

Papà
dire del tuo carattere schietto e sincero, del tuo cuore nobile e generoso.
Rivivi così per loro, che pure Ti hanno vivo tra i vivi, in queste pagine, nella Tua competenza, rivivi cosciente Patriota per generoso e conscio compimento del più sacro dovere: la libertà della Patria.
mio C’è, Tu pure eri parte di me stesso, parte del mio giusto orgoglio giacché era innato in Te uno spiccato costruttivo sentimento altruistico, perché, ancora giovane assai, eri permeato di quella mentalità capace di operare al perfezionamento umano, perchè eri immune da contagi superstiziosi, pronto a lottare – e lo dimostrasti – contro ogni debolezza per il trionfo della Verità, della Giustizia.
Tu, mio Cè, possedevi uno di quei radiosi temperamenti che suscitano facilmente caldi sensi di simpatia, uno di quei temperamenti che trascinano nella loro scia, Come avvenne per quei primi Patrioti che incontrasti lassù, tra i monti del Borgo, quando, finalmente, la grande ora che anelasti di vivere ed alla quale tenevi, venne per Te.
E per viverla incontrasti la morte; per viverla versasti tutto il Tuo sangue ardente, rosso, purissimo, senza ch’ io potessi frenarlo, senza ch’ io potessi raccoglier l’ultimo tuo palpito, senza che io ti rivedessi nella tua completezza. Sei rimasto così il mio Cè, il mio piccolo Cè, che arriva in casa ansante e trafelato per la sfrenata corsa, con gli occhi tralucenti di commozione, raggiunto dal grido straziante lanciato a cercarti nel giorno che il terremoto scosse Carrara. Sei rimasto il mio Cè, più piccolo ancora, che nella notte calda seduto fuori di casa, attende il mio ritorno dal lavora, per riprendere a dormire, non più solo. Ma, come allora, non mi farò attendere molto, mio Cè, che la mia giornata non deve essere più tanto lunga e potrai ritornare a dormire tranquillo presso il tuo “paparino” che, senza baci ne moine, ma pur amandoti teneramente, ha cercato di formare il tuo spirito.
Parte prima
Fratello Alfio
In una notte buia e piovosa di novembre un bimbo di quattro anni dormiva in un lettino a sponde, smaltato di bianco, verso le una fu svegliato dal padre che gli disse che gli era nato un fratellino, di regalare a lui la catenina d’ oro che aveva al collo. Il bimbo si alzò in ginocchio per vedere oltre le sponde, cercò di aprire gli ‘occhi assonnati, si tolse a malincuore la catenina, poi si ricoricò e si riaddormentò. Così sei entrato nella mia vita, Cesare. Ricordo esattamente quegli attimi, sento quasi l’impaccio della lunga camicina che portavo, l’amarezza del dono un po’ forzato, la gioia di avere il fratellino che già aspettavo, un nuovo amico. Da bambino ti piaceva giocare con i fucili, fare alle sassate, alla guerra, alla boxe; a volte scappavi lungo il fiume con i tuoi amici, io invece ero meno audace, tu non temevi niente. Quante volte mi accompagnavi quando mi mandavano nelle stanze dove non c’era nessuno! Avevo un po’ paura e tu ti prestavi, senza protestare, a farmi compagnia; ti prendevo allora per mano ed ero tranquillo.
Avevi sette anni quando venisti a Carrara; io c’ero già da circa un anno. Cominciava allora la tua passione per la lettura : « Il corriere dei Piccoli » e soprattutto i racconti degli eroi del risorgimento e della prima guerra mondiale ch’ erano in seconda pagina. Ti immedesimavi in quegli avvenimenti, in quegli eroi, ti ispiravi e ti formavi alla purezza dei loro ideali. Sognavi già allora di essere un giorno << Alpino >>, la parola che per te è stata la più comprensiva di valori umani, perché in essa hai visto completezza: forza, audacia, prontezza, costanza, abnegazione, indipendenza. E a questa aspirazione ti portavano anche le gite che cominciavamo a fare sugli Appennini durante le vacanze.
Della nostra vita a Carrara di quei tempi, rammento i tuoi giochi da solo con le formiche, con i ragni, le scalate ai muri, la mia trepidazione quando troppo azzardavi. Venne il periodo eroico dell’ adolescenza, che tu hai vissuto con un’ intensità non comune. Nella tua fantasia fervida accettavi tutte le imprese inverosimili che leggevi sui romanzi d’avventure e guai a chi avesse criticato i tuoi personaggi. Ti ho davanti agli occhi assorto su di un libro. Eri fuori del mondo, qualunque cosa ti accadesse d’ attorno, ti dimenticavi di tutto, anche della fame e del sonno. Hai sempre letto molto e di ogni genere, nella lettura ti sei affinato. Con gli eroi della tua fantasia, del tuo mondo di allora hai messo le basi dei tuoi ideali. Lo studio, la scuola, la vita coi compagni, le gite in montagna ed in bicicletta hanno contribuito alla tua formazione.
Eri esuberante già allora di fisico ed’ animo. Quanta allegria avevi allora! ne riempivi la casa e bastava che tu mancassi un giorno per sentirne il vuoto. Affettuoso e affabile con tutti, chiunque ti conosceva ti voleva bene; qualche birichinata la facevi ogni tanto, ma chi non te la perdonava per la simpatia che ispiravi? Dopo i quindici anni il tuo carattere era già delineato nettamente: forte, coraggioso, a1tento, volitivo, ma anche riflessivo e di una sensibilità squisita. Niente mancava alla completezza del tuo animo: mi basta ripensare ai poeti che amavi profondamente, e soprattutto a quelli greci che citavi spesso a memoria, a quelli inglesi che hai tradotto in versi; ai pochi versi tuoi; alle volte ti ho sorpreso meditabondo o a segnare appunti sulla tua agenda. Ti sentivo ormai mio coetaneo, nonostante i quattro anni di anzianità rispetto a te: ricorrevo a volte al tuo aiuto, al tuo consiglio; mi davi fermezza. Ci comprendevamo benissimo, ci bastavano poche parole; mai sono occorse lunghe spiegazioni.
Lo sapevamo bene che tra noi non c’era differenza sostanziale, quella che poteva apparire dalle manifestazioni esteriori, e nutrivamo :una profonda stima reciproca. Mi superavi però in costanza e fermezza d’animo, sapevi più di me rassegnarti alla realtà; avevi un elevato senso del dovere, una moralità assoluta, senza compromessi, mai. Figure morali della tua interezza ne ho conosciuto una sola. Venne la guerra, i giorni tristi, il distacco da papà. E un giorno, eri chiamato alle armi, partisti per raggiungere i tuoi compagni sui monti. C’era in corso un rastrellamento proprio in quella zona. Cercai di trattenerti: sollecitato dai familiari che temevano per te, tentai l’ ultima carta: ti dissi che l’ attuazione dei propri ideali è in fondo un po’ egoistica.
Mi rispondesti: <<Vado >>. Hai sentito che quello era il dovere più forte? O hai avvertito la poca convinzione delle mie parole, che io avrei voluto essere al tuo posto, avere la forza dei tuoi sentimenti? Sei passato attraverso il rastrellamento chissà come ed hai raggiunto i tuoi compagni per combattere subito al loro fianco. Non ti vidi per più di un mese. Un giorno seppi che eri più vicino, al paese e venni a trovarti: eri più grasso nonostante la vita di stenti, abbronzato, con i baffetti che già da tempo portavi e con un accenno di barba. Ci chiedemmo poche cose, leggesti alcune lettere che avevo portato, poi vennero tre inglesi sfuggiti ai tedeschi; illustrarono il funzionamento di un « Bren» da poco lanciato; parlando con loro di politica. uscisti un bel momento con questa frase: « Se in Italia vi fermerete più di tre giorni, ‘finita la guerra, io tornerò sui monti contro di voi».
