Don Aurelio Giussani


A cura di don Leonardo Macchi Rettore del Collegio « S. Carlo» di Milano
RING RAZIAMENTI
Ringrazio vivamente il prof. Ettore Cosenza ed il prof. Annibale Rastelli dell’Istituto Storico della Resistenza per la Provincia di Parma; « Birra» (sig. Giuseppe Molinari), « Paolo il danese» (Arndt Lauritzen) e il prof. Sergio Passera dell’ Associazione Partigiani Cristiani di Parma, il dotto Sergio Giliotti di Bologna, don Natale Motta di Varese e la signorina Carla Cocquio di Ligurno che con tanto entusiasmo e generosità furono preziosi collaboratori nelle ricerche.
PRESENTAZIONE
A pochi mesi dalla morte di don Aurelio Giussani ho ritenuto doveroso e utile mettere in luce i valori morali e patriottici di questo Sacerdote che lavorò e visse nel Collegio Arcivescovile S. Carlo di Milano.
Ho pensato che il modo migliore e più significativo di renderGli omaggio fosse quello di pubblicare un suo diario riguardante l’attività da Lui svolta come Capitano-Cappellano dei Partigiani e le vicende che l’hanno interessata.
Il diario inizia con la preghiera del « Ribelle per Amore» composta nel Carcere milanese di S. Vittore per la Pasqua del 1944 da Teresio Olivelli e progressivamente narra il susseguirsi vertiginoso e sofferto di un arco di tempo che va dal settembre 1943 al maggio 1945.
Nella sobria narrazione talvolta affiorano momenti di commozione e di poesia che delineano la generosa sensibilità di « Padre Carlo da Milano ».
In esso sono pure contenute numerose citazioni di persone, il più delle volte ricordate col solo nome di battaglia e molte località che furono teatro di quella sanguinosa guerriglia. Per rendere più agevole la lettura e dare una più ampia visione dei particolari, ho ritenuto opportuno eseguire una minuziosa ricerca chiarificatrice e corredare l’opera di annotazioni anche se talvolta per qualche persona, paese o fatto non sono stato in grado di essere sufficientemente esauriente a causa della impossibilità di rintracciare fonti sicure.
Nello svolgere questa attività di ricerca mi sono più volte trovato a contatto con persone che vissero insieme con don Giussani quei tragici momenti e nella ricerca di conferme o chiarimenti a proposito di tal uni fatti ho riscontrato qualche dissonanza (forse anche per l’ influsso di impressioni soggettive).
Il volume è stato volutamente arricchito da un’ampia illustrazione fotografica per introdurre visivamente il lettore.
. Mi auguro che i valori della Fede e della Libertà ricercati e difesi da don Aurelio Giussani anche con la sofferenza personale, ispirino in tutti, ma soprattutto nei più giovani, identico anelito di ricerca e di amore per quanto veramente ha valore.
DON LEONARDO MACCHI
PREGHIERA DEL RIBELLE
SIGNORE FACCI LIBERI
Signore che fra gli uomini drizzasti la tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello Spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che, in noi e prima di noi, ha calpestato Te, fonte di libere vite, dà la forza della ribellione.
Dio che sei verità e libertà, facci liberi e intensi; alita nel nostro proposito,
tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura.
Noi Ti preghiamo, o Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso, nell’ora
delle tenebre ci sostenti la tua vittoria; sii nella indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza. Quanto più si addensa ed incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti. Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fà che il nostro sangue si unisca al tuo innocente e a quello dei
morti a crescere al mondo giustizia e carità.
Tu che dicesti « lo sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tensione degli affetti; veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi
Ti preghiamo, sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta
la preghiera di noi
Don Aurelio Giussani: «Padre Carlo da Milano»
CAPITOLO I
NASCE L’OSCAR
È il tardo pomeriggio del 12 settembre 1943; sono chiuso nella mia piccola cameretta del Collegio San Carlo (1) alle prese con Aristofane per l’esame di greco all’Università Cattolica.
Squilla il telefono: «Pronto, chi è? ». « Don Ghetti (2), scendi subito nella mia stanza, ho bisogno di parlarti ».
Qui trovo l’amico Don Bigatti (3), che ci prega di aiutarlo a sistemare alcuni prigionieri di guerra, perché non li può più tenere nascosti. Gli ordini dei tedeschi, che ormai comandano a Milano, sono severi e perentori, e le spie si fanno sempre più numerose con il risorgente fascismo della Repubblica di Salò; a chi è colto a nascondere ed aiutare i ricercati, si minaccia la prigione e la deportazione in Germania.
Nella zona di Crescenzago, tra le cascine sparse nei campi della prima periferia, richiamati dalla voce che un Sacerdote aiuta i dispersi ed i ricercati, si sono nascoste parecchie decine di soldati delle locali antiaeree con prigionieri inglesi e greci che lavoravano alla Spai. Il fittavolo Barbante ed un gruppo di giovani dell’ Azione Cattolica sono finora riusciti ad aiutarli ed occultarli. La loro posizione è diventata insostenibile; bisogna smistarli altrove e farli espatriare.
Sono contraddetto dalle proposte dei due amici: è una cosa troppo lontana dalle mie presenti preoccupazioni scolastiche; non sò cosa rispondere, anzi propendo per il rifiuto. Ma le loro insistenze mi piegano e mi unisco a loro in questa opera di carità.
Pensiamo di tentare un espatrio sul confine di Varese. A Varese la Provvidenza ci aiuta. Qui un altro Sacerdote, don Natale Motta (4) è già alle prese con gli espatri e ci è di valido aiuto. In due giorni l’espatrio di una trentina di persone viene felicemente effettuato. Torniamo a casa felici credendo di aver finito; ma è solo l’inizio.
Circostanze inspiegabili, legami sorti così per caso, soprattutto l’impossibilità di resistere a tante miserie e dolori, che gridano disperatamente aiuto e l’esempio di un gruppo di giovani coraggiosi, che sanno arrischiare la vita per l’amore del prossimo, mi lega ad una vita e ad un’attività che cambierà per due anni il mio modo di vivere.
Don Bigatti è stretto da nuove necessità a cui non sà dire di no il suo cuore
grande di apostolo, e ritorna all’assalto.
Si ripete una nuova spedizione, poi un’altra ancora. Crescenzago sembra una inesauribile fonte di raccolta di miserie: qui da tutta la provincia accorrono disperati i più neri casi di abbandono e di persecuzioni.
Nel frattempo don Ghetti ed io siamo destinati dal Rettore a Varese per aprirvi una sezione della Scuola del Collegio San Carlo (5); questa circostanza ci lega maggiormente a questa opera di carità.
Siamo in parecchi e ci troviamo, quasi senza accorgerci, ad aver costituito una vera organizzazione di soccorso, che allarga sempre più le sue forme di assistenza e si perfeziona nei suoi mezzi.
Viene chiamato OSCAR (6) – Organizzazione Soccorsi Cattolici Antifascisti Ricercati.
Ebrei, renitenti, prigionieri inglesi, americani, russi, serbi, greci e di colore, sono aiutati a varcare con documenti di identità falsi la rete del confine.
Il bilancio è quanto mai eloquente: circa 2000 espatriati clandestinamente; 500 avvisati in tempo per la fuga; 3000 carte di identità, documenti religiosi, militari, politici, tedeschi, ecc…; circa lO milioni spesi per aiuti a patrioti ed espatrianti.
Ma l’attività dell’OSCAR non è possibile esprimerla tutta in cifre. Non è possibile esprimere con numeri l’aiuto morale che i Sacerdoti, che dell’OSCAR sono i pionieri e gli animatori, sanno dare a chi parte in un volontario esilio con dinnanzi a sé l’incognita che rappresenta varcare la rete sotto gli occhi e i mitra delle pattuglie tedesche ed italiane.
Per noi l’OSCAR vuole essere anche una delle forze di reazione al disorientamento ed all’annichili mento in cui è caduto tutto il Paese.
Solo dopo un mese dalla sua nascita, l’OSCAR è un nome apparentemente innocuo e senza sospetto come moltissimi altri, ma che clandestinamente corre per tutta la Lombardia fino a Genova ed il Centro Italia, come un’ancora di salvezza per chi è disperato.
(I) Il Collegio S. Carlo è una istituzione della Diocesi di Milano, retto da Sacerdoti appositamente destinati dall’Arcivescovo. La sua attività iniziò con l’anno scolastico 18691870. Tra i suoi alunni più illustri annovera lo studente Achille Ratti divenuto poi Papa Pio XI. Don Aurelio Giussani vi giunse nel 1939 in qualità di Professore di Lettere. Dopo la parentesi bellica compresa fra il settembre 1943 ed il maggio 1945 quando militò come Capitano – Cappellano dei Partigiani, continuò ad insegnare fino al settembre 1963. Colpito da embolia cerebrale visse la sua lunga infermità presso il suo amato Collegio fino a pochi mesi dalla morte avvenuta il 5 settembre 1977.
(2) Mons. Andrea Ghetti, Insegnante di Storia e Filosofia presso il Collegio S. Carlo, aveva seguito con don Aurelio Giussani gli alunni sfollati. Attualmente è prevosto della Chiesa di S. Maria del Suffragio a Milano.
(3) Don Enrico Bigatti, allora Coadiutore a Crescenzago, fu compagno di don Natale Motta in IV ginnasio. Appartenente all’OSCAR di Milano, accompagnava a Varese coloro che per motivi vari dovevano passare il confine. Fu successivamente Cappellano della Chiesa di S. Maria al Castello in Milano fino alla sua morte.
(4) Don Natale Motta iniziò la sua attività partigiana l’ 8 settembre 1943 quando in seguito alle reazioni provocate dall’armistizio, l’esercito italiano si disperse. I militari presenti nella caserma che fiancheggiava la sua abitazione evasero in massa. Coloro che abitavano nelle vicinanze trovarono rifugio presso la famiglia o i parenti, ma chi era arrivato dal Sud e non poteva rientrare chiese aiuto al buon Sacerdote. Quella fatidica sera don Natale ne ospitò circa una quarantina nei solai della sua abitazione, poi appena gli fu possibile li aiutò nella fuga verso la Svizzera.
(5) In questo periodo di sfollamenti il Collegio aveva aperto una Sede in Varese presso il Pensionato Scolastico Ruffinioni in via Dandolo, nelle vicinanze della Chiesa della Madonnina in Prato. Gli alunni però frequentavano le lezioni presso l’attuale Oratorio Maschile in via S. Francesco d’Assisi, nelle aule di Catechismo.
(6) L’OSCAR era un’organizzazione sorta in sostituzione dell’Organizzazione clandestina dello Scautismo Cattolico detta « Opera Scautistica Cattolica Aiuto Ricercati ». Era composta da Sacerdoti, laici, giovani provenienti dall’Azione Cattolica e universitari della FUCI. Suo compito era di aiutare ebrei, ex-prigionieri di guerra, militari stranieri, ecc., ad evadere nella vicina Svizzera.
CAPITOLO II
VITA DIFFICILE PER GLI ESPATRII CLANDESTINI
Dal settembre al dicembre 1943, Crescenzago ed il Collegio San Carlo sono i centri di raccolta, a cui arrivano le più lontane e strane invocazioni di soccorso, portate da numerose anime generose.
Con don Bigatti raccolgo tutte queste domande dolorose e con l’aiuto di un gruppo sempre più numeroso di giovani coraggiosi smistiamo questi miserabili nei più svariati nascondigli, prepariamo loro i documenti falsi più adatti e li portiamo verso il confine.
Ma a Varese, nella casa di don Motta, in piazza Canonica 7, è il centro più sicuro e prezioso di smistamento. Qui è l’ultima tappa verso il confine e la Svizzera, dove è la salvezza.
Da qui si dirama una fitta rete di informazioni, di vie di trasporto sottogli occhi e quasi la protezione della Muti.
La Canonica della Prepositura di Varese è un luogo antico e tranquillo. Si apre su una piccola piazzetta chiara e silenziosa, sui cui ciottoli rotondi, i passi risuonano echeggiando tra il monumentale campanile di S. Vittore e le mura di edifici religiosi. Vi si entra per una corte stretta, sorvegliata da una immagine sacra entro una cappellina, in mezzo vi è un piccolo pozzoe a destra c’è la casa con il n. 7. La casa è appoggiata ad un alto fabbricato che la domina. Era una volta l’orfanotrofio femminile, ma al tempo della guerra è stato trasformato in caserma, ove ora stà la Muti.
Le guardie fasciste entrano per un cortile esterno, ma le finestre delle loro stanze, che guardano sulla piazzetta, sono proprio sopra la casa di don Motta e i muri divisori sono proprio quelli delle sue stanze.
Quante volte sorridenti abbiamo salutato i militi alle finestre, oppure li abbiamo redarguiti, quando ci davano fastidio con le loro baldorie, parolacce o bestemmie. Ed essi non riuscirono mai a sospettare cosa si facesse sottoi loro occhi, quali persone passassero o dormissero per parecchi giorni con la testa appoggiata alla stessa parete ove dall’altra parte essi stessi russavano. In un primo tempo con qualcuno degli amici dell’organizzazione prelevo io stesso da Milano i ricercati e travestito nelle forme più varie, secondo le circostanze, li accompagno al confine ed oltre la rete.
I territori di Rodero, Saltrio, Clivio, mi vedono spesso strisciare nel fango dei fossi e tra i rovi delle siepi, in testa alle file degli espatriandi, con sulle spalle pesanti bagagli, o bambini, oppure trascinando vecchi, per sfuggire alla vista delle pattuglie. E quando invece capita l’incontro imprevisto e temuto, eccoci fermi a lungo con il respiro sospeso, come ombre immobili, mentre la ronda ci sfiora, le pile ci scrutano, suona l’allarme e fischia la secca sventagliata del mitra.
Con dicembre non riusciamo più a farcela da soli, ed allora organizziamo guide e mediatori, che ci aiutano perché si possa passare il confine contemporaneamente in più posti. Le richieste sono troppo numerose e i passaggi diventano così difficili, che bisogna allargare il territorio di confine per l’espatrio e tenere i collegamenti per conoscere il momento più opportuno e meno pericoloso per effettuarlo. Noi, che siamo a Varese, troviamo nuove vie sul Luinese, sul Lago di Como, sopra il Bisbino ed il Monte Generoso da Carate Lario. Don Bigatti organizza una nuova via sul Bergamasco ed il confine di Tirano. Don Barbareschi (1) che si è unito a noi in questa opera, effettua passaggi sulla frontiera di Sondrio; i massi giganteschi dello Spluga e del Disgrazia lo vedono spingere faticosamente innanzi a sé come una chioccia i suoi pulcini, i poveri perseguitati verso la salvezza.
Accompagna queste evasioni un’organizzazione non meno impegnativa e pericolosa per la fabbricazione di documenti falsi di ogni specie. Il Collegio San Carlo è il centro di fabbricazione. Ho quasi una officina per timbri di numerose città (Milano, Napoli, Trieste, Putignano, Seveso, Torino, ecc…) con carte filigranate ed intestate alle più diverse e delicate opere: questura, curia, rabbino, distretto.. .
Per questo c’è una fitta rete di fornitori, dai timbrifici alle stamperie, a coloro che ci portano i facsimili originali per la perfetta riproduzione. Il lavoro è complesso e richiede molti soldi. Spesso mancano i mezzi e si fanno debiti contrattando con i fornitori e le guide, che sanno anche essere esose: quando non se ne può più si attende l’aiuto della Provvidenza che di solito non ci manca mai. Gli stessi espatriandi alcune volte sono diffidenti, non capiscono i nostri sacrifici e non vogliono dare ciò che hanno per le spese. Non mi inasprisco per questo, li so comprendere. Prima di arrivare a noi, spesse volte, sono incappati in autentici imbroglioni e predoni; hanno dovuto affrontare tanti pericoli, umiliazioni e delusioni ed ora sono naturalmente diffidenti di tutti e di tutto. Sono poveri esseri umani spogliati, impauriti, depredati, con solo poche cose care a cui si aggrappano come disperati; sono ruderi umani inquieti, malati, sofferenti, a cui la mente agitata non connette più con la lucidità e la calma dovuta. Mi piange il cuore a chiedere loro gli ultimi ricordi d’oro, le ultime banconote, gli ultimi oggetti che ricordano loro tutta una vita. Mi sembra di essere spietato verso di essi, nonostante dia a loro tutto il rischio della mia vita. E non basta questo. Bisogna procedere sempre cauti, perché il contatto con ogni nuovo elemento può rappresentare un pericolo o una trappola. Tutte le volte che si forza la rete e che si muove la complessa e pericolosa macchina per il passaggio è un ripetersi della probabilità di arresti, di sevizie, di fucilazione, perché c’è sempre la possibilità che la spedizione vada male, che gli espatriandi catturati o riconsegnati dagli stessi Svizzeri parlino, oppure che le stesse guide tradiscano o facciano il doppio gioco, dopo aver intascato i soldi.
Tutte le volte che ho qualche sospetto o qualche dubbio, accompagno ancora io stesso le spedizioni, che si effettuano sul confine di Varese e non sono di ritorno che al mattino per la scuola, dopo notti insonni o dopo aver per poco riposato per terra, o sulla paglia o fieno nei più impensabili nascondigli. Voglio assicurarmi che tutto proceda bene, che tutti passino il confine oltre la rete e siano ricevuti dagli Svizzeri e così rimanere senza sospetti allarmanti.
La maggior parte delle guide ci sono fedeli, ma sono capitati anche casi di tradimenti. Padre Genesio (2) per esempio, si accorse solo dopo parecchi passaggi, che le sue guide sul confine comasco lo tradivano, ricevendo i soldi da lui e poi dai fascisti a cui consegnavano gli esuli che finivano a San Vittore.
Quando riuscì a saperlo fu per lui un colpo così grave che non volle più continuare ed i suoi ricercati furono da allora instradati verso la nostra orga1izzazione.
Altre volte gli stessi Svizzeri, diventati sempre più rigidi nell’accettare chi clandestinamente varca la rete, senza alcun senso di compassione rimandano indietro o peggio consegnano in mano delle guardie tedesche o italiane i poveri disgraziati.
Ciò impone a noi un continuo controllo delle disposizioni svizzere per i documenti necessari per un sicuro asilo ed uno studio particolareggiato su ogni caso per dotarlo dei documenti più adatti. Per questo teniamo informatori anche oltre il confine. In Italia alcuni collaboratori appartenenti alle questure ed all’ufficio investigativo della Muti e della polizia tedesca, con a capo il dottor De Luca (3), ci indicano il modo più sicuro per fare dei documenti falsi assolutamente inidentificabili, facendosi provetti falsari ed abili poliziotti. Perciò ben difficilmente o quasi mai i nostri documenti hanno destato sospetti.
È questa una dura vita, in cui si arrischia sempre, si è sempre con il cuore in gola e si gioca con la polizia fino alla rocambole: è una vita che ha episodi da romanzo pieno di emozioni.
È il romanzo della storia degli espatrii difficili.
Tante volte, pur dopo difficoltà che sembravano, in certi momenti, insuperabili, questi espatrii hanno avuto un esito felice; altre volte invece si sono tristemente conclusi con morti, imprigionamenti, deportazioni, delazioni, volontari esilii.
Don Bigatti il 14 gennaio è imprigionato a San Vittore e vi deve rimanere un mese prima di essere liberato dopo tanti interrogatori risultati provvidenzialmente inutili e nulli.
Nello stesso mese cinque guardie di confine, che collaboravano con noi, vengono arrestate ed imprigionate; riusciamo più tardi a farle trasferire senza gravi conseguenze. Parecchie guide vengono inoltre diffidate e devono lasciare la loro casa. Nel periodo di febbraio-aprile l’espatrio diventa particolarmente difficile per la sorveglianza italiana più stretta e per la rigidità svizzera, che rimanda e riconsegna più frequentemente i poveri esuli.
In certi momenti ci sembra quasi di impazzire e di non farcela più, pressati da continui contrattempi, da parecchie spedizioni mal riuscite e da un numero sempre più grande di ricercati, che i nostri rifugi di attesa non riescono più a contenere e a trattenere.
La Provvidenza in maggio ci viene in aiuto con facili passaggi aperti nel luinese. Qui la banda partigiana del cap. Lazzarini (4) che combatte in prossimità del confine, ci alleggerisce con riusciti espatrii di parecchie decine di persone alla volta: passa persino un gruppo di un centinaio.
Con l’estate infine tutti o quasi tutti, paghiamo un doloroso tributo alla nostra temerarietà. Con il mese di giugno io sono alla macchia e don Ghetti deve ritirarsi più cauto nell’ombra, a luglio anche don Motta deve lasciare Varese. A settembre don Barbareschi sarà imprigionato.
È incominciato anche per l’OscAR il periodo di prova con arresti e volontari esilii.
Costretto, dunque, da denunce a lasciare il collegio San Carlo, trovo per un momento un rifugio sicuro nel convento di clausura delle Domenicane di Verderio (5). Vi rimango quindici giorni; ed in questa volontaria prigione, che non so sopportare, dopo i primi desiderati giorni di riposo, sempre più inquieto passo il tempo tra la preghiera e le letture, ma soprattutto trascorro lunghe ed interminabili ore in cui lascio correre la fantasia a rivivere le cronache degli espatrii clandestini.
Alcuni sono stati così drammatici, cari e commoventi che mi sarà sempre piacevole immergermi in essi e riviverli come ora nel silenzio del Convento.
(I) Don Giovanni Barbareschi, ora direttore della Casa Alpina di Motta (Campodolcino).
(2) Padre Genesio era un Cappuccino residente a Milano in viale Piave e si occupava anch’egli di espatrii clandestini. Più volte incappò in persone disoneste che facevano il doppio gioco e pur facendosi pagare per porre in salvo chi ne abbisognava, poi li tradiva. Egli è morto il 6 agosto 1977 nel Convento dei Cappuccini di Bergamo.
(3) Il dotto De Luca era giunto a Varese nella primavera del 1944 a reggere l’Ufficio Politico della Questura. Il suo viso alquanto truce intimoriva non poco, ma il suo animo era buono e spesse volte salvò non poche persone.
(4) Il capitano Giacinto Domenico Lazzarini nacque a Milano. Dopo molte peripezie, verso la fine del 1943 si stabilì sopra Luino, dove si prodigò per i passaggi oltre frontiera. Ebbe parecchi scontri a fuoco e dopo il combattimento del 7 ottobre 1944 la sua formazione militare rimase quasi totalmente distrutta. Rifugiatosi egli pure prima in Svizzera e poi in Francia, partecipò alla presa di Strasburgo e di Colmar. Riparacadutato nel febbraio del 1945 sulla Grigna, organizzò a Lecco un centro di controspionaggio.
(5) Nulla si sa di preciso circa l’esistenza di questo Convento. Anche agli attuali parroci di Verderio Superiore e Inferiore non risulta esservi stato in paese convento alcuno.
CAPITOLO III
CRONACHE DEGLI ESPATRII CLANDESTINI
Gabriele (1), il piccolo ebreo destinato a Buchenwald
Questa storia si sviluppa attorno ad un bambino ebreo di quattro anni (2).
Verso la prima settimana di dicembre del 1943 il signor Angelo Balcone (3), sposato ad una ebrea con un figlio, viene avvertito di scappare. Da S. Ambrogio di Varese va a Luino. Qui non conosce nessuno, sa solo vagamente che si può trattare con delle guide e passare la frontiera. Il sig. Balcone ha fretta perché sa che la cattura della moglie, austriaca ed ebrea, vuole praticamente dire la morte della mamma del suo Gabriele. Qui fidando nella sorte entra in un albergo e chiede di parlare con il proprietario. «Debbo espatriare, mi aiuti. Pagherò ». « Dove vuol andare? Perché? » gli risponde l’albergatore rabbuiandosi. « Senta, io non voglio grane con i tedeschi. Se ne vada, se ne vada subito ». Ecco Gabriele, la mamma ed il papà fuori dell’albergo. Nevica, fa freddo, i piedi gelano nella neve sporca delle strade di Luino. Verso mezzogiorno eccoli di nuovo nella sala da pranzo di un altro albergo. Si rinfrancano al calore dell’ambiente, mangiano e bevono una bottiglia di vino. Il signor Balcone vuol tentare ancora e va dall’albergatore. Costui è un uomo aperto, franco, servizievole, sorridente e in due parole è messo al corrente. « Sì posso farvi accompagnare alla frontiera – dice lui – potrete pagare alla guida ». L’indomani l’albergatore non dice nulla, fa solo un cenno d’intesa come per dire «fuori vi aspettano ». Il signor Balcone, la moglie e Gabriele escono. A poco meno di cento metri quattro SS ammanettano il babbo e mettono in mezzo la donna e il bambino. Un’ora o poco più dopo, sono tutti e tre (4) nelle carceri di Varese. Sono tempi in cui le carceri rigurgitano e Gabriele e la mamma vengono, dopo soli pochi giorni, affidati all’Opera Pia della Casa S. Giuseppe (5) per le domestiche, fondata dal Rev. Canonico don Sonzini (6).
Qui don Ghetti e io veniamo spesso a celebrare la S. Messa e le suore ci mettono al corrente della famiglia Balcone.
Per nostro interessamento la posizione del padre viene presto chiarita essendo ariano e non risultando nulla a suo carico.
La madre viene invece improvvisamente deportata senza avere il tempo di fare qualcosa per lei (7).
Il comandante Peter (8) delle SS ed il Gauleiter Lang (9) non si oppongono infatti alla scarcerazione del sig. Balcone. Peter è un bavarese gaudente e quasi convinto che anche stavolta la Germania farà « caput » ed inclina all’indulgenza, ma Lang no.
Lang, firmando l’atto di liberazione dal carcere del sig. Balcone, nota sulla pratica le parole: «Moglie ebrea Caterina Frankfurter da Linz, deportata in alta Slesia. Figli uno: Gabriele di 4 anni, ricoverato nella Casa S. Giuseppe ».
Lang si arrabbia; è un tedesco pallido, dal collo sottile, dalle labbra invisibili, gli occhi ghiaccianti. La sua collera si manifesta con un intenso rossore. Chiama il segretario e gli dice: «Il bambino Gabriele Balcone non è partito? ». « Partirà con la prossima spedizione » risponde l’altro. Da quel giorno su quel piccolo, destinato in realtà alla morte, si punta cocciutamente la nostra azione; ma occorre fare presto. Nella casa di don Motta viene ideato un piano di rapimento. È semplice: spostare il bambino dalla Casa S. Giuseppe all’Ospedale e (10), ove il Direttore dott. Tenconi (11) fingerà un intervento chirurgico e lo opererà di appendicite; sopraffare la guardia che piantona il bambino e velocemente farlo sparire. Il progetto è semplice, ma i dettagli perché tutto riesca senza spiacevoli sorprese, non sono altrettanto semplici. Occorre tagliare il cancello di servizio per aprirlo al momento opportuno, senza sospetti; occorre entrare in ospedale truccati da medici con camice bianco e non suscitare allarmi tra gli ammalati della corsia.
Il 21 dicembre avvolto nel mio ampio mantello nero, con occhiali neri, in modo che difficilmente mi si possa riconoscere, mi porto all’ospedale e con l’aiuto di suor Giulia (12) studio i minimi particolari dell’itinerario di entrata fino al letto del bambino e quello di uscita, prospettandomi anche il caso di una fuga per allarme.
