La Battaglia del Lago Santo

Un leggendario episodio della Resistenza

Il rastrellamento avvenuto alla Cervara de­terminò lo sganciamento dei pochi Partigiani. Abbandonata la base di Fontana Gilente, i due gruppi si dettero convegno al Lago Santo. Nove uomini raggiunsero la località dopo 20 ore di marcia forzata attraverso boschi e montagne coperte di neve. Arrivarono la sera del 16 mar­zo 1944. Nel rifugio coperto di neve v’era una stufa e della legna, accesero il fuoco, si asciu­garono, prepararono un po’ di cena.

Il lago era tutto gelato, il sole tramontava indorando le nevi del Marmagna e dell’Orsaro; dal rifugio usciva un canto di giovani voci che si sparse nella valle. Qualcuno l’udì.

Attesero invano per quasi due giorni l’ar­rivo di Alberto e dei suoi uomini.Verso le ore 17 del 18 marzo, Giorgio che era di guardia nel bosco presso il Lago, rientrò affannato: << ragazzi… ci sono i tedeschi, siamo circondati >>. I nove balzarono in piedi e, come prestabilito, si disposero due per finestra; Luciano  ne volle una per sè. Facio aveva un mitra con 670 colpi, Giorgio un Thompson con 32, gli altri, 7 moschetti con 24 caricatori a testa. Facio, Giorgio, Lino e Luciano possedevano inoltre una pistola ciascuno con pochi colpi. Esistevano pure alcune bombe a mano.

I Partigiani erano nove, i nazi-fascisti cen­tottanta.

Il rifugio venne circondato, le armi appo­state. L’assedio venne meticolosamente dispo­sto anche se con poche raffiche i Partigiani si sarebbero arresi.

L’ASSEDIO NEL RIFUGIO DEL LAGO

 

I Partigiani attendevano calmi e sereni. Facio, il capo, sorrideva.

L’Ufficiale interprete avanzò tra gli alberi seguito da alcuni soldati.

A quaranta metri dal rifugio impose l’im­mediata resa sotto pena del completo annien­tamento dei nove Partigiani. I Partigiani non risposero. L’interprete parlò ancora illustrando la situazione irrimediabile: meglio arrendersi subito, così sarebbero stati graziati. Ma cosa passava nella mente di quei nove ragazzi che non rispondevano? Infine l’Ufficiale si ritirò.

Gli uomini di Facio erano ai loro posti di combattimento, calmi attendevano l’urto e la morte. Luciano per un attimo fu presso i com­pagni a salutarli, poi tornò alla sua finestrella: lentamente liberò il moschetto dalla sicura. Attese.

Facio era tranquillo come al solito. Giorgio sorrideva. Lino e Terenzo, Casula, Marini, Zuccarelli, Bedonia serenamente attendevano.

A che pensavano il calabrese, i due emiliani, i tre pontremolesi, il sardo, il friulano, il man­tovano?

..Ad un tratto brevi comandi in tedesco: gli assalitori avanzavano lentamente tra la neve altissima. Il primo colpo sfiorò il capo di Giorgio e Terenzio.

Luciano, vigilante, stecchì l’imprudente spa­ratore che si era appena esposto al suo tiro infallibile. Fu l’inizio dell’epica battaglia. Mi­tragliatrici, mitra e bombe a mano crearono un fuoco intorno al rifugio.

Tutto rovinava sotto l’infuriare dei colpi e delle esplosioni. Il fumo acre serrava la gola dei Partigiani, storditi ma presenti.

Facio si sentì sicuro dei suoi uomini. Verso le 19 il fuoco cessò. Un silenzio as­soluto e tragico tornò sulle cose.

Pochi istanti dopo il nemico si avvicinava al rifugio da tre lati e tutto fu di nuovo scosso. I Partigiani aprirono il fuoco. Urla di dolore e di rabbia. Le brevi raffiche di Facio, l’implaca­bile Thompson di Giorgio, il moschetto di Lino e degli altri producevano vuoti e sgomento tra le file degli assalitori.

A Casula si inceppa l’arma, attacca con bombe a mano. Pietro da Bedonia ha messo fuori combattimento un solo soldato, « Ma va là Pietro, c’è Luciano che fa per te! » gli gri­darono gli altri. Un soldato che si avvicinava cautamente al rifugio riteneva di non essere scorto; è sotto il tiro di Luciano che mira alla fronte, ma poi abbassa l’arma. Pensa che an­che quello là ha una madre che lo attende; l’al­tro spara una raffica che sfiora la testa di Luciano, che, generoso come sempre, mira ad una spalla dove lo ferisce. Il fuoco continua ancora nutrito fino alle nove meno venti; poi il nemico si ritira.

