dodici mesi di durissima lotta partigiana, e ricoverato all’ospedale, non ancora guarito e contro il parere dei medici curanti, volle riprendere il suo posto di comando.
Ancora febbricitante, si offriva volontario con pochi altri compagni per recare il suo aiuto ad un gruppo di alleati che operava, nella zona di Pontremoli, contro automezzi nemici .
Eseguita brillantemente l’ardita operazione di guerra, sulla via del ritorno, veniva circondato in Codolo di Pontremoli, da ingenti forze tedesche.
Rincuorati i compagni, smarriti per il pericolo, ed impugnata l’arma, mentre s’apprestava ad affrontare da solo il nemico, una raffica di mitraglia ne stroncava la generosa, purissima vita .
Codolo di Pontremoli li 17-1-1945.
LA SANITA’
La « Centocroci », a differenza di molte altre formazioni, aveva il privilegio di avere un ospedale per la cura dei suoi malati e dei suoi feriti: l’ospedale civile di Albareto.
Era l’ospedale civile di Borgo Val di Taro che a causa dei frequenti bombardamenti, era sfollato con tutto il suo personale in questa località del Gotra. Quantunque fosse situato a circa otto chilometri dal presidio tedesco di Borgo Val di Taro, i nostri feriti vi andavano abbastanza tranquilli. Era un ospedale partigiano vero e proprio. Partigiani erano la quasi totalità dei degenti; partigiani i direttori sanitari, Professore Spartaco Colombatti, libero docente in neurologia all’università di Bologna e il dottor Ugolotti; partigiano il Cappellano Don Mario, della «Osa»; partigiane anche le instancabili suore di San Vincenzo.
Nei momenti di calma la vita trascorreva tranquilla e i nostri patrioti non soffrivano certo il peso della solitudine, che dalla mattina alla sera era una processione di gente che li sollevava con la presenza, col sorriso affettuoso, con cento forme di patriottica solidarietà.
E suor Vincenza e suor Caterina erano le « mamme» dei partigiani. Quante volte furono visti questi due angeli di carità mendicare una sigaretta per i loro figlioli!
Se tu avessi visitato quell’ospedale, sempre – s’intende – nel periodo di calma, ti avrebbe certo colpito il numero considerevole di feriti e la povertà del luogo. A questo ospedale, l’epilogo di tutte le battaglie. Era qui che affluivano ì feriti più gravi, sia nostri che nemici; era qui che il popolo inerme trovava lenimento ai dolori, alle mutilazioni della rappresaglia nazi-fascista.
Ma nelle puntate, nei rastrellamenti, quando il nemico ci obbligava a ritirarci sulle alture, allora l’ospedale diventava lo spasimo dei patrioti e della popolazione. Noi, dalla brughiera, sulle armi, nell’ardore del combattimento guardavamo il nostro ospedale laggiù, in fondo alla valle, nella sua mole dominante le povere case, indifeso, preda al nemico. E quali momenti di trepidazione per noi e per la povera gente del Gotra quando gli vedevamo vicini gli oppressori. Risparmieranno i nostri feriti condannati all’immobilità? Come descrivere l’angoscia dei nostri che erano laggiù? Più di una volta i nazi-fascisti passarono per quelle corsie e puntarono minacciosamente le armi al petto di quegli eroici « banditi »! .
Nel rastrellamento di gennaio i mongoli volevano entrare nell’ospedale e massacrarli tutti. In questa occasione rifulse il coraggio, l’abnegazione di una suora: si piantò alla porta d’ingresso e, armata di eroica fede, fermò i barbari.
– La carità di Cristo non conosce differenze. Qui si curano tedeschi ed italiani, fascisti e ribelli: rispettate questa casa!
Ed i mongoli se ne partirono.
Tre feriti, scappati dall’ospeda1e, nel tentativo di rifugiarsi a Cacciarasca presso il parroco, furono presi e fucilati sul ponte di Varese Ligure e, dopo averli gettati nel greto, intimarono alla popolazione di lasciarli insepolti, pena la morte.
Ma la « Sanità» più tipicamente partigiana era quella dell’ospedaletto da campo. L’ospedaletto da campo entrava in funzione durante i periodi di importanti operazioni, quando i movimenti del nemico rendevano poco sicuro per i nostri feriti l’ospedale di Albareto. Era quasi sempre un casone sperduto nella macchia o in qualche impenetrabile gola. Lo dirigeva un giovane studente in medicina: Bertolotti di Tarsogno. La lunga esperienza della guerriglia, la cui caratteristica, è quella del rapido movimento, lo aveva reso un esperto nell’organizzazione di questi rifugi per i feriti. E se li caricava anche sulle spalle e li portava da un monte all’altro: condivideva la sorte di questi patrioti eroici.
Nell’ospedaletto non letti, non biancheria: i poveri feriti, anche gravi, erano stesi, uno vicino all’altro, su poca paglia e coperti di qualche cencio.
Tipico l’ospedaletto improvvisato a Folta durante la puntata di settembre su Montegroppo da parte degli alpini della Monterosa.
Andai lassù per la consueta visita. Entrai. Sullo strame sei feriti erano stesi uno vicino all’altro affratellati nella sventura e nella povertà. In un angolo, vicino alla porta, nella penombra, c’era un patriota spezzino di sedici anni, sotto una coperta militare, immobile. Pochi giorni prima una pallottola lo aveva ferito al basso ventre. La peritonite era già avanzata. Non era possibile trasportarlo all’ospedale di Albareto perché la zona era controllata dagli alpini. D’altra parte un intervento chirurgico in quella stalla era impossibile. Il ragazzo sudava e si dibatteva tra atroci dolori per l’altissima febbre. Aveva poche ore di vita.
Trattenendo il pianto guardavo quel giovane eroe condannato a morire in mezzo a tanto squallore. Mi chinai su di lui e gli bacai la fronte come per dargli l’ultimo segno di affetto. Lo invitai a pregare con me. Accompagnava alla mia preghiera con pochi movimenti della bocca. Piangeva. Mi fece cenno di avvicinarmi che voleva parlarmi.
– Sono scappato da casa – mi disse con un filo di voce e tra i singhiozzi – dì a mia mamma che mi perdoni.
– Sta tranquillo, guarirai, ritornerai a casa e la mamma sarà orgogliosa di te.
Fu un presagio. Lo rividi in seguito completamente ristabilito. Alla partenza degli alpini dalla zona fu portato all’ospedale di Albareto e guarì senza intervento chirurgico.
Ma la « Sanità» doveva compiere dei veri prodigi quando tutte le zone partigiane erano in movimento perché invase dal nemico e la lotta si trasformava in una accanita caccia all’uomo. Allora anche l’ospedaletto non serviva più per la sicurezza dei feriti. Essi dovevano seguire i distaccamenti o i piccoli gruppi isolati nella spasimante marcia e per le giogaie dei monti. Gli abitanti delle nostre montagne, atterriti dalle rappresaglie nazi-fasciste, in quelle circostanze non volevano generalmente nascondere i feriti. Egoismo forse compatibile perché avevano visto o sentito raccontare di molte case, di interi paesi bruciati e di molte famiglie gettate nel lutto per questa opera tanto sublime di carità e di solidarietà cristiana.