Poco dopo mi accompagnasti a visitare l’ accampamento. Che affiatamento tra voi primi patrioti! che comunanza di ideali! Capii allora che tu eri nel tuo mondo; fuori da ogni convenzione, a contatto con i sentimenti umani più veri e più spontanei, quelli che ci fanno sentire come tutti siamo uomini presso a poco uguali, senza quelle differenze di classe, di educazione, di abitudini che crea la società. Quella era la tua vita: tra le alte vette, nell’aria più pura, in un clima di assoluta libertà, di primitivismo, dove tutto è giovane e vergine, dove tutto è forte. A quella vita ti eri preparato fisicamente e moralmente fin da bambino. Il tuo desiderio di superamento, i tuoi desideri, le tue aspirazioni, le tue idealità più alte si attuavano in pieno.
Mi resi conto quel giorno che dovevi esser felice, che nonostante tutte le asprezze il tuo spirito era appagato. Mentre prima il pensiero di te mi rendeva triste, ora ti pensavo con gioia. Circa un mese dopo ti raggiunsi: mi sarei vergognato, mi sarei sentito umiliato di non poter essere dei vostri. Da te imparai a dormire sulla paglia o sulla nuda terra; tu mi insegnasti il primo gioco a maneggiare e smontare lo « sten» e la tua « Berretta ». La sera ascoltammo insieme i cori, che alcuni vecchi alpini della « Julia» cantavano e mi dicesti la tua predilezione per « Stelultis ».
In quei canti io ritrovo il tuo spirito, non solo il perché tu li hai amati, ma perché li trovo consoni al tuo animo. Canzoni lente che parlano di paesaggi alpestri, di donne amate, di fiori e di morte; di una morte serena, solo un po’ nostalgica, accettata così perché è l’Ineluttabile. Non inni eroici, accesi di retorico entusiasmo; li pervade una pace vespertina, sono una contemplazione pacata di tante cose umane e fra esse della più vera: la morte. La morte che coglie l’eroe non tra il fulgore degli acciai, non tra squilli di tromba, ma quella reale, improvvisa, insignificante, che prende uno quando meno se lo aspetta e quell’ uno, modesto soldato, l’accetta umilmente: sa di aver compiuto il suo dovere e sa che continua a compierlo in quell’ atto supremo.
Scendemmo il giorno dopo dal monte per fare la guardia alla galleria del Borgallo: si entrava in azione. Eri preoccupato per me, che non mi trovassi in un combattimento prima di essermi un po’ preparato in scontri di minore entità. Era un servizio noioso, estenuante, perchè monotono. Quei giorni poi erano particolarmente tristi: giungeva notizia delle rappresaglie che i tedeschi e fascisti minacciavano anche per radio contro le famiglie dei patrioti. C’era un po’ di umor nero tra noi e qualcuno si lasciava scoraggiare. D’altra parte l’avanzata degli alleati non era veloce come si sperava. Tu non hai mai vacillato nella tua fede, non hai mai retrocesso di un passo dalla posizione che avevi assunta.
Pochi giorni dopo, una mattina, venne Bruno Antolini, vice comandante, a radunare noi pochi che eravamo di guardia. Quattro macchine tedesche venivano verso il paese, bisognava fermarle. Ci appostammo, accorsero presto anche altri patrioti di altre brigate, e i tedeschi dovettero presto ritirarsi. Noi, piazzati con un fucile mitragliatore su di una altura, rimanemmo isolati e lontani dal combattimento. Ritornati la sera al nostro posto, vedemmo tornare cantando tutti i combattenti, ma Bruno non tornò. Apprendendo la sua fine, tu dicesti: << Sono sempre i migliori che ci lascino le penne>>.
Solo due giorni dopo l’ hai seguito. L’ ultima notte che abbiamo passato insieme è stata nel Cimitero. C’eravamo appostati là perchè si temeva un attacco. Fummo di guardia insieme dalle due alle quattro. Parlammo di tante cose quella notte: come si erano maturate le tue idee! avevi uno spirito pacato, sereno, con una forza d’animo inflessibile. Sentivo nella tua voce il timbro di quella di papà. Nella tua figura alta, più forte, più temprata, nel tuo animo rafforzato dalla vita dura, fermo nei principi ideali, trovavo sostegno e mi sentivo tranquillo. Ero ancora il bambino pauroso che ti dava la mano; tu mi infondevi coraggio e costanza.
Scendemmo a giorno avanzato di nuovo alla galleria. Sopraggiunse improvviso il bombardamento dei quadrimotori americani, la prima scarica. Mentre gli aeroplani giravano cercai di persuaderti ad allontanarti con me: inutile ogni mia Preghiera, ogni mio tentativo disperato; volesti andare a soccorrere quelli che erano in stazione, più vicini al bersaglio. Ti rividi illeso dopo la seconda scarica; erano venuti intanto il Comandante e lo zip dal paese. In stazione le schegge ti avevano sfiorato. Il Comandane disse che s’ allontanassero tutti verso il monte, ma che restasse di guardia qualcuno, Non lo lasciasti nemmeno finire: « Resto io!».
Ma gli apparecchi stavano girando per una nuova picchiata. Riparammo dietro il muraglione del fiume. Finite le bombe, caduti tutti i detriti, con un sibilo a filo del muro ti giungeva la scheggia. Inutile ogni soccorso, tutto pareva destinato: e la mamma la mattina, sette ore prima si agitava, non trovava pace nel letto per un triste presentimento a nostro riguardo. La tua ferita mi sconvolse, poi mi ripresi, feci il possibile per aiutare chi ti soccorreva. Quando ormai a tutto pensavo fuorché a vederti morire, sei spirato. Per me fu uno schianto. Una cosa enorme, impossibile, troppo grande perchè potesse essere vera, perché me ne potessi capacitare.
Mi ci adattai a poco a poco, guardandomi ogni tanto il lutto che ti portavo, invocandoti prima di dormire, sognandoti spesso, chiedendoti aiuto e conforto. L’aiuto morale nei momenti difficili tornava, ti sentivo al mio fianco; il conforto anche, soprattutto dal pensiero che avevi attuato il tuo ideale, che per esso eri morto serenamente, che tutta la tua vita era stata una preparazione al tuo u1timo periodo glorioso, al quale vedevo convergere ogni tua attività particolare. Sono ormai due anni che non sei più con noi, Cesare. Vuota è la casa senza la tua allegria, muta a volte come nell’ attesa del tuo ritorno.
Ma io so dove trovarti: sulle alte vette impervie, dove sono le bellezze più crude, nei sentimenti più nobili dell’animo, nella dedizione, nel sacrificio, nell’ ideale, nell’ immensità del cielo, nella nostra vallata che tanto sangue di giovani ha versato. Sei là ed io sono sereno. Però a volte il bimbo di quattro anni si risveglia nel suo lettino smaltato, ti ricerca, ti rivuole e non sa più trovarti, non sa più vederti oltre le sponde, perchè non gli basta più sollevarsi sui ginocchi. Troppo grande fu la gioia di avere il nuovo amico, non capisce che Lui ha voluto partire ed è felice così, perchè tutta la Sua vita è stata un atto di dedizione, forse non lo capirà mai, ne sente la mancanza e piange e si dispera; fin tanto che non potrà sapere se non dove il fratellino è andato per lo meno perchè è andato via e non può più tornare, e se lo potrà mai raggiungere.
Carrara, 2 luglio 1946
Alberto
Cesare! vivrai sempre nei nostri cuori, per la Tua lealtà, per la Tua abnegazione, per la Tua giovialità. Ricordo, quando mi ‘univo a te per compiere qualche birbonata; quando, guidato dal Tuo istinto intuitivo, che tu amavi chiamare « fiuto Indiano », riuscivi a ritrovare ,ciò che in casa cercavano di tenere lontano dalla nostra golosità. Ma dall’ 8 settembre ’43 eri cambiato, avevi smesso la spensierata gaiezza che ti faceva mio coetaneo; eri divenuto diverso, ed io in Te, non trovavo !più il compagno di giochi: eri divenuto un uomo, era cominciata per Te una nuova vita. Quel giorno segnò l’inizio, della Tua attività in Carrara e poi al « Borgo », quando organizzasti la prima squadra di Partigiani.