Verso le ore 20 del 23 don Ghetti, Moneta (13), il dotto Vacchini (14) ed il sig. Rovera (15) partono da una via solitaria presso l’ospedale. La macchina scivola silenziosa sulla neve e si ferma al cancello appena accostato che viene aperto senza il minimo rumore. Vacchini e Rovera tolgono il cappotto e scompaiono in camice bianco nell’oscurità mentre gli altri fanno vigile guardia. S’avviano per l’entrata verso la scala, poi per il corridoio ed entrano in corsia. Il lettino del bimbo è là in fondo. Il piantone è stato allontanato per quel momento dall’abile suor Giulia. S’avvicinano: Gabriele non dorme, ha gli occhi aperti. «Zitto, zitto, – gli dice Rovera – ti portiamo dalla mamma ». Lo solleva dalla culla mentre Vacchini cerca il telefono e l’allarme per tagliarli. Ma ecco che entra un’infermiera; spaventata dalla presenza di estranei dà un grido acutissimo e Vacchini le intima: «Zitta o sparo ». L’infermiera è inebetita ed allora i due in fretta fuggono con Gabriele per il corridoio e poi giù per le scale, dove Moneta e don Ghetti con le pistole in pugno stanno di guardia. Poi via tutti sulla macchina che attende col motore acceso. È ora: per l’ospedale, passato il primo momento di sorpresa e di sbigottimento, si sente un accorrere veloce, squilla l’allarme e si accendono le luci. Ma la macchina veloce è ormai lontana su per le strade bianche ed oscure verso un sicuro nascondiglio. Don Ghetti ritira la pistola ormai inutile e gli rimane nella mano sinistra la corona del Rosario. È alla fine della dolce preghiera alla Madonna del Cielo, perché protegga un povero bambino abbandonato e perseguitato su questa terra dai cattivi.
Il giorno dopo i giornali fascisti uscirono con titoli cubitali, indignati contro i rapitori e con le più assurde ipotesi; tra l’altro il giornalista riferiva che due giorni prima uno strano individuo, travestito da prete, avvolto in un ampio mantello, era stato visto aggirarsi per l’ospedale e sicuramente doveva essere uno dell’organizzazione ebrea che aveva preparato il colpo.
I tedeschi andarono su tutte le furie, pagarono il piantone ed il maresciallo dei carabinieri responsabili della custodia. Ebbero guai anche la Superiora, il dotto Tenconi e Ciotti (16) che erano di turno per l’assistenza in quella sera, i quali dovettero subire lunghi interrogatori con minacce presso la polizia tedesca.
Tutto finì nel nulla e la pratica rimase ferma per il momento, nonostante l’impegno quasi diabolico di Lang.
Il piccolo Gabriele intanto, truccato alla meglio, venne nascosto per un mese nei dintorni di Varese, poi a Erba ed infine a Brunate presso una zia. Il bimbo dovette vivere clandestinamente perché Lang non dimenticava e lo voleva nelle mani.
Un giorno costui, con una cocciutaggine veramente tedesca, pensò di affidare le indagini ad un italiano, ad un maresciallo della polizia repubblichina, tale Orefice (17). Gli disse: «Lei ha una moglie ed un figlio: o trova il bambino rapito, o la mando in Germania con sua moglie e suo figlio ». Ce n’era abbastanza per aguzzare l’ingegno di Orefice. Era costui un buon poliziotto e trovò
Il 23, giorno del colpo, sono chiamato a Milano per altre necessità dell’OSCAR e lascio a don Ghetti e a don Motta l’esecuzione dell’impresa il bandolo o stava per trovarlo. Pensò infatti che il socio del sig. Balcone, signor Giuseppe Perego, fosse il tipo più adatto per cantare. Lo fece chiamare, lo minacciò, lo circuì, gli fece promesse. Perego in realtà sapeva tutto ed aveva visto il bambino il giorno di Natale, ma negò. Negò due, tre volte, ma ad ogni rapporto negativo del maresciallo, Lang ripeteva: «Avete tanti giorni di tempo ed ogni giorno che passa è uno di meno perché se non trovate il bambino, vi aspetta un campo di concentramento ». Orefice allora esasperato, applicò lo stesso sistema al Perego.
L’OSCAR frattanto vegliava, si capì che la cosa diventava pericolosa, perché era facile che quel buon uomo avrebbe alla fine ceduto alla pressione di una tale minaccia. Don Natale e don Ghetti andarono allora dall’Orefice e si svolse tra loro un colloquio piuttosto agitato in difesa del Perego ingiustamente minacciato. «Ma io non vivo più per colpa di questo bambino, ma io stesso sono in pericolo» ripeteva quel povero maresciallo. Poi la cosa fu messa a tacere per l’intervento di Autorità Superiori.
Nonostante la rabbia di Lang, la pratica fu così archiviata perché arrivata ad un punto morto.
(1) Gabriele risiede ora a Sidney dove ha aperto uno studio fotografico. Qualche anno fa
tornò in Italia a salutare e a ringraziare don Natale Motta.
(2) Questo fatto lo troviamo riportato anche nel volume: A. MASSAROTTO, Un Apostolo moderno. Mons. Carlo Sonzini, Tipografia Arcivescovile dell’Addolorata, Varese 1972, pp. 596 e sgg.
(3) Il sig. Angelo Balcone aveva un laboratorio a Milano in società col sig. Giuseppe Perego. Ora risiede in Australia col figlio Gabriele.
(4) Pare che con loro ci fosse anche una cognata affetta da una leggera gibbosità che, arrestata dai tedeschi, venne deportata in Germania dove morì in un campo di concentramento.
(5) La Casa S. Giuseppe era di recente istituzione come pure la Congregazione delle Suore che la reggevano, fondata da Mons. Carlo Sonzini con la precisa funzione di accogliere le giovani che per motivo di lavoro venivano a trovarsi lontane dalla famiglia ed in balia di loro stesse.
,( (6) Mons. Carlo Sonzini, Canonico della Basilica di S. Vittore, fu il confondatore del set
timanale cattolico Luce!; iniziatore della Tipografia dell’Addolorata, fondatore della Congregazione delle « Ancelle di S. Giuseppe}} e della casa omonima (cfr. nota n. 5).
(1) C’è qualche discordanza fra questa narrazione e quella della Massarotto. Pare che la madre riuscisse miracolosamente a scampare alla deportazione in Germania e venisse destinata come interprete presso un Comando tedesco in Italia ed a guerra finita si sia potuta riunire alla famiglia.
(8) Di lui non si sono rintracciate notizie precise.
(9) Don Natale Motta ebbe occasione di conoscerIo ed a guerra finita lo ospitò nella
Colonia S. Paolo che dirigeva sopra Cugliate. Avvertito che si era progettato di rapirIo (forse per fare giustizia sommaria) riuscì a farIo scomparire presso alcuni conoscenti che abitavano a Cunardo. Più tardi si interessò pure a Roma perché potesse riavere i beni confiscatigli.
(lO) Ospedale di Circolo di Varese.
(11) Dott. Ambrogio Tenconi, chirurgo.
(12) Suor Giulia era cugina di don Natale Motta ed era la capo reparto della chirurgia.
(13) Francesco Moneta, studente universitario, apparteneva alla FUCI maschile fondata a
Varese da don Natale Motta; la femminile era stata fondata da Mons. Oldani.
(14) Non è dotto Vacchini, ma ing. Uccellini, organizzatore degli Scaut milanesi.
(15) Rovera Napoleone, fratello di una novizia della Casa S. Giuseppe.
(16) Dott. Ciotti era un medico dell’Ospedale di Circolo.
(17) Il maresciallo Orefice, da parecchi anni defunto, era uomo di animo buono e comprensivo e più volte si prestò per aiutare chi era in difficoltà.
La fuga dello sfortunato lituano
È una domenica di marzo, la giornata è bella e chiara e l’alito della primavera corre nel vento. Sono di ritorno nel rosso e limpido tramonto alla città dei fiori per riprendere il giorno dopo la scuola; come spesso capita, mi accompagna qualche tipo strano per l’espatrio. Stavolta è un uomo sui trenta cinque anni, stanco, sospettoso, pescato non so da chi tra la folla dei poveri ebrei ricercati. Ha atteso il suo turno a casa mia per una quindicina di giorni. È un lituano, il sig. Marco Marcovic ( 18) (ma chi lo sa il suo vero nome?), apolide, forse ebreo, russo, dice che viene da Nizza. Narra di essere stato interprete in un albergo della riviera francese; comprende l’italiano, ma resta sempre impassibile di fronte ad estranei. Il suo volto richiama il colore scialbo di un pesce bollito. È molto bianco e le mani bianchissime gli tremano continuamente e tossisce di tanto in tanto. I miei gli si erano affezionati ed anche lui partendo aveva lasciato come ricordo il suo piccolo vocabolarietto italiano-francese, uno dei pochi sorrisi ed un accenno di commozione, che assai raramente si poteva cogliere sul suo viso sempre uguale ed impassibile.
Mentre calano le tenebre e la piazzetta della Canonica è deserta, lo porto da don Natale. Dovrebbe essere la sua ultima tappa verso la libertà oltre confine. Passano due giorni. «Coraggio, domani è la partenza; vedrai che tutto andrà bene ». Marcovic diventa più pallido in viso, se è possibile segnare un colore più bianco sulla sua faccia e non risponde che con un cenno. Ma Marcovic non è fortunato e non porta neppure fortuna a chi lo accompagna.
Il suo viaggio fino alla rete del confine di Ligurno va abbastanza bene, ma sul punto di rientrare nel bosco per scomparire alla vista, ecco che si scorge una pattuglia sulla strada di Viggiù.
Le pattuglie sulla strada di fondo valle hanno ricevuto forse un segnale dalle vedette.
È un fatto però che hanno intimato l’alt e sparato una carica nella direzione di quelle ombre che tentano di scomparire tra le felci e le siepi della macchia. La macchia non è neppure così folta; vengono fuori adesso le prime foglioline verdi ed è facilissimo sentirsi una palla nella schiena. La guida scappa ed a sua volta anche il lituano che riesce chissà come a sottrarsi all’inseguimento delle guardie fasciste.
Arriva a Varese e dopo due giorni ce lo ritroviamo verso sera che batte alla porta del n. 7 in uno stato veramente pietoso. Non conosce nessuno, non conosce le strade, eppure è riuscito, come un cane guidato dal suo istintivo fiuto, a trovare la basilica di S. Vittore ed il n. 7. Sembra un’apparizione di oltre tomba, quando, dopo aver timidamente bussato, la signorina Antonietta (19) apre la porta e se lo vede innanzi con la sua faccia bianca e sofferente, le mani graffiate e sanguinanti. Scompare nella casa e non ne esce che una settimana dopo.
Stavolta è una spedizione di diciassette persone. È uno di quei convogli di esiliati, che ora tenteranno la via di Cremenaga, sullo strapiombo del Tresa (20).
Vi sono due guide in gamba ad accompagnare la colonna, che secondo la solita tecnica, oggi si raduna sulla piazza di Malnate alla parola d’ordine appena sussurrata ed intesa più con gli occhi che con l’orecchio: 32 uguale 33. Le guide sono i fratelli Fumagalli di Valle Olona. Il passaggio non dovrebbe essere difficile per gente disposta a rischiare tutto sotto la pressione della ricerca, dell’arresto e forse di peggio. I fratelli Fumagalli hanno portato le corde per superare il salto e che con un po’ di agilità aiuteranno a raggiungere più facilmente la Svizzera.
Ma Marco Marcovic, quando apprende di doversi calare con le corde impallidisce ancor più, se fosse per lui possibile: «Non avrò mai il coraggio di lasciarmi scivolare» dice a Peppino Candiani (2l) un giovane dell’ Azione Cattolica, al quale l’abbiamo raccomandato.
Peppino è uno dei nostri del gruppo di Crescenzago, che è stato costretto ad espatriare. Ha 19 anni, una fede ardente, un’anima cristallina ed un coraggio sereno, ma deciso e che sa morire sul posto per un’opera di carità.
Ora rincuora Marcovic: «Vedrai che non sarà nulla; passeremo insieme facilmente. Si tratta di non guardare in basso per non farsi prendere dalle vertigini ». «Non possono vedrai che non saprò… ho paura », grida il lituano a Peppino. Ma il giovane ride e lo sostiene e così si arriva sul posto. Il passaggio è regolato da ordini precisi di movimenti e di precedenze. Si calano i primi con i piedi stretti in una corda e con le mani che si lasciano scivolare nell’altra e sono rapidamente già sul fondo. Per chiunque ha fatto un po’ di ginnastica e non perde la testa per la paura è una cosa semplice. È la volta di Marcovic che si appende ed inizia la discesa.
Dopo pochi metri: «Aiuto, aiuto, precipito! » grida, «Aiuto, aiuto! Candiani, Candiani! » chiama. Gli altri che non sono ancora passati, cominciano ad impallidire e a temere il peggio.
Le guide esortano il lituano a tacere; Candiani gli dice dall’alto: «Coraggio, ora vengo io, mi calo e ti sostengo ». Ma Marcovic è un uomo sfortunato e la paura gli fa perdere la testa. Il bruciore delle mani gli diventa intollerabile e lascia la presa della seconda corda. Cade a testa in giù e gli altri credono di vedere nelle tenebre rotolare il corpo nel Tresa. Ma no, impigliato per i piedi nella seconda corda rimane sospeso in giù a mezza strada. La situazione è tragica per tutti. Si ode un lontano tramestio tra le piante e qualcuno pensa che sia la pattuglia tedesca. I rimanenti impauriti si calano per l’unica corda, passano vicino al corpo capovolto di Marcovic e si buttano coraggiosamente nell’acqua e via a grandi passi per la riva svizzera verso la salvezza: è in loro la forza della disperazione. Rimane Candiani: «Vengo, vengo », grida a Marcovic, e lo sta per liberare. Un grido risuona: «Alt… Alt… », è la pattuglia tedesca. Marcovic ormai urla congestionato e folle di terrore: «Aiutami, aiutami ».
Candiani che sta sull’abisso, sembra muoversi alla pattuglia tedesca, che si avvicina con il mitra spianato; credono che voglia fuggire e sparano. Risuona una lacerante scarica e Peppino Candiani, di 19 anni, giovane dell’Azione Cattolica, vola crivellato nelle acque del Tresa. Marcovic lo vede passare terrorizzato dinnanzi al suo sguardo capovolto, ode il tonfo nelle acque e poi si sente sollevare in alto. Sono i tedeschi che lo ripescano dalla sua orribile posizione. Quando è su, sviene. Riapre gli occhi su di un carretto di contadini in viaggio per Luino.
Marco Marcovic, ammalato di polmoni, non avrebbe mai potuto penetrare in Svizzera; le severe leggi sanitarie di questo paese lo vietano. Lo sappiamo anche noi e per farlo trattenere l’abbiamo fornito di un documento falso della Segreteria del Cardo Schuster in cui il Prelato lo raccomanda a mons. Jelmini di Lugano.
Saputo dell’arresto del lituano, si può comprendere la nostra apprensione, aggravata da quel documento, che trovato dai tedeschi sarebbe stata causa di grande noia all’autorità religiosa milanese, in momenti già così difficili e delicati.
Si cerca subito di avvicinare il povero disgraziato piantonato all’ospedale di Luino e ci si riesce. Da lui sappiamo come erano avvenuti i fatti e che i suoi documenti erano stati distrutti e che i tedeschi non erano riusciti a conoscere nulla di noi.
Questa era infatti la consegna che riceveva chi aveva i nostri documenti falsi: usarli solo per essere trattenuti in Svizzera e poi distruggerli, nel caso poi di una cattura farli scomparire in qualsiasi modo anche col mangiarli prima che la polizia se ne impadronisse. Così aveva fatto il lituano.
L’ OSCAR non abbandona i suoi sfortunati. Quando Marcovic viene portato a Varese, essendo molto ammalato, viene trasportato nella infermeria dopo solo pochi giorni di prigione in cella. Da qui lo facciamo evadere e lo affidiamo al Cap. Lazzarini sul confine di Luino e finalmente può finire il suo calvario di sfortune passando facilmente in Svizzera.
La salma di Peppino Candiani dopo dieci giorni dal doloroso fatto, venne ripescata: era abbracciato ad un masso sotto le acque del Tresa.
(19) La signorina Antonietta è una delle sorelle di don Natale Motta. (20) Fiume che in alcuni tratti fa da linea di confine con la Svizzera.
(21) Peppino Candiani collaborava per l’espatrio. Giovane di profonde convinzioni religiose, quella domenica mattina assistette alla S. Messa e si comunicò. Incontrandosi poi con don Natale e la sorella Antonietta, parlando della spedizione concordata per la sera ebbe a dire: «Stassera o in Svizzera o in Paradiso ».
L’osteria di Carlottina
L’organizzazione dell’OSCAR per il trasporto oltre la rete, ha numerosi rifugi sparsi sulla linea di confine che noi forziamo. Sono baite o casolari a prima vista abbandonati, o grotte che sembrano inaccessibili, ma anche case di buoni contadini, ville di signore e canoniche. Non posso dimenticare le canoniche di Saltrio e di Clivio, la villa dei signori Crosa, che in casi veramente tragici e disperati, mi hanno ospitato e sottratto a certa cattura. Mi ricordo soprattutto dell’osteria di Carlottina. Qui sta una delle tappe più importanti e preziose per avere informazioni, per ingaggiare guide e mediatori. Di qui infatti passano tutti, anche i fascisti, i tedeschi e i contrabbandieri; qui si può sapere tutte le novità della zona italiana e svizzera
Questa osteria veramente si chiama «Ristorante S. Giorgio» (22). È una bella casa a due piani con una corte che d’estate è ombreggiata da un folto pergolato con tavoli e sedie per gli avventori.
Si trova ad un bivio tra Ligurno e la provinciale di Malnate. A trecento metri in linea d’aria c’è la rete e la Svizzera.
Carlottina è la signorina Carla Cocquio (23), sorella di don Gaetano Cocquio (24), che fu mio insegnante di scienze naturali nel Seminario di Venegono. L’ho conosciuta la prima volta, quando a Varese mi ha presentato un suo nipotino paffutello e rubicondo che doveva essere mio alunno di IIª media. Non pensavo allora di poter avere con lei ben altri incontri e di tutt’altro genere e di conoscerla coraggiosa e veramente eroica.
Quel birichino di suo nipotino, un giorno mi incontrò sulla strada per Ligurno; venivo in bicicletta appunto da sua zia, travestito da montanaro. Calcai il berretto sulla faccia, tirai via veloce, ma mi riconobbe. Dopo parecchi giorni sentii parlottare la notizia tra i miei scolari; era pericoloso farla girare. Lo feci chiamare da don Ghetti e avvisai la zia. Tutti e due con maniere non troppo ortodosse, lo persuasero che si era sbagliato e fecero rettificare la cosa presso i compagni coi quali aveva già parlato.
Nell’osteria e in Carlottina apparentemente nulla è mutato. D’estate alle tavole, come gli altri anni, siedono avventori con doganieri e soldati di confine a bere allegri il vino fresco e d’inverno al grande camino della spaziosa cucina si raccolgono gli stessi per scaldarsi, bere e piacevolmente discutere di mille cose.
Di nuovo dal settembre del 1943, ci sono i tedeschi. Sono i soldati delle SS, addetti al pattugliamento della rete. Vengono spesso a riposare al « S. Giorgio », benché non sia molto faticoso il servizio in questo tratto di confine. Qui però si sta bene, si mangia bene e si beve meglio. Nessuno dei tedeschi frequentatori immagina che Carlottina è la migliore guida e la più sicura informatrice dell’OSCAR.
Di mutato ci sono dei misteriosi uomini che ammiccano e si intendono tra loro a occhiate con un linguaggio muto, espressivo e segreto: sono contadini e boscaioli del luogo, apparentemente solo assetati di un buon bicchiere di vino o desiderosi di un buon pasto, ma che sono guide e mediatori.
Di mutato ci sono pure strani turisti venuti da Milano, da Corno, da Varese e da chi sa dove. Sono clienti taciturni e poco socievoli, che appaiono come di passaggio, ospiti di pochi giorni e che poi scompaiono e non si vedono più. Carlottina o le guide li hanno accompagnati nel bosco; poi essi si sono perduti tra i castagneti dall’altra parte della rete.
Carlottina è solo più socievole e più gentile con le guardie italiane e tedesche. Da loro sa tutti i segreti delle loro usanze di servizio, dei loro turni, anche i loro problemi di coscienza, perché a lei dopo un buon bicchiere di vino si parla volentieri: ha una faccia così aperta, simpatica, quasi ingenua ed è così discreta e giudiziosa…
Ed è per queste notizie che questa parte di confine facile, ma molto pericolosa, è la più battuta dall’OSCAR ed è per lungo tempo la via più sicura per forzare la rete.
Si vien giù da Ligurno fino a Cantello tra le morene; sono due chilometri di strada incassata e sempre esposta alla vista di chi si appiatta sui costoni tra le piante verdi d’estate o tra la neve d’inverno. A mezza via della discesa, prima di arrivare al rettilineo di Viggiù, la spalletta della strada è rotta. Vi si apre un varco, di qui si taglia e si entra nella macchia spinosa.
Un sentiero, tracciato appena, porta nel bosco tra il profumo di ogni specie di fiori selvatici e tra le più intricate siepi di rovi, in un silenzio ed una solitudine perfetta. In fondo è il confine con la rete color ruggine. Sono venti minuti di strada, ma sono i venti minuti più difficili.
I tedeschi non entrano quasi mai nella macchia, ma è trappola per chi non è pratico; le vedette all’erta sparano al minimo fruscio di fronda; sparano alla cieca, così cercando di colpire appunto alla cieca gli esuli e le loro guide nascosti nel fogliame. Tengono bene gli occhi aperti i tedeschi, perché sanno oramai che in quel punto non si contano più gli espatrii di ebrei, antifascisti, ufficiali superiori, uomini politici, patrioti, condannati, evasi dalle carceri.
Carlottina sa tutto questo, ma ella gioca con astuzia sul loro cambio di guardia, sui momenti preziosi di rilassamento, sa aggiornarsi volta per volta alle confidenze delle guardie. S’è fatta un’idea ben precisa di questi soldati tedeschi, sa chi è rigido e chi lascia correre, chi è comprabile e ha sete di soldi e chi ha scrupoli di coscienza ed è fanatico; conosce le pattuglie tedesche come il fondo delle sue tasche.
Li coglie spesso nei momenti in cui la nativa crudeltà, la durezza militare ed il settario fanatismo (sono reparti delle SS) cedono a sensi più ammorbiditi, più umani. Sono guardie che vivono sotto la sferza di ufficiali lontani ed onnipotenti, ufficiali che preferiscono la vita godereccia di Milano o di Venezia al solitario servizio della frontiera. Essi si fanno rappresentare dai loro sergenti « feldwebel ». Per questi padroni lontani la frontiera spesso è diventata un affare. Questi soldati difatti devono trovare il mezzo con taglie e ruberie di alimentare la vita godereccia dei loro superiori. E allora quale fonte più propizia e più facile e senza odii, che farsi comperare per passaggi clandestini? Carlottina sa anche questo, perché se ne lagnano con lei tra un bicchiere e l’altro: «Noi dobbiamo comperare la vita della gente e i nostri ufficiali se la godono in città con questi danari e bisogna mandarne ogni tanto se no sono guai ». Ed allora eccola al lavoro sfruttando questa sete e necessità di soldi.
Carlottina però non odia questi poveri tedeschi che hanno le miserie e le preoccupazioni di tutti gli altri, che non sono più fortunati di questi stessi poveri disgraziati che aiuta a fuggire dalla loro sorveglianza. Ha compassione di loro:
sarebbe pronta a liberarli da tutto quanto di odio e di cattiveria li circonda per rifarli uomini.
È l’aprile del 1944 e la neve sta scomparendo sui monti. C’è un tedesco che si chiama Helmutz Stammler. Una sera va da Carlottina e le dice: «Carlottina, dammi molto da bere ». «Perché vuoi molto vino? ». «Ho bisogno di ubriacarmi, come non mi sono ubriacato mai in vita mia ». E ghermisce una bottiglia di grappa. Mette cinquecento lire sul banco e si ritira nel retro; beve la grappa incolore come l’acqua e dice ancora: «Desidero bere molto, poi vado nel bosco e mi uccido ». È sincero ed i suoi occhi non hanno lacrime; una fredda fiamma di disperazione si accende in quel suo sguardo di solito freddo e scialbo. « Carlottina io mi devo uccidere; io sono tedesco e devo morire, devo vincere la morte, come dicono da noi in Germania ». E Carlottina è spaventata ed ha compassione: «Ma perché ti vuoi uccidere?» gli chiede con dolcezza e gli si siede accanto con la sua anima coraggiosa e semplice pronta ad aiutare questa creatura disgraziata e disperata come tutte le altre che aiuta a passare il confine. «Perché?.. Perché… Sono stanco di essere odiato dagli uomini ed anche dalle cose. A Friburgo in Svizzera ho dei parenti, vorrei fuggire ed ho già tentato parecchie volte. Ogni volta la rete si rifiuta di farmi passare; squillano i campanelli, accorrono i doganieri e mi hanno già sparato due volte. Anche se riuscissi a passare, l’uniforme mi tradirebbe e dovrei essere riconsegnato, oppure nella migliore delle ipotesi, finire in un campo di concentramento. Nessuno mi vuol dare un vestito borghese; voi ci odiate ed avete ragione. Così mentre io so che passano decine e centinaia di italiani e la rete per loro non è un ostacolo, io che voglio fuggire alla guerra e a Rider non riesco. Voglio uccidermi perché non resisto più ».
La testa bionda sussulta con le spalle in un singulto senza pianto. Carlottina ha pietà: «Non disperarti, è facile passare la rete; basta un po’ di prudenza ed un paio di pinze metalliche. Ti darò un vestito e ti accompagnerò io alla rete. Così raggiungerai i tuoi a Friburgo ».
Quel giorno Carlottina si assentò e fu un tedesco di quelli della guardia che passò il confine ed entrò nel regno degli uomini liberi e dei salvati all’odio e alla morte.
(22) La casa esiste tutt’ora seppure con qualche modifica, non come « Ristorante S. Giorgio », ma come bar «da Ugo ».
(23) La signorina Carla Cocquio, tuttora residente nei locali del piano superiore del ristorante, ricorda con meravigliosa lucidità una ricca gamma di fatti risalenti a quell’epoca. Con molta precisione conferma la verità di questo avvenimento seppur riconoscendo all’Autore un arricchimento di particolari.
(24) Don Gaetano Cocquio, pur consapevole del rischio che la sorella correva con questa sua attività clandestina, la approvava. Egli morì il 12 dicembre 1957.
CAPITOLO IV
LE BANDE PARTIGIANE ED ILRIBELLE
Gli organizzatori dell’OSCAR, quasi per una inevitabile fatalità e necessità, vengono in relazione con le bande partigiane che si stanno organizzando un po’ ovunque.
Ci affratella lo stesso ideale di libertà; esse sono inoltre per noi, un mezzo per mettere al sicuro chi è ricercato e i sempre più numerosi giovani renitenti alle leve obbligatorie della Repubblica di Salò, che sono impossibilitati ad espatriare.
Gli stessi partigiani che sono per la maggior parte dei ricercati e dei fuggitivi, con l’avanzare dell’inverno hanno bisogno di tanto aiuto ed è un dovere di carità cristiana pensare a loro.
Nasce così in me ed in alcuni altri dell’OSCAR la passione di combattere per la libertà e la volontà di reagire allo stato di schiavitù in cui è caduto tutto il paese. Nasce in me la passione di fare il RIBELLE PER AMORE.
A Brescia negli ultimi mesi del 1943 vengono formati da coraggiosi elementi dell’Azione Cattolica i primi gruppi di azione: i « Ribelli Tito Speri» (1). A Milano in collegamento con questi gruppi inizia la sua vita Il Ribelle (2). Siamo ai primi di gennaio del 1944.
Vengo a conoscere la direzione del giornale per mezzo dell’ing. Carlo Bianchi (3). Costui già collabora all’opera dell’OSCAR per la fabbricazione dei documenti falsi. Con lui, che ha una tipografia, avevano già iniziato alla fine di novembre anche la stampa e la diffusione di foglietti antifascisti: fuori l’equivoco, il discorso antirazzista del card. Schuster, un invito ai professori a non giurare, un programma per l’operaio cristiano, ecc…
In seno all’organizzazione dell’OSCAR si discute oramai se ci si deve interessare anche dei movimenti politici e dei gruppi armati partigiani. Alcuni desiderano continuare solo l’opera di assistenza perché la pensano più aderente allo spirito cristiano di carità con cui l’OSCAR è sorta. Ma infine in pratica, chi più chi meno viene trascinato dalle stesse circostanze in tutta la complessa attività del movimento antifascista ed antitedesco.