Nel rastrellamento del gennaio 1945 la neve abbondantissima, il freddo intenso, l’imponenza delle forze mongole impegnate contro i partigiani della nostra zona, non davano alcuna possibilità di trasportare i feriti. Al nostro ospedaletto era stato ricoverato un patriota delle brigata« Coduri »: Bemardo Traversaro di Rapallo detto « Rum ». Era rimasto gravemente colpito in un attacco alla piazzaforte di Velva. La mamma era venuta a trovarlo e fu anch’essa travolta in questo rastrellamento. Il figlio immobilizzato dalle gravi ferite agli arti inferiori non poteva muoversi. Lo portarono in lettiga a Caranza. Sulle alture soprastanti, a Centocroci, infuriava la battaglia. Varese Ligure era già occupata dai tedeschi: si profilava un inesorabile cerchio di ferro contro la nostra Divisione. Quale sarebbe stata la loro sorte? Noi consapevoli della tremenda situazione, lo sapevamo. La povera madre, no.
Quella sera doveva cominciare la più dura, la più disastrosa marcia di tutta 1a campagna: il passaggio del monte Gottero; salire a milleseicentocinquanta metri e farci una strada nella neve alta oltre un metro!
Al tramonto si iniziò la dolorosa marcia. La madre seguiva il figlio portato in lettiga dai compagni. A Porciorasco , nel caos di quell’ora tragica, questa eroica madre comprese il pericolo: non si poteva proseguire cosi. Si fermò al paese sempre a fianco del figlio decisa a seguirne la sorte: cattura e fucilazione.
Nella notte Porciorasco fu invaso e tra nutrite sparatorie, durate sino all’alba, furono frugati ogni casa, ogni angolo, ogni buco. Non furono scoperti. Attraverso una dolorosa odissea, in molti giorni di marcia, se lo portò a casa attraversando le strade della riviera piene di nazi-fascisti. Un medico nascostamente lo curò.
Oggi sulle pareti del Santuario mariano di Montallegro pende un voto: riconoscenza di un figlio e di una madre eroica.
L’AVAMPOSTO DELLA STRADA N. 62
Il fronte tedesco della Garfagnana gravitava sulla strada che dalla pianura parmense s’inerpica sul Molinatico e, lungo la valle del Magra, per Aulla, arrivava dietro il fronte.
Su questa strada, a millequaranta metri, il passo della Cisa.
In questa zona montagnosa, esposta agli attacchi delle forze partigiane, il nemico aveva costituito tre capisaldi: Berceto, passo della Cisa e Pontremoli, con presidi intermedi minori, tanto che ne risultava una vera e propria linea di difesa a protezione del traffico fra la valle del Po e il fronte tirreno. Oltre quella linea, vera spina contro di noi, l’avamposto di Guinadi, sulla ferrovia Pontremoli-Borgotaro. La « Vecchia Centocroci », nel parmense ci sta meglio, pur se, di questo cambiamento di domicilio, siano contenti ano che gli alpini del Bracco, e i tedeschi e le brigate nere, che trepidanti passavano un tempo, di lassù.
Sennonché gli uomini di Richetto, chiusi per necessità organizzative del comando unico in una ristretta zona attorno a Tarsogno, non hanno nulla da fare. Arta e Poe che compongono il Comando Unico Parmense, sono larghi di comprensione: conoscono i partigiani. Sanno bene che questi ragazzi non possono star fermi; e il loro desiderio di combattimento e di gloria è soddisfatto con l’assegnazione di un tratto dell’arteria Pontremoli-Berceto, sulla quale essi dovranno affrontare i tedeschi.
Gli uomini di due plotoni sono in festa a Miramonti, sotto Centocroci. E’ quasi sera, e le falde dello Scassella e dello Zuccone sono ancora chiazzate di neve, quella ostile neve che li ha fatti tanto soffrire, e che sperano se ne vada coi tedeschi 9 marzo 1945.
Sul marciapiede dell’ albergo ci sono allineati una ventina di bren, due muli carichi, tra i pini, stanno immobili, con la testa bassa a guardare, tristi, la gioia dei padroni.
Eppure c’è odor di polvere.
Aldo, il comandante della Brigata «Nino Siligato» si fa sempre un po’ attendere! Spunta Lupo e, poi, lui. Ha sul capo un cappello da alpino con una lunga piuma, un bel cappello che ha tolto in settembre ad un ufficiale della « Monterosa» perché a lui, vecchio scarpone della Julia, quel cappello, quella piuma, su quella testa, sembrava un oltraggio!
– Svelti, ragazzi!
Partono, uno dopo l’altro, in colonna, cantando
. . . . . . . . .
e laggiù c’è un punto nero.
è il cimitero del partigiani
OSTIA PARMENSE
In una casa di Tarsogno è arrivato da pochi giorni un distinto signore vestito di grigio. Alto, asciutto, con due sottilissimi baffi, fa qualche sortita sulla sera con l’avvocato Cerri, commissario partigiano per i comuni liberati del piacentino. E’ monsignor Giuseppe Civardi, capo dell’ufficio centrale di Assistenza Religiosa alle Formazioni Partigiane. E’ venuto dalla Val Nure per coordinare l’attività dei Cappellani dell’Ovest-Cisa e per dare le direttive per la Pasqua del partigiano.
Sarà l’ultima Pasqua che i giovani faranno alla macchia: la belva nazi-fascista sta per ricevere il colpo mortale.
In Italia, la quinta e la ottava armata si preparano all’offensiva della liberazione; i russi sono sull’Oder a meno di cento chilometri da Berlino e le armate di Montgomery già combattono, oltre il Reno, nella zona industriale della Germania.
Il crollo può avvenire da un momento all’altro. Bisogna accelerare anche il nostro lavoro: i partigiani devono scendere nella pianura in grazia di Dio.
I Cappellani della « Vecchia Centocroci » tengono agli uomini istruzioni serali in preparazione della Comunione e, nella festa della Resurrezione, don Livio celebra a Folta, don Raffaele a Tarsogno, don Natale a Cacciarasca ed io alla Cappelletta del passo di Centocroci.
Tutti gli uomini compiono il precetto.
A Gravago, il 3 di aprile, il capitano Bob della Missione Militare Alleata, il comandante Arta ed il Commissario Poe, chiamano a rapporto i comandanti delle formazioni del parmense. Urge preparare gli uomini, le armi e i materiali indispensabili per la battaglia finale. Dopo questo convegno i lanci, sulla costa di Porcigatone si susseguono giornalmente senza interruzione.
I vecchi combattenti della montagna gettano via i cenci gloriosi ed indossano le morbide divise della quinta armata.
Giorni pieni di passione quelli della settimana di Pasqua.
Il capitano Bob, Arta e Poe, tutti i Comandanti, sono ancora a rapporto il giorno 6 sulla costa di Porcigatone, per studiare un piano d’attacco. Il generale Mark Clark ha ordinato di eliminare i presidi nemici delle nostre vallate e quelli scaglionati lungo la ferrovia Fornovo-Pontremoli.
E’ la prima azione coordinata, sincrona, con impiego di parecchie migliaia di uomini: la prima offensiva della nostra battaglia finale. La divisione Julia «Cisa» deve agire su Guinadi, il Gruppo « Valtaro », rinforzato dalla prima Julia, su Borgo Val di Taro, la «Vecchia Centocroci» su Ostia Parmense, la prima Julia, rinforzata dal terzo plotone della nostra Compagnia, su Roccamurata, la « Val Ceno» su Valmozzola e i presidi della zona pedemontana di Salsomaggiore e Noceto e la seconda Julia su Berceto, col compito, non facile, di impedire che le ingenti forze tedesche che vi sono accantonate, possano affluire agli altri presidi attaccati.