Ti ,ricordo, a Tiedoli; eri in una capanna di frasche, che ti eri costruito, e stavi cuocendoti un uovo dentro un barattolo di conserva su focherello fatto con pochi stecchi. Guardai, con entusiasmo 1a tua dimora, guardai Te e lessi nei Tuoi occhi che quella vita Ti piaceva, che ci stavi bene, ed ebbi rammarico di essere troppo piccolo per poter rimanere con Te. Non mi saziavo di guardarti, il Tuo sguardo era più fiero, la Tua voce più profonda, la barbetta che Ti eri lasciata crescere Ti dava vigoria. Ricordo la Tua energica stretta di mano, che se mi lasciò il braccio un po’ scosso, mi riempì d’orgoglio, perchè mi pareva che Tu mi trattassi da pari a pari. Ti rividi per altre due volte, ed eri sempre più invidiabile, e la mia ammirazione aumentava. Purtroppo il giorno del Tuo sacrificio supremo si avvicinava, e Tu che ,tanto già avevi dato alla nostra Patria, martoriata, dilaniata, tradita, offrivi la Tua.
vita piena di lusinghe e di promesse, e ancora come sempre fosti esempio di eroismo. La nostra casa è rimasta vuota, e la Tua presenza spirituale non basta a ritornarle quella gaiezza che Tu sapevi imprimere, e noi, che tanto Ti amiamo, Ti vorremmo qui, come allora, sempre. Carrara, 2 luglio 1946
Alberto
Preside Ginnasio Usca Leoncini
Il Liceo-Ginnasio « E. Repetti» di Carrara ebbe Cesare Bassani tra i suoi alunni migliori. Il ricordo, ormai, è quanto ci rimane di Lui. Con una bella e delicatissima immagine il poeta latino Catullo paragona il suo grande amore troncato ad un bel fiore che l’aratro travolge al suo passaggio sul margine del prato. Pensando a Cesare Bassani questa immagine. mi si è presentata spontanea. Anch’egli è stato travolto repentinamente così, senza nemmeno la gioia di essere colpito da quel nemico che virilmente combatté, sin dall’ 8 settembre sui colli di Carrara e successivamente nel Corpo Volontari della Libertà nell’ Alta Val del Taro, ferito mortalmente durante un bombardamento mentre era di servizio ad una galleria in zona partigiana il 2 luglio 1944, quando la sua vita era ancora allietata dalla speranza e dal sogno!
Quando Cesare Bassani si allontanò dal Liceo i suoi compagni lo amavano e lo. stimavano; gli Insegnanti guardavano con fiducia alle possibilità della sua intelligenza per gli studi futuri. Non fu alunno modello dal punto di vista della diligenza e della puntualità, qualche volta anzi si lasciava cogliere impreparato. Ricordo benissimo. il suo volto in simili contingenze: assumeva una espressione tormentata ed una caratteristica, piega agli angoli della bocca faceva intravedere il suo spasimo, la Sua sofferenza interiore. E non era nemmeno molto puntuale. Quando eravamo già tutti entrati in classe, ecco, Sesso, un picchiare sommesso alla porta ed ecco nel vano di essa Bassani colla sua alta ed ancora magra figura, trafelato dalla corsa, con il suo enorme pacco di libri.
Ma, Bassani, sapeva facilmente farsi perdonare: a volte con una bella ragionata esposizione, lucida nelle idee, precisa nei vocaboli, o con la chiara impostazione storica di un’ epoca, con l’inquadramento preciso di un autore, con l’ intelligente commento di un classico. Infatti, dopo un breve periodo di smarrimento, si era decisamente collocato tra ì primi; si era sviluppata in Lui una intelligenza virile con sollecita capacità di impostazione, con visioni chiare, precise e sapeva ben difendersi dalle interrogazioni più insidiose orientandosi di colpo in ogni campo.
La terza liceale lo ebbe tra coloro che avevano meglio assimilato la cultura e meglio risposto alla efficacia affermativa degli studi. Quando prese la maturità classica era un ragazzo realmente maturo, non maturato certamente dalla esperienza della vita, ma maturo per valutare le sue capacità a superare gli studi superiori, maturo per saper scegliere la sua strada e continuarla con onore. Ma il Suo cammino è stato reciso per sempre; Egli si è unito alla innumere schiera di Patrioti, di Eroi e di Martiri che dettero la vita perché la Patria fosse libera!
Le rovine materiali dell’ Italia sono tali e tante da sgomentarci; ma se pensiamo ai giovani intelligenti ed attivi, come il Bassani, che abbiamo perduto, dobbiamo constatare che le perdite delle energie spirituali, che pur non lasciano macerie, sono ancora più gravi e più dolorose e rendono incommensurabile l’impoverimento della nostra Patria. Occorre perciò, nel culto delle memorie sacre, ricuperare l’energia e la forza dell’ intelligenza e dello spirito con lavoro intenso e con senso di responsabilità.
Tocca proprio a noi vivi colmare lacune, riempire vuoti dolorosi, lavorare con tenacia e coraggio, magari con la forza della disperazione, ma lavorare e ricostruire. E’ questo, forse, l’ unico mezzo per placare i morti, e fra questi Te, caro Bassani, che sapesti lavorare con amore e con passione e chiudere la tua troppo breve giornata nella lotta contro il nazifascismo, per la liberazione della Patria, con tanto impegno, con tanta fierezza e con tanto elevato senso di dignità.
Carrara, novembre 1945
Usca Leoncini
Preside Liceo-Ginnasio” E. Repetti” Leo Gestri
Tra gli scolari che ho avuto, e non sono pochi quelli a cui sono legato da amicizia o che ,ricordo con vivo affetto, Cesare Bassani fu certamente uno dei più cari. E’ in Lui che ho trovato, forse, la personalità più perfetta: senza dubbio, una delle più perfette e delle più equilibrate. Non era solo la lucidità dell’ intelligenza che si faceva apprezzare in Lui. Questa mi si era largamente rivelata già nei tre anni di Liceo: ma non era tutto di Lui, come ebbi modo di vedere dopo, nell’ estate del terz’ anno, in cui cominciai a conoscerlo più da vicino che non mi fosse stato Possibile nella scuola. Quell’estate io andai in villeggiatura a Tarsogno, sopra Borgotaro: di là Egli veniva spesso a trovarmi, ed anche combinammo ed eseguimmo varie gite, sia di montagna che ciclistiche, poiché avevamo in comune la passione di ambedue questi sport.
Così la mia conoscenza di Lui poté farsi più precisa e completa, e la Sua personalità cominciò ad apparirmi nella sua nitidezza. Giovane com’ era, era pieno di umanità. Un complesso mondo di sentimenti serie profondi viveva dentro di Lui. Ma senza che ne facesse mostra di fuori. Nemico della retorica, non c’era per niente in Lui, come spesso nei, giovani, compiacenza di atteggiamenti originali, o altezzosi, o comunque studiati. Una grande semplicità si manifestava nelle Sue parole e nei Suoi atti: come il segno d’una misura infallibile alla quale era informata, per istinto, tutta la Sua vita.
L’impressione fondamentale che avevate standogli vicino era appunto questa: d’uno spirito profondamente e perfettamente sano (non per nulla amava così vivamente la montagna). E questa sanità spirituale importava naturalmente serenità di carattere: e la serenità di Cesare era grande. Essa aveva impresso di sé il Suo volto, ch’ era veramente lo specchio della Sua anima: aperto, limpido, sorridente. . Sorridente. Sempre che penso a- Lui, rivedo quel Suo sorriso. E’ morto appena ventenne. Una vita ricca. di tante promesse Stroncata così: è veramente terribile… Eppure, nemmeno. questa tragedia della morte deve aver portato l’ombra sul Suo viso sereno. Lo vedo invincibi1mente sorridente, ancora, malgrado la morte.