Già nel gennaio, durante le vacanze natalizie, con don Ghetti ed Uccellini (4) tento un avventuroso
| Io sogno un partito di senza partito, venuti da tutti gli orizzonti e senz’ altro in comune che uno sguardo puro, che si posi sugli esseri con quella attenzione da cui può nascere /’ amore. |
François Mauriac
| il ribelle LIBERTÀ’ GIUSTIZIA SOLIDARIETÀ NUMERO 20 ESCE COME E QUANDO PUÒ Brescia, 25 Dicembre 1944 |
Una testata de: «Il Ribelle»
viaggio nella zona di Intra verso lo Zeda ed il Mottarone; vogliamo metterci in relazione con le bande di Beltrami e di Moscatelli (5).
La spedizione va a vuoto perché un rastrellamento ha costretto le bande a ritirarsi. Beltrami lasciato solo con il suo battaglione, alcuni giorni prima era stato accerchiato e costretto ad una disperata difesa che era finita con la sua morte e l’annientamento della maggior parte dei suoi partigiani.
Con la primavera si ricostruisce il gruppo del Mottarone, dipendente dal C.L.N. di Busto Arsizio ed inviamo ai giovani, scarpe, soldi, provviste.
Nel Luinese il cap. Lazzarini costituisce con il nostro appoggio una banda, sarà la formazione dell’OSCAR. Di essa ci serviamo per gli espatrii dei ricercati e qui inviamo i giovani renitenti del Varesotto e dintorni.
A Milano, dove scendo regolarmente parecchie volte la settimana, nel pomeriggio dopo la scuola, stringo maggiori legami con il gruppo del Ribelle. Mi adopero in tutti i modi perché il simpatico giornale allarghi la sua cerchia e diventi l’organo di tutti i Ribelli cattolici e non solo di quelli del bresciano.
In una sera in cui la passione per la libertà ci prende e ci tende maggiormente l’anima, perché ci sentiamo quasi oppressi dalle difficoltà, dal cuore generoso di Olivelli (6) sgorga la preghiera del Ribelle. La recitiamo la stessa sera in collegio S. Carlo tutti insieme davanti al Crocifisso ed è come un giuramento.
È una preghiera di passione e di amore: sarà la preghiera di ogni cattolico combattente.
Uscendo dal collegio S. Carlo per le solite scorribande porto ovunque grandi pacchi di stampa e di giornali clandestini, ma porto soprattutto e ovunque la Preghiera del Ribelle a richiamo e sveglia per l’animo del cristiano che spesso ama afflosciarsi e s’addormenta. Vado in chiesa e la lascio sulle panche, vado una scappata all’Università e la semino un po’ dappertutto fino a fare disperare i bidelli, la dò a tutti i conoscenti, la invio ai capi fascisti e con piacere a quelli della «Crociata Italica ».
Tutto sembra andare bene e che la fortuna sia sfacciatamente dalla nostra parte, mentre altre organizzazioni sono provate e disperse. Ma viene anche per noi l’ora della prova e della prima dispersione.
Il 29 aprile un medico dell’OSCAR, appena rilasciato dal carcere, non pensa di essere un mezzo indicatore in mano alla polizia. Imprudentemente telefona ai vecchi amici del Ribelle e non pensa che i telefoni sono controllati e soprattutto il suo. Con più grave imprudenza va a trovare gli amici e con la sua ingenuità si fa pescare con Bianchi, Olivelli ed altri. Nel carcere poi, dove viene riportato, si dice che deve anche aver parlato. Solo delle fibre e delle tempre straordinarie sarebbero capaci di tacere; le sevizie a cui i tedeschi, nelle celebri ville tristi, sottopongono le povere vittime, che devono parlare, sono crudeli, debilitanti, sfaldatrici della stessa persona umana che viene ridotta ad un automa senza volontà e sono dotati di tutti i ritrovati della scienza moderna al servizio della tortura. .
Mi portano la notizia a Varese, passo giorni di grande apprensione. Chi sta pedinando ora la polizia?, ci domandiamo preoccupati.
Scendo a Milano e vedo gli amici rimasti liberi. Discutiamo insieme sul da farsi mentre i più indiziati si danno subito alla macchia o vengono sistemati nei più sicuri nascondigli.
Per prima cosa si è costretti a sospendere la stampa del giornale, essendo stati incarcerati Bianchi e Rovida ( 7) che ne erano gli stampatori. Credo ormai di averla passata liscia, quando la sera del 7 maggio il mio Rettore mi avvisa personalmente che devo allontanarmi dal Collegio e cercarmi un rifugio perché, come dice la comunicazione della Curia, la polizia è sulle mie tracce.
Immediatamente ritiro ogni cosa mia dal Collegio e consegno tutto il materiale dell’OSCAR a don Barbareschi. D’ora in avanti l’OSCAR di Milano avrà il suo centro nella casa di via Eustachi n. 53 (8).
(1) «I Ribelli Tito Speri}} era uno dei gruppi di azione operanti a Brescia.
(2) Il Ribelle ebbe le sue origini a Brescia nell’ottobre 1943 presso l’Oratorio dei Padri
della Pace. Fra i suoi attivi collaboratori figuravano: don Giuseppe Tedeschi, Enzo Petrini, Laura Bianchini, Claudio Sartori ed altri. Subì alterne complesse vicende, ma il coraggio dei suoi editori e collaboratori lo resero celebre. In occasione del ventennale della Lotta di Liberazione venne integralmente ristampato a cura dell’Associazione Volontari Libertà Lombardia, dalla Tipografia Annoni di Lecco.
(3) L’ing. Carlo Bianchi collaborò alla stampa del foglio Il Ribelle. In un agguato venne arrestato con Olivelli, Petrini e Rovida. Morì nell’eccidio di Fossoli.
(4) ing. Giulio Cesare Uccellini, vedi nota n. 14 a pago 21.
(5) Vincenzo Moscatelli (<< Cina »), fu tra gli organizzatori della Resistenza in Valsesia
e divenne Commissario Politico del Raggruppamento Divisioni Garibaldi della Valsesia – Cusio – Ossola – Verbano. Dall’ottobre 1944 fu anche direttore del giornale La Stella Alpina, organo del Comando Unificato del Raggruppamento.
(6) Teresio Olivelli nacque a Bellagio sul Lago di Corno nel 1916. Fu studente e poi Rettore del Collegio Universitario Ghislieri di Pavia. Intensa fu la sua attività di Partigiano e collaborò pure attivamente alla pubblicazione e diffusione del giornale Il Ribelle, foglio clandestino delle « Fiamme Verdi ». Arrestato il 24 aprile 1944 con l’ing. Bianchi, venne imprigionato a S. Vittore ed in giugno inviato a Fossoli. Scampato all’eccidio, dopo lunghe traversie e sofferenze morì nel lager di Hersbrueck il 12 gennaio 1945. Lasciò della sua bontà, della sua fede profonda e del suo amore per il prossimo un vivo ricordo. Fu decorato di Medaglia d’Oro al V. M. alla Memoria.
(7) Franco Rovida, tipografo milanese, appartenente ad Avanguardia Cattolica, venne arrestato e deportato a Melch (Mauthausen) dove morì di sofferenze e di stenti nel febbraio del 1945.
(8) Via Eustachi 53 divenne per un certo periodo di tempo sede dell’OSCAR milanese.

CAPITOLO V
CLANDESTINO
Nel primo disorientamento non so dove andare mentre i Superiori mi spingono a scomparire. Sono in cerca di un rifugio provvisorio per fare perdere le mie tracce alla polizia e dove con calma pensare all’avvenire.
Dopo parecchio vagabondare trovo ospitalità per una quindicina di giorni nel Convento di Clausura delle Domenicane di Verderio. Mi saturo presto di questa vita chiusa tra quattro mura, un piccolo giardino, un po’ di cielo ed una solitudine di tomba.
Mi ritiro per dieci giorni di esercizi alla Visconta presso i Camilliani e qui decido che sia meglio per me affrontare la vita libera del clandestino perché non so adattarmi a quella di clausura che mi fa irrequieto e quasi impazzire. Penso che quando si è provato il gusto del rischio e del pericolo per un ideale, sia meglio andare fino in fondo anche se si può essere giudicati temerari.
Con il mese di giugno sono di nuovo a Milano, a Varese e in tutti gli altri luoghi dove l’OSCAR lavora. Ho la barba, ufficialmente per l’ambiente clericale sono un missionario, ma più spesso mi presento come un cappellano militare.
Incomincia il gioco delle false identità, dei travestimenti, dei numerosi domicilii, si gioca con la polizia a chi è più abile nel conoscere i trucchi e gli appostamenti. È il periodo più irrequieto della mia vita; gioco col pericolo ed in certi momenti prendo persino gusto a far impazzire la polizia che è sulle mie tracce e non mi prende mai, che mi vede sfuggire dalle mani quando già crede di avermi nella sua trappola.
Mi occupo di ogni genere di attività clandestina: documenti falsi, antispionaggio, stampa, espatrii, assistenza alle bande partigiane.
Con la fine di giugno mi muovo con maggior sicurezza e maggior disinvoltura. Ho già i miei rifugi a portata di mano e tutta una fitta rete di lavoro; soprattutto ho precise e sicure informazioni dai nuovi amici della polizia e dei carabinieri che collaborano all’ufficio spionaggio, che mi permettono di muovermi con velocità e a colpo sicuro sventando in antecedenza gli appostamenti e i tranelli tesi dalle spie e dai poliziotti dell’investigativa.
Infatti le relazioni con il dotto De Luca diventano più strette e si viene organizzando con nuovi elementi della polizia e della questura di Varese e di Milano un gruppo di collaboratori che ci trasmettono elenchi e notizie circa i perseguitati politici che sono pedinati e che devono essere prelevati per il carcere o per la deportazione. Si inizia così l’opera di preavviso a questi ricercati perché si rendano irreperibili. Sono decine e decine le persone che riusciamo a mettere in salvo o preavvisare prima che vengano prelevati di notte, come è solita fare la polizia fascista. Nei casi più trepidi ed incresciosi mi presento io stesso con veloci spostamenti in tutto il milanese, comasco e varesotto, gli altri vengono preavvisati con un mio biglietto recapitato da giovani e da studenti che ho appunto addestrato a questo servizio.
In luglio vengo a conoscere Graioni del Comitato del Partito d’Azione, che lavora ai bollettini antispionaggio. Questi bollettini contengono le comunicazioni che la centrale di Milano, composta da elementi militari del « Sim », invia regolarmente ogni settimana ai vari comitati; in essi si danno notizie sui vari tipi sospetti e soprattutto sulle spie tedesche e fasciste che operano in tutta l’AltaItalia. Mi incarico, venuto in relazione con il comitato di Varese, di comunicare al centro le notizie sul Varesotto e di recapitare regolarmente il bollettino a Varese.
È la metà di settembre e parto da Milano per una riunione che alle 14 si terrà a Varese per i soliti contatti informativi. Stavolta ho perso il diretto per un contrattempo, prendo l’omnibus che arriva un’ora dopo, ma penso di arrivare prima della fine della riunione.
Scendo dal treno e mi avvio indifferente all’appuntamento, ma a metà strada incontro un informatore che mi fa strani segni di allarme. Lo seguo da lontano e in un luogo appartato e lontani da occhi indiscreti mi comunica in fretta che 1’« Upi »(1) ha piantonato improvvisamente la casa della riunione. Ha già arrestato Macchi (2), Ossola (3), ed altri che vi si trovavano. Bisogna girare allargo, perché le spie sono sulla tracce degli altri e si trovano appostate ovunque.
Consulto l’orario; evitando la stazione scendo a Malnate e di qui ritorno subito a Milano, cambiando la carta d’identità e un po’ l’aspetto esteriore della persona. Sul treno agenti in borghese cercano i documenti. Li mostro, essi mi guardano a lungo e mi pare che cercano qualcuno, forse della stessa combriccola degli arrestati, allora presento altri documenti religiosi più rassicuranti (sempre falsi, si capisce!); mi lasciano così in pace e tiro il fiato.
D’ora in avanti l’aria di Varese mi è irrespirabile e non mi faccio più vedere. Interrompo anche la collaborazione ai bollettini antispionaggio.
Fin dai primi di luglio il dotto Gobbio, segretario del dotto senatore Puricelli (4), che ha la villa a Lomnago di Varese, viene in relazione con l’OSCAR. Il senatore è un grande industriale dell’ex impero fascista ed ora è un esponente della TODT (5), la grande organizzazione per i lavori di guerra in tutta l’Alta Italia. Il dotto Gobbio ci presenta la possibilità di impiegare giovani lavoratori in Italia, di comunicare agli alleati notizie sui lavori di difesa della stessa linea gotica e di organizzare eventuali atti di sabotaggio.
La Germania ha bisogno urgente di mano d’opera ed attraverso la TODT italiana deporta numerosi lavoratori sul suo territorio con improvvisi e forzati reclutamenti.
Con il dotto Gobbio ed il senatore Puricelli si cerca di trattenere il maggior numero possibile di lavoratori in Italia e specialmente i casi più pietosi che ricorrono a noi. Quando ciò non è possibile, li facciamo destinare in Austria, dove ci sono già forti nuclei di italiani che lavorano sotto la direzione di tecnici italiani. Propongo anche un progetto per l’assistenza religiosa a questi lavoratori con l’invio di Cappellani. Per realizzare in una forma più precisa e completa questi progetti fissiamo appuntamenti con i comandanti tedeschi; abbiamo in programma una visita in Trentino e in Alto Adige ed anche in Austria, dove ci sono i comandi e forti nuclei di lavoratori italiani.
Sembra che il lavoro proceda bene e si sperano buoni frutti, quando l’amico viene arrestato. Anche il senatore Puricelli a stento, in una notte burrascosa, riesce a sfuggire alla Muti, che già circonda la sua villa di Lomnago; viene trasportato in un luogo sicuro dai gruppi di azione dell’OSCAR. Il parroco di Lomnago, don Beniamino (6), che faceva da punto di appoggio per gli appuntamenti con il senatore, deve allontanarsi anche lui dalla parrocchia e rendersi irreperibile.
Vengo poi a sapere che il dott. Gobbio è stato arrestato in seguito a denuncia e che è stato processato come colpevole di tradimento e di intesa con il nemico e trasportato in un campo di concentramento in Germania. Lo rivedrò solo nel 1946 e lui stesso mi narrerà le vicende tragiche della sua dolorosa odissea.
Anche a Lomnago con il mese di agosto non devo più apparire; mi conoscono troppo bene nei dintorni ove mi hanno visto sovente entrare nella villa del senatore; le spie qui si sono sparse un po’ ovunque per cogliere gli eventuali cooperatori.
Nel frattempo a Varese anche don Matta riesce a malapena a sfuggire all’arresto. Nella casa del n. 7 rimangono le sorelle che tengono informato don Natale che vive clandestino tra Erba e Canzo.
In questo periodo di fine agosto e della prima metà di settembre cerco di sostituire don Matta e di reclutare nuovi elementi per continuare l’opera dell’OSCAR che è messa a dura prova e per questo rendo più numerose le mie visite a Varese.
Don Pisoni (7) con il complesso della Tipografia del Luce! si unisce frattanto alla nostra organizzazione e sarà di grande aiuto soprattutto per la stampa dei documenti falsi.
Purtroppo a metà settembre, come già accennato sopra, devo interrompere le mie visite anche a Varese.
Frattanto a Milano, dopo il primo periodo di disorientamento gli amici superstiti del Ribelle riprendono la stampa del giornale: è capo del gruppo Claudio Sartori (8) che ha sostituito Bianchi ed Olivelli.
Gli amici che sono stati imprigionati a S. Vittore e che per mezzo di don Barbareschi erano riusciti ad avere comunicazioni con noi e con i loro familiari, vengono trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli. Ai primi di luglio accompagno a Carpi il vecchio padre di Bianchi; con l’aiuto del coraggioso parroco di Fossoli, di cui sono ospite, riesco ad avere un colloquio e a far pervenire loro del denaro. Li trovo bene e sereni. Ritorno a Milano col padre quasi contento.
Dopo quindici giorni purtroppo don Barbareschi, che si era recato a Fossoli per trovare gli amici, ci porta la triste notizia che in quei giorni per un’azione di rappresaglia tedesca erano stati fucilati 67 prigionieri tra cui Bianchi, Olivelli, Rovida e Vercesi ( 9) e poi seppelliti in una fossa comune.
Più tardi si viene invece a sapere che Olivelli è riuscito a sfuggire, non si sa come, alla fucilazione, nascondendosi nel campo, ma che in seguito, scoperto, è stato inviato a Dakau in Germania. Qui verrà ucciso nel marzo (10) del 1945 a bastonate per aver difeso un compagno prigioniero dalle brutalità di un seviziatore tedesco.
Anche per don Barbareschi la vita non è facile. Il 17 agosto, solo dopo due giorni dalla sua prima Santa Messa, viene arrestato e tradotto a S. Vittore. Liberato il 9 settembre, più cauto continua l’opera di collaborazione all’OSCAR ed al Ribelle. Con ottobre deve però abbandonare definitivamente Milano e vivere clandestino facendo la spola tra l’Italia e la Svizzera.
Col mese di settembre anche la mia vita di clandestino a Milano è diventata dura e pesante. Troppi arresti mi hanno circondato; già troppo mi hanno individuato nei vari spostamenti e travestimenti, gli informatori mi consigliano maggior prudenza.
Sento anch’io che il cerchio si stringe fatalmente come in una morsa. I Superiori preoccupati mi invitano a non farmi più vedere; preferirebbero che mi ritirassi definitivamente in un luogo sconosciuto. Penso anch’io che forse è meglio che mi ritiri tra le bande armate che conosco.
Decido di portarmi presso la banda Lazzarini (11), ma questa improvvisamente si scioglie e passa in Svizzera. Le formazioni democratiche dell’ossolano, con le quali sono in relazione, mi invitano ad entrare tra loro perché il loro cappellano don Luigi è stato arrestato. Quasi sono deciso, chiusa la via del luinese, a salire con questi quando mi avvisano che don Luigi è stato liberato e si trova ancora fra loro. Mi rimane un’altra possibilità. Le divisioni garibaldine del lecchese e di Bellano mi mandano già da tempo le loro staffette e i loro giornali. Ad essi ho già mandato parecchie volte a visitarle e per S. Messe al campo don Lazzaroni (12) che conosce bene la zona di Biandino, nei cui dintorni si trovano molti partigiani. Ora credo di potervi salire io stesso e di rimanervi. La Provvidenza mi apre però una ben diversa strada.
Verso la fine di settembre l’amico Pestarini (13) torna dal parmense dove era stato inviato dal Comando Generale per avere notizie delle formazioni partigiane di quella parte di Appennino; dall’agosto infatti si erano interrotti i collegamenti con essa. Lo vedo e me ne parla con entusiasmo; mi propone senz’altro di partire con luiper quella zona, dove deve ritornare per ordine di Cadorna (14) fra pochi giorni. Non so cosa decidere. A Milano l’aria è irrespirabile; nessuno più mi vuole tra i piedi perché sono un individuo troppo pericoloso e con la polizia alle calcagna. Mi rincresce tuttavia lasciare ed interrompere tutta l’attività che mi assorbe ed entusiasma ed abbandonare i cari amici del pericolo e del rischio.
L’amico Pestarini non perde tempo; caldeggia la mia partenza con lui alComando Generale ed un giorno mi presenta l’invito di Cadorna di partire per la zona dell’Appennino tosco-emiliano del nord-Emilia.
In Curia parlo col Vicario Generale ed ottengo i documenti per le facoltà; corro a casa, prendo il necessario e saluto i miei cari. Ritorno in Collegio il 1° ottobre per dare l’addio agli amici.
Domani si parte per l’Emilia. Addio Milano!
(1) U.P.L – Ufficio Politico Investigativo.
(2) Carlo Macchi, fratello di Mons. Pasquale segretario dell’attuale Pontefice, militò per
i Partigiani con don Franco Rimoldi e ricorda l’attività di quei giorni svolta da don Aurelio Giussani.
(3) Lo studente universitario Mario Ossola, divenuto poi medico e per molti anni Sindaco di Varese, venne arrestato ai primi di ottobre del 1944 e spedito in Germania, ma giunto nei pressi di Bolzano, con altri, riuscì a fuggire gettandosi dal treno e a tornare nel Varesotto (cfr. Episodi della lotta partigiana nel Varesotto – F.LA.P., Varese 1969,3° quaderno, pago 32).
(4) Il senatore Puricelli di Lomnago era condannato a morte. Il 17 marzo 1944 don Natale Motta, il Parroco e il barone Riccardo De Haag (<< Fausto ») andarono da lui e gli promisero aiuto per evitargli la pena di morte previo compenso di L. 5.000.000 ed il progetto della Linea Gotica che era in suo possesso. Vennero accettati i patti ed organizzata la consegna con la parola d’ordine da ripetersi per tre volte nei messaggi speciali di Radio Londra:
« Pepe Piero ». Il progetto della Linea Gotica passato nelle mani di Mino Tenaglia, raggiunse velocemente Lugano mentre l’acconto di L. 500.000 dato a don Natale servì per acquistare presso la Ditta Elios di Luino n. 300 paia di scarponi anfibi destinati ai ,Partigiani della Divisione «Alfredo Di Dio» che si trovavano sul Mottarone. La narrazione di questi fatti è dovuta alla ferrea memoria di don Natale Motta.
(5) TODT era un’organizzazione civile tedesca addetta ai trasporti di qualsiasi genere.
| (6) Don Beniamino Gandini fu parroco di Lomnago dal 18 dicembre 1935 al 29 giugno 1951. Trasferito alla parrocchia di S. Giorgio di Limito, morì il 4 gennaio 1966. |
6) Don Beniamino Gandini fu parroco di Lomnago dal 18 dicembre 1935 al 29 giugno 1951. Trasferito alla parrocchia di S. Giorgio di Limito, morì il 4 gennaio 1966.
(7) Mons. Ernesto Pisoni, avviato al giornalismo da Mons. Carlo Sonzini, nel giugno 1943 divenne direttore del Luce! poiché la figura di Mons. Sonzini tornava indesiderata alle autorità fasciste e ai tedeschi. Col nome di battaglia (<< Cristoforo ») fu prezioso collaboratore dell’OSCAR nel predisporre programmi di fughe, nello stampare lasciapassare e documenti vari falsi, tanto da acquisirne una specializzazione. Nel 1945 venne nominato vice direttore responsabile del giornale L’Italia e nel 1949 Direttore Responsabile (cfr. A. MASSAROTTO, Un Apostolo moderno. Mons. Carlo Sonzini, Tipografia Arcivescovile dell’Addolorata, Varese 1972).
(8) Claudio Sartori collaborò con alcuni superstiti del gruppo bresciano alla ripresa
della pubblicazione del foglio clandestino Il Ribelle.
(9) Avvocato Galileo Vercesi nato nel 1891. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, collaborò alla formazione di organismi militari di emanazione DC. Il 12 luglio 1944 venne fucilato a Fossoli. Di ardente fede cristiana, fu mirabile esempio a quanti lo conobbero.
(lO) Vedi nota n. 6 a pago 32.
(11) Vedi nota n. 4 a pago 16.
(12) Don Armando Lazzaroni, cappellano dei Vigili del Fuoco, fu abile nel nascondere e portare in salvo centinaia e centinaia di ebrei, di militari alleati evasi, ecc. Talmente intensa fu la sua attività in questo campo da essere costretto egli stesso a trovare rifugio in Svizzera.
(13) Maggiore Umberto Pestarini (<< Umberto ») fu comandante della II Brigata Julia, morì a Milano nel 1961.
(14) Raffaele Cadorna, nel settembre del 1943 fu tra i più attivi dirigenti del movimento clandestino. Paracadutato nell’Italia Settentrionale dopo l’arrivo degli alleati, assunse il comando del Corpo Volontari della Libertà fino al 25 aprile 1945.
CAPITOLO VI
IN VIAGGIO VERSO L’EMILIA
(2 ottobre) Saluto gli amici del Collegio S. Carlo e nel primo pomeriggio, accompagnato da don Ghetti, mi porto alla Stazione Centrale. La partenza è malinconica. Mi sento preparato alla rischiosa vita del partigiano, ma questo partire verso l’ignoto, verso luoghi lontani, tra gente sconosciuta, mi dà vera. mente da pensare: è la malinconia dell’esule.
Ormai non si può più tornare sulle proprie decisioni e con Umberto salgo sul primo treno in partenza per l’Emilia. Me ne vado un po’ disgustato per alcune incomprensioni sorte all’ultimo momento con i miei Superiori, che mi fanno sapere che non gradiscono le mie decisioni; non ne capisco il motivo.
Milano nella viva luce di un rosso tramonto di ottobre fugge ai miei occhi pensosi e tristi, mentre un groppo amaro mi stringe la gola. S’avanza già la verde campagna lodigiana e mi butto annoiato sul duro sedile di legno del povero carrozzone sconnesso di terza classe. Guardo visi ben più tristi del mio, osservo dolori e delusioni negli sguardi ben più gravi dei miei, tra quella variopinta folla di viaggiatori di fortuna che si può incontrare sui treni in questi anni di guerra. Mi si raddolcisce lentamente il cuore che si era alquanto inasprito e mi calmo in una serena fiducia nella Provvidenza di Dio e con la coscienza tranquilla di aver fatto il mio dovere. Ora le critiche e le incomprensioni dei cosiddetti uomini prudenti e posati, non sono che nubi in fuga verso la dimenticanza. Le conseguenze di questa mia decisione purtroppo si faranno sentire presto, ma allora sarò già nella bufera partigiana.
Verso le 21 il treno ormai deserto, sul quale tristi e stanchi ci dirigiamo verso l’Emilia, si ferma ad un casello fuori S. Stefano Lodigiano; non può proseguire e bisogna rassegnarsi a scendere. S’avanzano le ombre profonde della notte e non sappiamo come pernottare. È già iniziato il coprifuoco quando usciamo dal piccolo casello deserto e sperduto in aperta campagna.
Ci avventuriamo con una faticosa marcia di più di un’ora con i bagagli sulle spalle verso il paesetto lontano. Dopo aver girato a lungo per le strade mute e senza un fil di luce, fino ad indolenzire le ossa, troviamo la Canonica: il Parroco ci offre la desiderata ospitalità e ci tratta con una gentilezza inaspettata.
(3 ottobre) Il mattino celebro la S. Messa nella Chiesa Parrocchiale. Subito dopo colazione noleggiamo un carro di campagna e su questo corriamo verso il traghetto del Po.
Divertente, quasi romantico, è questo viaggio sul rustico baroccino attraverso la campagna del lungo Po piacentino, rivestita dei più molli colori autunnali, tra lunghi filari di pioppi ed umidi fontanili che fumano una leggera nebbiolina quasi mistica.
Al traghetto una barca da pescatori ci trasporta di là del Po. Bisogna ormai proseguire solo con mezzi di fortuna; al posto di blocco della città di Piacenza dobbiamo fermarci per due ore. Finalmente, e siamo fortunati, un automezzo che va a Parma ci carica. Dico siamo fortunati perché ci sono qui persone che già da due giorni aspettavano mezzi di trasporto, ammucchiati come profughi sui loro bagagli all’orlo della strada.
A Fiorenzuola si fa una breve sosta, poi ci si avventura di nuovo sulla via Emilia. Ci si avventura perché la RAF non dà requie ed è un vero flagello coi suoi mitragliamenti a bassa quota.