Azione imponente questa, che porterà le formazioni della libertà sui contrafforti della pianura.
Alle 8 del giorno dopo tutti i reparti della « Vecchia Centocroci» partono per Ostia. L’attacco deve avvenire all’alba di domani.
Pioviggina. In lontananza il Pelpi, il Santa Donna, il Cucco, Gottero, tutti i nostri monti si perdono nel cupo grigiore di ampi piovaschi. Sarà una giornataccia.
I partigiani sono contenti egualmente. E’ la gioia che ha accompagnato tutte le partenze.
Oltre le armi personali, portano tutti una o due bombe da mortaio o da « batsuoka ». Dove vanno a combattere non lo sanno. Mai il segreto militare è stato osservato dai comandanti con più scrupolo. La « Nino Siligato » deve raggiungere, per Buzzò e Rovinaglia, le alture di Ostia, alla destra del Taro; la « Santo Barbagatto », per Porcigatone e il Santa Donna, quelle della sinistra.
Don Raffaele, Cappellano della « Siligato », è in testa con Aldo, il comandante. Questo dinamico prete è l’idolo dei patrioti spezzini: il cervello e il cuore della Brigata.
Una pioggia torrenziale si rovescia sui nostri in marcia. Le mulattiere, i sentieri tra le macchie diventano torrenti. La marcia è faticosa. Luciano, Umberto, Mauro e Moro, i quattro moschettieri della « Nino Siligato », canterellano dalla rabbia. I muli fumano sotto le some e le scarpe guazzano nell’acqua. A mezzogiorno si rosicchia un pezzo di pane, marciando. Nel pomeriggio, tra un’ acquazzone e l’altro, qualche raggio di sole rallegra gli uomini. Nel cuor della notte, dopo sedici ore di marcia, la «Siligato» raggiunge le case di Baselica e Belforte, sopra Ostia. La « Barbagatto » è già arrivata da qualche ora a Tiedoli, sulle alture di fronte.
Dopo di aver mangiato un po’ di minestra alla svelta, le compagnie, i plotoni e le squadre, in silenzio, riprendono la marcia. Sono tutti stanchissimi, ma non si può riposare. Bisogna occupare le posizioni favorevoli per l’attacco ad Ostia prima che spunti il giorno. La « Siligato » si schiera su una linea curva che da Baselica, per Belforte, arriva a Gorro sopra Roccamurata, a meno di ottocento metri dall’abitato di Ostia.
La «Barbagatto» sulle posizioni di fronte, sotto Tiedoli, dall’ampio meandro del Taro al ponte di legno che, al casello ferroviario, sotto Baselica, congiunge le due rive del fiume.
Ostia è circondata.
Le pareti delle colline che scendono sotto le posizioni dei nostri sono caratterizzate da stretti terrazzi, sui quali corrono paralleli lunghi filari di viti, che, come una grande scalinata, scendono all’abitato di Ostia. La cittadina è costituita da una fila di case sulla strada che fiancheggia la riva destra del Taro. I tedeschi sono trincerati in dodici di queste case munite di feritoie, collegate tra loro da camminamenti e protette da reticolati.
L’impresa affidata alla « Vecchia Centocroci» non è facile, ma ha già al suo attivo un primo successo: della sorpresa.
Sei mortai sono piazzati sulla schieramento della «Barbagatto»: possono battere tutti i punti di resistenza nemica.
All’alba Richetto ordina ai mortai di aprire il fuoco. Vittorio e Mario, che comandano 1a batteria, non hanno congegni di puntamento. Sparano ad occhio, ma, per la lunga esperienza, al terzo tiro centrano il tetto di una casa nemica. Passano i dati agli altri mortaisti e tutte le armi bombardano le posizioni tedesche. Il cielo si riempie di sibili, Ostia di fiamme, di fumo e di boati. I partigiani osservano contenti gli effetti della loro artiglieria.
Dopo un lungo silenzio il nemico reagisce con qualche colpo di moschetto. Da Baselica, da Belforte, da tutte le alture della destra e della sinistra del Taro, le mitragliatrici e i bren cominciano a crepitare. I tedeschi reagiscono con un intenso fuoco di sbarramento. Sparano non solo dalle feritoie delle case, ma anche dalle postazioni di mitragliatrici stabilite sui cocuzzoli che dominano l’abitato.
Si inizia una lunga battaglia di posizione.
Un plotone della «Nino Siligato» col comandante Aldo, balzando da terrazzo in terrazzo, si è portato a meno di duecento metri dal nemico. Questi coraggiosi, stesi dietro gli alberi, i sassi, lungo i lievi terrapieni sui muri dei terrazzi, sotto le viti, fanno un fuoco efficacissimo contro le feritoie delle finestre. I mortai continuano a battere, con molta precisione i tetti delle dodici case. Già parecchi sono squarciati dalle granate, e da qualche finestra si sprigiona il fumo dei primi incendi.
Il nemico controbatte accanitamente.
Da Belforte il maggiore Umberto e Severino, comandante e commissario della divisione «Valtaro », seguono le fasi drammatiche dell’attacco. Il dottor Prussia, in mezzo al fuoco, porta soccorso ai nostri primi feriti.
Si odono in lontananza i mortai della prima Julia impegnata a Roccamurata. Il nostro plotone, al comando di Lilli, attacca i tedeschi trincerati nel dopo1avoro e nel casello ferroviario all’imbocco della galleria per Ostia. Alle 1l, Como, Rivolta, Saletta, Savona, Borgoforte, Mantova e Mitra, col comandante, attaccano con grande irruenza i nemici a bombe a mano. All’impeto dei nostri uomini i tedeschi si arrendono.
Sono undici: i primi prigionieri catturati a Roccamurata.
Anche tutte le altre unità della Julia attaccano a fondo. I tedeschi non resistono all’aggressività delle «fiamme verdi» di Dragotte. A mezzogiorno i presidi di Roccamurata si arrendono: sessanta prigionieri, molti carriaggi ed un ingente bottino cadono nelle mani dei partigiani.
Gli uomini di Lilli corrono dal comandante Igor sotto Tiedoli. Hanno negli occhi la gioia di chi torna da una festa.
– Andate a riposare – dice loro Igor – lo sa Iddio quando si arrenderanno qui!
– A riposare? E’ impossibile. Prima bisogna vincere!
E si gettano giù dove si spara.
Nel pomeriggio gli abitanti delle alture di Ostia, sfidando il fuoco nemico, portano ai nostri nelle postazioni, dei piatti fumanti di pastasciutta!
Nel mulino, vicino alla stazione, c’è una postazione di mitraglia che impedisce i movimenti della «Santo Barbagatto ». Con un’audace manovra i quaranta arditi di Lilli la circondano. Poche raffiche di bren, un grido e, a bombe a mano, costringono gli otto tedeschi alla resa. La notizia di questo successo corre rapida per tutto il nostro schieramento infondendo una grande speranza nel cuore dei comandanti.
Sono già le 16, ma le posizioni sono ancora quelle del mattino. Il nemico si difende con grande valore. Oltre duecento colpi di mortaio si sono infranti su quelle case: i1 fuoco nemico è troppo intenso per tentare di prenderla d’assalto. Alle 16,30 i plotoni di Lupo e di Leone irrompono nella stazione e catturano altri ventiquattro tedeschi. Giorgio Susani, un ardimentoso giovane romano, che per primo si è lanciato all’assalto, è ucciso tra i reticolati che proteggano la stazione.