Del resto, Egli non aveva paura di morire. Solo « gli dava noia » il pensiero che i Suoi cari avrebbero pianto. Gli dava noia che il Suo destino, quello che sentiva già che doveva essere il Suo destino, e a cui era preparato serenamente, da forte, potesse essere considerato pietoso. Forse ricordava una pagina d’ Isocrate che aveva letto a scuola: una pagina in cui si parla di giovani caduti, nel fiore degli anni, combattendo volontari per la Libertà. Essa dice a un di presso così:
« Non bisogna piangerli, no, ma anzi considerarli i più felici di tutti. Essi, dopo aver vissuto gli anni più belli della vita, se ne sono andati prima di conoscerne le immancabili tristezze, e mentre agli altri uomini la morte viene mandata dal fato, di essi soli fra tutti si può dire che hanno messo fine alla, propria vita come padroni del proprio destino, con una morte che non dipese dal fatto ma che essi stessi si elessero come la più bella tra tutte ». Letteratura? Ma Cesare Bassani, come le anime più nobili di ogni tempo, ha creduto alla verità di queste parole. Ha voluto scegliersi, anche Lui, la morte più bella. Carrara, 22 giugno 1946
Leo Gestri
Delnevo Giuseppe Dragotte
Un giorno del luglio 1944 quando la Brigata Julia aveva occupato Borgotaro, cacciandone i presidi tedeschi e fascisti, sulla ferrovia, che sorvegliava in pattuglia, un: bombardamento aereo lo colse improvviso e lo uccise. Cesare Bassani, prima della morte, non ha rimpianto la propria giovinezza. Non ha chiesto niente. Ha espresso soltanto il desiderio che i suoi compagni cantassero sulla sua bara un vecchio canto di guerra friulano: Stelutis Alpinis
E’ un canto nostalgico, appassionato, che scende dai monti dove si è combattuta l’altra guerra, un canto dove si ascolta la voce di un giovane alpino morto per la libertà di un popolo. E’ la voce di un morto che non rimprovera: accarezza soltanto e lascia un nodo alla gola. Sostanzialmente la canzone dice così: « Sto bene dove mi trovo; sul mio corpo fioriscono le stelle alpine che prendono linfa dal mio sangue; voglio bene al mio amore che vive sulla terra e a lei offro uno di questi fiori.
«Un giorno lontano, quando la guerra non sarà che un ricordo, soltanto un triste ricordo, tutte le stelle alpine, per miracolosa metamorfosi si tramuteranno in un’ unica stella lucente nel cielo della Patria, a ricordare ai vivi la nobiltà ,del nostro sacrificio. «Essi; i vivi si accenderanno alla luce di quella Stella ». Questo canto lo ha vo1ruto sulla tomba e noi glielo abbiamo cantato in una calda giornata del luglio, lassù nel Cimitero del «Borgo». Ed io l’ avevo conosciuto così: «Il nostro popolo dimostrerà di essere degno della storia, quando saprà salire sulle barricate».
Imparai a conoscerlo così, con questa frase che Lui a un certo punto, durante una discussione in un caffè di Borgotaro aveva pronunciato con particolare convinzione. Era l’ottobre del ’43. Gli avvenimenti storici portavano davvero i popoli e gli individui davanti alle proprie responsabilità. Risorgeva sulle baionette tedesche il cadavere del fascismo sul quale pesava la rovina morale e materiale di una nazione intera. Una guerra perduta senza essere stata preparata; città distrutte, centinaia di migliaia di morti, centinaia di migliaia di prigionieri, lutti e miserie alle famiglie. Una colossale truffa al popolo italiano.
E ciò nonostante, gli animi di moti erano ancora incerti sulla strada da scegliere e da battere; o non se ne preoccupavano affatto. Insensibilità storica, mancanza di dignità, abulia politica. Ed io andavo cercando ansiosamente fra gli uomini qualcuno… « il nostro popolo dimostrerà di essere degno della storia quando saprà: salire sulle barricate».
Mi ricordo quella frase: mi colpì e più mi sorprese in quanto era stata gridata dal più giovane. Io ero fuori dalla discussione, ma, mi ricordo, lo volli guardare negli occhi; poi piano chiesi a qualcuno quanti anni aveva. Non ancora ventenne, studente in medicina . E chissà per quale misterioso intuito non ebbi un attimo di esitazione e nemmeno pensai che la sua fosse retorica. Nei giorni seguenti ci parlammo, e, stringendoci la mano a suggellare la nostra decisione, confermai in me il primo giudizio: maturo per impugnare un’ arma in difesa del popolo truffato, e della libertà umana.
E così ci ritrovammo un giorno tra le nevi dell’ Anzola, ai piedi del Tomarlo roccioso. Tra i primi, con pochi fucili, nelle baite, al soffiar della tramontana. Eravamo in pochi, è vero, e un pochino diversi da quando – e tu non c’eri – le Brigate scesero a Parma. grande fiumana per la parata finale. Ma forse era meglio lassù, un pochino stracciati, con vecchie scarpe, senza generali e senza Comando Unico. . Ma con tanta fede; e la Libertà era salita con noi.
Al primo combattimento – per te era veramente il primo « il battesimo del fuoco » – qualcuno della squadra, nuovo al sibilo del proiettile, nuovo al canto metallico della mitraglia, aveva vacillato. Tu invece, dopo aver bene guardato in faccia il nemico, avevi sparato con sicurezza come un vecchio soldato. Qui ti eri ,trovato finalmente sulla barricata della tua idealità, e tu sapevi che per la vita, intesa come libertà e dignità umana, ad un certo momento si doveva saper rinunciare coscientemente anche alla vita. Borgotaro, ottobre 1945
Del Nevo Giuseppe (Dragotte)
Mauro Fortunati
Nel carattere di Cesare la manifestazione principale era la continua tendenza al superamento di se stesso in ogni campo: tendenza ispirata ad un elevato senso di bellezza, di forza, tendenza attiva, costante, alimentata dall’ incessante desiderio di superare ogni sentimentalismo e gli stessi propri sentimenti ed affetti. Superamento, perfezione, erano per Lui finalità di vita. Osservatore ed esteta profondo cercava di penetrare lo spirito di un poeta o di un musicista con la stessa passione con cui osservava un calzolaio nel suo lavoro o conversava con lui delle cose più svariate per capirne il lavoro e contemporaneamente interpretare lo stato d’animo di quel lavoratore, i suoi desideri, le sue aspirazioni, le sue idee politiche, i suoi sentimenti e, con quelli del singolo, le condizioni, le aspirazioni, le idee, di tutta una categoria di artigiani.
Cesare preferiva la compagnia di gente umile quella di giovani suoi coetanei, senza sfuggirli o disprezzarli, ma era evidente la Sua soddisfazione per le chiacchierate fatte così alla buona con i più modesti e che risultavano per Lui, e lo dichiarava, piene di ben altro e più elevato significato. E l’ interessamento verso questi dimostrava quale fosse il valore che dava alle cose umane: Egli non si lasciava attrarre certo dal desiderio dell’eleganza, ne dalla vita brillante ne da parole o discorsi forbiti; lo interessava solo il vero profondamente onesto ed ogni pensiero sinceramente professato; le idee costruttrici e produttive. Con Cesare facevamo molte gite in montagna quando era quassù nei Suoi monti, durante il periodo delle vacanze. La montagna era casa nostra, ad essa correvamo sicuri e fiduciosi, liberi dalle convenienze e da ogni falso legame sociale e spirituale. Una volta l’aggiunta la vetta, lo sguardo di Cesare spaziava, superava l’orizzonte e le nebbie in un modo tutto caratteristico, direi spiritualizzato, come un giorno sul Monte Sagro nelle Apuane, fra le nubi.
Dalla vetta nulla si vedeva del meraviglioso paesaggio dolomitico di cui tante volte entusiasticamente Cesare mi aveva parlato con particolarità di dettagli, ma Egli, che conosceva ogni vallone ed ogni piega di tutte le catene che ci facevano corona, prima di sedersi per riposare mi segnò con la mano la posizione di tutte le cime, di tutti i canali in modo talmente sicuro come se Egli le vedesse illuminate dal sole più caldo e convinto di rendere a me la evidenza della Sua visione, Tacque poi e si trattenne a contemplare estatico. Ho ancora negli occhi la sua espressione eccitata di quel momento, non gliene chiesi spiegazione, ma mi parve che il suo animo sentisse qualcosa che il mio non avvertiva, che il suo spirito trascendesse la realtà fisica delle montagne per portarsi in un mondo superiore esclusivamente spirituale.