Siamo appena usciti da Fiorenzuola che appaiono nel cielo i caccia bombardieri inglesi. Al loro apparire l’automezzo si ferma; lo lasciamo sulla strada improvvisamente muta e deserta e con una sorprendente snellezza ci lanciamo stesi per terra nella campagna circostante. Questo si ripete parecchie volte mentre nel cielo è un vero carosello e sulla strada è un crepitare secco e sinistro di colpi di mitraglia. Cauti avanziamo sempre con lo sguardo rivolto al cielo e l’apprensione nel cuore. I mitragliamenti, che il nostro automezzo è riuscito a sfuggire, sono toccati inesorabilmente ad altri, spesse volte non lontani più di cento metri.
La strada è seminata di carcasse fumanti. Ad Alseno un camion fuma ed ha incendiato anche la casa vicina; più avanti la ferrovia è sconvolta dalle bombe; sul ponte del Taro un’autocolonna abbastanza numerosa è ferma quasi distrutta. È un ben triste viaggio!
A sera, Dio volendo, arriviamo a Parma e ritroviamo un po’ di serenità tra gli amici che ci accolgono con una gentilezza commovente. Si pernotta nel convento di S. Giovanni (1).
(4 ottobre) Parma cospirativa mi riceve con una cordialità aperta; essa d’ora in avanti sarà per me come una seconda patria. Faccio visita all’Ospedale a Padre Paolino Beltrame (2), predicatore travolgente, ex cappellano militare ed ora anima del movimento clandestino di Parma. Al suo letto è un continuo via vai di persone e di messaggi; le suore con grande semplicità e coraggio sono le più attive collaboratrici.
Nel pomeriggio con Umberto faccio visita a mons. Colli (3), vescovo di Parma. Trovo in lui un vero padre, coraggioso, comprensivo e lo lascio commosso della sua bontà e con le sue più ampie benedizioni e cordiali incoraggiamenti. La montagna ci attende. Parma è solo un punto di appoggio per le nostre relazioni con Milano ed il Comando Generale.
Gli amici parmensi ci procurano per sera una staffetta guida ed un’automobile di fortuna. Sul tramonto siamo sul luogo dell’appuntamento alla porta verso la Cisa. Qui incomincia l’ultima tappa del nostro trasferimento, la più pericolosa. Il padrone dell’automezzo, arrivato il momento della partenza, ha cambiato idea e non vuole caricarci, forse impaurito ed insospettito.
Nascono sommesse discussioni perché numerose sono le spie che possono esserci d’intorno;
si insiste, si passa anche alle velate minacce. In questo lungo e discusso contrattare, io riesco a partire con la staffetta mentre il maggiore Umberto rimane a terra.
Costui crede che io sia stato arrestato in seguito alla discussione; trascorre così con gli amici di Parma una notte agitatissima.
Questo viaggio è nato certamente sotto una cattiva stella; a Ricò il camion si ferma e non riesce a rimettersi in moto. È oscuro e non so dove pernottare. Dormo su una sedia nella cucina di una vicina casa di contadini.
(5 ottobre) Sorge finalmente l’alba; ho le ossa rotte e preferisco ritornare a Parma; qui ritrovo Umberto.
Bisogna ripartire di nuovo, si trova un altro automezzo che va verso la Cisa e si lascia definitivamente la città. Il cielo si è rabbuiato ed incomincia a piovere. Pazienza! La prendiamo rannicchiati sul camion sotto una coperta militare. Per la prima volta osservo la valle del Taro e la strada della Cisa, che mi diventeranno tanto familiari; passo indifferente davanti ai presidii tedeschi, che poi dovrò fuggire ed evitare come tane di belve feroci in agguato. Siamo vicini ad Ostia Parmense (4), ma prima di entrare nel paesino, scendiamo dall’automezzo per non dare nell’occhio e motivo di allarme al posto di blocco tedesco. Salutiamo l’autista che prosegue.
Belforte (5) ci attende in cima ad un cocuzzolo di montagna che ci sta sopra, quasi a strapiombo e che non si vede dal basso. Due forti giovani montanari ci fanno da guida e da portabagagli. Si sale, si sale; la strada sempre più ripida è una mulattiera sdrucciolevole. Sudo a rivi sotto la pioggia insistente che mi rende fradicio. Le mie gambe non abituate alla montagna, sono piene di dolori ed in certi momenti sembrano rifiutarsi di proseguire.
Tra le più fitte tenebre, dietro due ombre nere che salgono sempre mentre il corpo stanco sembra intorpidirsi, un velo di tristezza amara mi stringe il cuore. Penso alla casa lontana, risogno e rimpiango la vita, pur piena di pericoli, della mia città. Cerco di parlare o almeno di scambiare qualche parola per distrarmi.
Finalmente a tenebre completamente calate, dopo una buona ora di ripida salita, siamo a Belforte. Piove ancora, non un filo di luce trapela, solo masse più nere ci si affiancano qua e là improvvisamente: sono le povere case dei montanari. Bussiamo alla canonica, una vecchietta ci viene ad aprire. Nell’ovale della porta aperta ed illuminata, don Tito (6), il parroco dei partigiani, il padre che dona tutto ciò che ha o che può avere a questi ragazzi, sparsi un po’ ovunque su per la montagna, mi accoglie con un abbraccio affettuoso, come se mi conoscesse già da tanto tempo.
Bastano poche parole di presentazione, perché i montanari amano parlare poco, ma fare molto, soprattutto in tema di ospitalità, mi è subito simpatico e ci comprendiamo perfettamente. Frattanto Umberto, l’amico fracassone, si butta in casa borbottando e scuotendosi l’acqua di dosso esclamando sorridendo, ciò che già Maria Luigia (7) disse un giorno arrivando quassù: «Sì, sì questo Belforte: forte non dico, ma bello non è».
Subito la colazione è pronta. Ci scambiamo al caldo del camino le prime notizie, facciamo lì per lì le prime conoscenze e poi rimandiamo a domani tutto il resto. Si va a letto: a dir la verità cado dal sonno ed ho le ossa rotte.
(1) Il convento di S. Giovanni, monastero dei Benedettini, è annesso all’omonima chiesa. Vi si accede attraverso un pregevole portale del XVI secolo. Due chiostri contigui creano suggestivi scorci scenografici. Possiede inoltre una ricchissima ed interessante biblioteca.
(2) Padre Paolino Beltrame di Borgotaro, ora Frate Maria Paolino dei Trappisti di Roma, fu coordinatore con don Guido Anelli (<< don Tito ») e don Aurelio Giussani «< Padre Carlo da Milano ») delle brigate partigiane.
(3) Mons. Evasio Colli fu Arcivescovo – Vescovo di Parma per 39 anni. Ivi morì il 13 marzo 1971 all’età di 88 anni.
(4) Ostia Parmense, a lO chilometri da Borgo VaI di Taro, conserva una lapide posta sulla facciata di una cappella prospiciente la strada principale con incisi i nomi di alcuni caduti dell’eccidio avvenuto ai primi di febbraio del 1945, citati nel racconto a pag. 82.
(5) Belforte (Parma) a 12 chilometri da Borgo VaI di Taro e a 3 chilometri da Ostia Parmense, è posto su un’altura che domina la valle del Taro. La canonica fu centro di raccolta e di smistamento di tutte le attività partigiane e dei partigiani stessi.
(6) Don Guido Anelli (<< don Tito »), parroco di Belforte, fu l’animatore e l’organizzatore di questi duri momenti di vita partigiana. La sua casa era centro di raccolta, di ospitalità e di conforto a quanti stremati chiedevano ristoro ed aiuto.
(7) Maria Luigia, moglie di Napoleone I, venne nominata nel 1814 duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla col privilegio del titolo di Maestà. Nel suo lungo e fortunato regno arricchì la capitale e la provincia di opere monumentali.
CAPITOLO VII
PRIMI GIORNI DI VITA PARTIGIANA SULL’APPENNINO
(8 ottobre) Finalmente vedo questo indiavolato paese. È un cippo di roccia che si protende a picco sulla vallata del Taro, in cima vi è un castello diroccato che ha le sue leggende; in giro più sotto sono accoccolate le poche case dei montanari e la chiesetta con la canonica, giù per l’erta scoscesa sono sparsi altri gruppi di case isolate: tutto questo è Belforte.
Il cielo dopo parecchi giorni di tempo pessimo si è rischiarato e la vista è incantevole. L’aria è pura, l’acqua è fresca e deliziosa, ma tutto il paesaggio è rude ed aspro. La rocca dei partigiani mi è venuta incontro oggi con una bella giornata, mi sorride e mi sembra dire: «Qui avrai una vita semplice e dura, ma guarda quanta pace e tranquillità ti circonda, quale semplicità avvolge ogni cosa, come incantevole è la natura e la montagna, anche se ti farà sudare ad ogni passo».
Mi trovo come in una nuova vita, mi butto in essa dimenticando quasi completamente la mia lontana città e la vita di un tempo. Don Tito è più che un fratello, i montanari benché un po’ asciutti e spicci, diventano presto i più cari amici, per essi sono diventato subito dopo il primo incontro, il loro Padre Carlo da Milano e) oppure don Barbetta (2).
Se ripenso a voi, cari amici della montagna, intrepidi alpini della rifatta Julia, i vostri visi, la vostra semplicità e la familiarità piena di amore, mi commuovono ancora; mi si chiude la bocca e si ferma la penna incapace di esprimere quanto detta e fa rivivere il cuore. Trovo anche dei milanesi, simpatici ragazzi, più spigliati degli altri, ma non meno generosi. Caro Micio (3), Proton (4), Gibillin (5), dott. Mario (6), ]ech il sabotatore (7) ecc. ecc…, ci siamo subito intesi e uniti per sempre.
(9 ottobre) Incomincio la vita di brigata, parto per il comando della 2a Brigata Julia che si trova al passo S. Bernardo. Le gambe indolenzite per le prime salite, vorrebbero rifiutarsi, ma bisogna vincere e superare ben più gravi difficoltà per fare il ribelle della montagna; la fatica, i pericoli, le difficoltà che affiorano ad ogni passo, dietro ad ogni svolta di pista o di sentiero, sono come il pane quotidiano.
Dopo una marcia di un’ora e mezza fra i castani ed il verde dei prati, arriviamo al passo. Unabarba bionda ed una fluente capigliatura garibaldina mi si fa incontro con un sorriso aperto e leale e con una cavalleresca stretta di mano: è Vampa (8), la fiamma della valle del Taro, il cavaliere leggendario dei ribelli di Belforte.
Al Giarreto, in una piccola villa di campagna, si trova il comando e qui faccio le prime conoscenze tra le formazioni partigiane; Vampa fa le presentazioni, inesauribile nelle sue facete barzellette che creano una simpatica aria di famiglia. Dalla Cisa che ci sta di fronte a sole due oredi strada, arriva il rimbombo delle bombe a mano ed il secco crepitio della mitraglia che sventaglia raffiche rabbiose. Sono gli Alpini del Battaglione Poppj (9) che attaccano impazienti di un’attesa ormai troppo lunga, desiderosi di un abbondante bottino di guerra che serva a scarpare e vestire i poveri ribelli della montagna privi di tutto. Poveri ragazzi! Spesso devono tendere imboscate e spingersi fino alla casa del nemico per potersi vestire, armare ed anche mangiare.
Verso le 16 arriva Birra (10), il comandante della 2a Brig. Julia; ritorna ora dalla visita ai distaccamenti che sono stanziati di là della Cisa e nel Pontremolese. È proprio un bravo giovane, completo sotto ogni aspetto, è ufficiale degli Alpini della Divisione Julia, reduce dalla campagna di Grecia e di Russia, anche religiosamente è un giovane a posto.
Bisognerebbe ritornare perché si fa tardi, ma preferisco attendere il ritorno di quelli che sono partiti per l’imboscata, mi trema il cuore al pensiero che ci sia qualche ferito opeggio e non vorrei lasciarlo solo. Prima che si spenga il tramonto un canto si avvicina: «Sugli aspri monti ci siamo fatti lupi… » grida di gioia scoppiano da tutte le parti, tutti si lanciano fuori dalle baite verso chi ritorna felice e vittorioso. Per questa volta è andata bene: nessuna perdita nostra, parecchie quelle nemiche; gravi danni ad un convoglio militare di camion che ancora fuma sulla statale e un buon bottino. Tutti hanno qualche cosa: scarpe, giubbe, pantaloni, munizioni, nuove armi, ecc. Ci sarà festa stasera nella famiglia dall’accampamento, mentre il nemico dovrà accontentarsi di guardare rabbioso e minaccioso alla montagna dei Ribelli.
Cade la sera e ritorniamo a Belforte; una chiara luna che diffonde pace e tranquillità con la sua candida luce, ci accompagna e ci guida, mentre dolcemente conversando percorriamo la strada quasi senza accorgerci.
(10-14 ottobre) Belforte è diventata casa mia. La Canonica mi è di facile aiuto per conoscere i patrioti perché non è solo la casa del Parroco, ma è la casa di tutti, è il posto di ritrovo e di ristoro dei ribelli della 2a Brig. Julia, di tutte le staffette e corrieri di passaggio e degli stessi comandanti di tutta la zona a qualsiasi colore oformazione appartengano. Con il nemico a quaranta minuti di strada, con l’ideale della libertà che avvampa nel cuore, non c’è per oratempo di pensare a divisioni.
Tutti qui ci sentiamo uniti dal medesimo ideale da raggiungere che è la libertà e la liberazione dall’oppressione tedesca e dal brigante fascista.
Tutti i giorni visito gli accampamenti vicini. L’accampamento è una ben misera e povera cosa: una baita, una stalla e nel migliore dei casi una povera casa di montanari. Ma la bandiera che sventola fuori all’aria gli dona un bel tono di festa; i visi allegri di giovani liberi e coraggiosi gli danno una ricchezza da preferirlo ai deserti palazzi dei ricchi, anche al mio ricco e comodo collegio San Carlo che ho lasciato un giorno triste e che mi sembra ormai tanto lontano.
Qui la rinuncia è la legge della vita; la pioggia vi penetra e distilla una satura umidità, il vento poi asciuga tutto e vi gioca in mille ridde, il giaciglio è un po’ di paglia triturata, la coperta è uno straccio sfilacciato, il cuscino è il sacco di montagna. Ma si riposa bene, fra tanta fratellanza ed unione di spiriti, tra tanto coraggio e forza di sopportazione.
Ci sono anche gli addobbi a festa: sono le armi appese ai muri, sono i nastri delle mitraglie e delle automatiche che tolti ai nemici pendono dal soffitto a travi come festoni.
(15 ottobre) È domenica. Celebro la S. Messa al campo presso un distaccamento. È veramente un bel ricordo la S. Messa al campo tra i Ribelli. Sotto il cielo, davanti alla stamberga, mi sembra di essere in un luogo di missione, ma quando mi volgo indietro per dare l’augurio della Liturgia: «Il Signore sia con voi» o per comunicare la parola di Dio e vedo i miei alpini inquadrati con le armi in pugno, sull’attenti, pieni di riverenza, allora la povertà scompare ai miei occhi, l’anima si accende di amore e tutto intorno mi si trasforma alla vista come se fossi stato trasportato in un luogo incantato.
Il distaccamento Lampo (11) ha la fortuna della Prima Messa al campo.
(I) Nome di battaglia di don Aurelio Giussani.
(2) Don Barbetta perché alcune volte per mascherare la sua figura fisica faceva crescere la barba.
(3) (<< Micio »), Tullio Passoni di Milano.
(4) (<< Proton »), Giuseppe Aresi di Milano.
(5) «< Gibillin »), Giuseppe Martinoli di Gemonio (Varese).
(6) «< Mario »), non sono riuscito a rintracciare notizie più precise, ma pare fosse un medico milanese, ebreo.
(7) «( J eck il sabotatore»), Mezzatesta di La Spezia. Fu Ispettore del Comando Unico.
(8) (<< Vampa »), Giovanni Catini di Borgotaro, col suo nome di battaglia venne denominato il battaglione da lui comandato.
(9) «< Poppi »), Jasoni Giovanni, alpino comandante dell’omonimo battaglione di distaccamento. Egli aveva già combattuto in Russia con «Birra ».
(lO) «< Birra »), Giuseppe Molinari ora residente al Passo della Cisa, appartenente all’A.P.C.!. di Parma. Ricorda questi fatti con una lucidità significativa e conserva una grande ammirazione per «Padre Carlo ».
(11) «< Lampo »), Ennio Leoncini di Pontremoli, comandante del distaccamento omonimo.
CAPITOLO VIII
NELLA BUFERA DELLA LOTTA PARTIGIANA
(16-18 ottobre) I giorni passano felici e nessuna novità viene ad intralciare il consueto scorrere del tempo di un distaccamento a riposo.
Un giorno, mentre sto portandomi al S. Bernardo per la visita al distaccamento e poi di qui spingermi oltre la Cisa, un’improvvisa e dolorosa notizia mi ferma. Una imboscata nemica, tesa con l’aiuto di spie italiane, ha sorpreso il Comando Generale Unico Parmense, quasi al completo a Bosco di Corniglio (1).
Ritorno a Belforte e qui attendo notizie più precise. Mentre incapaci di dormire commentiamo l’accaduto, arrivano nuovi particolari: il comandante PabIo (2), il maggiore Renzi ed altri insieme al caro Penola (3), che solo l’altro ieri sereno ed allegro avevo visto alla Messa al campo, sono caduti nell’imboscata; gli altri che sono riusciti a fuggire sotto il tiro dei mitraglieri tedeschi, sono in viaggio verso Belforte. I canti e la consueta allegria sono scomparsi e la tristezza si legge su tutti i volti.
(19 ottobre) Arrivano i primi scampati di Bosco di Corniglio col terrore ancora segnato sul viso. È stato un grave colpo ed una dolorosa prova, ma gli animi non si piegano, si ergono più minacciosi e più decisi verso Berceto (4), la sede del comando tedesco.
(20 ottobre) La chiesetta di montagna è parata a nero, i rintocchi lenti delle campane dicono a tutta la valle la loro tristezza. È presente quasi al completo la 2a Brig. Julia ed in prima fila i superstiti del Comando Unico. Mentre celebro la solenne ufficiatura funebre per tutti i morti della montagna e soprattutto per gli ultimi, sento tutti gli animi uniti in una misteriosa comunione con il Padre di tutti, quando mi rigiro per annunciare la parola del conforto cristiano non so che commentare le consolanti sequenze della liturgia funeraria.
(21 ottobre) Nella piccola Canonica oggi arrivano tutti i comandanti delle brigate partigiane parmensi. Ci guardiamo in faccia muti al primo incontro e ci stringiamo la mano come pegno di riscossa. La casetta del Parroco con miracolosa capacità accoglie una quarantina di ospiti,
che vi trovano da mangiare e da dormire. Non ci sono orari qui: si va e si viene come in casa propria, ad ogni ora del giorno e della notte si è sempre pronti ad accogliere con un sorriso ed un gentile saluto.
Quanti sacrifici e quante veglie sono costate queste visite alla buona Gina (5) ed alla laboriosa Anna (6), sempre sorridenti e gentili.
(22-24 ottobre) A poco a poco ritorna la vita normale nella Canonica: le numerose tavolate diminuiscono, tutti ritornano al posto di vedetta o di agguato da Fidenza a Borgotaro (7) a Pontremoli (8), a Corniglio, alla VaI d’Enza.
Il nuovo Comando Unico si stabilisce per un po’ di giorni alla Pietra di Belforte. È stato eletto comandante militare l’ing. Ferrari (9) di Parma che ha il nome di battaglia Arta; personalmente è un comunista ma è onesto, idealista, incapace di far del male ad una mosca.
Commissario Politico è Poe (10), l’ardente ed intelligentissimo pro£. dotto Achille Pelizzari, dell’Università di Genova. Ha lasciato la sua città e la sua Università per venire alla montagna, dove la libertà è sacra ed una gente coraggiosa rimpasta una nuova Italia col proprio sangue.
(25 ottobre) Sono a pranzo quando mi viene recapitato, da una staffetta, un improvviso ordine di richiamo del Vescovo di Parma. La cosa mi è inspiegabile; sopra pensiero parto subito.
(26 ottobre) Scendo ad Ostia Parmense in mezzo ai tedeschi ma attendo invano per tutto il giorno un automezzo di fortuna. A sera sono ospitato in casa di amici. Il giorno dopo decido di partire in treno; da appena due giorni è stata riattivata una sola corsa notturna al giorno, ma non si sa quando si parte e quando si arriva.
Accompagnato da una sicura staffetta, abile nel doppio gioco, mi porto al casello presidiato dai tedeschi. A mezzanotte arriva finalmente il treno; è pieno zeppo di militari e di gente di Toscana ammucchiata, lacera, stanca, che scende alla pianura in cerca di pane per sé e per i propri di casa.
È un bel arrischiarsi a viaggiare su questo treno, dai ponti traballanti su tralicci di legno, malfermi, col pericolo di un agguato notturno ad ogni metro da parte dei partigiani. Si arriva senza notevoli incidenti a Fornovo (11). Qui si deve proseguire con altri mezzi. È ancora notte, piove, c’è una umidità che penetra nelle ossa e non c’è nemmeno un buco ove ripararsi perché in giro non ci sono che macerie, frutto di un bombardamento a tappeto sulla cittadina. Sul treno non ci si può fermare perché riparte subito.
Siamo un migliaio di persone ed in attesa del giorno ci sparpagliamo fra le rovine, stesi sul terreno fradicio, sotto povere coperte lacere, intorno a languidi fuochi, accesi con i rottami delle case bombardate.
È una veglia indimenticabile, in giro a fuochi tisici, sotto un’acquerugiola insistente e fastidiosa che sembra macerare le ossa, tra facce sconvolte, discorsi di odio e di disperazione, bestemmie ed imprecazioni, è tutta una miseria che grida pietà e dice con rabbia il suo dolore e la sua disperazione.
Le ore passano lente, interminabili, si alza un’alba grigia ed opaca a rischiarare una visione di rovine materiali e spirituali.
Parto subito e senza rimpianto perché non ne posso più. Se avessi avuto una macchina da presa avrei fissato con desiderio furente quello spettacolo di miserabili e di disperati per poi poterlo moltiplicare sulla carta in centinaia di copie e buttarlo sul viso di coloro che stanno bene e godono sul crollo di una patria disfatta.
Un desiderio pazzo mi sale su dall’animo: portare in mezzo a quelle figure umane stanche, affamate, disperate, i crudeli assassini sedicenti capi di una Repubblica di miserabili che umiliano e dividono la patria.
(27 ottobre) Arrivo a Parma con la visione nell’anima della patria tradita. Questo bagno di miserie mi ha fatto bene perché mi ha aiutato a superare le mie piccole preoccupazioni e disappunti. Mi presento subito al Vescovo con un animo più forte e paziente.
Le incomprensioni (12) sulla mia partenza da Milano mi avevano raggiunto fin nell’Emilia. Il Vescovo di Parma, solo dopo una quindicina di giorni da che mi ero presentato con i documenti ecclesiastici in regola, aveva ricevuto una lettera personale del Cardinale di Milano (13), in cui tra l’altro mi si richiamava in diocesi, con minaccia delle sospensioni dalle facoltà perché mi ero allontanato abusivamente. Si possono capire le preoccupazioni di mons. Colli nei miei riguardi che mi avrebbe potuto giudicare per lo meno un autentico imbroglione.
È una grande fortuna per me la presenza in Parma di Padre Paolino che conosce le mie vicende di Milano e l’onestà della mia posizione. Viene con me dal Vescovo e spiega ogni punto oscuro. In breve ogni cosa viene chiarita e riparto tranquillo e con la sua benedizione. Sono ospite in Convento di S. Giovanni. Qui vengo a conoscere il C.L.N. di Parma, che ha a capo il col. Ceschi, « Gloria» (14). In lunghe riunioni espongo le condizioni della guerra partigiana sulle montagne e ne valutiamo insieme le gravi difficoltà. L’inverno si avvicina con i suoi freddi e le maggiori difficoltà di vita: bisogna inviare aiuti se si vuol superare questa dura prova. Chi potrebbe aiutare? La borghesia ricca, legata al fascismo ed ai tedeschi, paurosa di compromettersi, offre elemosine umilianti più che aiuti. Non c’è che una via di uscita: passare il fronte, presentarsi al Governo di Roma ed Alleato, fare presente le nostre disperate condizioni ed abbandonarsi alla loro comprensione, per un invio urgente di vettovagliamenti ed equipaggiamenti per via aerea con lanci.
Mi offro per la partenza oltre la linea con un capitano dei corazzieri. Presa questa decisione voglio partire subito; ma per ben tre giorni sono costretto ad attendere un mezzo di trasporto.
Nessuno degli automezzi in partenza da Parma per la Cisa mi vuole prendere con sé. Tutti inesorabilmente vedendomi mi dicono: «Quel prete non lo voglio prendere ». Il 29 riesco finalmente a partire col capitano Abba (15). Arrivo a Berceto di sera, a piedi, perché l’autista mi abbandona sulla strada fuori paese.
La Canonica del buon Prevosto ci accoglie e ci ospita. Su queste montagne tra la tempesta di questa assurda guerra tra fratelli, la casa del prete è stata veramente la casa di tutti, soprattutto degli abbandonati, dei perseguitati, così come ha voluto Cristo.
(31 ottobre) Di buon mattino passeggio con aria indifferente, ma non troppo tranquillo, per il centro del paese rigurgitante di tedeschi, in cerca di un mezzo di trasporto. Sento l’aria infida, penso che sia meglio sgattaiolare via a piedi e inosservato. Parto con il compagno ed una guida; dobbiamo superare una marcia di quattro ore di montagna.
Al passo S. Bernardo facciamo una breve sosta, perché il mio compagno, non ancora abituato alla vita dura del partigiano, è già sciupato; visito nel frattempo il batt. Poppj. A sera entriamo nella Canonica di Belforte.
(1) Bosco di Corniglio a circa 60 chilometri da Parma, era sede del Comando Unico Operativo dei Partigiani. Il 18 ottobre 1944 in una imboscata trovarono la morte Giacomo di Crollalanza, il conte Giuseppe Picedi-Benettini, i partigiani Enzo Gandolfi, Domenico Gervasi e Settimo Manenti. Il dotto Gino Menconi, ferito prima ad un fianco da una raffica tedesca, fu poi legato ad una branda ed arso vivo.
(2) (<< PabIo »), conte Giacomo di Crollalanza, Medaglia d’Oro al V. M. alla Memoria
caduto nel combattimento di Bosco di Corniglio il 18 ottobre 1944.
(3) «< PenoIa »), conte Giuseppe Picedi Benettini, caduto anch’egli a Bosco di Corniglio.
(4) Berceto a m. 790 s.l.m., è sulla strada che fra il Taro e il Baganza porta da Parma
a Pontremoli. Vi è una bella chiesa parrocchiale romanica. Sulla facciata esterna della Casa Parrocchiale vi è una lapide coi nomi di alcuni partigiani caduti nell’imboscata dei primi di febbraio del 1945.
(5) Gina Anelli, sorella di don Guido, ora residente a Langhirano.
(6) Non è Anna, ma Domenica Anelli altra sorella di Don Guido, la quale sposatasi
alcuni anni dopo raggiunse in un secondo tempo il marito emigrato per lavoro in Venezuela e morì nel terremoto del 29 luglio 1967 col marito e la figlia. I parenti si occuparono di far
rientrare in patria le salme che ora riposano nel Cimitero di Belforte.
(7) Borgotaro venne liberata dai Partigiani della Brigata Julia il 9 aprile 1945.
(8) Pontremoli, comune importante per la sua particolare posizione sulla strada della
Cisa.
(9) (<< Arta »), ing. Giacomo Ferrari. Fu Senatore, Ministro dei Trasporti nello Governo
De Gasperi e Sindaco di Parma.
(IO) (<< Poe »), prof. Achille Pellizzari, era nato a Maglie (Lecce) il 26 novembre 1882. Resse le cattedre di letteratura italiana di Messina, Catania e Genova. Partecipò attivamente alla lotta politica del suo tempo militando anche nel giornalismo. Nel 1945 divenne Rettore dell’Università di Genova; nel 1946 fu eletto Deputato alla Costituente; morì il 24 marzo 1948.