Sul ponte di legno che attraversa il Taro, Campiglia, la staffetta del comando della « Siligato» corre curvo, tra il fischiar delle pallottole, a portar gli ordini di Richetto all’una e all’altra ala dello schieramento.
Si arrenderà il nemico prima che scenda la sera?
Il maggiore Umberto consiglia Richetto di rimandare l’attacco decisivo all’alba di domani.
Alle 18 i tedeschi danno i primi segni di stanchezza.
Tre case in fiamme sono state evacuate.
Sono i primi segni di una grande vittoria!
L’azione a fondo non si può rinviare.
Richetto da ordine alla « Siligato» di intensificare il fuoco e di iniziare l’azione di avvicinamento. Gli uomini di Aldo balzano all’assalto e in pochi minuti si impadroniscono di tre case a meno di cento metri dalla sede del Comando tedesco.
Richetto, col plotone di Armando, attraversa audacemente il Taro e, dall’ala sinistra, si porta nelle case conquistate da Aldo. Si inizia una lotta accanita tra casa e casa. Le nostre armi automatiche intensificano il fuoco contro la sede del comando, dove si è trincerata la maggior quantità dei nemici. Bisogna prenderla d’assalto,. L’impresa è pericolosa perché una mitraglia nemica, da un’altura soprastante, batte i cento, metri di strada che necessariamente bisogna percorrere per raggiungerla. Leone, can quattro, uomini, si offre volontario per eliminarla. I cinque valorosi strisciano” campiono un ampio, giro: di cespuglio, in cespuglio, arrivano, sopra la postazione nemica e, dopo un duello, drammatica di mitragliatrici e bombe a mano” costringano, i quattro, tedeschi alla resa.
Intanto, anche la «Santa Barbagatto» ha lasciata le sue posizioni. Centinaia di uomini corrono verso il fiume, protetti dal fuoco delle armi pesanti. Arrivano, a meno di cinquanta metri dalle case occupate dal nemico. Le «batsuaka » lanciano, le grasse granate contro le finestre ed i muri delle case tanto accanitamente difese: i muri si infrangono, aprendo, larghe brecce.
Il nemica non reagisce più.
Ripetute intimazioni di resa restano, senza risposta. E giunta il momento decisivo.
Corre un ordine: gli uomini tolgono le bombe dai tascapani. Un attimo” e, al grida: «Italia! Italia! »si lanciano, all’assalto, Richetto, Aldo” don Raffaele, tutti gli uomini, tra gli spari, le fiamme, gli scoppi e il fumo, per le porte e le finestre, irrompono nelle case. Richetto ha la faccia insanguinata per una scheggia di bomba nemica; ha i capelli scarmigliati sul viso” e, con la pistola in pugno, gira per i locali della sede del comando disseminati di rottami e di documenti.
Non si vede un soldato.
Improvvisamente dalle scale che salgano, dalle cantine, viene fuori un capitano, tedesco. Ha le mani alzate, il viso, pallidissimo e la divisa coperta di calcinacci. Il pallore non ha dissipato i segni della antica fierezza; è un militare che si arrende, ma dopo aver combattuto. Si presenta a Richetto:
– Dov’è il Comandante?
– Sono io!
Il capitano lo guarda quasi commosso, poi, gli stringe calorosamente la mano:
– Non credevo partigiani italiani combattere così bene!
E’ il capitano Adam, comandante dei presidi di Ostia e Roccamurata.
Segue il rastrellamento dei nemici. Sono nascosti un po’ dappertutto.’ Birillo, il fanciullo eroico, ne pesca uno in una botte!
Un grosso autocarro tedesco viene caricato di bottino: settantadue prigionieri sono sulla strada. Partiranno domani per Porcigatone.
Richetto arriva a Tarsogno sulla 1100 del capitano Adam. La popolazione è in festa. E’ la gioia antica del popolo, che ha salutato tutte le vittorie della « Vecchia Centocroci ».
L’8 aprile segna la più grande vittoria delle formazioni partigiane della provincia di Parma. Tutti i presidi attaccati sono espugnati. Oltre seicento prigionieri sono in mano dei patrioti. La nostra vittoria è esaltata in un lungo messaggio ai patrioti d’Italia dal generale Clark.
A Borgo Val di Taro liberata, il comandante della prima Julia, Libero, parla al popolo radunato sulla piazza. Vicino c’è un grande palazzo smantellato, il palazzo che fu fino ad ieri la fortezza degli oppressori. Della ricca facciata c’è rimasto solo il motto:SUPER OBSTACULA.
Passano le colonne dei prigionieri. Guardano tristi la gioia di quella gente, le rovine di quel palazzo e il sole che muore.
Leggono quel motto. E’ il loro crepuscolo.
LA VITTORIA
Alla fine di marzo un comunicato del Comandante delle SS tedesche in Italia annunciava alle madri ed alle migliaia di patrioti, che nelle città preparavano !’insurrezione, la totale distruzione delle forze partigiane.
Era l’ultima menzogna dell’oppressore.
Nella seconda decade di aprile scoccava la grande ora. Gli eserciti alleati in Italia iniziano l’offensiva.
La quinta armata, che avanza nella pianura, è alle porte di Modena e l’ottava, dalla costa tirrenica, dalla Garfagnana e da tutto l’Appennino, ricaccia il nemico lungo le grandi strade nazionali dell’ Aurelia, del Cerreto e della Cisa.
E’ l’ora della nostra liberazione.
L’ora attesa con fede incrollabile, per mesi e per mesi, l’ora sognata dal partigiano nelle trepide notti passate alla brughiera o accanto al fuoco delle cucine e dei gelidi casoni, l’ora che hanno rimpianto i morenti sulle montagne, tutte le vittime dell’oppressore.
Tra pochi giorni l’Alta Italia sarà un incendio. Mentre nelle città migliaia di operai, professionisti, impiegati, intrepide donne, di tutte le condizioni e classi, affrattellati dall’idea di libertà, si preparano ad abbrancare le armi, i combattenti dei monti si schierano a battaglia.
Le venti brigate del Comando Unico Operativo Parmense prendono posizione sui punti strategici degli Appennini parmensi e tosco-liguri. Le due Divisioni dell’est, la «Monte Orsaro» e la «Ricci », dominano la strada del Cerreto e della Cisa dalla catena montagnosa costituita dal Borgognone, dall’Orsaro, dal Marmagna, dal Sillara e dal Malpasso: dal valico della Cisa all’Elza. Le tre Divisioni dell’ovest, la « Cisa », la «Valtaro» e la «Valceno », sono scaglionate dal Pontremolese ai passi del Bocco e di Centocroci fino alla zona pedemontana del Po.
La mattina del 22 aprile, tra i voti e le acclamazioni delle popolazioni, la «Vecchia Centocroci» lascia la Valle del Taro. I reparti devono raggiungere Bardi, sul Ceno.
Da Masanti mi dirigo alla Canonica di Pione, recapito per la nostra corrispondenza con l’Ufficio Centrale di Assistenza Religiosa.