Camminava forte, sempre, con il desiderio continuo di superare le sue capacità di resistenza al freddo, alla fatica; alla fame, alla sete; di migliorare il tempo di un percorso già fatto altra volta. Si sarebbe considerato menomato di fronte a se stesso se avesse impiegato qualche minuto di più, sarebbe stato un passo indietro nella sua corsa verso la perfezione. I suoi zaini talvolta erano pesantissimi, come eccessivamente pesante lo portava il giorno del primo combattimento partigiano; ma Egli sparava quel giorno con tanta sicurezza, con tanta serenità come se lo zaino facesse parte del Suo corpo. Era nella Sua completezza.
I ricordi più belli e più recenti sono quelli legati alla vita partigiana, durante la quale un pezzo di pane offerto era indice di una generosità di cui non si conosce l’equivalente nella vita civile, quando messa alla prova dalle privazioni, dai pericoli, dalle delusioni, si mostrava netta la personalità di ognuno. Ebbi in quel periodo la conferma delle qualità superiori di Cesare, qualità che avevo già, apprezzate, ma che nella diversa vita, nelle sofferenze e nelle privazioni, si rivelavano nella loro, pienezza e nella loro continuità generosa. Nel primo scontro. con i tedeschi era rimasto ferito il nostro caposquadra. Cesare lo aveva soccorso prodigandosi a tutt’ uomo, con tutti i mezzi. ma il Suo generoso prodigarsi non lo soddisfaceva; avrebbe voluto fare di più, ottenere di più mediante maggior sforzo, con la Sua volontà, con la Sua passione; perché era altruista sino all’abnegazione di se stesso, spontaneo, senza riserve, senza ambizioni. Con misurato sprezzo della gloria e degli eroi occasionali si preoccupava delle azioni in se stesse, di qualunque natura fossero in modo da farle riuscire rette e complete secondo i suoi intenti, per il bene esclusivo degli altri, anche quando sapeva che avrebbero portato alla negazione dei suoi sentimenti, della sua personalità.
Durante il servizio di guardia e specialmente di notte, nel silenzio del bosco, chiacchieravamo volentieri. Parlavamo di butto: del passato, della vita partigiana, dell’ avvenire nostro, della Patria. Era scomparso in Lui già da tempo, l’ entusiasmo giovanile senza che fosse subentrata quella critica e pessimistica visione del mondo interveniva in me. Anche dopo il naufragio di molte speranze, anche dopo aver constatato che al mondo vi sono troppi ipocriti, Egli valutava con uguale oggettività uomini e cose; anzi spesso rimproverava il mio scetticismo. L’entusiasmo però se n’era andato senza che ne venisse turbato l’ equilibrio del suo animo; si era ripreso dopo il colpo ricevuto trovandosi a faccia a faccia con la realtà ed aveva già riacquistata la Sua serenità, ripreso il Suo sorriso aperto, conservata la Sua interezza morale.
Era diventato un uomo e non aveva ancora vent’anni! Non lo spingeva più l’entusiasmo che rende tutto bello e tutto buono, ma lo guidava la coscienza del dovere. Un giorno facevamo la guardia assieme nascosti tra gli alti massi che si ergevano presso la strada che conduceva al distaccamento, parlavamo delle nostre famiglie, delle speranze che in noi riponevano i nostri genitori, del giorno che la guerra sarebbe pur finita una volta o l’altra, ed istintivamente, quasi per reazione a tante felici visioni venimmo a concludere che c’era pure una certa probabilità che non tornassimo più a casa. « L’idea di morire – disse Cesare – mi dà noia, come a tutti, ma mi dà ancor più noia il fatto che probabilmente i miei piangeranno ».
Stette un po’ con gli occhi fissi verso il bosco, con un’ espressione strana trasognata che non capii allora e che ancora non spiego: non so se era presentimento di morte o visione di persone care. Poi riprese: « C’ è un poeta inglese che esprime questo concetto » e scrisse nel suo notes i versi: Better by far you should forget and smile Than that you should rememher and be sud (molto meglio che tu possa dimenticare e sorridere che ricordare ed essere triste).
« Ad ogni buon conto, disse, siamo d’accordo: se dovessi morire cantatemi ” Stellutis Alpinis ” ». Parlammo d’altro e ridendo rientrammo al distaccamento perché erano scadute le nostre due ore di guardia. Quando fu ferito aveva ancora quel foglietto che è ora orlato del suo sangue. E’ questo il ricordo più caro di Lui che possiedo perché è legato alla Sua fine, perché mi rammenta la Sua strana espressione di allora che è quello che di Cesare meno ho capito, ma a cui ho voluto tanto bene. Ed è morto così senza gli squilli della gloria, in perfetta coerenza col suo spirito, senza una parola di rimpianto se non quella di non poter portare a termine la lotta per la Libertà sul cui esito felice era certo e nella quale aveva affinato la sua esistenza, tutta conquiste, tutta eroismi. Borgotaro, agosto 1945 Mauro Fortunati
Severino Molinari
Uno dei migliori, tra i giovani che ho conosciuti nella mia vita partigiana, è stato Cesare Bassni – SAM -. Appena ventenne, studente in medicina, possedeva una viva ed aperta quanto equilibrata intelligenza ed una cultura solidamente basata. Discuteva volentieri su ogni argomento con serena competenza e parlava con entusiasmo di problemi sociali e politici portando nella discussione profonde argomentazioni sostenute tanto vigorosamente da lasciare spesso perplessi. Cesare aveva idee chiaramente democratiche, ma non aveva aderito ancora ad alcun movimento politico; forse tendeva verso il socialismo. Nemico aperto del fascismo, con motti di fine arguzia ne criticava le leggi e metteva in caricatura gli esponenti.
Lo incontrai la prima volta verso la metà di aprile del ’44 a Tra lei tà – Baselica di Borgotaro ed era già un anziano della lotta partigiana. Cesare allora veniva dal Monte Penna dove, durante il combattimento di Pasqua sostenuto da quelle formazioni, a testimonianza dei suoi compagni, si era fatto distinguere. Prima del Penna, aveva partecipato alla resistenza in Carrara ed a Borgotaro aveva lavorato intensamente a provvedere armi per quel Comitato di Liberazione. Un giorno venne da me perché lo aiutassi a trovare del latte per un compagno ammalato e lo accompagnai presso dei contadini. Strada facendo mi parlò a lungo della sua famiglia, della mamma, degli zii e più di tutto, alternando i pensieri con pause durante le quali fissava gli occhi nello spazio, mi parlò del suo babbo lontano, perseguitato e combattente per la stessa nostra causa. Come era triste, caro Sam, in quei momenti mentre parlava del suo babbo! Presentimento forse?
Mi disse che avrebbe voluto andare a combattere con lui e che al suo fianco si sarebbe sentito più sicuro e più forte, ma che un altro affetto, quello della mamma, lo teneva legato a Borgotaro. Evidentemente ne soffriva. Con me, come con tutti gli amici, Cesare era aperto e confidente; mi parlò dei suoi ideali di giustizia e di libertà; della sua speranza in un mondo migliore dove tutti potessero avere una parte di felicità rivelandomi la sua ardente ribellione a tutto ciò che è ingiustizia, sfruttamento, oppressione.
Cesare considerava il fascismo nemico della società e causa unica della rovina della Patria, ma era sereno ed obbiettivo anche verso i fascisti e quando si trattava di giudicare faceva sempre prevalere il suo animo buono e sincero inducendo alla clemenza. Combattente completo, non ha mai voluto cariche ne gradi pur avendo una vasta cultura ed una preparazione. Diceva: « prima di comandare bisogna saper obbedire ».