(11) Fomovo, stazione ferroviaria sulla linea Parma – La Spezia e capolinea del tronco proveniente da Fidenza, era luogo di collegamento anche con le Divisioni Liguri.
(12) Le incomprensioni di cui si parla vanno interpretate non come un rimprovero o una condanna, quanto come diversità di lettura dei fatti e dei comportamenti che, per chi conosce il vero reciproco legame tra un Vescovo e i suoi Sacerdoti può dare origine a momenti di difficoltà.
(13) Il Cardinale e benedettino Alfredo Ildefonso Schuster nacque a Roma nel 1880. A 19 anni professò la regola -di S. Benedetto e compì gli studi filosofici e teologici nel Collegio di S. Anselmo. Fu ordinato sacerdote nel 1904. Nel 1915 come abate fu consacrato Vescovo. Ricoprì varie cariche. Creato Cardinale da Pio XI nel 1929, pochi giorni dopo divenne Arcivescovo di Milano. La sua attività pastorale fu alacre senza risparmio di tempo e di fatiche, ancora più intensa lo fu dall’ g settembre 1943 al 25 aprile 1945. Morì nel Seminario di Venegono Inferiore (Varese) nell’agosto del 1954 all’età di 74 anni.
(14) (<< Gloria »), colonnello Paolo c’%chi, designato dal CLN alla carica di Comandante Unico delle formazioni di Parma, effettivamente lo fu solo per la zona dell’Est-Cisa.
(15) (<< Abba »), Carlo Pianzola capitano dei corazzieri. Fu ufficiale di collegamento col CLN di Parma, dell’ Alta Italia e col Governo Casati. Vive tuttora a Roma.
CAPITOLO IX
CON L’INVERNO LA VITA SI FA PIÙ DURA
(1 novembre) Nella piccola Canonica, con alcuni del comando, si discute di nuovo il problema degli aiuti necessari alle formazioni e si è tutti del parere di passare il fronte.
Preferisco lasciar partire con Abba, don Tito per varie ragioni scaturite dalla discussione, ma soprattutto perché vedo troppo urgente l’assistenza religiosa alle formazioni in momenti così difficili, sono solo in tutta la zona e non so come farmi sostituire.
(2 novembre) È il giorno dei Morti: riverenti ci stringiamo intorno a Dio, Padre di tutti, nella preghiera per i trapassati. A sera nel piccolo cimitero di montagna sotto una fastidiosa pioggerella, sulle tombe parlo della vita che fugge e della gloria grande che ci attende.
(5 novembre) È giorno di festa. Al S. Bernardo, davanti alla piccola cappella che dal passo domina la valle del Manubiola, celebro la S. Messa al campo. Caro Tom (1), ti ricorderò sempre con la tua buona volontà sempre pronta a servire, la tua grande semplicità, le tue buffe raffiche minacciate con il tapum carpito ad un tedesco, la tua tipica barba rossiccia ancora in formazione. Eri sempre in disordine, rompevi ogni cosa, scarpe, calzoni, calze, ma eri sempre il primo quando c’era da combattere o da lavorare. Giovane di soli 18 anni, eri già tra i più anziani ribelli della montagna.
(6-10 novembre) Dopo la partenza di don Tito devo badare anche alla parrocchia di Belforte, non tralascio di visitare i distaccamenti sparsi sulle ripide balze con veloci e sudate corse sui sentieri e per le mulattiere.
Con l’avanzare del freddo aumentano le preoccupazioni. È una grande pena per me trovare patrioti ancora in succinti calzoncini estivi, senza calze od anche senza scarpe e completamente indifesi alle intemperie e non poter fare nulla e solo promettere. Le ultime mie riserve di vestiario e della Canonica servono a ben poco. Con il passar dei giorni le condizioni diventano sempre più difficili; spero solo nella Provvidenza. È un continuo arrivare di gente, comandanti, semplici partigiani, in cerca disperata di aiuti e di assistenza. Vengono anche le Fiamme Verdi dall’est della Cisa.
Mobilito allora tutti i civili, soprattutto le ragazze e le donne in una meravigliosa gara di fraternità, a raccogliere lana, a fare calze, guanti, camicie, fazzoletti, ecc. Si riesce almeno a rimediare alle necessità essenziali.
(11 novembre) Nel vicino accampamento « Gomel »(2) della la Brig. Julia il partigiano Luigi Marinoni muore fulminato dal suo stesso Sten. Salgo al campo posto sul Monte Pelata, celebro la S. Messa in suffragio e ne faccio la commemorazione. Domani di nascosto alcuni compagni lo seppelliranno nel cimitero del suo paese.
(12 novembre) Scendo a Baselica ( 3), dove si trova il distaccamento Vampa e celebro la S. Messa al campo.
(13 novembre) Verso le ore 11parto per Berceto. Ho deciso di parlare col comando tedesco per uno scambio di prigionieri. A sera ritorno a Belforte accompagnato dagli stessi tedeschi fino ad Ostia; ho condotto con me l’Arciprete e l’interprete Raffo per venire ad un accordo col comando partigiano e stabilire, se è possibile, una specie di tregua e così diminuire le preoccupazioni già troppo gravi.
(14 novembre) Birra della 2a Brig. Julia ha deciso di sposarsi e vuole che lo sposi io. Parto per Succiso (4) con Poe e Umberto che faranno da testimoni. Un mulo ci aiuta a superare la traversata dell’ Appennino verso il Pontremolese. Siamo una bella ed allegra compagnia; il viaggio tra i fiori bianchi e gelati che il vento ed il freddo ha ricamato tra i rami delle piante del monte Pelata e del Molinatico ha qualcosa di fantastico. A sera siamo nella casa ospitale della sposa. I tedeschi che non sono molto lontani più sotto, sanno della festa, ma questo non ci turba affatto, perché noi Ribelli sappiamo godercela, se è necessario, anche con il nemico sulla porta di casa.
(15 novembre) È giorno di allegria; le campane suonano a festa e tutta la gente del paesino è riversata sulle sue mulattiere a vedere la simpatica coppia. Non so far rivivere sulla carta la cerimonia, il fraterno banchetto, tutta la singolare coreografia partigiana. Credo che Birra ricorderà sempre il suo sposalizio con gli occhi umidi di commozione. La festa non riesce a terminare serenamente. Non siamo ancora usciti da Succiso per il ritorno, che alcune sentinelle ci avvisano che si è in stato di allarme. Il comandante, novello sposo, deve interrompere la luna di miele ed imbracciare il mitra.
Ci riuniamo tutti, ci dividiamo in gruppi e ci appostiamo armati nei punti migliori e più strategici sulla strada della puntata nemica che sale per disturbarci. Passate parecchie ore e sventato il pericolo, partiamo di nuovo e a notte inoltrata siamo a Belforte.
(17 novembre) L’inverno si fa ormai sentire. Le formazioni della nostra zona rimangono ancora sul piede di guerra, mentre sappiamo che altrove stanno smobilitando, solo perché il coraggioso don Tito è partito e si ha una grande fiducia sul buon esito della sua missione. Solo questa speranza ci sostiene, mentre le condizioni di vita si fanno più difficili e precarie.
Tutte le sere il piccolo paesino è raccolto intorno alla radio militare trasmittente e ricevente per sapere notizie ed attendere la magica parola d’ordine di don Tito. L’attività di guerra è molto diminuita; lo stesso Alexander (5) ha dato ordine alle formazioni partigiane di sospenderle per tutta la stagione invernale. Ma per noi la ragione vera è che le armi sono prive di munizioni e le poche rimaste devono servire a fronteggiare le imboscate nemiche e a respingere le loro puntate contro i vari appostamenti. La guerriglia però qua e là si riaccende, perché alcuni distaccamenti sono impazienti della tediosa attesa e di loro iniziativa organizzano colpi di mano e assalti a colonne nemiche, come si può leggere nei bollettini di guerra dei mesi di novembre-dicembre, inviati al Comando.
(18 novembre) S. Messa al campo a Baselica presso l’accampamento invernale del distaccamento Vampa.
(1) (<< Tom »), Nazareno Arrigoni, vive tuttora a Dongo.
(2) (<< Gomel »), Luigi Barbieri di Belforte (Parma). Con tale nome si designò il gruppo da lui comandato.
(3) Baselica, frazione di Borgotaro e per alcuni mesi sede di distaccamento della II Brigata Julia.
(4) Succiso, frazione fra Pontremoli e la Cisa.
(5) Il 13 novembre 1944, il generale H. G. Alexander trasmetteva via radio un proclama rivolto alle Forze della Resistenza allo scopo di far cessare le azioni di guerra ed attendere un tempo più propizio per continuare la lotta in quanto l’inclemente stagione e lo scarso equipaggiamento davano poche garanzie per un buon esito di vittoria.
CAPITOLO X
NELLA FURIA DEI RASTRELLAMENTI
(19-23 novembre) Dall’est Cisa giungono tristi notizie; i tedeschi hanno iniziato un grande rastrellamento tra l’Enza e la Cisa. Con un complesso di diecimila uomini, alpini per la maggior parte, ed esperti nella guerra di rastrellamento delle zone partigiane, hanno fatto un cerchio chiuso e già da ben sette giorni scorazzano per le valli e su per i costoni e le cime dei monti, battendo ogni macchia ed ogni baita.
Impotenti di fronte a così grande dispiegamento di forze e di armi, i patrioti, dopo alcuni feroci combattimenti, adottano la tattica dell’occultamento e dello sganciamento. Sono giorni di fame e di gelo, nascosti in buche ed in caverne inaccessibili, oppure di interminabili marce forzate per sfuggire all’inseguimento.
La disgrazia dei fratelli vicini aumenta il nostro dolore e la nostra rabbia, perché non possiamo assolutamente portare aiuto. Dopo circa quaranta ore di marcia senza soste arrivano i superstiti del Batt. Bazan (1) della 2a Brig. Julia, che si trovava all’est Cisa sul Montagnana e portano le prime notizie terrificanti.
Altri, e sono delle più varie formazioni, superano la nazionale alla spicciolata e vengono raccolti da noi, che ci siamo sparsi sul lato ovest della strada in attesa dei poveri fuggiaschi. Quando arrivano sono ombre di giovani, laceri, con abiti a brandelli, affamati e sfiniti. È necessario coprirli subito e metterli a letto presso qualche famiglia generosa se si vuol salvarli. È una vera tragedia.
Tra i poveri si sa sempre rimediare a tutto fuorché alla morte; di nuovo tra questi poveri banditi della montagna si riesce a superare la prova alla meno peggio in una gara commovente di generosità.
(24-26 novembre) Il rastrellamento non ha ancora terminato di battere tutto il territorio, quando un improvviso ordine provvidenziale fa ritirare le truppe dalla zona; ora vi si può penetrare con un po’ di coraggio. Penso che sia mio dovere correre tra loro e parto con Bazan ed alcuni uomini per l’est Cisa. Dobbiamo attendere la notte per sfuggire alla vista del nemico su per i monti gelati e pelati dall’inverno e vigilati dal cecchino tedesco, che ha l’arma puntata con il cannocchiale sui passi obbligati. Si parte di notte e ci si avventura tra il freddo e la neve su per le mulattiere fuori mano e quasi impraticabili per passare la nazionale che è presidiata fortemente e per evitare i paesi piantonati dal nemico.
Le avventure di questo viaggio sono un susseguirsi di agguati, di lunghe soste con il respiro sospeso, buttati nei fossi, di corse pazze a rompicollo tra i dirupi. Di giorno si sta nascosti, di notte si ricupera il tempo.
(27 novembre) Nel pieno della notte, dopo una galoppata tra sterpi e canali ripidi come calanchi, arriviamo a Casa Selvatica (2). Nessuno ci vuole ricevere per paura; dopo lungo cercare, una povera donna ci ricovera nella sua cucina. Ripartiamo per il Montagnana al primo albeggiare, dopo un po’ di riposo. Verso sera siamo a Pugnetolo. Speriamo di poter trovare qui una meritata sosta alle gambe indolenzite, ma purtroppo la popolazione ci accoglie male e con diffidenza, quasi con ostilità; per evitare scene incresciose scendiamo a Sauna. Il buon Parroco mi offre asilo e mi tratta in un modo veramente gentile. Devo constatare amaramente che i tedeschi hanno seminato ovunque il terrore e la paura con le barbarie. Così mi spiego la diffidenza della popolazione, con la paura ed il terrore non si ragiona e l’uomo diventa l’ombra di se stesso.
Stendo una breve relazione e la invio, per mezzo di un abile corriere, al Comando Unico che si trova a Mariano in VaI Ceno.
(28 novembre) Il primo bilancio della situazione mi appare disastroso: è un vero sfasciamento generale. Di parecchie brigate ormai non rimane più che il nome, le vittime sono numerose, le malvagità affiorano sempre più raccapriccianti.
Concedo un po’ di riposo alle gambe doloranti dopo circa trenta ore di cammino in tre giorni. Prendo l’occasione di intrattenermi con i patrioti di un battaglione della 12a Brig. Garibaldi, che si sta ricostruendo nella stessa Sauna dopo la bufera. Li trovo gentili e buoni, grazie soprattutto alla intelligente guida del loro commissario Catone (3). Nel pomeriggio riparto per Corniglio con un’altra staffetta, perché la prima si è troppo stancata.
(29 novembre) Corniglio è un civettuolo paesino dalla dolce villeggiatura tra graziose ville sparse nei boschi di pini; è il capoluogo dell’alta valle del torrente Parma. Qui riesco a farmi un quadro completo, anche nei suoi minimi particolari, della triste situazione dell’est Cisa.
Le salme dei poveri patrioti straziate, spogliate, disseminate un po’ ovunque, sulle cime e per le gole, in muti cortei su per le tormentate mulattiere scendono nel piccolo paese. Ci sono già 25 salme; se ne aspettano molte altre. La popolazione muta e triste fa ala ai dolorosi cortei; i patrioti superstiti con ancora i segni dei patimenti sul volto si stringono attorno alle salme dei loro compagni che non sono più e li portano a spalle verso il Camposanto. Seguo le bare, ma quasi non vedo nessuno tra la nebbia calata sui miei occhi dal dolore; davanti l’entrata del Cimitero mi volto su quelle teste piegate sotto il peso del dolore e dico cose di cui mi rimane solo il ricordo come di una ferita tagliente nell’anima e di una stanca e scoraggiata sensazione in tutto il mio essere.
Si deve superare la prova anche se è stata grave, la guerra non conosce soste e richiede sempre nuovi sacrifici, la libertà costa nuovo coraggio.
A sera, in una villa appartata il Comando, più che mai deciso a risorgere, studia un piano di ricostruzione pur tenendo conto dell’inverno che s’avanza e del nemico, pur lui deciso a sfruttare la situazione di disorientamento con continue puntate di colonne di alpini tedeschi per tenere sotto il terrore le popolazioni e fiaccare gli animi dei giovani partigiani già così duramente provati. Paolo (4), l’ufficiale sacerdote, è l’anima di questa volontà di ricostruzione. Non l’ho mai visto prima d’ora, ma conosco già le leggendarie azioni di guerra ed il coraggio non comune con la sua «brigata internazionale », così detta perché composta da elementi delle più varie nazioni ed anche di diversa razza. L’incontro di questa sera non diminuisce, ma aumenta la mia ammirazione per lui, mi sento di amarlo e di non poterlo dimenticare mai nella sua esile e bionda fisionomia di nordico.
In questa ora della prova lo trovo animato di maggior coraggio, incurante dei rischi e degli strapazzi pur di riunire le disciolte file, aiutare a riscattare i prigionieri, raccogliere le vittime, sollevare le popolazioni duramente provate.
I suoi russi morti sul Caio ed a Musiara accanto alle armi ancora fumanti lo hanno fatto piangere, ma gli hanno fatto la volontà più decisa a continuare.
(30 novembre) Lascio Corniglio e continuo il viaggio. Mi affaccio alla valle del Parmissa ed attraverso Grammatica scendo in quella dell’Enza.
Qui stanno le Fiamme Verdi e la 47a Brig. Garibaldi. Trovo altri morti, altre rovine, altri dolori, distruzioni, nuovi funerali tristi come l’inverno che si avanza.
(1-2 dicembre) Sono arrivato a Monchio (5) e mi fermo per parecchi giorni
nella Canonica dell’ardente e simpatico Parroco.
Ricci (6), il giovane marchesino delle Fiamme Verdi, è morto. Trovo il papà e la mamma disperati sulla salma del loro adorato figlio unico. Sono scene così dolorose che è meglio tenerle nell’intimo dell’anima come qualcosa di personalmente prezioso.
Mi spingo per tutta la zona vicina ad aiutare i primi volonterosi patrioti nella riorganizzazione e nel ricupero del materiale nascosto e sparso ovunque. La valle dell’Enza è ancora una zona pericolosa; le incursioni nemiche non sono finite. In una imboscata trovano la morte il figlio del comandante Arta (7), Aldo (8), il comandante della 47a Brig. Garibaldi ed altri due ufficiali, mentre su una jeep si portavano presso un loro distaccamento minacciato dalle forze tedesche. Salgo a Pianadetto a visitare la missione inglese del capitano Holland (9). Di ritorno ritrovo Bazan che era partito con me dall’ovest e che a Casa Selvatica mi aveva lasciato per andare alla ricerca di sua moglie inseguita e braccata dalle truppe tedesche. Li ritrovo uniti, ma stanchi, depressi e tristi; mi fanno l’impressione di un nido devastato dalle mani empie e crudeli di un monello.
Anche tra i partigiani si trovano persone e formazioni poco buone, degne di altri ideali; in queste vallate ne ho provato la vergogna. Andavo sempre più notando che la popolazione non mi trattava con quella cordialità che prima d’ora avevo trovato; che si teneva schiva, che si guardava negli occhi quando passavo. Pensavo di attribuire ciò solo al terrore seminato dall’ultimo rastrellamento.
Invece c’era dell’altro. Me lo disse un giorno una vecchietta. Mi ero presentato a lei come Padre dei partigiani ed ecco che subito si di scostò da me, mi guardò un po’ stupita ed a bruciapelo mi disse sul viso: «Ma lei non è un prete, è un povero prete, è il Padre dei briganti! ». Le sorrisi, non badai alla ferita aperta nel mio cuore da quelle parole e le feci spiegare ogni cosa. Ed allora capii la freddezza di certe case, le allusioni di certi Parroci. Purtroppo devo ammettere che c’erano delle formazioni partigiane poco desiderabili, che venivano chiamate bande di briganti, o lanzichenecchi della montagna e che facevano preferire i tedeschi alla loro presenza. Per questo in alcune zone era pericoloso per un prete apparire tra questi partigiani ed era diffidato di interessarsi di loro. Ho chinato allora la fronte e per un momento mi è venuto un po’ di scoraggiamento nell’animo, ma il ricordo dei miei alpini delle Brigate Julia, di numerose altre anime generose mi hanno sempre dissipato ogni nube. Oggi desidero ritornare tra i miei vecchi amici.
(3 dicembre) Parto da Monchio e devo cambiare di nuovo la guida che si ammala per lo strapazzo. Ripasso per Corniglio; rivedo i comandanti nel pieno fervore dell’opera di ricostruzione, e le file partigiane rinserrarsi lentamente di nuovo.
Incontro con grande piacere dopo tanto tempo il vice-comandante del NordEmilia, Bellini (10), che l’ha scampata bella sulle cime del Cirrone e dell’Orsaro. Mi narra che per ben cinque giorni non ha mangiato e che stanco ed affamato ha dovuto tanto correre tra balze e burroni per sfuggire ad una pattuglia che insistentemente gli dava la caccia con un cane poliziotto. Non credeva proprio di scamparla stavolta con quel maledetto cane che lo seguiva alle calcagna e lo stanava da ogni rifugio. Mi pare di sentire il vecchio ritornello della nonna:
« Sette paia di scarpe ho consumate… ». Gli batto le spalle sorridendo: «Beh! Hai una pellaccia dura, anche stavolta è andata bene… ». Mi fa però compassione vederlo dimagrito, sdraiato su di un materasso, così sfinito che spesso gli si chiudono gli occhi e sembra assente.
(4 dicembre) Lascio anche Corniglio, desidero al più presto rientrare tra i vecchi amici dell’ovest Cisa. A marce forzate divoro la strada e prima che sorga l’alba sono a Belforte; dopo aver cambiato un’altra guida ho percorso l’ultimo tratto con un simpatico alpigiano del Giarreto e sono ancora immersi tutti nel sonno quando arrivo. Durante la sgroppata ho dovuto cambiare tre guide, ma ho tenuto duro ed eccomi finalmente a casa. Il mio fisico sostenuto da non so quale forza ora cede. Non ne posso più, mi getto subito a letto senza aver voglia e volontà di rispondere ad alcuno e tanto meno di mangiare. Lo sforzo mi ha cotto e consumato.
(1) «< Bazan »), Marcello Gattai, residente a La Spezia. Il Battaglione da lui comandato aveva assunto il suo nome di battaglia.
(2) Casa Selvatica frazione di Berceto sulla vecchia strada che conduce a Parma.
(3) (<< Catone »), tale Piccinini, Commissario di un Distaccamento di giovani; così sprannominato per un suo strano modo di discorrere filosofando.
(4) (<< Paolo il danese »), Arndt Lauritzen ora membro dell’A.P.C.!. di Parma.
(5) Monchio delle Corti, comune in provincia di Parma nell’Appennino Tosco-Emiliano.
(6) Ricci marchese Ottavio, morto in VaI d’Enza a Lugagnano di Monchio il 20 novembre 1944.
(1) (<< Pranci »), dotto Bruno Ferrari, morto con Ricci il 20 novembre, figlio di «< Arta »)l’ing. Giacomo Ferrari.
(8) «< Ivan »), Aldo Zucchellini.
(9) Charles Holland, capitano della Missione Alleata TofIee che aveva come compiti quello di rifornire le forze partigiane di armi, vestiario e cibo, controllarne la distribuzione e passare rapporti giornalieri circa i movimenti delle truppe tedesche nel territorio della Cisa.
È tuttora vivente a Milano
(10) (<< Bellini >> ) Giovanni Vignali, vice comandante regionale del CVL del Nord Emilia
CAPITOLO XI
UN PO’ DI CALMA NELLA TORMENTA
(5-16 dicembre) Mi riposo nella Canonica di Belforte e mi svago dedicandomi alla serena attività di parroco di montagna pur non tralasciando di visitare gli accampamenti vicini. Per la prossima festa dell’Immacolata mi preoccupo che tutta la gioventù di Belforte, specialmente i piccoli montanari, si avvicinino pieni di fede e di fiducia alla Madonna. I piccoli montanari sono simpatici e cari nella loro semplicità e grazia un po’ scontrosa; i loro lucidi occhi sembrano riflettere un lembo di ciel sereno, il loro sorriso sa della grazia e dell’innocenza dell’Angelo, che Dio ha messo al loro fianco.
L’attesa di don Tito si fa sempre più viva. Le prime notizie che la radio ci ha trasmesso ci sollevano la speranza e ci rafforzano il coraggio. « Presto viene, e ci porterà ciò che ci manca », tutti dicono sorridenti ed orgogliosi del loro Prete.
La canonica è sempre il posto di ristoro e di rifugio di tutti i partigiani di passaggio ed è inesauribile nelle sue risorse. Il freddo rincrudisce sempre più, mancano indumenti di lana. Non posso sopportare questo e mi faccio mendicante battendo a tutte le porte dei paesi circonvicini per raccogliere lana ed indumenti. Non vorrei, perché so che questi paesetti sono in ben misere condizioni, ma ho fiducia nella loro generosità. Sono commosso quando vedo sorgere una vera gara tra le mamme e i bimbi nell’offrire qualche cosa. Mentre i giovani e molti uomini combattono sui costoni della montagna, le spose e le giovani non meno generose, vegliano al lume della candela e del lumino a filare, a cucire, a rammendare; le mani callose dell’alpino impugnano l’arma, quelle gentili delle figliole della montagna si destreggiano veloci tra la rocca e l’ago. È sorta come per un vero miracolo una grande, unica famiglia in cui tutti formano una sol cosa, mamme e papà, giovani e vecchi, figlioli e ragazze, sacerdoti e suore, in una commovente gara di aiuto; disinvolta, sana e semplice. Sarebbe bello vivere sempre così!
(17-22 dicembre) L’attesa degli aiuti si fa troppo lunga; ormai tardano troppo e non si può andare avanti così. Le file si assottigliano: alcuni si ritirano perché ammalati, altri perché stanchi della troppo lunga attesa, altri ancora perché impauriti dall’ignoto avvenire che ci attende. Decidiamo di sgombrare dalla zona tra la ferrovia e la Cisa, perché ci sembra troppo pericoloso e temerario sfidare il nemico così vicino, privi di tutto, stretti in un cerchio troppo breve. La 1 a Brigata Julia si trova ormai oltre il Taro ed anche parte della 2a si decide a passarlo. lo stesso insisto perché si faccia in fretta; sono convinto che sia un delitto costringere questi poveri figlioli ad una inutile vita di continuo allarme sulle postazioni senza alcuna probabilità di protezione. Alcuni mi comprendono, altri no e si oppongono; li capisco perché sono costretti a lasciare incustodite le loro case, figli, mogli e le cose più care: «La guerra è una cosa dura che non ragiona », insisto io. Alfine riesco e per ultimo parto anch’io per Mariano, dove una metà della 2a Brig. Julia e parte della 1 a hanno posto il campo invernale.
Ho sempre gradito ed ho trovato simpatica la gara di aiuto tra il forte alpino e la bella e sana giovane della montagna. Non ho mai sopportato però (qualcuno mi diceva esagerato ma so che poi mi approvava) che qualche ragazza senza una plausibile ragione si mettesse tra le bande e si desse l’aria di un mascolinismo fuori posto. Qualche volta, purtroppo, non sono riuscito ad ottenere questo; altre volte solo a stento, dopo tante preghiere e lunghi colloqui. Questa passione di attrattiva accieca ed infuria purtroppo anche sulla fredda e sana montagna, anche tra la vita dura del combattente, anche quando si parla quasi giornalmente con la morte.
Quante lacrime sono state versate, quante delusioni e tradimenti si sono avverati per la donna leggera, incauta, volubile e contesa: succedeva un pasticcio, una inspiegabile imboscata, una imprudenza, c’era quasi sempre l’ombra funesta di una donna. Ma come si può far capire questo ad un giovane prima che pesti la testa?
Il passaggio del Taro sui ponti o a guado e, poi della ferrovia e della strada che corrono al suo fianco, soprattutto d’inverno e con la neve, è sempre stato un problema difficile e pericoloso da risolvere e da affrontare; ci vuole astuzia e coraggio per forzare la sorveglianza tedesca che vi ha teso come una triplice barriera. Ora bisogna spesso e in qualsiasi modo affrontarlo.
Quando tutto va bene ci si prende quasi gusto a beffare il tedesco ed a fargliela sotto il naso. Qualche volta va a finire male ed allora dall’una e dall’altra parte capitano imboscate, colpi di mano, con morti, feriti e prigionieri. La prudenza e l’astuzia non sono mai troppe. La notte soprattutto è il tempo più propizio per il passaggio e la luna chiara e limpida di dicembre è stata la muta compagna di noi ombre veloci come il vento, o immobili come statue senza respiro. Mariano con la Val Mozzola e tutto il territorio di Belforte sono i luoghi delle mie scorribande in questo gelido dicembre.
(23 dicembre) «Quando finalmente tornerà don Tito? – ci domandiamo spesso – forse alla fine di dicembre, forse in gennaio ». « Forse non tornerà più – insinua qualcuno – e fa bene; a che vale rimanere a fare questa guerra assurda ed inutile, tra fratelli, abbandonati da tutti? ».
Ritorno a Belforte perché si avvicina il Natale e quei buoni montanari hanno il diritto di avere un sacerdote per le belle feste natalizie. A Mariano c’è già il Parroco.