I nove sono tutti più o meno feriti e si guar­dano stupiti per tanta fortuna. Mangiano qual­cosa.

Poco dopo le ventuno il nemico iniziava il terzo attacco della giornata. Fu meno intenso dei precedenti, ma il più lungo. Ogni tanto l’in­terprete intimava la resa, minacciava, inveiva, insultava. Una pallottola lo ridusse al silenzio.

Il combattimento cessava all’l dell9 marzo. « Che S. Giuseppe ci protegga! »dice Luciano.

Tutti sono soddisfatti. Facio rammenta la tragica situazione. <<Ci hanno prorogato un po’ di vita >> conclude sorridendo. Tutti pensano che domani moriranno.

Addio famiglia, amici, Patria adorata. Han­no ancora un po’ da vivere: è già qualcosa.

ORE TERRIBILI

La notte è chiara e gelida. Meglio, così ogni sorpresa può essere evitata. Un ferito, nel bo­sco, si lamenta; il medico dice non possono prenderlo perché è sotto il fuoco dei Partigia­ni. Un animoso arrischia e va.

Venne l’alba e, prima del sorgere del sole il nemico riattacca. Il fuoco intenso si scatena da quattro punti tra grida altissime. I nazi-fa­scisti pensano di ridurre presto all’impotenza quei nove uomini. I Partigiani sparano poco, ma a colpo sicuro. Il nemico ripiega trasci­nandosi due morti. Il secondo attacco pur esso furioso viene respinto. Nella tregua, Casula, accende il fuoco nella stufa e vi pone sopra la pentola. Prepara una zuppa come in qualsiasi altro giorno. Intanto fumano le ultime sigarette, puliscono le armi, contano le pallottole e le bombe: triste bilancio. Facio raccomanda ancora di sparare a colpo sicuro: si prolunga l’agonia.

Il terzo attacco fu meno violento dei prece­denti, ma forse più micidiale per il nemico che si ritira. Facio chiama a raccolta tutti i Parti­giani. Si decide un’azione dimostrativa. Due uomini escono dalla porta del bosco, due da quella del Lago: fu un continuo entrare ed uscire di uomini che si scambiavano il mitra e il Thompson per dimostrare che erano in molti e bene armati. Il nemico sparava, ma nessuno era colpito. Una voce si levò dal bo­sco: «Lo sappiamo che siete solo in nove! ». I Partigiani ritornarono ai loro posti. Alle nove e trenta, a turno, mangiarono qualcosa. Si udi­va solo la voce energica di Facio e quella di Luciano che scherzava come al solito.

Tutti pensavano alla prossima fine. Il ne­mico non era tale da abbandonare l’ormai fa­cile ed allettante preda. Facio, Lino e Giorgio avevano una pistola con un colpo ciascuno; «la 6,35» di Luciano due: potevano servire per non cadere vivi nelle mani degli assalitori. Il nemico riattacca sorgendo dal bosco, dal Lago e da un fianco: fu ancora respinto con gravi perdite.

Altro assalto da tutti i lati: i Partigiani non lasciano avanzare nessuno. I nazi-fascisti si scagliano ancora decisi ormai ad espugnare il rifugio.

Possibile essere tenuti in scacco da ormai nove fantasmi?

L’assalto fu quanto mai possente, tremen­do, lungo. Bombe e pallottole piovevano nell’interno del rifugio. Quindici uomini veramente audaci, favoriti dalla neve che lambiva il primo piano, avevano tentato dì penetrare, ma caddero tutti feriti e morti dal tiro preciso de­gli assediati. Le bombe martellavano il tetto ormai sfondato perciò i cinque Partigiani che erano di sopra dovettero scendere a pian ter­reno. Fu allora che Facio prese la pentola, in cui vi era rimasta un po’ di minestra e la scagliò contro un gruppo di uomini i quali credettero fosse chissà quale ordigno infernale, se la squagliarono. I Partigiani risero.

Gli ultimi assalti, a brevi intervalli, avevano provocato serie ferite a tutti, ma specialmente a Marini, Zuccarelli e a << Bedonia >>, quasi im­possibilitati a reggersi e a combattere. Ed Alberto che non arrivava!

Facio propose una sortita, ma come fare con quei feriti e la neve? Dove andare? Giorgio si oppose e così gli altri. << Moriremo qui – dissero – intanto combattiamo >>.