Così si adattava a tutti i servizi tanto che lo trovai sulla strada di Linari comandato di corvèe carico sulle spalle di mezzo quintale di grano. Mi accompagnai a lui e lo aiutai dovendoci fermare diverse volte che il carico si faceva più pesante per la ripidità della strada. Fu in una di queste soste che Sam mi lesse l’Inno che aveva scritto per i Partigiani. Mi piacque tanto e mi entusiasmò. L’Inno di Sam « Sugli aspri monti ci siamo fatti lupi » divenne ben presto il canto di battaglia di tutte le formazioni della Val di Taro e poi quello di tutti i Partigiani del Parmense. Ogni qual volta risento quell’ inno che ci ha animati nella lotta e rincuorati nelle giornate grigie, quando tra i monti c’eravamo veramente fatti lupi, rivedo Sam bello nella sua alta e forte figura con i grandi neri occhi e la barbetta alla maniera dei nostri eroi del risorgimento mentre fissava lo sguardo nello spazio al pensiero del padre combattente lontano ed un nodo mi serra forte la gola. Cesare Bassani è caduto per la causa della libertà alla quale si era votato; è caduto al posto di combattimento a guardia della Zona partigiana col suo mitra puntato contro il nemico dell’ umanità..
Baselica di Borgotaro, novembre 1945 Severino Molinari Commissario della Divisione « Val Taro»
Giovanna Lavelli
La felicità maggiore di Cesare consisteva nelle escursioni sulle sue montagne! Quanto le amava e come parlava volentieri di esse! Sembrava che fossero i monti con le loro rocce, con le loro asprezze, con le loro difficoltà di ascensione ad insegnargli la costanza, la fortezza, la rettitudine. Li amava da entusiasta e da poeta. Ricordo che un giorno in una conversazione scherzosa gli fu chiesto quale fosse il colore che più gli piaceva ed egli rispose: – Il colore dei ghiacciai -. E sentimmo che la sua risposta era fondata nel suo intimo. La musica lo rendeva assorto: la gustava con finezza; avvertivamo che lo trasportava in un mondo superiore in cui si conciliavano, in fiduciosa unione, i suoi sentimenti e i suoi ideali.
Declamava assai bene i versi che gli piacevano, che corrispondevano al suo modo di sentire; ad esempio questi di Olinto Guerrini: << . .solo nell’ ampio mar, solo nel turbine navigo arditamente a rive incognite. La mia bandiera l’ ho inchiodata all’ albero come una sfida al fulmine…>> Dall’ 8 Settembre 1943 cominciò a lavorare per la libertà dell’ Italia « schiava di troppi oppressori ».
Nel febbraio del 1944 un gruppo di patrioti aveva fermato il treno della linea Spezia-Parma a Valmozzola per liberare tre compagni arrestati e che venivano tradotti dinnanzi al Tribunale speciale di Parma; ne parlai con Cesare e, dal suo contegno, dal modo di esprimersi capii che il fatto non gli era nè estraneo nè nuovo. Infatti da tempo Cesare faceva frequenti gite in montagna o partiva coi treno o discuteva lungamente con alcuni amici. Gli confessai che anch’ io avrei lavorato volentieri con loro e da allora Cesare, pur non confidandosi completamente, mi rivelò le sue idee e le sue aspirazioni.
Così per opera sua ho potuto contribuire alla causa partigiana ed il mio primo atto fu quello di cucire segretamente per Cesare la fondina della sua pistola e di ricavare per lui, da una giacca militare dell’altra guerra, un giubbetto impermeabile. Cesare raggiunse ben presto la formazione partigiana. Soltanto nel maggio vidi 1’accampamento dei patrioti. Arrivai alla.., caserma di mattina presto e siccome nella notte v’erano stati dei « lanci » tutti i ragazzi erano occupati a rastrellare il monte alla ricerca dei paracadute. La caserma era una grossa capanna in mezzo ad un fittobosco di castagni, senza finestre, ma in compenso con una larga apertura senza porta e molte fessure nel soffitto e nelle pareti che lasciavano entrare abbondantemente luce ed anche… molta acqua se fosse piovuto.
I giacigli erano cumuli di foglie secche di quercia tenuti assieme da paracadute. Nei buchi delle pareti, attaccati a chiodi, bombe a mano, borracce, porta caricatori; a terra qualche zaino. Sul tetto una grande bandiera tricolore sventolava libera al sole ed ai venti a far intendere che a quei ragazzi era sacra la libertà di pensare, di combattere e quindi anche quella di sacrificarsi e di morire
Sui monti Cesare s’è fatto più solido nella figura, la sua voce è più virile; gli inquadra il viso una barbetta rada che lo fa assomigliare – e lui ci tiene – ai fratelli Bandiera. Nessun disagio, nessuna fatica, nessun servizio umile lo turba o lo avvilisce; solo qualche volta lo rende un po’ triste, un po’ buio, il grande distacco morale che lo separa – ed egli lo avverte sensibilmente – da alcuni suoi compagni.
Lo rividi nel giugno ‘44 di guardia all’imboccatura della galleria del Borgallo e così lo rivedo quel ricordo. Stava coricato bocconi con il fucile mitragliatore puntato. Un mucchio di sassi accatastati forma il riparo suo e dei suoi compagni che con motteggi e frizzi cercano di ingannate il tempo e di far sembrare meno duro 1’incubo di una guardia che dura da parecchi giorni e che non si sa quando dovrà, quando potrà finire. Cesare sfoglia un libro, mi avvicino e gli dico in tono scherzoso: « la tua calma è apparente ».
— Può darsi — risponde e alza verso di me il viso e sotto 1’ampio cappello da << bandito >> vedo illuminarsi i suoi grandi occhi neri di una luce viva. Non passano otto giorni e la notizia terribile della sua fine ci paralizza e ci agghiaccia. Non aveva vent’ anni! Lo vegliai 1’ultima notte e più volte passai la mia mano sulla sua fronte gelida: la morte che lo aveva stroncato così fulmineamente non aveva potuto alterare le sue sembianze.
Aveva tanti fiori d’ intorno e una luce incerta di candele illuminava la stanza.Lo seppellimmo nel cimitero di Borgotaro tra i suoi monti al canto di una dolce canzone alpina… Lo guardano le stelle… Borgotaro, gennaio 1946
Giovanna Lavelli
Camillo Delmaestro
Quando Cesare leggeva una poesia o ascoltava un pezzo di musica, era diverso dal Cesare gaio che tutti conoscevamo. Anche ora, quando sento la musica che eravamo soliti ascoltare insieme, rivedo davanti a me la sua figura con 1’espressione indefinibile del suo viso, lo sguardo fisso, la fronte leggermente chinata; lo rivedo con tanta insistenza che mi son ripromesso di non suonare più quei dischi. Mi son chiesto tante volte perché non mi sono mai curato di sondare 1’ animo di Cesare fin oltre lo strato superficiale, o gli aspetti che maggiormente spiccavano in lui. Ma forse è il rimpianto per tutte le cose che non sono più ed anche perché Cesare non si prestava facilmente a ricognizioni di questo lato del suo carattere.
In Lui doveva certamente essere forte il senso della bellezza. Bellezza che cercava di cogliere in ogni momento e soprattutto nelle manifestazioni della natura. Viveva in lui una fantasia attiva che gli presentava sotto il velo della bellezza 1’azione capace della sua felicità. Dalle più disparate impressioni la sua mente lo portava sicuro verso il suo mondo ideale; era qui certamente che Cesare attingeva la sua costanza. Era nell’evoluzione verso una sempre maggiore chiarezza di ideali e di sentimenti che il suo spirito si orientava. Ricordo di aver avuto una volta la visione di questo Cesare particolare che soltanto pochi fra i suoi amici hanno conosciuto. Era al finire di una giornata d’inverno e portavamo ancora sulle spalle il segno lasciato dal pesante carico di quei fucili e di quelle munizioni che, tuonando per primi, avevano chiamato 1’Alta Valle del Taro alla riscossa. Cesare si era tolta la maglia di lana e 1’ aveva donata a uno di quei primi patrioti e aveva poi distribuito piccoli oggetti di corredo fra gli altri. Erano povere cose, ma il modo spontaneo e generoso con cui erano date e soprattutto il significato che quei primi « ribelli » vi attribuivano, avevano elevato il morale di quei ragazzi ad altezze insperate. Ricordo che nella strette di mano d’ addio era in tutti un po’ di commozione.