Ho appena finito di cenare in Canonica di Belforte e sono passate le undici. Poco fa c’era gente e se ne è andata dopo aver sentito la radio delle dieci e mezzo e aver fatto gli ultimi commenti più o meno ottimisti e pessimisti ai fatti del giorno. Ora sono solo, mi accingo a recitare l’ultima parte del Breviario, mentre le ragazze di servizio fanno un po’ di ordine e poi penso di ritirarmi.
Sento bussare alla porta. Gina va ad aprire con precauzione; entra Livio (1) e scappa. Non comprendo che cosa stia accadendo; sospetto che i tedeschi abbiano teso un’imboscata e che non ci sia più nulla da fare. Sono attimi terribili. Non finisco il pensiero ed ecco don Tito nel vano della porta, tutto sorridente, vestito da paracadutista alleato. L’antivigilia di Natale ci ha portato la più bella improvvisata. Il sonno fugge e devono suonare le tre prima di deciderci ad andare a letto.
È stata una vera provvidenza il ritorno di don Tito, se avesse tardato anche di poco, forse delle sue formazioni partigiane non avrebbe trovato che un ricordo. Eravamo giunti ormai all’ultimo e fatale istante che precede lo scoraggiamento. La sua venuta ci ha portato soldi, promesse di numerosi lanci di armi, munizioni, equipaggiamento ed approvvigionamento; ci ha sollevato l’animo e ridato coraggio. È stato lui col suo coraggio e sacrificio che ha permesso alle Brigate del Parmense di mantenersi sempre in efficienza, di essere esempio di costanza combattiva a tutte le formazioni partigiane italiane. Questo mio giudizio è stato confermato da un comunicato del Governo Alleato ed anche dallo stesso nemico tedesco.
Non posso qui dimenticare con don Tito tutti i parroci dell’ Appennino Tosco-Emiliano del nord-Emilia. Mi inchino riverente davanti alla loro grande e generosa ospitalità, al loro spirito di sacrificio pieno di coraggio, alla loro eroica attiva collaborazione alla guerra della montagna. Il feroce tedesco, che sapeva questo, nel grande rastrellamento dell’agosto 1944 li ha deportati in massa, buttati come bestie su camion. Mi inginocchio davanti alle 15 salme dei confratelli fucilati e seviziati sulle mulattiere di questo breve territorio dell’ Appennino parmense, piacentino, pontremolese.
Cari Sacerdoti! (2) Le fughe per la montagna, le distruzioni delle vostre canoniche, la ricerca spietata al Pastore da parte delle colonne tedesche, non vi hanno piegato nei diciotto mesi di guerra; siete sempre ritornati e rimasti fedeli al fianco dei vostri figli della montagna combattenti e dei vostri parrocchiani tormentati e sempre minacciati. Vorrei che sappiano ciò tutti gli italiani e sentano nel cuore una viva riconoscenza per i loro Preti. Mi spiace e non so sopportare il gelido e voluto silenzio che circonda questo contributo del clero alla lotta di liberazione (3).
(24 dicembre) È la vigilia di Natale. La neve imbianca le cime e le valli; per fortuna non è molta.
Natale triste ed irrequieto, ma voglio per un momento superare ogni tristezza ed irrequietezza e con gli Angeli godere un po’ di pace e di poesia. Stanotte nella piccola chiesetta c’è la S. Messa solenne e ci saranno tutti. Nella repubblica partigiana dell’ Appennino si vuoI mantenere fede a questa tradizione religiosa, anche se la rabbia fascista e l’ottusità tedesca l’hanno severamente proibita. Cade la sera; si preannuncia una notte freddissima, ma meravigliosa, tutta trapunta di lucentissime stelle, con una luna così chiara che incanta con i suoi riflessi sulla neve candida e rilucente. Mi rifiuto di dilungarmi nella descrizione, c’è troppa poesia in questa notte di Natale di guerra e di montagna nella libera repubblica partigiana!
A mezzanotte tutti sono presenti; non mancano gli alpini: «La pace, o Dio, sia su questa terra» preghiamo tutti con un cuor solo. Una meravigliosa pace, una serenità quasi trasognata è dipinta su tutti i volti; le campane sfidano festose il tedesco annidato a valle. A turno le pattuglie fanno sicura guardia alla Rocca dei Ribelli e guai a chi osasse turbare l’incanto di una notte così santa.
(25-27 dicembre) Le feste del dolce Natale passano veloci; sono stato così sereno e tranquillo tra tanta intimità di famiglia, che solo lentamente ho avvertito la ferita della casa lontana.
(28 dicembre) In una notte di incanto di luna e di lucentissima neve faccio una sgroppata di tre ore verso Mariano con don Tito, dopo aver beffato la sorveglianza tedesca sul Taro e sulla strada. Porto il saluto ed il sorriso dei cari lontani a quei partigiani che sono dovuti rimanere negli accampamenti; passo la serata in dolce allegria tra questi giovani che la guerra ha privato di godere le più care feste familiari.
(30 dicembre) Siamo alla fine dell’anno e di notte ritorno a Belforte, eludendo ancora il tedesco. Di nuovo tutti nella chiesetta ringraziamo Dio degli aiuti che certamente ci ha concesso e delle disgrazie che ci hanno colpito, ma lo preghiamo che ci assista nella prova e nel dolore che ancora ci pesa sul cuore.
(1) (<< Livio »), Dellasavina Napoleone di Belforte (Parma).
(2) Non mi è stato possibile rintracciare i nomi di tutti. Con l’aiuto di don Rolleri parroco a Specchio di Solignano posso citame alcuni: don Bracchi, don Beotti, don Jozzi, don Del Nevo, don Borea, don Giovanni Bobbio, don Elio Monari, don Giovanni SandeIli, don Pasquino Borghi, don Lino Baldini, don Innocenzo Lazzeri ed il chierico Subacchi.
(3) Attualmente questo contributo si sta valorizzando e già alcuni volumi sono stati pubblicati.
CAPITOLO XII
NUOVE PROVE E RITORNO A MILANO
(1 gennaio) Un nuovo anno di guerra si affaccia alla vita e si preannuncia ancor più pieno di dolori, di sacrifici con distruzioni, privazioni ed anche barbarie ed atrocità. Per me questo primo giorno dell’anno è stato doppiamente triste.
Ho appena terminato la S. Messa solenne e sono in canonica a scambiare parole di augurio con i patrioti e i parrocchiani che sono soliti fermarsi a conversare col Parroco, quando arriva un corriere con una lettera per me. La leggo con indifferenza come se fosse una delle solite proposte tedesche mandate dal comando di Berceto; subito dalle prime righe capisco che si parla di tutt’altra cosa. Resto avvilito. Mi si comunica, ed è unito anche il decreto originale, che il vescovo mi sospende dalle facoltà, rifacendosi ancora alla comunicazione di Milano di tre mesi prima.
È come un fulmine a ciel sereno, ed è troppo duro ed inaspettato il colpo perché possa prendere la cosa con calma. Mi ritiro subito tutto solo, inventando una scusa, e piango con le mani nei capelli in uno scoppio di crisi nervosa. Non so come spiegarmi il provvedimento, cosa fare, cosa decidere, mentre pensieri di rabbia, di rancore, di ribellione tentano di assalirmi.
È una ridda di pensieri, di sentimenti, di passioni che mi travolge; ho l’anima tanto amareggiata e non posso persuadermi di poter essere trattato come un prete ribelle, indegno delle sue funzioni, ecc… dopo tanti sacrifici, tanta generosità disinteressata.
Improvvisati ed anche troppo precipitati progetti di nuova vita, impostimi dalla sospensione, mi si affacciano alla mente; decido alla fine, e ne ringrazio Iddio, di presentarmi all’ Autorità religiosa per domandare spiegazione del fatto. So a quali pericoli mi dovrò esporre perché nella zona mi conoscono come il Padre dei Ribelli; anche i tedeschi mi conoscono ormai personalmente e mi danno la caccia con tutti i mezzi e con numerose spie. L’inverno poi è freddo e la neve ha reso pericoloso ogni passaggio e trasferimento perché si è più facilmente visibili sui dossi, sui costoni e tra le campagne sgombre di ogni vegetazione, quasi pelate.
Ma ho deciso e penso che sia meglio morire, affrontare il pericolo di cadere in un’imboscata che vivere come un condannato, un povero prete punito. Certamente i miei Superiori non credevano di recarmi tanto male e di espormi a tentazioni e pericoli.
Ho per fortuna un lasciapassare tedesco, rilasciatomi come se fossi il Padre Missionario Colombo Giuseppe (1), che deve ritornare a Milano presso la famiglia. Lo prendo con me e fuggo da Belforte come un perseguitato verso Parma e poi Milano.
Prudentemente decido di scendere a Parma non seguendo le strade fissatemi dal lasciapassare e di usare questo solo fuori l’Emilia, dove sono sconosciuto. Questa prudenza fu la mia salvezza. Seppi poi da informatori che i tedeschi avevano concesso il lasciapassare, sapendo bene a chi lo davano, avendomi riconosciuto dalla fotografia del documento che avevo presentato. Volevano prendermi e per questo avevano indicato l’itinerario. Per quindici giorni spie e soldati sulla Nazionale della Cisa fino a Parma, ai quali erano state comunicate le mie generalità, attesero vigili per arrestarmi, ma invano.
Con una indiavolata corsa mi porto a Mariano di Valmozzola. Qui espongo al Parroco e a don Tito la mia disavventura; mi sanno consolare da buoni confratelli e ritorno un poco sereno.
Don Tito dovrebbe portarsi a Milano per alcune missive ricevute da Roma con numerosa corrispondenza. Avendo io l’intenzione di portarmi a Milano per chiarire definitivamente la mia posizione ecclesiastica, penso di sostituirlo.
Parecchie considerazioni persuadono don Tito ad affidarmi i suoi incarichi; sono ufficiale di collegamento con il Comando Generale, conosco bene l’ambiente milanese clandestino, avendo già lavorato per parecchi mesi con i Comitati di Milano; ed è persuaso che mi sia più facile avvicinare la gente interessata e svolgere le missive che non lui, nuovo dell’ambiente clandestino di città e non preparato ad un genere di vita ben diverso da quello del combattente di montagna.
(2 gennaio) Di buon mattino parto; sbuco in Val Ceno e a sera arrivo a Bardi (2), dopo una breve sosta a Gravago(3) dove ho lasciato don Tito in casa del Parroco. A Bardi ritrovo dopo parecchio tempo di lontananza, Umberto. Qui si è trasferito anche il Comando Unico Parmense e riferisco agli amici le mie decisioni. Soprattutto Poe mi è di fraterno sostegno e mi dà una sua personale relazione sulla mia attività tra le formazioni, perché possa servirmi nel mio incontro coi Superiori. Mi consegnano altri documenti, relazioni e missioni del Comando, da presentare al Comando Generale di Milano.
Con tutta questa roba bisogna che sia molto cauto ed astuto; guai se mi pescano, ma poi penso che se si deve arrischiare la pelle è meglio arrischiarla senza riserve.
(3 gennaio) È: una giornata veramente rigida. Un bravo ragazzo di Bologna si presta a trasportarmi in motocicletta fino alla bassa Val Ceno, sul limite estremo della zona controllata dai partigiani. La strada è gelata e coperta di neve, ma il mio abile motociclista non ha esitazioni nella sua corsa su per il Pelizzone e i rapidi tornanti che portano alla pianura e mostra un’abilità che dà il piacere del brivido.
A Bore ci dobbiamo fermare con le mani intirizzite dal freddo e rese quasi insensibili. A Varano, ormai quasi in pianura, bisogna prudentemente fermarsi perché notiamo giù lungo il fiume movimenti di truppe nemiche. Già a Bardi mi avevano detto che erano arrivate notizie di un imminente rastrellamento della zona; qui comprendo che forse è già iniziato. Saluto l’amico, lo ringrazio e lo prego di portare la notizia al Comando. Avanzando solo, a piedi, penso come passare senza noie tra le truppe tedesche ed italiane.
Spero di poter trovare nei vari paesetti che devo attraversare, almeno una bicicletta, ma mi è impossibile trovarla. Un chilometro dopo l’altro sempre con la speranza di trovare un mezzo più veloce, percorro a piedi ben 32 chilometri, di cui parecchi tra le truppe nemiche che qua e là ingombrano la strada. Il Signore mi protegge; le truppe della Divisione Italia mi guardano incuriosite; io saluto sorridendo, lancio qualche parola di cortesia e passo senza noie.
A Collecchio con i piedi doloranti e quasi slogati, perché non sono più abituato a camminare con scarpette di pianura, busso alla Canonica per potermi riposare un poco. È necessario anche per fuggire dalla strada perché nel cielo i caccia inglesi si divertono a mitragliarla.
Qui per caso trovo già alloggiati i Cappellani della Divisione Italia; ne trovo uno, più di tutti gli altri, fanatico fascista e con lui sto prudentemente evasivo. Di lui seppi poi, che, avendo saputo della mia presenza sulla montagna, aveva cercato in tutti i modi di farmi allontanare e di farmi catturare. Non sapeva che quel prete con cui parlava era proprio quello che cercava.
A sera finalmente arrivo a Parma. Gli amici mi portano in Convento S. Giovanni, asilo tranquillo e sicuro. La stanchezza mi ha cotto e non ho voglia di fare altro che di buttarmi a letto per riposarmi un poco. In serata vengo a sapere tutti i retro scena del decreto avuto a Belforte. Mi spiegano che il Vescovo negli ultimi tempi era stato preso alle strette da una denuncia fatta a mio carico al Comando Tedesco, dalla Repubblica di Salò. Costoro erano venuti a sapere le mie disavventure e rendevano responsabile il Vescovo della mia presenza nella zona parmense. Così Mons. Colli pensò, per non essere imprigionato e non provocare peggiori. conseguenze ad altri, di sottoscrivere un decreto pubblico di sospensione a mio carico da pubblicare in tutta la zona della montagna. Nel frattempo un corriere era stato incaricato di recapitarmi una sua lettera, in cui mi spiegava l’accaduto. Purtroppo la sospensione era arrivata, ma la lettera non ancora. Queste notizie mi rendono sereno e tranquillo e dopo tanto tempo dormo in un buon letto sodo come un sasso.
(6 gennaio) È la festa dell’Epifania e celebro nella Basilica di S. Giovanni. Sono riuscito ad avere una bicicletta arrugginita, ma mi serve e mi basta. Alle nove, quando mi accingo a partire, incomincia a nevicare. Gli amici mi consigliano di rimandare la partenza, ma io voglio partire ugualmente sperando che il maltempo cessi. Avanzo veloce sulla via Emilia, ma per poco tempo perché la neve continua a cadere; dopo un’ora scende ormai a larghi fiocchi ed il tappeto bianco aumenta. Non so come descrivere la fatica e la tenacia della mia corsa durata ben dodici ore su una strada sempre più ingombra di neve, fino a raggiungere l’altezza di 45 centimetri. Devo per parecchie volte scendere dalla bicicletta e proseguire a piedi per poi risalire quando un’automobile mi sorpassa e per un poco posso correre sulla sua pista segnata nella neve alta.
Dopo una breve sosta a Fiorenzuola per mangiare qualche cosa, proseguo per Piacenza, aumentando sempre più i pezzi di strada percorsi a piedi. A Cadeo, per buona fortuna incontro uno spartineve e sulla strada libera posso proseguire con maggior facilità. Traghetto il Po alle ore 17 su di una barchetta, ma poi devo percorrere un chilometro a piedi su di una faticosa strada di campagna per riportarmi di nuovo sulla via Emilia. Passa un camion, mi attacco dietro come un monello e via in una corsa pazza finché le tenebre non mi tolgono la vista. Ad un certo punto sbando e mi trovo a rotoloni per terra, nella neve, in un nodo solo con la bicicletta. Mi rialzo, mi osservo, non mi sono fatto nulla, salto sulla bicicletta, cocciuto raggiungo ancora il camion e via fino a Casalpusterlengo. Qui non ci si vede proprio più e bisogna fermarsi; c’è anche il coprifuoco ed è pericoloso proseguire. Fiocca ancora e sono in uno stato veramente deplorevole.
Devo essere stato un essere ben curioso; solo per la strada deserta dell’Emilia, tra l’imperversare della neve, tutto ricoperto di bianco, con gli occhiali e la barba nera piena di ghiaccioli, su di una sgangherata bicicletta; ai numerosi posti di blocco superati devo aver suscitato compassione, forse anche un senso di stupore con qualche sorriso, che mi ha fatto evitare sospetti e il pericolo di spogli.
Un anziano coadiutore di Casale, che ha la casa sulla strada, mi accoglie con grande bontà. Sono inzaccherato, gocciolo acqua da tutte le parti, ed a stento mi reggo ancora in piedi. Mi butto su di una sedia a sdraio dopo aver sorseggiato un brodo e vicino ad una stufa cerco di asciugarmi e di riposare.
(7 gennaio) È domenica; celebro la S. Messa nella chiesetta attigua alla casa, poi parto subito per Milano. La strada è ancora lunga, ma non nevica più; il terreno però è quasi impraticabile, perché durante la notte si è rammollito ed è tutto coperto da un’alta fanghiglia di neve. Parto a piedi trascinandomi a mano la bicicletta; dopo un’ora di strada trovo un carro e riesco a farmi caricare. Prima di Lodi incontro lo spartineve e mi faccio ospitare sul camion che lo trascina. Da Lodi dove lo spartineve si ferma, riparto in bicicletta sulla strada più libera; percorro una decina di chilometri, poi trovo di nuovo un camion e su di esso, senza più faticare, arrivo a Milano. S’avvicina la sera. A sera tarda, dopo aver frettolosamente lasciato in Collegio la bicicletta, pregando il portinaio di non far sapere nulla a nessuno, lascio Milano. Credo opportuno lasciare la città senza farmi vedere, perché dopo così lunga assenza sono privo di notizie sulla mia condizione di fronte all’UPI repubblicana e alla polizia tedesca, che era sulle mie tracce quando in ottobre sono partito.
Arrivo a casa mia che è piena notte, richiamo cautamente dalla strada i miei cari immersi nel sonno. Passata la prima meraviglia e la commozione dei genitori e dei fratelli, quasi increduli di avermi fra loro dopo tanto silenzio, posso finalmente senza preoccupazioni distendere i nervi e gustare un po’ di pace. Credo di non aver mai goduto la dolcezza della mia casa come in quei momenti.
CAPITOLO XIII
INTERMEZZO DI VITA CLANDESTINA A MILANO
(8-16 gennaio) La tentazione di rimanere a casa è forte, ma il dovere e gli impegni mi chiamano altrove, durante la mia permanenza a Milano potrò ritornare altre volte a casa mia, ma solo per brevi visite. In giornata parto per Milano dopo essere stato messo in ordine dalle attenzioni della mamma e delle sorelle, che han dovuto vegliare la notte a pulire ed aggiustare.
Dal Collegio mi faccio annunciare a S. E. il Cardinale e in serata mi presento a lui. L’incontro è paterno e viene sciolto ogni equivoco; prima di lasciarlo mi dà la sua benedizione raccomandandomi di ritornare da lui per ogni mia necessità. Questa incomprensione è stata solamente una prova che si è risolta felicemente pur dopo tanto soffrire. Comprendo ora che forse non mi è capitata invano. Ritorno in Collegio e nella notte rivedo gli amici di un tempo avvisati del mio arrivo. Ne mancano parecchi e vengo a sapere che alcuni come me hanno dovuto trasferirsi altrove per sfuggire alle ricerche, altri pescati sono in carcere o in campo di concentramento, ed altri ancora presi dalla paura sono introvabili.
Il lavoro per ricostruire e riallacciare l’organizzazione clandestina, che a settembre avevo lasciato, appare più faticoso di quello che pensavo e perdo così tanto tempo prima di riuscire a quello che mi ero prefisso di fare. Voglio fare in fretta per ritornare più presto in Emilia, dove penso che ormai sia il luogo del mio apostolato e della mia azione patriottica. Devo faticare per ben otto giorni prima di poter svolgere le missive affidatemi, con la Direzione clandestina della D.C., con il Comando Generale, con gli Industriali, ecc. e prima di recapitare le lettere portate da Roma, indirizzate a
privati cittadini, soprattutto banchieri ed industriali. Lo spionaggio è attivissimo e ci si muove tra reti invisibili ed intricate, tra arresti e numerose fughe. I politici ed i maggiori industriali e banchieri milanesi secondo le lettere che ho loro recapitato e che portano le firme di De Gasperi, Campilli, Giammei ed altre personalità del Governo di Roma e vicini alla casa Savoia, dovrebbero accordarsi, riunirsi per salvare il patrimonio finanziario dell’ Alta Italia, mettersi in comunicazione con Roma per mezzo di corrieri attraverso la Svizzera o la Linea Gotica, ed infine partecipare più attivamente alla lotta di liberazione.
In questa opera di avvicinamento mi è di prezioso aiuto il dotto Mario Rufo Vio, il marchese Clerici della Banca Lombarda, il dotto Giacchi e il senatore Falck (I). La mia febbrile attività, il mio misterioso comportamento, il mio apparire e scomparire improvviso nelle forme più strane, ad ore sempre più diverse, non sono graditi in Collegio e per paura sono invitato a lasciarlo. Mi rifugio provvisoriamente presso la Casa degli Oblati del n. 75 di Corso Magenta (2). Ma anche qui non ho vita facile tra continui richiami; cerco di evitare noie, di stare il più lontano possibile, saltando
Milano – La ex casa degli Oblati ora divenuta corpo unico del Collegio S. Carlo
anche i pasti, ma non posso evitare sospetti e paure da parte dei Superiori anche di questa Casa. Una sera di ritorno da una delle mie solite corse tra i più svariati nascondigli clandestini sparsi in tutta la Lombardia, mi si comunica in portineria che non posso entrare; disperato mi rivolgo alla Casa di Nazareth del 79 (3) e vi trovo ospitalità. Per fortuna ho quasi finito la mia opera. Ora devo partire per Torino ed il Piemonte dove mi attendono altre persone. Verso le 16 del giorno 17 parto su una veloce automobile da corsa messa a disposizione dall’Ordine di Malta. Spero, ritornando più tardi in Milano, di poter raccogliere i frutti del lavoro tanto faticosamente fatto.
(17-20 gennaio) Sono a Torino sul tramonto. La città coperta di neve, con i mozziconi dei numerosi palazzi bombardati dalle occhiaie vuote e che sembrano braccia nude imploranti levate al cielo, nel silenzio dell’inizio del coprifuoco, mi dà una impressione di acuta tristezza.
Sono ospite dell’Ordine di Malta presso l’ospedale S. Maurizio e mi trovo benissimo. Per mezzo del dott. Bovetti mi metto in relazione con i membri del Comitato clandestino della D.C. e del C.L.N. torinese ed in giornata posso recapitare le lettere portate da Roma per industriali e personaggi politici piemontesi. In pochi giorni posso avere una idea precisa delle condizioni civili, finanziarie e del movimento partigiano che mi servirà per compilare le relazioni da inviare a Roma. Dopo un soggiorno più che soddisfacente, dopo esser riuscito ad avere notizie anche del movimento clandestino ligure, riparto per Milano.
(20 gennaio) Non è cosa facile partire da Torino, soprattutto con quel materiale compromettente che ho con me. « I treni per Milano sono tutti soppressi fino a nuovo ordine », mi dice il bigliettario nella stazione quasi deserta. Non resta che portarmi a piedi al posto di blocco dell’autostrada.
Qui mi siedo sulla valigia e pazientemente, come tante altre volte, attendo anche se il freddo è intenso; ci sono tanti altri nelle mie stesse condizioni. Verso sera, mentre nel cielo si smorzano gli ultimi rossi raggi del sole, arriva un’autocolonna militare. Coloro che aspettano di essere trasportati a Milano pregano ed insistono. Siamo una ventina e dopo tanta insistenza siamo caricati sugli automezzi con le guardie fasciste. La mia posizione diventa quasi buffa, quando attraversando la zona del basso vercellese infestata da attacchi partigiani, sono pregato di imbracciare con gli altri un’arma per la difesa in caso di pericolo. Per non tradirmi mi getto in fondo al camion, fingendo di dormire, mentre quei giovani fascisti, quasi bambini ancora nel viso, ma crudeli e stranamente coraggiosi mi fanno nausea e ribrezzo con il loro contegno spavaldo da sbirro in erba e con la narrazione da spaccamontagne dei loro soprusi contro le inermi popolazioni civili.
Il freddo è davvero intenso, forse raggiunge i 20° sotto zero. Alle due di notte arriviamo al posto di blocco di Milano; qui siamo scaricati, ma dobbiamo attendere, non si può proseguire perché c’è il coprifuoco. In un locale semiaperto aspettiamo l’alba e la fine del coprifuoco: sono lunghe ore di vera tortura.
(21-22 gennaio) Appena scoccano le sei, stanco e tutto intirizzito, parto di corsa desiderando solo di arrivare a casa mia. Mi getto sul primo tram, poi prendo il primo treno per Seveso. Due buoni giorni di riposo, mentre riordino le mie cose ed abbozzo un progetto di lavoro per i prossimi giorni, mi rendono pronto a nuovi sacrifici e a più gravi rischi.
(23 gennaio) Ritorno a Milano deciso a concludere nel più breve tempo possibile e ripartire per l’Emilia. Sono fiducioso di trovare tutto pronto; invece ho un’amara delusione. Rientrando al 75 pur con grande fatica e insistenti preghiere, ho notizie disastrose degli amici. Il comitato politico di liberazione della D.C. è stato sorpreso quasi al completo dalla polizia subito dopo la mia partenza per Torino e i pochi. superstiti si sono dovuti dare alla macchia. Tra gli industriali trovo freddezza, presi da smarrimento e da paura. Compio nuovi sforzi, cerco di insistere con nuovi appuntamenti per concludere qualche cosa, ma capisco che è fatica sprecata.
Dai giornali fascisti frattanto apprendo le gravi notizie sul grande rastrellamento in corso sull’Appennino parmense e fidentino dell’ovest Cisa. Decido di partire per essere vicino ai miei partigiani in quest’ora così difficile e tragica. Ho il proposito di ritornare a Milano più tardi per riprendere il lavoro interrotto.
(29-30 gennaio) C’è ancora tanta neve sulla strada gelata, ma ormai sono un veterano di simili corse e trasferte. Metto al sicuro, nel miglior modo possibile, i documenti e le relazioni da portare a Roma ed al Comando Alleato, inforco la bicicletta e via di buon mattino. Il viaggio è faticoso; a sera stanco pernotto nella Canonica dell’ Arciprete di Fiorenzuola d’Arda.
Stavolta ho dovuto sostare a parecchi rigidi posti di blocco, ho dovuto mettermi in fila ed attendere il mio turno per il controllo. Ad ogni fermata era un affidarsi fiducioso alla Divina Provvidenza tra il martellare feroce del sangue al cuore e alle tempie, mentre esternamente cercavo di giocare la commedia del sorriso, dell’umorismo e di tante altre storie.
<<Ecco i documenti>> ed i miei sguardi scrutano, bugiardamente sorridenti, gli occhi dei poliziotti, che vanno curiosi dal documento alla mia persona ed alla scanzonata barbetta. << Tutto è a posto, va bene >> e mi pare di respirare per la prima volta. Ma alcune volte non è finita qui la tortura, qualcuno viene fermato per lo spoglio. Guai se fosse capitato ciò a me, sarebbe stata la fine.
Consumata la cena spero di riposarmi bene, la notte invece è infernale. Pippo, proprio stanotte non dà tregua agli scali della vicina ferrovia e sulla periferia della cittadina, dove si trovano grandi depositi di grano. Lo scoppio delle bombe mi sveglia di soprassalto che sono ancora nel primo sonno, poi è impossibile dormire tra il fracasso indiavolato di numerosi spostamenti d’aria, di cupi boati e dai bagliori delle fiamme che attraverso le fessure delle persiane disegnano strani balli di fantasmi sanguigni sulle pareti della stanzetta. Mi pare di assistere, sdraiato sul lettuccio, ad occhi sbarrati, ad un sogno pauroso ed assurdo.