Da tutte le mulattiere scendono colonne di partigiani, gai come non mai. Sotto Pione un autocarro di «fiamme verdi» corre alla pianura al canto di « Noi vogliam Dio! ». A metà strada da Bardi, l’autocarro si arresta ad un gruppo di case. In un quadrato di baracconi ci sono i prigionieri catturati nella grande operazione dell’ 8 aprile e nelle azioni successive. Stanno mangiando un po’ di minestra. Confuso tra i suoi uomini ed un gruppo di mongoli trovo il capitano Adam. Non ha più nulla dell’antico sussiego. Nell’ampio cortile è un nereggiare di poveri esseri umani, vittime anch’essi della grande, sanguinosa tragedia. Mangiano riuniti in piccoli gruppi affratellati dalla comune sventura. Non si vede un sorriso, sono taciturni, pensosi, con le loro ansie. L’incuria dei capelli, delle barbe e di tutta la loro persona, fa di questi soldati, fino ad ieri gloria della Vehrmacht e terrore d’Italia, una massa di compassionevoli pezzenti.
Verso sera arrivo a Bardi. Le vie sono gremite di partigiani. Di tanto in tanto passano macchine del Corpo Volontari della Libertà con la grande «P» nera sulla stella bianca. Un distaccamento di garibaldini, venuti da chissà dove, si sono abbandonati sotto il porticato del mercato. Passeranno così la notte, con la testa appoggiata sulle loro armi. I nostri uomini sono accantonati nel gigantesco castello medioevale, che, dalla rocca di Bardi, domina le vallate del Ceno.
Riposeranno in quelle stesse stanze che furono già prigione dei loro compagni.
Il loro morale è alto, incontenibile la gioia. Hanno un solo cruccio: quello di dover star fermi, con le armi al piede, in attesa di ordini.
Questa pena dura due giorni.
Attorno agli apparecchi i partigiani ascoltano Radio Milano, seguono le vittoriose fasi della grande insurrezione del popolo. Alle 9 del 23 aprile i compagni non mai dimenticati delle prime battaglie, i gloriosi uomini di Wollodia e Benedetto, sono entrati in un trionfo di popolo alla Spezia, trascinandosi dietro una lunga fila di prigionieri e sventolando una bandiera con l’aborrita croce uncinata strappata al nemico. Le notizie delle vittorie provocano ondate di incontenibile entusiasmo. Nel pomeriggio del 25 i partigiani si riversano per le strade. Una falsa notizia della resa incondizionata della Germania provoca una nutrita sparatoria a salve. Richetto, i comandanti hanno un bel gridare: gli uomini non si possono più tenere. Vogliono scendere alla pianura.
Verso sera, finalmente, arriva l’ordine della discesa. Sedicimila tedeschi, dalle zone pedemontane del Reggiano, per il Cerreto e la Cisa, si dirigono verso Fornovo e Fidenza nel tentativo di oltrepassare il Po. E’ l’unica strada ancora aperta alla ritirata per le forze tedesche che si trovano al sud. Bisogna correre a Fornovo, impedire a queste forze il passaggio del Taro.
Piove, non ci sono automezzi, bisogna fare molti chilometri a piedi, ma nessuno brontola.
Una diecina di carri, trainati da buoi, portano le armi pesanti e le munizioni. Dopo una marcia di quattro ore sotto la pioggia, così come sono, si gettano sulla paglia dei cascinali di Varsi. Alle 6 del mattino, i reparti, perfettamente inquadrati, proseguono la marcia. La lunga colonna attira l’attenzione dei montanari. Scendono dalle alture e, lungo tutta la strada, i partigiani ricevono i loro applausi e la loro benedizione:
– Che Dio vi protegga!
Durante il rancio, consumato tra le rovine di Vianino, distrutto dalla rappresaglia nazi-fascista, apprendiamo che a Genova, nello studio del Cardinale Boetto, il Generale tedesco Meinhold ha firmato l’atto di resa delle forze nemiche dislocate in Liguria.
Bisogna partire, accelerare la marcia, perché a Fornovo urge il nostro impiego. La trentunesima Brigata « Capelli », la centotrentacinquesima Garibaldi e la diciottesima Brigata Sap, hanno già preso contatto col nemico al nord della Osa. Una colonna di autocarri ci raggiunge in marcia. Gli uomini vi saltano sopra e, velocissimi, partono per la zona del combattimento.
Tutti i fazzoletti, vecchie bandiere tricolori sventolano sugli autocarri stipati. I partigiani, frenetici, cantano:
« al piano scenderem per la battaglia
per la vittoria! »
Questo vecchio inno, che nei mesi oscuri della lunga vigilia ha fatto fremere i cuori e, ha detto tutta la speranza e la fede nella vittoria, ha in questo grigio pomeriggio, in questa corsa alla pianura, delle armonie nuove non mai intese: le armonie di questa realtà conquistata dal sacrificio e dal sangue dei morti.
Molti vecchi lupi della montagna asciugano furtivamente le lacrime. Si va a combattere, forse a morire: sembra la corsa verso l’apoteosi.
Sui tetti, alle finestre delle case lungo il Ceno, sono stese lenzuola bianche per segnalare agli aerei alleati la zona libera.
Alle 16 gli autocarri si arrestano, gli uomini scendono: siamo arrivati a Viazzano. Quattro chilometri più avanti c’è Fornovo.
Intorno si sentono crepitare le mitragliatrici.
Tutti i reparti si allineano sulla strada con i Comandanti in testa; al loro fianco i rispettivi Cappellani.
Si fa silenzio:
– «Inginocchiatevi, figlioli! ricevete il perdono di Dio e la sua benedizione»
Si inginocchiano, recitano forte l’atto di dolore: I Cappellani tracciano la croce dell’assoluzione.
Si occupano le posizioni della sinistra del Taro, di fronte a Fornovo.
La « Santo Barbagatto », con un battaglione della « Nino Siligato », attraversa il Ceno e si porta sulla destra tra le case di Rubbiano. Questo paese è sulla striscia di terra che termina a punta di triangolo all’incontro del Ceno col Taro. Due chilometri più avanti, un ponte, sul Ceno, lo congiunge alla strada.
La «Nino Siligato » prende posizione sulla collina di Viazzano.
Di qui vediamo per la prima volta Parma ed, infinita, la pianura. Laggiù, di fronte a noi, il lungo ponte sul Taro e Fornovo con le sue ciminiere e le sue rovine. Le armi pesanti sono piazzate contro il ponte. Di li deve passare il nemico per raggiungere Fidenza e il Po. Abbiamo sotto di noi, a circa ottocento metri in linea d’aria, la cresta di una. collina che corre parallela alle nostre posizioni. Due chilometri a sinistra, un’ampia curva la congiunge alla nostra altura, formando una «V». In una casa all’estremità destra di questa cresta. una mitragliatrice nemica ci fa oggetto di intensissimo fuoco. Vittorio, con una sezione di mortai, si porta all’estremità sinistra, sulla curva, ed apre il fuoco contro quella casa. Mario, con un’altra sezione la bombarda dalle posizioni di fronte. Il martellamento si protrae fino a notte. La casa è scoperchiata, ma la mitragliatrice spara sempre.
Sarà l’ultima arma nemica a cessare il fuoco! Verso le 22 le artiglierie tedesche battono le posizioni
della « Santo Barbagatto» schierata sulla sinistra del Taro, di fronte a Fornovo. Contemporaneamente una lunga fila di autocarri si dirige Verso il ponte della strada per Fidenza. Tutte le nostre armi fanno fuoco sulla: colonna. Mezz’ora di battaglia infernale. Il ponte non si passa: il nemico è costretto a ritornare indietro. Nel cuor della notte una pattuglia tedesca tenta di infiltrarsi nello schieramento della « Barbagatto ». Quindici uomini avanzano tra le tenebre nel greto del Taro, sono sotto le armi del terzo plotone della terza compagnia.