Ritornavamo finalmente dopo una giornata faticosa fra quei ripidi sentieri di montagna ed eravamo felici della fatica sostenuta. Sbucando da una macchia il sentiero ci portò sopra il crinale di una altura e il paesaggio che ci si presentò era talmente suggestivo che entrambi ci fermammo a osservare:il contrasto della valle ormai silenziosa e sepolta nella pace vesperale, con le ultime nubi rossastre per i raggi postumi del sole scomparso dall’orizzonte. Un paesaggio che dava 1’impressione della tranquillità, della serenità. Un insieme di cose a cui per natura 1’anima nostra aspirava, una tacita speranza dell’umanità gravata dagli affanni della guerra, il desiderio represso di milioni di giovani anelanti ad una casa, a un focolare. Se vi sono momenti nella vita che difficilmente si possono dimenticare, quello certamente è fra loro. Ricordo che anche allora gli occhi di Cesare scintillavano ed ebbi l’impressione che egli vedesse qualche cosa che io non riuscivo ad afferrare. Era qualche cosa di superiore che si faceva vivo e reale di fronte alla bellezza della natura.
« Credi che sarà possibile comprendere la natura nella sua unitaria bellezza? » gli dissi, spinto dal desiderio di apprendere qualche cosa attorno a quel suo modo di sentire ed al suo comportamento; qualcosa che confermasse al tempo stesso ciò che pensavo di Cesare. « Se anche non potremo mai conseguire un perfetto ideale di bellezza non vuoi dire che vi dobbiamo rinunciare. La certezza della nostra impotenza non deve impedire il nostro tendere verso la perfezione».
Tendere… tendere… non mi ero ingannato, era proprio quel Cesare che pensavo: tendere oltre ogni difficoltà, con tutte le proprie energie, tendere a qualche cosa anche se la volontà umana dovrà piegarsi, anche se tutto porterà alla negazione. Nella vita egli tendeva a qualche cosa che sfugge alla sensibilità materiale e ha volto a questa ricerca tutte le proprie energie. Che cosa ha cercato?Certamente in Lui viveva un mondo di perfezione e di bellezza, un mondo di armonie quale soltanto un artista può vivere. Borgotaro, settembre 1945
Camillo Del Maestro
Amedeo Bianchi
Il cappello abbassato sugli occhi, la bocca ombreggiata da neri baffetti, il cappotto tutto abbottonato col bavero rialzato intorno al collo: non lo riconobbi. Ma la voce, la sua voce maschia e robusta, quella sì che la riconobbi. Era molto tempo che non lo vedevo, e la sua improvvisa comparsa mi parve alquanto strana. Mi disse che veniva da Borgotaro, la sua città nativa a lui tanto cara, che ricordava ad ogni istante, così che noi compagni di scuola si scherzava sui suo esagerato, ma pur simpatico campanilismo. Parlammo di varie cose: degli studi forzatamente interrotti, della vita che si faceva sempre più pericolosa per noi giovani (correvano i tristi mesi della leva ordinata dall’ esercito repubblichino), della necessità di trovare un mezzo per sfuggire alle grinfie di quella gente, della costituzione delle prime bande di patrioti. Discorsi che in quel tempo erano sulla bocca di tutti, perché tutti erano dominati dallo stesso proposito: Non servire i tedeschi e i fascisti!
Egli era molto più edotto di noi in materia, e lo provarono in seguito i fatti; pure fu piuttosto parco e riservato nel parlare, il che mi colpì, conoscendo bene il suo carattere aperto ad ogni confidenza, incapace della più lieve riserva. Mi consegnò un pacco, alquanto pesante, pregandomi di serbarglielo in posto sicuro, mentre andava in città per alcune commissioni. Lo Presi: capii che c’era sotto qualche cosa, ma non gli feci domande, temendo di metterlo in imbarazzo. Se avesse potuto parlare lo avrebbe fatto da solo, poiché per gli amici non aveva segreti. Tornò dopo qualche ora, riprese il suo pacco e con l’autotreno che l’aveva portato a Carrara, ritornò a Borgotaro.
Fu questo il nostro ultimo incontro; i fatti successivi, l’ ordine di sfollamento nell’ agosto 1944, mi strapparono da Carrara, così che solo nell’ aprile 1945 appresi la notizia della sua morte da Patriota. Mi spiegai tutto allora: il cappello sugli occhi, i baffi…, non voleva farsi riconoscere da tutti. Il pacco misterioso: erano munizioni. Tutto il suo viaggio: una missione da portare a termine. Il suo strano modo di parlare: timore di compromettere gli amici. Eravamo appena nel novembre del 1943 ed egli apparteneva già alle bande partigiane e tutti sanno che cosa questo significasse allora sotto la barbara caccia condotta dalle « Bande nere» e dai tedeschi. Fu suo padre che, incontrandomi, mi comunicò la notizia della sua scomparsa. Cesare, il caro compagno di otto anni di studio, non era più. Una ondata di ricordi mi si affolla ancora alla mente: Lo rivedo vicino, compagno di banco, compagno di studio e anche di aneddoti… legati alle vicende scolastiche. Lo ricordo amico caro nelle ore di svago, quando, sempre gioviale e generoso, ci invitava a casa sua, e le stanze echeggiavano delle nostre clamorose risate. Ogni sera veniva da me: confrontavamo i compiti, ci aiutavamo come buoni fratelli.
Così passarono gli anni del ginnasio e quelli del liceo. Cesare non poté godere la vita universitaria, non poté ultimare gli studi iniziati con tanto entusiasmo e con tanta certezza. Egli è caduto al servizio della Causa della Libertà nell’ adempimento di quel dovere che la famiglia gli aveva intensamente insegnato. Ora riposa nel cimitero del suo amato Borgo. Su quella terra coperta di fiori i compagni di fede e di lotta cantarono i nostalgici versi di « Sltelutis Alpinis » e l’eco di quel coro accorato si ripercuote ora per Lui nelle valli e su quelle montagne che furono la sua grande passione, la grande attrattiva di tutta la sua vita sempre tesa a salire, a salire. Carrara, febbraio 1946
Amedeo Bianchi
Forni Angelo
Ho conosciuto Cesare Bassani solo 1’ 8 Settembre; di un anno avanti a me nelle scuole, non avevo mai avuto occasione di conoscerne 1’ intimo nè di apprezzano come meritava. Schivo ai soliti divertimenti dei giovani della nostra età, di carattere un po’ chiuso, lo avevo incontrato invece molte volte sui nostri monti dove la comune passione ci affratellava.
Solo il suo grande amore per la montagna conoscevo; mai alcuna discussione di politica o anche solo di critica avevo da lui udito. Giudicavo quindi che Cesare si disinteressasse dei fatti che precipitavano; lo giudicavo, a torto, alla stregua di tanti altri che vivevano, e continuarono a vivere, estraniati dalla realtà e mantenutisi poi, egoisticamente, racchiusi nella preoccupazione di non perdere un’ ora di studio, per loro unica cosa urgente per il conseguimento di una qualsiasi posizione. Fui perciò stupito quando la sera del 10 settembre 1943, mentre i colpi secchi dell’ ottantotto tedesco e le raffiche delle ventimillimetri riempivano la valle di continui beati, lo ebbi vicino nel portare aiuto agli Alpini della Divisione « Alpi Graie » che cercavano di sfuggire, combattendo, alla morsa tedesca.
Riconobbi di averlo mal compreso, mentre tanti altri, che avevano speso fiumi di parole dal 25 luglio in poi, nel tentativo di mostrare propositi antifascisti, al momento della lotta erano misteriosamente scomparsi.