(31 gennaio) Arrivo a Parma sempre più stanco. Senza perder tempo e senza indugiare troppo per le vie, perché sono ormai troppo conosciuto, batto alla porta del convento di S. Giovanni. Capisco subito al primo incontro che le cose non vanno bene. Mi dicono che la mia posizione in Parma si è aggravata; i fascisti e i tedeschi sanno che sono partito dalla montagna e mi cercano in città. Ho tuttavia la speranza di potermi fermare almeno due giorni per prender fiato prima di accingermi alla pericolosa salita della montagna; capisco invece che ciò non è possibile.
Oggi è stata giornata di retate a Parma, la polizia si accanisce soprattutto contro i Preti e gli ambienti cattolici, per cui nessuno si fida ad ospitarmi. << Cosa accade sui monti? >> domando. Nulla si sa di certo e di preciso; sono arrivate solo vaghe notizie di distruzioni e di barbarie compiute soprattutto dalle truppe mongole usate dai tedeschi. Vorrei fermarmi almeno per tutto domani, ma è meglio non insistere e decido di affrontare il pericolo all’aria aperta appena spunta l’alba.
(1) Enrico Falk seppe, da ricco qual’ era, vivere con modestia accanto ai poveri e militare per loro. Non poche testimonianze ed esempi avvalorano queste sue doti. Dimostrò una quieta padronanza di sé in ogni momento testimoniando la sua ardente fede cristiana. Fu eletto Senatore della Repubblica nel 1948, morì il 15 giugno 1953.
(2) Gli Oblati sono un gruppo di sacerdoti diocesani sorti per opera di San Carlo. L’area fabbricabile da loro occupata in corso Magenta è stata acquistata dal Collegio S. Carlo nel marzo 1958 ed è servita per l’ampliamento delle sue stutture. La casa generalizia attualmente è in Via Settala 25.
(3) La Casa Nazareth che era allora la casa generalizia delle Suore della Riparazione fu trasferita nel febbraio del 1952 in Via Salerio.
CAPITOLO XIV
SULLE PISTE GELATE TRA NUOVI RASTRELLAMENTI
(1 febbraio) Svegliandomi ripeto a me stesso nel dormiveglia: «Potessi almeno fermarmi un po’» e mi giro nel letto con le ossa rotte: sono i desideri del sogno.
Bisogna invece partire subito, perché oggi la città è ancora più inospitale per me. Si dice che cinque partigiani penzolano dalla forca in piazza ed il terrore ha preso un po’ tutti. Dopo le prime volate per le vie ancora deserte di Parma con gli occhi tesi su ogni movimento sospetto, mi trascino ora stancamente in aperta campagna, verso la montagna dell’est Cisa. La strada è pessima. A mezzogiorno sosto a Langhirano, fuori zona di pericolo. Mi accoglie l’Arciprete e trovo i primi partigiani, sono le Fiamme Verdi della Brigata Pablo. Qui lascio la bicicletta che d’ora in poi mi sarebbe solo di peso e di impiccio e proseguo a piedi col sacco da montagna sulle spalle. Arrivo a Tizzano quando le ombre della sera sono già calate fitte, batto a parecchie porte e finalmente trovo la casa del Parroco che mi ospita.
Da qui iniziò la mia più lunga traversata dell’Appennino parmense e piacentino, che durerà, senza notevoli interruzioni, ben dodici giorni, tra un gelo intenso e la neve che in certi punti raggiunge il metro.
(2 febbraio) Desidero incontrarmi col colonnello Gloria e con i membri del Comando della Delegazione Est-Cisa. Parto di buon mattino ed alle nove sono già alla sede del Comando. È in corso una lunga e movimentata riunione per la definitiva organizzazione della 3a Brig. Julia di cui risulta eletto comandante Paolo. Partecipo anch’io e con altri amici ho dovuto far superare alcune ingiustificate difficoltà e pregiudizi ingiusti a questa candidatura. Sono contento che tutto si sia risolto nel migliore dei modi; la 3a Julia nelle mani così sicure e ferme del Sacerdote ufficiale, sarà la bandiera più nobile dell’Est-Cisa. Parto dopo pranzo con Gloria su per i costoni del Caio e del Montebello, carichi di neve. Dopo una faticosa marcia durata fino a sera, arriviamo a Corniglio. Pernotto in Canonica. La Delegazione lavora a spron battuto a riorganizzare le brigate per la guerriglia, che sarà ripresa appena sarà scomparsa la neve.
(3 febbraio) Faccio visita alla missione americana radiotelegrafisti, che si trova nel paesino. A costoro lascio alcune relazioni portate da Milano e da Torino perché vengano trasmesse a Firenze e a Roma al Comando Alleato.
Ritrovo Bazan rimesso in forze e con lui parto per il Montagnana. A Sauna faccio ancora sosta presso il buon Parroco sempre tanto gentile. Rivedo il Battaglione della 12a Brigata Garibaldina, ma mi dispiace di non trovare Catone; ammalato e scoraggiato ha preferito passare il fronte ed unirsi agli alleati.
(4 febbraio) È appena l’alba quando, sacco in spalla e vestito da sciatore, parto per la dura salita di Pugnetolo. Qui faccio un’allegra sosta fra gli alpini del Batt. Bazan della 2a Brig. Julia. L’incontro con i vecchi amici, rasserenati, pieni di vigore e pronti per nuove lotte, è familiare, ma dura poco. Riparto a rotta di collo sulla distesa gelata del Montagnana con Bazan e due staffette. Nel cielo limpido il sole accieca, riscalda dolcemente il corpo, ma rammollisce la neve, la strada diventa impraticabile ed in certi punti ci si sprofonda oltre il ginocchio. Meglio prendere la mal a sorte con allegria, ci divertiamo come una spensierata brigata di ragazzini alle spalle del malcapitato che sta a capofitto nella neve in cui è caduto. Stavolta è capitata la malasorte anche a me; sento i compagni allegri battere le mani: «Anche il Padre che sembra avere il diavolo nelle gambe e la fortuna nel sacco, è cascato stavolta; guardalo a capofitto e come agita le gambe nella sua buca! ».
A mezzogiorno, in un bagno non di solo sudore, siamo a Casa Selvatica. Mangiamo in casa di amici ed attendiamo Camoscio (1) prima di ripartire per sapere da lui notizie dell’ovest Cisa. Siamo vicini al nemico e bisogna usar giudizio e prudenza per non incappare in imboscate. La Val Baganza dove ora ci troviamo, è ancora continuamente battuta da pattuglioni di Mongoli (4), che la vogliono tenere libera da brigate partigiane. Ieri sono saliti improvvisamente fin qui a Casa Selvatica ed hanno sorpreso alcuni giovani nelle case, uno nel tentativo di saltare dalla finestra si è rotto una gamba ed a stento ha potuto sfuggire alla cattura.
Arriva Camoscio, ma porta notizie non buone; le truppe mongole, che sono le ultime a ritirarsi, scorazzano ancora per tutta la zona. Decidiamo che sia miglior partito entrare nella stessa Berceto, sede del Comando tedesco, e quindi nella stessa casa del nemico, seguirlo così da vicino, studiarne le mosse ed attendere il momento più propizio per portarsi all’ovest.
La presenza del nemico ci rende ancora più pronti e veloci, con un balzo siamo al di là del Baganza, dopo averlo passato a guado e ci avviciniamo alla strada nazionale battuta e presidiata di tedeschi. Meglio attendere il fosco dell’imbrunire per attraversarla. Avanziamo come sulla prima linea di guerra, cauti, studiando da lontano l’avvicendarsi delle pattuglie, nascondendoci a percorso di guerra nei radi cespugli e nelle fessure del terreno. Verso le sei sbuchiamo sulla nazionale e giriamo lesti dietro un costone rivolto al Taro che ci toglie alla vista della strada. Per di qui pensiamo, seguendo l’abile guida di Camoscio, di entrare in Berceto senza noie. Non siamo ancora a metà della strada che conduce al Manubiola, che sbuca più sotto una lunga fila di soldati tedeschi. Ci immobilizziamo facendo ci una sol cosa con il terreno e sperando di scomparire nella luce incerta e grigia del tramonto. Sono attimi che sembrano eterni, in cui si attende da un momento all’altro il fischio della pallottola del tapum che ci intimi l’alt e l’arresto; non c’è da pensare ad una resistenza. In linea d’aria siamo distanti solo qualche centinaio di metri ed esposti al loro diretto sguardo. Quelli procedono e girano verso l’entrata del cimitero; sentiamo poco dopo l’alt ed il presenta armi alle salme dei morti degli ultimi rastrellamenti. Si respira, giriamo veloci il costone e ci buttiamo tra le prime case di Berceto. Si avanza addossati ai muri, scrutando ogni cosa e tendendo l’orecchio ad ogni minimo rumore; io nascondo in un ampio mantello da montanaro la mia barba sospetta. Veloci infiliamo la porta che ci attende aperta, dietro le persiane gli amici ci osservano inquieti e trepidanti. L’ultimo non ha ancora fatto scomparire il suo sacco nel vano della porta che la sentinella incappucciata per il freddo, si gira verso di noi e la porta che si chiude, ed allunga il suo sguardo al cigolìo dei cardini, ma troppo tardi per capire che cosa sia avvenuto. Stiamo entrando nella camera, quando sentiamo sul selciato della strada la scarpa chiodata della truppa che ritorna dal cimitero.
Siamo ospiti della panetteria di Berceto che sta di fronte all’albergo Pace che è la sede delle SS e del Comando tedesco. È una burla, se lo sapesse il capitano Jost! (3).
(5 febbraio) Le gentilezze e le premurose attenzioni della famiglia Savani (4) che ci ospita, hanno trasformata la stanza che ci racchiude in un soggiorno riposante, una vera prigione d’oro. È domenica, ma è impossibile celebrare ed ascoltare la S. Messa; mi unisco in preghiera alle campane che suonano a festa. Al piano di sotto c’è la bottega e sentiamo il ridacchiare sonoro dei tedeschi e dalle persiane socchiuse li osserviamo giocare e riposare nelle stanze dell’albergo.
Le notizie sono ancora incerte, soprattutto per la zona che dobbiamo immediatamente attraversare. Sono già tornate in Berceto le truppe del famigerato Jost, partite parecchi giorni prima per rastrellare la zona di Belforte, ma non si sa nulla delle truppe della Val Taro. Verso sera torna Camoscio, uscito a perlustrare la zona e si decide di partire da Berceto sull’imbrunire e puntare subito su Belforte.
Verso le cinque esce Bazan a braccetto di una signorina come fosse una coppia in cerca di amore, seguo io a poca distanza, solo, avvolto nel lungo mantello da montanaro come fossi un vecchio tutto infagottato ed intirizzito dal freddo, che si affretta a casa. Tutto il percorso è stato studiato ed i minuti sono contati. Le strade sono deserte, davanti al Comando la sentinella nervosamente passeggia punta dal freddo; ci vede quando siamo abbastanza lontano e ci crede cittadini che s’affrettano a casa. Due svolte ancora e poi si è fuori paese; si allunga il passo e finalmente Berceto è dietro le spalle.
A Campo Grande, Camoscio, partito prima, ci attende e da qui tutti insieme, nel grigio tramonto che si sta smorzando si galoppa verso Bergotto. A sera entriamo nel disgraziato paesino che è stato incendiato e quasi distrutto un anno fa dalla rabbia nazifascista. Si sono da poco conclusi i funerali dei tre patrioti caduti al S. Bernardo ed incontriamo ancora qualche gruppo di persone che, attardandosi sulla strada, commenta gli ultimi tristi avvenimenti. Non bisogna troppo farsi vedere, perché ci sono spie ad ogni passo e siamo ancora in zona pericolosa. Dobbiamo passare la notte in casa di Camoscio, ma dobbiamo attendere un’ora in una stalla vicina perché in casa ci sono degli importuni, dai quali è prudente non farsi vedere. Siamo cauti per non compromettere gli amici che si trovano sempre esposti alla rabbia tedesca, che è a un tiro di schioppo.
Allegramente ci buttiamo sulla cena preparata con cura dalla moglie tra l’allegria vivace dei bimbi incuriositi. Proprio qui trovo per la prima volta Colombino (5), un caro bersagliere disertore della Divisione Italia. Rimango un po’ impacciato, lo saluto gentilmente, ma con un certo riserbo. Ricordo troppo amaramente la defezione di alcuni bersaglieri della Divisione Italia, che dopo essere stati accolti fraternamente ci hanno poi vigliaccamente traditi. Ma con Colombino la cosa sarà diversa; saremo ottimi e fedeli amici.
(6 febbraio) Albeggia appena, un colpo alla porta ci richiama alla realtà, si deve partire presto.
Mi alzo, ma a stento reggo in piedi, lo stomaco è in rivolta e tutto il corpo è percorso da brividi e da dolori acuti: « Ci siamo – dico tra me un po’ contraddetto – gli strapazzi si vendicano ». Mi faccio forza, non voglio saperne di rimanere. A che pro rimanere? Servirebbe solo a mettere in pericolo una generosa e buona famiglia. Tracanno un bicchiere di un forte liquore e parto su per le piste segnate nella neve, richiamando tutte le possibili forze della mia resistenza fisica.
Arriviamo su un luogo di combattimento, l’annuncia la neve tormentata e i tronconi di una baita incendiata e rovinata. Un vecchio montanaro (6) serio e triste ci riconosce, ci dà la mano e ci accompagna narrando ci la triste storia,
« Quattro giorni fa un certo numero di giovani della 2a Brig. Julia sono venuti di là del Taro per prendere armi dai depositi. Dovevano partire subito, ma si attardarono nella zona perché alcuni compagni del luogo vollero passare a salutare i loro cari; qui rimasero accampati sette patrioti, che non erano di qui, in attesa degli altri. Erano d’accordo di partire insieme l’altro ieri. Le maledette spie che non ci lasciano mai, riferirono la cosa al nemico e l’altra notte lo portarono su. Il nemico era deciso a prenderli tutti e a dare una dura lezione alle popolazioni. Da Berceto partirono due colonne di soldati, l’una per la via di Bergotto, l’altra scendendo dalla Cisa: dovevano battere la Valle del Manubiola ed il passo S. Bernardo. Contemporaneamente salendo dalla Val Taro altre truppe dovevano rastrellare la zona di Belforte, il complesso delle forze nemiche era di mille uomini.
« La colonna proveniente da Bergotto, composta di duecento alpini sciatori in tuta bianca, salì di notte con guide sicure, percorrendo appunto questa pista che avete seguito voi. Qui in cima si appostarono in agguato sparsi su tutta la costa in attesa del giorno. Al primo albeggiare, quando ancora era tutto quiete e silenzio, una raffica inchiodò sulla neve un patriota uscito per caso dalla baita. Gli altri si svegliarono e fu un fuoco infernale. Per ben cinque ore i sei ribelli annidati nella baita tennero testa difendendosi accanitamente finché non vennero meno le munizioni. Anche allora non vollero cedere; a bombe a mano tentarono l’evasione. Cremona (7) balzò fuori per primo insieme con due bersaglieri, ma furono falciati, qui dove c’è ancora il sangue raggrumato. Gli altri tre si arresero e i tedeschi li trascinarono giù come belve nelle loro tane di sevizie e di torture. Quando scendevano, erano tutti orgogliosi e cantavano vittoria ».
Il triste vecchio scuotendo la testa continuava: «Cantavano vittoria, ma sotto c’era la rabbia di una vergognosa sconfitta. Pensate, sei contro duecento, per cinque ore, con parecchie perdite, perché li ho visti io trascinarsi giù i loro morti e i loro feriti ».
E narrando ci porta sul Calvario dei nostri fratelli, tra le rovine della baita e le chiazze di sangue ancora raggrumato sulla neve candida ed immacolata. Lacrime di fuoco, mal trattenute, cadono sulla neve tormentata e su questi segni di eroismo.
Siamo arrivati ormai in cima al S. Bernardo, ed il vecchio, quasi accasciato da un maggior numero di anni, facendo ci spaziare lo sguardo verso la Val Taro e la zona di Belforte, continua ancora la triste storia. « Anche Belforte ha avuto i suoi dolori. Li sorpresero di notte, ne presero alcuni come ostaggio, incendiarono alcune case per rappresaglia e perse la vita sui costoni della Pietra il giovane Volavia (8). Andate giù per di qui, allungate il passo, forse arriverete in tempo al suo funerale. Addio, figlioli!, che Dio vi accompagni ».
Sferzati dal dolore ci buttiamo per il declivio coperto di neve, mentre la stanca mano del buon vecchio ci saluta ondeggiante insieme alla candida barba, nel gesto di saluto la sua figura sul costone, stagliata contro il cielo, mi sembra una bandiera stanca, la bandiera d’Italia stracciata e calpestata, ma non ancora piegata.
Laggiù distinguiamo ora un corteo che si muove lentamente; certamente è il corteo funebre che scende dalle balze di Belforte. I rintocchi lenti e tristi delle campane, che singhiozzano a tutta la valle il loro dolore, ci arrivano più distinti, mentre voliamo sulla mulattiera ghiacciata. Arriviamo quando il feretro sta entrando in Chiesa. Il mio corpo toccato dal dolore, si è irrigidito e per inerzia si sostiene e quasi insensibile resiste alla fatica e allo stordimento degli strapazzi. Don Tito è sfatto dalla dura prova ripiombata improvvisamente sul suo caro paesetto. Sento che non è il momento di parlarci, pur dopo tanta assenza; non ne ha voglia il labbro che sembra incollato, ma più il cuore. In silenzio, affiancati, risaliamo dal Cimitero di Belforte. Volavia ora riposa nel suo piccolo Cimitero di Gorro (9).
Non ne posso veramente più, mi getto sul letto e vi rimango immobile come un sasso. È necessario che mi riposi almeno per una settimana, sono deciso a questo anche se vengono su i tedeschi. Nella cameretta, solo, socchiudo gli occhi, ma vedo ancora il S. Bernardo, il rosso vivo del sangue sulla neve candida, il bianco vecchio che da lontano saluta, i cari visi dei giovani scomparsi eroicamente nella bufera del rastrellamento, che mi parlano, che mi narrano le loro confidenze come un tempo.
Oggi mi sono dilungato a descrivere e soprattutto a rivivere questo triste quadro della dura e pericolosa vita partigiana con le sue barbarie e generosità, ma tanti, tanti altri ricordi affiorano alla memoria, perché quasi ogni paesetto quassù ha le sue distruzioni, le sue vittorie, le sue glorie.
(7-8 febbraio) Tutti i giovani e gli uomini partono da Belforte perché sarebbe troppo pericoloso rimanervi. Anche don Tito lascia il paesino; solo io rimango in Canonica a riposare.
(9 febbraio) È mezzogiorno, un corriere mi avvisa che don Tito mi attende a Tiedoli di là del Taro. In un primo tempo penso di rimandarlo con una lettera, perché non mi sento ancora di muovermi, poi cambio idea e decido di partire.
Zoppicante parto con Livio, arrivo a Tiedoli che non ne posso più. Non trovo don Tito e sono preso da stizza, ma poi ritornata la calma e la pazienza proseguo per Mariano. È notte quando arrivo.
(10 febbraio) Purtroppo la corsa non è finita, bisogna proseguire ancora. Sotto la tensione della volontà mi sono irrigidito e cammino per ore ed ore insensibile come un automa sulle piste tracciate nella neve. È un tempo meraviglioso. Il cielo è limpidissimo, il sole abbaglia sul candore della neve, il freddo è rigido, ma sano. Il panorama candido, pieno di luce, incastonato di fiori di brina e di ghiaccioli, ha qualcosa di irreale e di fantastico, ma io ho gli occhi arrossati, la testa pesante ed il corpo scosso da brividi e riarso per la febbre dello strapazzo, sì che passo come assente fra tanta poesia alpina.
A Gravago trovo finalmente don Tito. Sono sorte nuove preoccupazioni; ci scambiamo i nostri punti di vista e concludiamo che bisogna partire subito per Milano.
Don Tito non credeva di trovarmi così mal messo ed è pronto a partire lui stesso con una staffetta. Rifletto un poco sulle difficoltà che l’amico potrebbe incontrare in un mondo sconosciuto e nuovo per lui, sì da fargli arrischiare inutilmente la vita; gli dico a bruciapelo, senza possibilità di discussioni, che parto io. Lo persuado a rimanere, anzi gli presento l’opportunità di ripassare il fronte per portare le notizie della missione svolta in gennaio a Milano e a Torino per accelerare gli aiuti. Così ci dividiamo, io per il nord, lui per il sud, al servizio della patria e per aiutare i nostri cari alpini. .
Parto nel pomeriggio con Pierino (10), che d’ora in avanti sarà la mia staffetta; sono su un cavallo che il generoso don Luigi (11), parroco di Gravago, ha messo a mia disposizione.
Ho da svolgere parecchie cose nuove a Milano, devo riscuotere delle somme di danaro degli industriali, c’è da allacciare diretti collegamenti con il Comando Generale, ci sono altre lettere di Roma da recapitare ed infine la Prima Divisione Garibaldina del piacentino, di Prati (12), mi affida i suoi documenti per ottenere aiuti dal generale Cadorna. Dopo una buona cavalcata di quattro ore a sera siamo a Costa Geminiana. Il vecchio Parroco di 80 anni si fa a pezzi per darci ogni sorta di sollievo.
(11 febbraio) È domenica. Alle quattro e mezza celebro la S. Messa e alle cinque e mezza si parte a piedi con un montanaro che ci porta le valigie. È un mattino splendido: la luna vicina al tramonto si scopre bassa dietro i rami spogli e bianchi e una luce diafana, soffusa, dovuta ai riflessi della neve, ci indica i sentieri. Si sale spediti sulla neve dura ed all’alba siamo in cima al passo. Ad oriente il cielo si incendia, la neve ha riflessi e sprazzi di fuoco come di brillanti illuminati, i fiori di ghiaccioli sospesi tra i rami riflettono mille colori, finché il disco rosso del sole nascente non si stacca sull’orizzonte dalle cime del lontano Appennino imbiancato. Allora è un’inondazione accecante di luce che tutto travolge.
Fermi davanti alla natura in festa, appoggiati agli alpestock, con gli occhi affondati in una ricchezza di luce e di colori, ci si riposa dolcemente, mentre il pensiero naviga nell’infinito e i raggi del sole appena tiepidi inumidiscono come con un dolce bacio la fronte gelata; le palpebre e la barba sono perlinati di ghiaccioli. Poi si rompe l’incanto e ci buttiamo giù scivolando verso Molinello di Ferriere. Arriviamo alle nove. Anche tra questi montanari regna il terrore; le strade per Ferriere sono presidiate dai Mongoli, veri predoni della steppa, che talvolta salgono fin qui saccheggiando e deportando. Le brigate Partigiane di questa zona del piacentino, dopo il grave rastrellamento di novembre, non si sono più potute riunire ed ora solo qualche gruppo isolato vive sparso e nascosto nei luoghi più inaccessibili. Riusciamo a trovare due biciclette dopo averle disseppellite; qui si deve seppellire tutto ciò che si vuol salvare dall’ingordigia russa e tedesca.
Ce le trasciniamo a mano per un’ora sulla neve ancora gelata che ne porta il peso. Guadiamo il fiume Nure con l’acqua gelida, fino oltre il ginocchio e sbuchiamo sulla Provinciale. Con l’avanzare del giorno il sole rammollisce la neve e la strada diventa una pista fangosa. Procediamo ancora con una certa velocità perché siamo in discesa. Avanziamo cauti e spesso ci fermiamo a chiedere informazioni. Troviamo i primi Mongoli a Farini d’Olmo; d’ora in poi li troveremo più spesso e più numerosi. Appena fuori Bettola uno squadrone, sui loro piccoli cavalli russi, passa alla carica e sono quasi travolto se con un salto non mi getto sotto la strada. Sono le tredici, la fame si fa sentire ed un abbondante sudore ci inumidisce tutto il corpo. Ci fermiamo in una trattoria e dopo solo una sosta di un’oretta siamo di nuovo sulla strada. A sera arriviamo a Villò. In casa del Parroco che è un caro amico della staffetta, mi butto su di una poltrona addosso alla stufa e non mi muovo se non per andare a letto. Così è terminata la grande traversata invernale dell’Appennino ghiacciato e pieno di neve, dalle Valli del fiume Parma a quelle del fiume Nure.
(I) (<< Camoscio »), Francesco Calzi, nato a Berceto nel 1908, morto in Argentina.
(2) Mongoli erano truppe caucasiche associate alle forze tedesche.
3) Jost, pare avesse solo il grado di sergente, ma per la sua autorità e supponenza lo
si credeva un capitano. Conosce molto bene cinque lingue e sembra viva tuttora a Monaco
(4) Un figlio della famiglia Savani, pure partigiano, scampò alla strage di Bosco di
Corniglio
(5) (<< Colombino »), non sono riuscito ad avere notizie precise.
(6) Il vecchio descritto dovrebbe essere un certo Grassi abitante al Fagiolo (località fra
Belforte e Bergotto), sposato a tale Caterina chiamata la Mamma dei Partigiani.
(7) (<< Cremona »), Graziano Azzini di Cremona, anch’egli ricordato sulla lapide di (5) (<< Colombino »), non sono riuscito ad avere notizie precise.
(8) «< Volavia »), Luigi Molinari morto nell’imboscata del febbraio del 1945, è segnalato
sulla lapide di Berceto.
(9) Gorro, frazione del Comune di Borgotaro.
(10) (<< Pierino »), nome alquanto ricorrente che non consente un’attribuzione precisa di
persona.
(11) Don Luigi Squeri, parroco di Gravago, d3funto.
(12) (<< Prati »), Giuseppe Prati comandante la Divisione VaI d’Arda, Brigata Valnure.
CAPITOLO XV
CORRIERE DEL COMANDO GENERALE
(12 febbraio) Mancano ancora 90 chilometri a Milano, con una strada che non si presenta agevole; non bisogna badare alla stanchezza e cedere alla dolce voglia di attardarsi nel letto.
Alle sette siamo pronti per la partenza. Con una volata di un’ora siamo al traghetto del Po. Qui come il solito si perde alquanto tempo e poi via di nuovo sulla via Emilia. Stringo i denti nello sforzo, ma il pensiero di poter, prima di sera, riposare a casa mia mi spinge veloce ed incurante dei posti di blocco e degli sguardi sospettosi alla barba ed ai capelli lunghi alla garibaldina. A sera sono davvero a casa e posso serenamente riposarmi per due giorni.
(14-18 febbraio) Sono di nuovo a Milano. Riesco ad ottenere appuntamenti con gli Ufficiali del Comando Generale a cui consegno il materiale portato ed espongo le condizioni delle formazioni del Nord-Emilia. Vado ancora dagli industriali e dai banchieri e so portare una ben lunga pazienza, perché chiedo la carità non per me, che l’avrei fatta finita, ma per gente che soffre e che muore.
Spesso non ho che delusioni, ricevo tante belle parole, tante promesse, ma poi quando si deve venire ai fatti, o non si fanno trovare, o presentano mille scuse per non rispondere. Mi pento di perder così tanto tempo con gente preoccupata solo dei proprio affari; è la prima volta che mi pento di una fatica e di un rischio sofferto per la libertà.
E bisogna essere molto cauti, non tradirsi, perché devo frequentare ambienti in cui trovo anche le più alte autorità fasciste e tedesche; spesso ci incontriamo nelle stesse sale di aspetto o uscendo dagli stessi appuntamenti con le medesime persone.
Ho le mie contrarietà anche con i rappresentanti politici del Comitato della D.C.; forse noi partigiani, provati dal fuoco, abbiamo un modo di pensare e di agire diverso dai prudenti politici.
Mi intendo meglio con gli incaricati dei quadri militari e da essi posso ottenere qualche cosa. Cari d’Este, Gino, Sergio, Argenti, credo che qualche volta siate rimasti un po’ perplessi davanti al mio contegno sbarazzino, nervoso, irrequieto, un po’ intransigente; ma erano le privazioni, i dolori, le preghiere di migliaia di giovani, che attendevano un aiuto da me al ritorno, che mi rendevano così intransigente, che mi tormentavano e mi inquietavano.