– Non sparate! – comanda Lilli, – Lasciateli avvicinare.
A quindici metri sono bloccati da una secca intimazione di resa. Alzano le mani e sono catturati.
All’alba del 27 i cannoni riaprono il fuoco contro tutto il nostro schieramento. Preceduta da carri armati ed autoblinde una seconda e più imponente colonna di autocarri tenta il passaggio del fiume. Grosse granate scoppiano intorno. Qualche partigiano è preso dal panico. I nostri mitraglieri sparano, sparano sulla colonna avanzante. Ne nasce una battaglia accanita. Parecchi autocarri riescono a passare, altri sono bloccati ed in fiamme sulla strada e sul ponte, i più indietreggiano.
Il pomeriggio passa in relativa calma.
Al tramonto giunge la notizia che la terza Julia, seguita a breve intervallo dalle altre Brigate è entrata in Parma ed ha occupato la città coadiuvata dagli eroici barricandieri della città vecchia.
Il giorno 28 i tentativi dei tedeschi di attraversare il fiume si susseguono di ora in ora, ma con scarsi frutti.
Il nemico da segni evidenti di stanchezza.
Nella notte una squadra della « Barbagatto » va oltre il fiume ad attaccare un casello sulla ferrovia Fornovo-Pontremoli.
C’è accantonata una ventina di tedeschi. Con ardita manovra circondato il casello, disarmano la sentinella, la mettono in testa e, con essa, irrompono nel casello. Diciotto tedeschi dormono tranquilli sulla paglia. La sentinella scuote il maresciallo comandante e gli spiega l’infortunio. Tutti si alzano con gli occhi sbarrati ed, in colonna, sono condotti all’ altra sponda insieme a due meravigliosi cavalli.
L’ultimo tentativo nemico di passare il ponte è stroncato alle 6 del 29. Nel tardo mattino il capo-squadra Augusto Castellini e sette uomini attraversano il Taro. Ritornano in sei con trenta prigionieri!
Augusto Castellini non è più. E’ caduto col suo bren invocando l’Italia e la mamma!
I cannoni alleati hanno iniziato il bombardamento di Fornovo.
I proiettili scoppiano alle Caselle, sulle alture di Piantonia, tutt’intorno. Non si sentono i colpi di partenza: gli alleati devono essere ancora molto lontano.
Il nemico ha cessato il fuoco.
Ci sono ancora due mitragliatrici che sparano: quella della casa di fronte alle posizioni della « Siligato » e quella di Lupo che controbatte.
L’ardimentosa nostra crocerossina Eva Brandalisio è laggiù sulla strada che và a Fornovo con una bandiera bianca.
Porta ai tedeschi la nostra intimazione di resa:
Volontari della Libertà
DIVISIONE VALTARO
Comando
Al comando militare tedesco di Fornovo.
Il Comando della Divisione partigiana «Valtaro » nutre speranza che il Comando tedesco di Fornovo si renda conto della situazione militare e politica della Germania e delle forze tedesche in Italia.
La quasi totalità del territorio tedesco è in mano alleata. Gli eserciti anglo-russo-americani si sono congiunti nel centro del vostro paese occupando tutte le vostre città .
Potenti colonne puntano su Monaco ed è ormai vicina l’ora in cui una vera e propria resistenza organizzata sarà cessata.
Centinaia di migliaia di tedeschi abbandonano le armi e si consegnano agli Alleati .
In Italia, la pianura padana è praticamente sotto il controllo delle forze alleate e partigiane, mentre i resti delle armate germaniche si ritirano in disordine verso gli estremi valichi alpini, bersagliati di continuo dall’aviazione alleata. Le vostre forze pertanto si trovano accerchiate ed inutilmente destinate alla completa distruzione .
Voi pensate – ne siamo certi – che i veri soldati combattono fino all’ultimo. Senza dubbio, ma quando c’è almeno un barlume di speranza. Voi non l’avete. Per voi è finita. Potrete, sì, ancora saccheggiare qualche casa o uccidere qualcuno di noi, ma vincere mai. Avete già perduta la vostra battaglia .
E’ per questo che vi intimiamo la resa, assicurandovi, nel nome purissimo dei nostri morti l’assoluto rispetto alle vostre persone.
Il Comandante della Divisione «Valtaro »
Richetto
Il Comandante tedesco legge l’intimazione. Dopo aver circondato di molte premure la nostra crocerossina, la prega di riferire al Comandante che dalle 8 del mattino si sono arresi alle forze brasiliane. I partigiani desistano perciò dall’attaccare per impedire inutile spargimento di sangue.
Alle 14 Richetto comunica a tutte le nostre forze l’ordine di cessare il fuoco.
Gli uomini stanno sulle armi in attesa dell’arrivo degli ALleati.
Alle 16 una lunga colonna spunta al giro della strada presso il ponte per Rubbiano e si dirige verso Viazzano passando sotto le nostre posizioni. Molti binocoli si puntano su di essa. Sono borghesi. Una nostra pattuglia scende sopra la strada facendo delle segnalazioni. Quelli rispondono agitando fazzoletti bianchi. I nostri van loro incontro.
Sono i militi della guardia nazionale repubblicana di La Spezia con molte delle loro donne, che vengono ad arrendersi.
Verso il tramonto un rumore di motori sulla strada che scende a Viazzano attira l’attenzione di tutti. Una colonna di autoblinde, autocarri e jeep con la stella bianca corre verso Fornovo.
Sono i brasiliani!
La colonna, dopo aver sostato di fronte al nostro Comando, senza sparare un colpo, entra a Fornovo.
Quello che avviene su queste alture nessuna penna potrà mai descrivere. Gli uomini. saltano fuori dalle postazioni, cacciano via le armi, maledicendole. Si canta e si piange dalla gioia, abbracciandoci l’un l’altro.
La Vittoria, dopo sedici mesi di sacrifici inenarrabili, di freddo, di fame e di sangue, i partigiani della «Vecchia Centocroci » l’incontrano così!
In compagnia di Mario scendo cento metri più sotto e mi siedo sull’erba ad osservare il passaggio delle macchine alleate sulla strada.
Una raffica di mitraglia mi fischia un po’ più in alto della mia testa.
E’ la mitraglia della casa, la mitraglia che, dalla prima sera, non ha cessato di sparare!
Ma è l’ultima raffica, l’ultimo rantolo dell’idra che non vuol morire.
Sembra un sogno.
Eppure il tedesco invasore è morto per sempre!
I PRIGIONIERI
A notte scendo al Comando di Viazzano sito nei locali dell’osteria, presso la strada, All’ingresso c’è una folla che disputa e grida, gravida d’odio, contro i fascisti prigionieri che sono dentro, in una stanza del pianterreno. I partigiani di guardia mi aprono ed entro.
Il locale è stipato.
Due candele illuminano la miseria di duecento persone. C’è un gran vociare. Quattro tavoli allineati separano le donne dagli uomini. Di qua donne e fanciulle, addossate disordinatamente, con gli abiti che sembrano stracci e i capelli arruffati, sono sdraiate o sedute su poche sedie e coperte stese sul pavimento, cosparso qua e là di briciole di pane e di biscotti tedeschi. Hanno sul volto i segni della stanchezza e del triste epilogo del loro dramma.