Ricordo che erano circa le sette di sera, a giudicare dall’ altezza del sole, quando ci giunse la notizia che una pattuglia di Alpini doveva aver abbandonato tutto il suo equipaggiamento in una capanna vicino alle case popolari di Codena. Nel luogo dove avevamo raccolto le armi po’tute sottrarre alla distruzione dei tedeschi eravamo Cesare, un amico comune, io e colui che aveva portato la notizia, un ragazzo di 14 o 15 anni. Bisognava accertare 1’ esistenza di tali armi e, se esistevano, trasportarle in luogo sicuro, lontano dai rastrellatori tedeschi e dalle spie fasciste che già collaboravano con loro.
Dalle strade della città le raffiche tedesche battevano senza posa le strade di Codena e di Monte d’ Armi per impedire qualsiasi aiuto dalla città in viveri od altro agli Alpini. Cesare mi guardò, era pronto ad andarvi; domandò poche informazioni sulla ubicazione della capanna e si incamminò rapido con la testa un po’ bassa, come suo costume, quasi soprapensiero. Il mio amico lo seguì.
Guardai verso Codena: le raffiche delle mitragliatrici tedesche rimbombavano senza posa e le rapide fiammelle delle traccianti solcavano 1’aria che ormai scuriva.
Tornarono verso le ventidue trafelati e stanchi da non reggersi quasi in piedi, ma con gli occhi splendenti di una gioia significativa.
Le armi erano state poste al sicuro.
Rividi ancora Cesare nei giorni seguenti curvo sotto il peso delle cassette di munizioni che caricava, come me, sui camion per dare la possibilità agi Alpini di resistere ancora qualche giorno. Dopo seppi che era partito per Borgotaro e mai più lo rividi.
La sua morte semplice e serena ha tolto a tutti noi un amico che la comune lotta ci aveva insegnato ad amare ed a stimare — Carrara, aprile 1946
Forni Angelo
Filippo Martinelli
Conoscevo Cesare da qualche anno, ma come ci si può conoscere tra giovani che frequentano lo stesso Liceo, in una città non grande come Carrara.
Era una conoscenza esteriore, quasi superficiale. Nulla sapevo del suo animo profondamente buono e sincero, nè potevo apprezzare la sua esuberante personalità, come in seguito ebbi occasione di fare durante una lunga gita che si fece assieme sugli Appennini alla fine del settembre 1942.
I numerosi giorni trascorsi in montagna, col paesaggio sempre nuovo – si andò cresta a cresta dalla Cisa all’Albetone – gli spettacoli diversi che ad ogni passo si presentavano alla nostra osservazione, mi dettero modo di vedere quanto fosse sensibile alle espressioni della natura, alle cose belle, a quei panorami infiniti.
Mi parlava dei Suoi monti, i monti di Borgotaro, che all’inizio del viaggio ci sorgevano davanti, come si parla di una cosa propria, conosciuta in ogni suo particolare, una cosa carezzata nel continuo scorrere, ne parlava coll’affetto di un padre verso il figlio di una cosa di cui se ne porta sempre una parte dentro di noi.
Se gli avessi chiesto allora dove avrebbe preferito morire, senz’altro mi avrebbe indicato quelle montagne che andavano coprendosi di ombre.
Lassù ho potuto capire, quando da quelle vette mi parlava delle cose del mondo, come vedeva il futuro, 1’ho potuto capire dalle immagini che sembravano essere nei suoi occhi quando guardava le pianure lontane, quanto forte fosse per Lui 1’amore per la libertà, una cosa innata per cui tutto si poteva sacrificare.
Ho saputo dopo 1’8 settembre 1943, che Cesare aveva salito le sue montagne, per difendere questa libertà ed ancor più intesi il valore delle sue parole di un giorno. Capii la profondo sincerità della sua personalità, che di questo amore aveva fatto una parte inscindibile di se stessa.
Ed ora 1’amico nostro riposa ai piedi delle sue rocce.
Rimane per noi, che Lo abbiamo conosciuto, come significato profondo di coerenza a se stesso, di quello coerenza che Lo ha portato al sacrificio più grande.
Oggi noi dobbiamo cantare le Sue canzoni alpine, sempre più forte, nella lunga strada per la conquista della Libertà.
Questo 1’insegnamento di Cesare! Carrara, giugno 1946
Filippo Martinelli
STELUTIS ALPINIS

Si tu venus càsù ta’ cretis
là che lor mi àn soterât
al è uno spiaz plen di stelutis
dal miò sanc l’è stât bagnât.
Par segnàl une crosute
jè scolpide li tal cret
fra hês stelis nàs l’arbute,
sot di lor duar cuièt.
Ciol sù, ciol uno stelute;
je ‘a ricurde il nestri ben,
tu i darâs ‘ne bussadute,
e po platilo tal sen.
Quant che a ciase tu sês sole
e di cur tu preis par mè
il mio spirt atòr ti svole:
jo e la stele sin cun tè.
Ma un di quand che la guere
à sarà un lontan ricuard
tal to cur dulà che ere
stele e amor dut sarà muart.
Resterà par me che stele
che ‘1 miò sanc avrà nudrit
par che lusi simpri biele
su I’ ltalia a 1’ infinit.
Parole di Arturo Zanardini
Da un taccuino di appunti
gettati su un foglio qualche giorno dopo la tragedia del S. Donna, nel gennaio 1945.
Passeggero non sostare
chè ricordare è triste:
il nostro spirito aleggia ancora
in cerca del nemico fra la nebbia e la tormenta.
Segui la via sicura verso la valle
ma alza lo sguardo al cielo
per chi non ha potuto
fra il cupo rumor della guerra.
Dì alla Santa Donna di non piangere:
noi l’attendiamo ancora
e la calda carezza e la sua voce cara.
A Cesare Bassani
Non ceppo né croce
sull’ara del sacrificio
non squilli di trombe
non salve di batterie
né inchinar di bandiere:
è il mio testamento.
Qui presso scorre lenta
l’acqua del torrente
come quel giorno
e il ciel risplende come allora…
ma tu non pensare al Fato
che rifuggendo ogni legge umana
portò la morte fra questi massi.
Ero il più giovane e per questo pago
per l’intera umanità cui appartieni
ma deh! non piangere per me
che vago fra le ombre e
assiedo sulle cime dei ghiacciai
e ascolto le canzoni alpine
quando salgono -.
dalle valli al cielo.


INNO DEL PATRIOTA
Parole dl Cesare Bassani – SAM
Sugli aspri monti ci siam fatti lupi
il nostro grido è libertà o morte
al piano scenderem per la battaglia per la vittoria.
Noi rivivrem in un fulgor di gloria
sorriderem nel riveder la vita
sul campo sorgerà la nuova Italia con la guerriglia.
Per vendicare un mucchio di vergone,
per risanare un mondo d’ ingiustizia,
rimbomba col suo rombo redentore la dinamite.
Per tutte quelle morti invendicate,
per tutte quelle facce scheletrite,
compenseremo sulle barricate
piombo con piombo.
Fin dove possiam spingere lo sguardo,
lontano fino all’ultimo orizzonte,
farem che giunga a vendicar l’oltraggio
la nostra guerra.
Fra vette, boschi e valli ci battiamo,
perchè si possa ancora con orgoglio
gridare come il tuono e ancor più forte
viva 1’ Italia!!!
Borgotaro, aprile 1944
Alla memoria di CESARE BASSANI, coi I’ importo della pensione di guerra che sarà assegnata alla famiglia, verrà istituita una Borsa di Studio a favore di uno studente del Liceo “E~ Repetti” di Carrara. A tal fine verrà redatto apposito Regolamento
ESERCITO DI LIBEAZIONE
Si sono verificati in questi ultimi temi, rapine mano armata, ed assassinii compiuti da delinquenti abituali e occasionali, che hanno approfittato del buon nome dei Patrioti Visto lo statuto delle organizzazioni patriottiche, teniamo a precisare che gli autori di nuovi eventuali atti di questo genere e coloro che verranno trovati armati, verranno giudicati dal Tribunale Militare dei Patrioti e condannati alla pena di morte. Contemporaneamente si rende note che per l’uccisione dì un patriota da parte di elementi fascisti non in combattimento verranno passati per le armi dieci tra fascisti e spie
IL COMANDO DEI PATRIOTI
XX 3 Maggio 1944. Non stracciate i nostri manifestini