Un ufficiale tedesco, sventolando un fazzo­letto bianco, avanzava seguito da un discreto numero di uomini. Facio lesse negli occhi i1 pensiero dei suoi Partigiani: << Aspettiamo ­disse – lasciamoli avvicinare ancora >>. Il te­desco chiese nuovamente l’immediata resa, al­trimenti << tra un’ora sarete tutti morti >>. Luciano disse: << Quello lì lo sveglio io >>. <<Fuo­co >> disse Facio e molti caddero.

IL RIFUGIO INVASO

L’orologio di Facio segnava le dieci quando i nazi-fascisti iniziarono l’assalto più cruento e terribile. Il nemico accecato da furore per i troppi smacchi e le perdite subite, si scagliò da tutte le parti senza più curarsi della vita.

Bombe e bombe scoppiavano nella stanza, grandinavano le pallottole. L’acre odore di pol­vere soffocava gli assediati, gli occhi lacrimava­no, dagli orecchi colava il sangue per le esplo­sioni. Vestiti a brandelli, visi irriconoscibili, carni martoriate: fantasmi, orribili eroici fan­tasmi. Ma non cedono. Si muore? Non importa. Moriremo quassù nel piccolo meraviglioso ri­fugio; la morte è lì, tende la sua mano per ghermirli, sentono già un coro di angeli che li por­ta su, sempre più in alto, nel cielo, con Dio.

Un tedesco provò a scalare !’inferriata di una finestra per raggiungere il secondo piano e attaccare i Partigiani dall’interno; Luciano lo scorse e mirò alla bomba a mano che aveva sul ventre: colpita esplose straziando orribil­mente il tedesco che cadde esanime sulla neve. Ma anche questo terribile episodio non smorzò l’ardore degli attaccanti. Venti uomini, ben pro­tetti dalle mitragliatrici appostate, aggrappati a tutte le asperità cercano di penetrare nelle stanze superiori e vi riescono pur a caro prez­zo. Così, anche nel piano superiore, attraverso l’ormai rovinato pavimento di legno sparano sui nostri che sembrano quasi invulnerabili.

« Che fai Luciano, sei pazzo? ». Così lo apo­strofava Facio. Luciano saltava da una stanza all’altra comparendo e sparendo dalle finestre per attirare su di sè i colpi del nemico e fargli consumare la maggior quantità di munizioni. Le pallottole colpiscono dove egli era un at­timo prima. Una bomba tedesca gli cadde tra i piedi. E’ la sua fine. Ma Luciano la prende e la manda a scoppiare tra un gruppo di nazi­fascisti. Questo atto rincuora i partigiani. La battaglia continua feroce e violenta. Il nemico avanza. Dopo essersi impadronito del piano su­periore, attraverso una breccia irrompe nella stanza occupata poco prima dai Partigiani.

I nazi-fascisti penetrano nel corridoio e in due piccoli ripostigli. Casula dice: «Siamo fi­niti ». «Sì, ma vedranno come sanno morire i Partigiani» dice Facio e riescono a barricarsi nell’ultima stanza disponibile, quella centrale. Quattro feriti sono messi a riparo nello stan­zino. La battaglia, da quel momento, assume proporzioni leggendarie. Sono cinque giganti che combattono. La casa trema per le esplo­sioni. Dall’esterno, attraverso n pavimento del secondo piano, dal corridoio, dalle camere, dai ripostigli, tutti ormai occupati dal nemico si era scatenata una tempesta di ferro e fuoco. I difensori erano appostati nei punti meno vul­nerabili; osservavano impavidi il finimondo che si abbatteva spietatamente su loro senza speranza di aiuto, ormai. Ma la speranza non muore. Coraggio, sempre coraggio.

Un malloppo di bombe va a cadere sotto la stufa. E’ un macello. No, ma il più grave è Li­no, svenuto e ferito alla spalla destra da una grossa scheggia della stufa. La battaglia con­tinua e malgrado ciò Lino viene amorevolmen­te curato come fosse in un comodo ospedale. Ormai quei ragazzi non temono più la morte. E così son cinque fuori combattimento. Una canna di fucile mitragliatore spunta dal corri­doio attraverso le macerie. Luciano vi è sopra, la svita dall’arma e la getta. Cose incredibili! Il soldato, allibito per tanta audacia, scappa.

LA VITTORIA

Ormai le munizioni stanno per terminare. Qualche bomba inesplosa viene recuperata e rilanciata sul nemico. I nazi-fascistì non urlano più, non si incitano, si ode solo qualche be­stemmia od esclamazioni rabbiose. Luciano arrischia a salire al piano superiore, ma non vi riesce, ci sono ancora dei soldati silenziosi. Da un pertugio scruta la strada del Lago. Scende con un sorriso: << si ritirano, non sparate più >>. E’ un’illusione. Ricominciano i colpi di mitra e di ta-pum. Ma le mitragliere tacciono. Rinasce la speranza. I feriti vengono fatti usci­re dal ricovero. D’improvviso si ode cammi­nare al piano superiore: due colpi, un grido, un tonfo e del sangue che cola.