Una donna, nella semioscurità di un angolo, culla sulle braccia un piccino agitato, che non trova né pace né sonno. Un’altra ne ha due in grembo che dormono. Sorvegliano entrambe gelosamente i propri affetti, mentre, da un’altra parte, italiani e tedeschi ufficiali e soldati, anziani e ragazzi, ragionano e bisticciano con i partigiani.

Aiutato dal capitano Giorgio metto un po’ di ordine. Tutti chiedono coperte. Distribuisco le poche disponibili, specialmente alle donne, che passeranno la notte qui; gli uomini, tra poco, saranno sistemati in un altro locale.
Passo la prima notte della liberazione nella casa del buon parroco. Al mattino celebro la Messa di Santa Caterina, patrona d’Italia, e scendo al Comando.
IL TRIONFO
La Vecchia Centocroci è accantonata a Fornovo nel palazzo del Comune, alle Caselle ed a Piantonia. I patrioti hanno salutato i monti e non vi ritorneranno se non per rivedere i luoghi che furono teatro delle loro sofferenze, delle loro vittorie e il cimitero dei compagni caduti.
Fornovo, semidistrutta dai bombardamenti, è quasi deserta. Le strade, le piazze, tutti i cortili e le verdi alture, sono disseminate di armi pesanti e leggere, di munizioni, di elmi e di giberne: di tutto il materiale delle unità sconfitte lungo i fossi e le scarpate sono capovolti grossi automezzi cingolati, cannoni, mitragliere e centinaia di carri. Nei campi di grano, verso Riccò ed Ozzano, centinaia di cavalli sciolti corrono all’impazzata o mangiano tranquilli. Nei giardini delle ville, tra i fiori, si vedono cumuli di terra smossa sui quali è posato un elmo tedesco e piantata una piccola croce di legno: sono i caduti della recente battaglia.
Squadre di partigiani stanno ricuperando i materiali, altre rastrellano le case e la campagna per catturare i tedeschi sfuggiti alla prigionia. Di tanto in tanto ne passa uno in borghese condotto al Comando da un partigiano armato. Tutte le sere una colonna di nuovi prigionieri parte per il campo di concentramento di Pontescodogno.
La mattina dell’8 maggio apprendiamo dalla radio che in una scuola di Reims i plenipotenziari del Reich nazista hanno sottoscritto il documento della resa incondizionata della Germania.
Domani, con tutti i partigiani della provincia, celebreremo a Parma la nostra liberazione.
Il generoso popolo di Parma vedrà sfilare per le sue vie i figli della sua nuova grandezza, quelli che nell’imperversare del terrore, giorno per giorno, isolati o a gruppi, andarono ai monti: quegli stessi che non piegarono alla violenza degli oppressori, alla guerra degli stenti, della fame, della solitudine e della calunnia.
Il sole del 9 maggio riempie di vita le rovine di Fornovo. Una lunga fila di autocarri, carichi di tutti i nostri partigiani, attende sulla strada l’ordine di partire. Cantano sotto le, loro bandiere che sventolano nell’azzurro. Pregustano la gioia dell’incontro con la città, l’ebbrezza del prossimo trionfo.
Si sono agghindati, ma il partigiano è sempre partigiano. La macchia gli ha impresso delle caratteristiche che non si cancellano, dei gusti che sempre lo tradiranno. Non hanno voluto sostituire il fazzoletto verde che portano al collo, anche se è scolorito dalle intemperie, anche se è stracciato e sporco. Hanno ancora le barbe, le chiome leonine, le bardature e l’armamentario che avevano ai monti. Sul primo autocarro di ogni Brigata sventolano le bandiere di combattimento: tricolori da una parte e verdi dall’ altra, col nome della Brigata sormontato dallo stemma di Parma. Nel tardo mattino la colonna si mette in moto. Tutte le case, tutte le fattorie lungo la strada, sono imbandierate e tappezzate di striscioni multicolori, inneggianti alla vittoria degli Alleati e alla nostra vittoria.
Le popolazioni applaudono. E’ una sfilata trionfale.
A Pontescodogno i tedeschi ed i fascisti del campo di concentramento guardano oltre il reticolato la gioia dei partigiani. Nei loro occhi v’è qualche cosa di più di una tristezza: c’è la coscienza tardamente maturata dell’inutilità di tante sacrileghe stragi, di tanto vano e delittuoso pugnare.
Entriamo a Parma, in festa, come per le più grandi occasioni.
Dopo il rancio, consumato in fretta, partiamo, inquadrati e con le sole armi leggere, per la barriera Vittorio Emanuele, luogo di raduno di tutte le formazioni parmensi. Migliaia e migliaia di partigiani attendono. Non credevamo di trovarne a Parma tanti!
Alle 15 si inizia la grande sfilata.
Ogni Brigata è preceduta dalla bandiera di combattimento, dal Comandante e dal Commissario politico. Sono oltre ottomila uomini che marciano per le vie di Parma in una gloria di popolo e di bandiere, tra lo scrosciar degli applausi ed una costante pioggia di fiori.
I partigiani, sfilano in silenzio, circondati dal generoso amore di questo popolo di combattenti, mentre si rinnova in noi, dolorosa parentesi, il ricordo di chi da questa gioia è escluso: di coloro che sono rimasti sul Penna, sul Gottero, sulle balze di Pelosa e nelle vallate del Taro, a Codolo e sui monti di Liguria. Li sentiamo vivi in quest’ora, vicini a noi, al nostro fianco, al nostro stesso passo, che ha la cadenza della vittoria, con le loro divise, lacere e sporche, con le loro fronti aureolate di sangue. Il loro respiro vivifica i nostri vessilli garrenti nell’azzurro.
Di tanto in tanto dalla folla qualche donna, che ha sul viso le stimmate di una prolungata attesa, si getta al collo di un partigiano. E’ una madre che ritrova il figlio del suo olocausto. Altre, vestite di nero, ci guardano e piangono.
Ci ammassiamo in piazza Garibaldi, all’ombra del grande monumento dell’Eroe, portato nel cuore da migliaia di patrioti in questo secondo Risorgimento d’Italia. Di fronte a Largo San Vitale, sul palco circondato di feriti, ecco Arta e Poe, i nostri Comandanti, l’intrepido Vescovo di Parma con i rappresentanti dei popoli liberi.
Uno squillo d’attenti, echeggia per l’ampia piazza. I partigiani si irrigidiscono e presentano le armi. Le autorità militari italiane ed alleate portano la mano al berretto mentre si diffondono le note degli inni del Piave e delle Nazioni Unite.
Il colonnello americano Alfred Bowmanrs, commissario regionale dell’Emilia e rappresentante dei comandanti alleati in Italia, si avvicina al microfono:
« Patrioti di Parma!
Sono lieto di trovarmi fra voi per portarvi il saluto ed il ringraziamento del tenente generale Truscott, Comandante della quinta armata, del generale Clark, Comandante del quindicesimo gruppo di armate e del maresciallo Alexander Comandante supremo del teatro di guerra del Mediterraneo.
Potete essere orgogliosi della vostra opera, avete ben meritato dalla vostra Patria, avete degnamente servito la causa della libertà. Avete dimostrato di essere degni figli di quella Parma che nel lontano agosto 1922 più di ogni altra città d’Italia si oppose al potere fascista .