I nove Partigiani sono tutti lì radunati; sembrano nove scheletri, irriconoscibili dal fumo e dal sangue raggrumato sul viso. Tutti sono feriti. Ma cos’è avvenuto del nemico? Perché non spara più? Che fa? che tenta? quale insidia prepara? Ormai gli uomini sono decisi ad uscire. Facio guarda l’orologio: sono le se­dici meno dieci minuti e ordina la sortita. Giorgio e Luciano vanno avanti: esplorano l’in­terno del rifugio: nessuno, anche il presunto morto del piano superiore se ne è andato. Buo­na fortuna. Contano le munizioni: dieci colpi per il mitra, tre per il Thompson, sei pallot­tole per tutti i moschetti, cinque colpi per le pistole più alcune bombe a mano abbandonate intatte dal nemico.

<<Speriamo siano buone >>, dice Giorgio. Il primo ad uscire è Facio seguito da Giorgio. In coda c’è Luciano che, visti sei soldati appostati, con le sue gambe lunghissime si lancia verso loro seguito dagli altri. «Vittoria, vittoria,., gridano, e lanciano le bombe, ultima e dispe­rata illusione per influenzare il nemico. I sei scappano, ma è proprio vero che non c’è più nessuno? Il grosso si era già ritirato: tanto quei banditi saranno già morti.

La sortita ha l’effetto voluto. Luciano inse­gue gli ultimi, ma deve desistere per le ferite doloranti e poi… dice: << lasciamoli andare >>.

I Partigiani ritornano al rifugio, lo guarda­no, lo ringraziano, lo salutano, lo benedicono.

La battaglia era durata 23 ore. Vi parteci­parono nove partigiani, centottanta nazi-fasci­sti, con ufficiali tedeschi. Il nemico ebbe se­dici morti, trentasei feriti, sparò ventimila col­pi di mitragliatrice, quindicimila di mitra e quindicimila di armi varie, trecentocinquanta bombe a mano.

I Partigiani lasciarono immediatamente il Lago Santo. Luciano, che conosceva bene la zona, guidò il gruppo verso il paese di Cirone, dove furono amorevolmente accolti, curati e rifocillati da quell’ottima gente. All’alba del 20 erano pronti per la partenza e piano piano si trascinarono fino al passo del Cirone carico di neve, sotto il quale sostarono. Verso mezzo­giorno, scorsero una lunga colonna someggiata di nemici che ritornava dal Lago Santo . I nazi­fascisti, il giorno prima, si erano ritirati per rifornirsi di viveri, munizioni e di mortai spe­rando di ritrovarvi i Partigiani…

Una « cicogna» sorvolò a lungo sulla zona, ma non scorse i nostri nove ragazzi. Scesi a Pracchiola conobbero la gloriosa morte di Alberto avvenuta a Succisa combattendo contro il S. Marco. Ecco perché Alberto non fu all’ap­puntamento. Facio e gli altri non dissero nulla e partirono immediatamente da Pracchiola, malgrado le piaghe doloranti, le ferite aperte, Facio e Luciano anche con un occhio ferito: si portarono oltre la strada della Cisa dove erano le spoglie di Alberto e gli resero omaggio.

Fin qui, molto in succinto la battaglia del Lago Santo. Il capitano della SS che coman­dava le truppe della spedizione disse di quei Partigiani: «Questi sono gli Italiani che do­vrebbero combattere con noi ».

In altre vicende morì Casula, poi cadde Fa­cio. Infine il più giovane, Luciano, maestro ele­mentare, ventenne.

ALFONSO MUGERLI

Pontremoli, 20 marzo 1946.

LAPIDE MURATA

NEL RIFUGIO DEL LAGO SANTO

 

DA QUESTO RIFUGIO NOVE PARTIGIANI

DOPO VENTI ORE DI DURA BATTAGLIA

DISPERSERO SOVERCHIANTI FORZE NEMICHE.

IL GRIDO DI VITTORIA ECHEGGIO’ PER LE CONVALLI

E INSORSE LA NUOVA ITALIA.

 

†CASTELLUCCI DANTE

†GlANELLO LUCIANO

†CASULA LUIGI

GIUFFREDI GIORGIO

VERONI LINO

MARINI GIUSEPPE

ZUCCARELLI PIETRO

MORI TERENZO

GNETTI PIETRO

18-19 MARZO 1944

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Autore: 4345Resistenza in Valtaro Val Ceno

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