Legge quindi il testo del diploma di benemerenza ai partigiani:
Nel nome dei governi e dei popoli delle Nazioni Unite ringraziamo il Patriota di avere combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando tra le file partigiane, tra questi uomini che hanno portato le armi per il trionfo della libertà, svolgendo operazioni offensive, compiendo atti di sabotaggio, fornendo informazioni militari. Col loro coraggio e con la loro dedizione, i patrioti italiani hanno contribuito validamente alla liberazione dell’Italia e della grande causa di tutti gli uomini liberi.
Nell’Italia rinata i possessori di questo attestato saranno acclamati come patrioti che hanno combattuto per la libertà.
Conclude con le seguenti parole:
« Orgogliosi del dovere compiuto, deponete le armi e tornate alle vostre case per iniziare una nuova battaglia con lo stesso amore e con la stessa decisa volontà: la ricostruzione della vostra Patria!
Patrioti di Parma!
Sono lieto di potervi ringraziare per la vostra opera
eroica ed intelligente, per la non comune tenacia che vi ha permesso di affrontare e superare i lunghi mesi di continui, esasperanti sacrifici e privazioni.
Mi congratulo con voi e vi ringrazio anche a nome dei nostri Capi.
Viva l’Italia!
Viva la democrazia!
Viva la pace !
Tra le acclamazioni dei partigiani e della folla consegna i certificati ai Comandanti, artefici della nostra vittoria.
Dopo un discorso del generale Roveda, comandante il Corpo Volontari della Libertà del Nord-Emilia, in cui ha rievocato le fasi liete e tristi della nostra riscossa, il Comandante Arta – oggi prefetto di Parma – saluta per l’ultima volta i suoi uomini:
« Volontari!
E’ con il nodo alla gola che il vostro comandante vi rivolge il suo saluto. Chi ha visto come voi avete vissuto nei monti, nei boschi, sotto la sferza del sole, l’infuriare del vento, della neve, del gelo, della fame, sotto l’insidia di un nemico aperto e occulto, agente di fronte, alle spalle, sui fianchi, ovunque sotto la minaccia orribile e continua di un plotone di esecuzione e di una camera di sevizie e di torture; chi è stato testimone delle vostre gesta eroiche, che hanno della leggenda, non può non essere profondamente rattristato. Ma continuare bisogna la civile battaglia. Ritorniamo ai nostri paesi, alle nostre case, al lavoro pacifico. Portiamo il nostro contributo all’immensa opera di ricostruzione di cose e di spiriti. .
Viva l’Italia! Viva gli Alleati »!
Alle parole del Comandante fanno seguito quelle del benedettino Padre Paolino Beltrami Quattrocchi che porta ai partigiani il saluto della Chiesa. Di questa Madre Chiesa che ha sofferto e pianto per la persecuzione dei figli smarriti, che ha accomunato il Sangue dei suoi Sacerdoti con quello dei combattenti, che ha portato nella macchia, nel fragor della battaglia, nel cozzar delle passioni, nel sanguinoso dramma della Patria, la parola del conforto, della tolleranza e del perdono cristiano:
«…Figlioli, patrioti, al lavoro, nell’unità, nell’amore, con la benedizione di Dio.
Figli di Parma, figli d’Italia, figli di Dio, che Iddio vi benedica, vi accompagni, vi custodisca in questa ripresa in armonia di giustizia, di carità e su tante macerie, e sulle trincee erette dai vostri petti, risorga nuova, giusta, fiera, dignitosa, nobile, la grande madre: l’Italia.
Gli applausi che spontanei. accompagnano queste parole sono l’espressione della riconoscenza per quello che gli umili parroci di montagna, tutti i sacerdoti, hanno fatto per loro. Non dimenticano i partigiani che furono i preti dei monti che spezzarono con loro, lupi braccati, il primo pezzo di pane, che furono loro che li confortarono nei dolori della lunga vigilia, che resero bella, accetta, la morte ai compagni caduti, dai m6nti alla pianura, che essi corsero, intrepidi, a strapparli, prigionieri, alla tortura e ai plotoni di esecuzione.
I partigiani non dimenticano e non dimenticheranno! L’ultimo sole illumina la pianura in un cielo pieno di promesse.
Le Brigate lasciano la piazza.
I partigiani vanno, per l’ultima volta inquadrati, a deporre le armi vittoriose, fedeli compagne della veglia e del cimento.
Domani svestiranno le divise, ritorneranno i cittadini di tutti i giorni.
Dovranno essere i migliori.
Col cuore sono già a una casa troppo a lungo deserta, vicini a una vecchietta eroica, che aspetta, alla fanciulla del loro sogno.
Pensano alla scuola, all’ufficio, all’aratro, all’incudine: al lavoro fecondo, alla grande ricostruzione. E sognano una era di pace nell’unità cristiana degli spiriti, per sanare le grandi ferite inferte alla Patria dall’odio infecondo.
CONGEDO
Ed ora, o miei Partigiani, la nostra impresa di gloria e di dolore è finita.
Queste pagine non hanno la pretesa di essere una narrazione completa degli avvenimenti della nostra formazione, ma solo un rapido accenno ai fatti più salienti, come l’ho ricavato dai documenti, dai rapporti trasmessi al Comando Alleato, come voi stessi li avete narrati, ad ogni ritorno, vicino al fuoco dei « casoni » o all’ombra dei faggi, così come io stesso il ho visti.
Deposte le armi, che impugnaste per liberare la Patria, afferrate gli strumenti del lavoro per la ricostruzione.
Non dimenticate quello che avete sofferto, ma non vantatevene: abbiamo fatto il nostro dovere.
Non lasciate spegnere il vostro amore per questa Italia benedetta, quell’amore che vi riscaldava il sangue sui monti bianchi di neve, ma non agitatelo dinanzi agli altri per averne ricompense e privilegi. Unica ricompensa: aver visto il volto sorridente della Madre, dopo tante lacrime.
Unico privilegio: poterla ancora servire.
Portate nel vostro cuore i nomi dei nostri Morti. Erano i migliori. Quando siete entrati trionfanti in Parma liberata, non eravate che la scorta dei Morti. Essi, i trionfanti.
Per essi le benedizioni delle madri, i fiori delle nostre fanciulle, i baci dei nostri bimbi.
La memoria dei morti arde e rischiara la grande opera nostra.
Non dimenticate che sui monti avete avvicinato Iddio, che lo avete sentito presente e operante quando tutto intorno a voi sembrava crollare, anche l’ultima speranza e l’ultimo sogno.
I lunghi mesi di vita partigiana sono una di quelle esperienze che incidono dei solchi nelle coscienze. Seminate in questi solchi gloriosi le premesse della prosperità e della pace.
Ed ora lasciate che vi abbracci ad uno ad uno, o miei Partigiani della Vecchia Centocroci! Ognuno ha ripreso la sua strada, ma unico è il monte che noi saliamo: ci ritroveremo sulla cima.
Tenete questo piccolo libro come un mio ricordo, ma soprattutto come un ricordo dei nostri Morti.
Fatelo leggere domani ai vostri figli perché sappiano come i padri. hanno amato e servito un’Idea.
E i vostri figli vi benediranno.
XXV Aprile 1947

Nulla osta per la stampa Genova 12 Gennaio 1946 P. Fr. G. E. Buffa O. P. Rev. Ecc!. IMPRIMATUR
Genova, die 14 junarii 1946
+ FRANCESCO CANESSA
Finito di stampare nel mese di ottobre 1977
dalle Officine Grafiche Canessa
Rapallo