Il mio soggiorno in Milano non è facile; mi è difficile anche trovare un alloggio. In Collegio non mi si vuole assolutamente; in Casa Madre mi ripetono continuamente di non farmi più vedere; a tutti prometto che è l’ultima volta, che manca poco, poi ritorno ancora, ed ho sempre in cuore il proposito di non mantenere ciò che prometto. Tutto questo chiedere, piegarmi, pregare, scongiurare, mi è molto duro esercizio di umiltà, di santa pazienza da buon Frate Francescano, devo confessare che non sono sempre riuscito ad essere remissivo, comprensivo delle idee altrui che, spesso, colpivano il mio spirito ribelle come fossero sferzate che facevano sangue. Non era un mestiere adatto per me.
(18 febbraio) Finalmente dopo tante insistenze ed anche scortesie ho raccolto qualcosa: parecchio denaro (dieci milioni in liquido), numerose lettere, relazioni, stampa, propaganda, ecc.
Con tutta questa roba, nascosta il meglio possibile, sulle stesse biciclette partiamo alle ore sette. Il fondo stradale è molto migliorato e in una sola tappa a sera siamo a Villò, senza eccessiva stanchezza, nonostante i pesanti bagagli.
(19 febbraio) Si riparte presto quasi felici, ma ecco che ci capita ciò che sarebbe potuto essere irrimediabile e diventare tragico.
Prima di Ponte sull’Oglio ci troviamo la strada sbarrata da un rigido posto di blocco; non lo prevedevamo, perché è stato messo solo questa mattina dalle SS italiane inasprite da un attacco partigiano avvenuto stanotte. Ci accorgiamo quando è troppo tardi per svignarcela. Vogliono il permesso di circolare in bicicletta; protesto che la disposizione mi è nuova e sconosciuta; non intendono ragioni e requisiscono le due biciclette. Poi viene il peggio; documenti alla mano, spoglio e perquisizioni dei bagagli.
Per fortuna bisogna mettersi in fila, perché c’è già altra gente che attende ed intanto penso come cavarmela. Cerco scuse, ma invano; il sergente che comanda il posto di blocco è scorbutico ed intransigente, per cui bisogna lavorare di astuzia e in velocità; così fingo di arrendermi e di attendere il mio turno. Dalla mia cartella faccio frattanto scomparire, con la sveltezza di un prestigiatore, sotto l’ampio paletò legato a mezza vita da una cinghia di cuoio, il danaro e le lettere più compromettenti, perché penso che non oseranno mettermi le mani addosso. Sono preoccupato per la valigia che contiene altra roba da non far vedere. Spingo il mio compagno a slegarla veloce in mezzo a tutta quella gente, fingendo di dover cercare i documenti. Riesco a prendere altro danaro, e altre lettere, ma come fare con la stampa, propaganda, ecc.?
Ormai il milite è vicino, sto impassibile e seccato, ma non mostro preoccupazione. Gli consegno la cartella, vi fruga dentro, trova nulla di compromettente, solo cose personali, ma non persuaso vuole aprire anche il Breviario; è molto pignolo e si mette male.
È la volta della valigia. Anche qui è meticoloso e vuole guardare tutto; l’apro e gliela mostro tenendola in mano. È coperta da strati di medicinali e lui ridacchiando mi dice che pratico il mercato nero. Per non farlo proseguire a guardare sotto, dove c’è la roba pericolosa, protesto per l’insinuazione, prendo la valigia sotto il braccio, mi mostro offeso e mi appello al Comando per la perquisizione. Lui resta un po’ sorpreso alla mia improvvisa irritazione, poi si irrita anche lui ed accetta la cosa come una sfida. Era l’ultima carta che potevo giocare per salvarmi; l’ha accettata, ma è forse solo una tregua ed un allontanare per poco la catastrofe. Non saprei dire come dentro mi scoppiasse il sangue nelle vene ed esternamente potessi giocare una così spiritosa commedia. Solo una settimana prima nella stessa zona don Borea (1) era stato arrestato come cappellano dei Partigiani ed era stato fucilato dopo un sommario processo; se mi andava male il gioco, la stessa sorte mi era segnata. Si parte per il Comando che è posto in paese; per fortuna il sergente è rimasto al posto di blocco e ci accompagna un piantone. Sono con Pierino ed altri che non hanno le carte in regola. Anche qui bisogna attendere e così posso studiare la nuova situazione. Parlo con tutti, sono diventato ciarliero, perché sono in cerca di una via di uscita. Intravedo ad un certo momento la via di scampo, vedo che va e non la lascio.
Mi sono fatto passare, chiacchierando un po’ con tutti, come un ex cappellano delle camicie nere del battaglione M reduce dalla Russia. So abbastanza notizie sicure sull’argomento e narro una storia dietro l’altra, cercando di attirare l’attenzione del maggior numero possibile dei militi presenti. Accolgo la simpatia di alcuni, che si avvicinano incuriositi per ascoltare meglio. Mi osservano, chiedono; ormai sembro uno di loro e qualcuno si scusa con me dell’inconveniente capitatomi e mi promette che si farà in fretta; basta parlare col Comandante e tutto si accomoderà. In un momento di poca vigilanza faccio scomparire dalla valigia anche il resto della roba compromettente. Ormai ho tutto ciò che mi potrebbe dar noia con me e sono ora in cerca di una scusa per allontanarmi e liberarmene. Mi avvicino al piantone, come fosse un vecchio amico, e gli domando di lasciarmi uscire un momento in piazza per avvisare il Parroco che, dato l’incidente, devo rimanere da lui. Insisto, mostro di lasciare lì ogni cosa e che non c’è pericolo; lui stesso mi può seguire con lo sguardo fin sull’uscio della Canonica. Mi dà il permesso; è la salvezza. Cammino con indifferenza, con sorrisi di ringraziamento, ma vorrei dentro di me volare.
Poi torno più libero e più sicuro a continuare la commedia del Cappellano fascista. In breve riesco a liberarmi, riavere la bicicletta anche per il mio compagno e partire con i saluti e gli auguri di buon viaggio, quasi con le loro scuse. Sono passate tre ore di vera agonia. Riprendo la mia roba dal Parroco e mi allontano senza osare guardare indietro. Non ne posso più, il mio sistema nervoso stava per scoppiare ed ora parlo, parlo nervosamente con il compagno con il fiato grosso come dopo aver fatto una lunga corsa che mi ha spossato.
A Bettola lasciamo le biciclette ed eludendo un nuovo posto di blocco proseguiamo a piedi per Prato Barbieri. Arriviamo alle cinque dopo tre ore di salita con i bagagli in spalla ed in un lago di sudore. Al tramonto entriamo in Molfasso, ove credo di trovare Prati. Non c’è nessuno e nemmeno un posto per riposare; proseguiamo. A sera tardi, guidati dal chiaro di luna, siamo a Pedina ove ci ospita il Parroco.
(20 febbraio) Incontro Prati che è presente per una funzione in suffragio di alcuni morti della sua divisione. Faccio conoscenza anche con suo fratello Sacerdote che fa il Cappellano alla sua formazione.
Lo metto al corrente dei risultati ottenuti in suo favore e gli consegno alcune comunicazioni del Comando Generale. A mezzogiorno si riparte a piedi. Al tramonto arriviamo a Bardi; qui consegniamo i bagagli a due partigiani e così possiamo con un ultimo sforzo ripartire; alle 23 entriamo nella Canonica di Gravago, da dove dieci giorni prima eravamo partiti.
(21 febbraio) La vita mi è diventata una vera vorticosa giostra che non si può fermare. Riposo oggi, cerco di riposare molto; perché domani devo ripartire ancora per Milano. Mi hanno collaudato corriere ufficiale del Comando Generale.
(22-23 febbraio) Questa volta riparto solo per Milano. Pierino mi raggiungerà in seguito con altre relazioni ed incartamenti non ancora pronti. A Bardi trovo una bicicletta, mi faccio trascinare da una motocicletta fino in cima al Pelizzone e poi giù solo, a rotta di collo, per i ripidi tornanti verso la Valle Padana fino a Piacenza. Sono diventato uno spericolato ciclista, ma sui lastroni di ghiaccio, levigati come vetro, ho dovuto pagare il contributo di parecchi, paurosi ruzzoloni e capitomboli. Mi sono sempre rialzato incolume, solo un po’ pesto, difeso da chissà quale Santo protettore. Inpianura con il bel tempo, la strada è diventata ottima e mi sembra di fare una passeggiata. A sera sono a Casalpusterlengo e mi riposo dal buon Sacerdote che mi aveva già ospitato. Il giorno dopo sono a Milano alle 12.
(23 febbraio – 3 marzo) Il lavoro è intenso e febbrile. Ricupero dagli industriali un milione con il fedele aiuto di De Vio, ed insisto ancora in lunghi colloqui per una fattiva cooperazione alla guerra di liberazione. Cerco di far capire ai membri del Comando Generale alcuni inconvenienti sui collegamenti con l’Emilia, manovrati purtroppo dalle sinistre; devo insistere fino a perdere la pazienza, perché mi diano ascolto e non si lascino guidare dal Comando Garibaldino che spadroneggia e non fa imparzialmente il bene di tutte le formazioni a qualsiasi colore appartengano
e soprattutto non fa il bene dell’Italia nuova che dovrebbe sorgere libera. Incerti momenti devo aver dato l’impressione di un fanatico a questa gente che non poteva capire la furbizia e l’azione disgregatrice svolta dai comunisti sulla montagna. Riesco dopo tanto faticare ad ottenere che i collegamenti avvengano direttamente tra il Comando e la montagna emiliana senza l’intralcio del Comando Nord-Emilia che mi domando dove si sia cacciato e a chi serve. Il corriere ufficiale dovrebbe essere Pierino. Ottengo le assegnazioni finanziarie per le formazioni dell’Emilia da consegnare a Bellini che è l’unico del Comando Nord-Emilia che vive veramente e sempre tra i ribelli. Nel frattempo mi metto in relazione con i vecchi amici clandestini e con elementi cattolici che vogliono intervenire nella lotta per fare argine all’impressionante predominio dei rossi. Si svegliano anche i cattolici più restii ora: meglio tardi che mai!
Riusciamo a costituire gruppi di Gapisti (2) e Sapisti (3) democristiani in città. Per questo nei tempi liberi percorro i vari rioni; riunisco i volontari che saranno poi i capi delle Brigate del Popolo che sono in fase di organizzazione.
Spartaco, giovane ufficiale della polizia, che è a capo del gruppo clandestino Pasubio, mi ottiene il permesso e le più ampie facilitazioni di circolare sicuramente senza noie e di superare anche i più rigidi posti di blocco.
Il 3 marzo parto definitivamente da Milano. Sono stanco di queste scorribande, desidero rimanere sulla montagna tra i ribelli, i quali vedendomi ormai da parecchio tempo solo di sfuggita mi rimproverano di averli dimenticati.
(1) Don Giuseppe Borea cappellano dei Partigiani in VaI d’Arda, fucilato a Piacenza il 9 febbraio 1945.
(2) GAPISTI (Gruppi di Azione Patriottica) sorti nel novembre del 1943.
(3) SAPISTI (Squadre di Azione Patriottica) nate nell’estate del 1944.

CAPITOLO XVI
SUONA LA TROMBA DEL RISVEGLIO SULLA MONTAGNA
(5 marzo) Il tempo è bello, si avanza la primavera; l’Appennino mi accoglie ridente e sono felice di aver lasciato la pianura. A sera sono di ritorno a Gravago e penso di non lasciare più la montagna, dove con la primavera si sveglia la guerriglia.
(6-7 marzo) Riprendo la vecchia vita di Cappellano dei Ribelli in visita alle varie brigate. Desidero visitare per prima la 2a Brig. Julia; è la prima che ho incontrato ed amato il lontano ottobre, quando per la prima volta sono apparso da queste parti e che da allora ebbe sempre un posto particolare nel mio cuore.
Quasi quasi non li riconosco più i miei alpini, mentre ben equipaggiati e vestiti in divisa americana mi si fanno incontro per salutarmi. «Ma che cosa è successo? ». «Sono finalmente arrivati i lanci », gridano in coro. Tutto è passato: le antiche incertezze, sfiducie, disaccordi; ora sono orgogliosi e tutti uniti e pronti alle azioni più coraggiose. Trovo Umberto che è stato eletto comandante della Brigata e lo ringrazio di tanta trasformazione ottenuta con il suo prudente tatto e sacrificio. Dopo tanta assenza ci sono molte cose da dirsi, da confidarsi a cuore a cuore. Li rivedo ad uno ad uno in due giorni di vera intimità di famiglia, questi cari figlioli dal viso solcato dalla sofferenza, cotto dal sole e dai riflessi della neve, da sembrare duri e legnosi, ma che invece nascondono un cuore d’oro e pronto ad ogni necessità.
Nei vari distaccamenti trovo gioie e dolori, prove e speranze, ed è un piacere sentirsele riversare nel cuore. Sfacimme (1) è morto al Mormorola in una imboscata, Micio è nelle grinfie del feroce Jost, altri sono feriti ed ammalati. Non ho ancora visto Tom; arriva a sera. Non lo riconosco quasi più il mio fedele Tom. L’avevo lasciato ragazzo pieno di vita e di ardore ed ora, dopo quasi due mesi di prigionia, tra le torture del barbaro tedesco, non vedo che l’ombra di quello di un tempo. Si trascina come un sessantenne appoggiato ad un bastone, zoppicante, col fiato grosso ad ogni minimo sforzo e con i segni delle torture sulle carni, al viso, alle mani, ai polsi, sulla schiena. Il suo viso ha ancora lo stesso sorriso, la sua parola pur spenta è ancora generosa e semplice. Seduti vicini sul pancone per la cena e poi sui pascoli di Mariano, mentre nel cielo si accendono le prime stelle, mi narra la sua triste storia. Mi narra le finezze assurde della tortura tedesca e dei rinnegati italiani, dolorosamente, ma senza odio, come di una cosa che si doveva soffrire. È contento di averla scampata e mi confida un solo rimpianto: pensa ai compagni che non hanno potuto seguirlo nello scambio dei prigionieri e che si trovano ancora nell’inferno delle prigioni di Parma.
Da sinistra a destra seduti: Giovanni Vignali, «Bellini », Vice Comandante Regionale del CNL del Nord-EmiIia; pro£. Achille PeIlizzari, «Poe », Commissario del Comando Unico della zona Ovest-Cisa; Umberto Pestarini, «Umberto », Comandante della II Brig. Julia; in piedi: don Aurelio Giussani, «Padre Carlo da Milano », Cappellano; dottor Pippo Sidoli e un partigiano non identificato
(8 marzo) Faccio una scappata a Belforte per prendere la mia roba e l’altare da campo. È mezzogiorno e sto facendo l’ultima salita che porta al paesetto; è la più dura e tutte le volte che la devo percorrere mi si fa il fiato grosso, sospiro, sudo e borbotto che quello è un paese costruito non dagli uomini, ma dal diavolo.
Alcuni alpigiani che mi vedono passare, mi avvisano che c’è lo stato di allarme, perché si dice che ci siano pattuglie di Mongoli che scorazzano sulla costa. Non dò eccessivo peso alla notizia e tiro avanti. Passo il Cogena ed incontro alcuni giovani armati, che scendono da Belforte per darsi alla macchia, appunto per la presenza del nemico e per non farsi prendere in casa e così procurare anche noie a tutta la popolazione.
Mi unisco a loro ed insieme tentiamo cauti di girare il costone per portarci fuori tiro sulla montagna del Molinatico. Sulla rocca di Belforte si vede molta gente fuori casa, li sentiamo gridare e fare gesti. Ci fermiamo un momento ad osservare, ma non comprendiamo cosa vogliono segnalare, pensiamo che sia successo qualcosa in paese e che abbiano i Mongoli in casa. Decidiamo di continuare la nostra deviazione, ma più prudenti e guardinghi. Lascio indietro loro che sono armati, di una cinquantina di metri, ed avanzo io, facendo da battistrada, come fossi un prete qualsiasi. Non ho fatto che qualche centinaio di metri che una raffica mi passa vicino, mentre strane grida gutturali e scomposte mi giungono e che intuisco come un ordine di alt e di resa. Subito faccio salti enormi nel tentativo di fuggire ed anche per attirare l’attenzione solo su di me ormai scoperto, così che gli altri più sotto e più coperti sappiano cosa fare per fuggire. Sono attimi di azioni intuitive e disperate, in cui agisce più l’istinto che il ragionamento. Capisco che è troppo tardi, perché vedo le canne dei mitra spuntare anche sui fianchi: sono circondato. Mi fermo di botto, mi volto a mani alzate verso il nemico, quasi a fermare la raffica mortale che può partire.
Fattomi improvvisamente calmo dico fra me: «Bisogna prender tempo per me e per gli altri ». Lento, lento, incespicando spesso nelle buche, risalgo la china; in una di queste cadute volontarie, come incespicando nella lunga veste rotta, lascio il mio colbacco con la Croce Rossa e qualche altra cosa compromettente nelle buche del terreno tra i rovi. Per incanto tutto sembra fatto calmo. Sento qualche fruscio in alto, sono i Mongoli in agguato non ancora sicuri di sé, ne sento il fiato grosso sempre più vicino come di belve agitate, vedo qualche berretto spuntare dai cespugli ed intravedo anche qualche occhio vivo che mi segue.
Di sotto mi arrivano fruscii cauti, quasi impercettibili: sono forse i compagni che se la squagliano, mentre l’attenzione del nemico è tutta su di me.
Salgo lento ed è come il mio Calvario; penso a Tom tornato sfatto e rovinato dalle sevizie della prigionia ed alla sua triste storia che appena ieri sera mi ha narrato sui pascoli di Mariano, e mi sembra già che sia questa la mia sorte segnata. Ci sono ormai e mi accoglie un grido barbaro, inumano di 18 Mongoli che mi si buttano addosso, con le armi puntate, come un branco di lupi affamati e feroci.
Sono calmo, faccio l’ingenuo, il meravigliato. Tento di spiegare la mia presenza, intercalando frasi tedesche, francesi e parole russe. Hanno facce poco rassicuranti, non vogliono storie, mi sembra che si metta male, può avvenire anche lì, sui due piedi, la fucilazione. Sono intuizioni di secondi, mentre mi dibatto disperato in tutti i modi, sperando che si apra una via di salvezza. Insperatamente la Provvidenza mi viene in aiuto.
Sotto, per la china ripida, coperta di cespugli e di file di siepi che tolgono la vista, si sente un rumore come di cose che rotolano: il nemico non si sente più sicuro, mi trascura perché innocuo e si butta come un corpo solo a far fuoco incrociato dai massi poco lontani dai muriccioli di montagna che dominano il Cogena.
Intuisco l’occasione che mi è a portata di mano; è un attimo di libertà e può essere la mia salvezza. Mi aggrappo come un disperato ad essa con forze sconosciute anche a me stesso e via con salti mai fatti, per i dirupi, oltre i muretti, mentre la sparatoria continua indiavolata.
Sono salvo e mi concedo un po’ di riposo e di respiro. Sento ancora la sparatoria continuare sempre più in basso verso il Cogena. Ho una spina nel cuore: quel rumore provvidenziale era certamente dei compagni che fuggivano, chissà se l’hanno potuta scampare anche loro! Dal mio nascondiglio cerco invisibile di guardare verso la valle e di intuire cosa succede. Dopo mezz’ora la sparatoria cessa e ritorna il silenzio. Mi alzo, salgo triste verso Belforte, abbastanza malconcio. Sbuco tra le prime case ed accorre tutta la gente che non vuol credere ai suoi occhi di vedermi tra loro. Essi terrorizzati avevano seguito dall’alto tutte le nostre mosse e quelle del nemico; forse avevano pensato di passare più tardi a raccogliere i nostri cadaveri.
Anche stavolta l’ho scampata: sia ringraziato Iddio.
Dopo un’ora le sentinelle alpigiane mi fanno vedere col cannocchiale i Mongoli scendere sulla strada di Ostia. Allora parto anch’io con altri uomini armati in cerca di notizie degli altri compagni. In basso vicino al mulino del Cogena li ritrovo tutti; ci narriamo come ciascuno se l’è scampata. L’unica conseguenza è la stanchezza; spalle slogate per i salti nel vuoto, ammaccature per i capitomboli dai dirupi, vestiti ridotti a brandelli in parecchi posti.
Nel buco del terreno, mentre ripasso sul luogo del pericolo, ritrovo il mio colbacco con la Croce Rossa.
(9 marzo) Voglio sapere da quelli di Belforte dove è don Tito. « È partito – dicono – ha passato il fronte di nuovo ». Per mezzo di un corriere specializzato per questi servizi gli invio sulla sua strada i documenti e le relazioni portate da Milano per il Comando Alleato e per Roma. Persuado frattanto i pochi patrioti armati ancora presenti nella zona a lasciarla e passare di là del Taro; ad essi consegno la mia roba. lo rimango un poco ancora; ma sono sempre all’erta perché i Mongoli dal basso non ci danno requie.
(10 marzo) Mi sono riposato, ho fatto visita alle case degli alpigiani bisognosi, posso partire. Scendo con grande prudenza a valle, nel punto più isolato e sicuro guado il fiume Taro ed a sera sono di nuovo a Mariano.
(11-13 marzo) « Padre perché non è venuto ieri? – mi dicono alcuni Alpini con amarezza – se fosse stato qui avrebbe partecipato ad una grande e bella festa della Brigata. Ieri mattina tutta la Brigata in perfetta divisa militare americana, si è riunita nella piccola Chiesetta a commemorare tutti i nostri morti; poi inquadrati in piazza abbiamo assistito al cambio del comando. Umberto è stato eletto comandante della Divisione Val Taro, alla Brigata è subentrato Bazan ». «Bene, bene, mi rincresce, ma sono contento della bella riuscita ». Ormai tra questi alpini ben vestiti e perfettamente equipaggiati mi sembra di essere tra un esercito regolare.
Poe, l’instancabile commissario generale, ha creato gli enti dell’approvvigionamento con l’intendenza di Brigata, di Divisione e di Zona; soprattutto ha voluto che la disciplina fosse severa e sicura e per questo ha costituito un tribunale di guerra ed un campo di concentramento (2). Tutto ormai è pronto per una massiccia ed ordinata ripresa della lotta.
Il 12 è giorno di lancio a Mariano.
Già da parecchi giorni nella Canonica i R. T. della Missione americana del capitano Bob (3), attendono questo lancio con impazienza. Quattro giorni fa infatti cinque bimotori erano venuti e si erano abbassati sul campo di lancio nella conca a fianco della Chiesetta. Avevano girato per parecchio tempo, si erano abbassati all’altezza del lancio, sì che si vedevano i bidoni pronti sulla porta della carlinga, ma poi, inspiegabilmente, si erano rialzati ed erano poi spariti all’orizzonte verso il fronte. Ora l’attesa è nervosa perché il tempo sembra mettersi al brutto.
Il marconigramma annuncia un lancio per le undici. Alle dieci i distaccamenti sono sulle postazioni di guardia, i segnali distesi sui pascoli sono visibilissimi, i curiosi, alla larga, sono sui groppi per assistere allo spettacolo. L’attesa è fiduciosa, però in fondo c’è ancora il timore di una nuova delusione. Puntuali alle undici ecco all’orizzonte i bimotori, una scarica di bren lancia l’allarme. Come grossi uccelli neri i sei bimotori vengono avanti ormai in fila indiana, mentre due caccia di scorta più alti fanno da guardia. Girano, rigirano, stringono sempre più il cerchio, abbassandosi sempre più fino quasi a far venire il capogiro a noi che li seguiamo con la testa alzata. Si abbassano ancor di più tra un rumore assordante, poi ecco il primo lancia, passa il secondo e lancia anche lui, e così via per una decina di volte in una vera scorribanda di virate, di impennate, di scivolate, finché non si sono liberati di tutto il carico. I bidoni lanciati a sei per volta volteggiano per il cielo in una rapida caduta, poi l’ombrello del paracadute si apre e scendono lenti in una variopinta danza nell’azzurro vivo dell’atmosfera che si è fatta completamente serena. I due caccia di scorta, come due monelli mai stanchi e birichini si sbizzarriscono nelle più ardite evoluzioni con picchiate e voli verticali che fanno trattenere il respiro; vogliono dare spettacolo.
Dopo un’ora il lancio è terminato; i bimotori fanno un ultimo giro più basso mentre i piloti si sporgono a salutarci e da ultimo, come loro saluto, i due caccia sempre monelli capricciosi, con picchiate paurose riescono a farci trattenere il respiro. Nel cielo la formazione si allontana solenne e calma e sparisce all’orizzonte verso il fronte.
Le squadre di raccolta sono in azione, i buoi per il trasporto sono già al lavoro e sulla piazzetta è un ammucchiarsi sempre più grande, sotto il controllo del capitano Bob, di armi, vestiari, viveri, munizioni. Raffiche di mitra sparate ad intermittenza ai lati del campo, sono l’avviso ai curiosi e soprattutto ai malintenzionati di girare alla larga.
Il comando partigiano ha dovuto emanare ordini severissimi contro gli approfittatori e i ladri del materiale. Purtroppo si sono dovuti registrare casi dolorosi che inaspriscono anche le missioni di lancio, per la scomparsa di numeroso materiale paracadutato.
Il lavoro procede veloce: per le 17 tutto il copioso materiale è sistemato. Questa sera ci sarà festa in tutti i distaccamenti della 2″ Brig. Julia.
(13 marzo) Parto per Monastero di Gravago dove Mons. Civardi (4) mi attende. Già da parecchio tempo desideravo conoscerlo personalmente. Mons. Civardi, Cappellano capo delle formazioni piacentine, sacerdote del più sobrio equilibrio e di piacevole conversazione, è stato uno dei primi organizzatori del movimento clandestino di Piacenza; da qui dovette ben presto fuggire e salire alla montagna tra i Ribelli. Ora finalmente ci troviamo e vogliamo organizzare l’ufficio centrale di assistenza religiosa alle formazioni della montagna.
Per tutta la giornata lavoriamo a delineare uno schema preciso e possibile. L’organizzazione militare è ormai quasi perfetta; nel parmense, per esempio, ci sono cinque divisioni con i rispettivi comandi, intendenze e precise zone di influenza. Manca invece un’altrettanta completa organizzazione dell’assistenza religiosa. Pensiamo con i nuovi sacerdoti saliti alla montagna ultimamente di colmare quasi tutti i vuoti e di dare a tutte le Brigate o almeno Divisioni un cappellano; costoro dovranno dipendere da due ispettori di zona, la piacentina e la parmense, che presso il Comando Nord-Emilia costituiranno il centro assistenza religiosa. lo vengo incaricato come ispettore della zona parmense e cappellano della Divisione VaI Taro e precisamente della 1″ e 2a Julia e del Raggruppamento Val Taro; per la zona piacentina resta Mons. Civardi.
Prima che Mons. Civardi parta per Compiano, il progetto è pronto. Mi incarico di inoltrarlo al Comando militare e di prospettare un simile progetto anche al Comando Generale di Milano.
Purtroppo i comunisti non gradiscono la cosa; cercheranno di non osteggiarla apertamente, ma di temporeggiare, di tramandare con l’intenzione di mandarla a vuoto. Con molte insistenze e con l’adesione entusiasta di Poe l’organizzazione sarà approvata e avrà veste ufficiale ai primi di aprile. Presso il Comando di Milano il progetto verrà approvato solo come esperienza locale, ma non riuscirà ad avere vita nella complessa organizzazione del Comando Generale.
A sera parto anch’io per il Comando della 2″ Brig. Julia.
(14-15 marzo) Mi fermo a Mariano per fare visita al nuovo Comando di Bazan ed ai vari distaccamenti. Rivedo con calma tutti i vecchi amici, mi trattengo a lungo con loro raccontando ci le vicende liete e dolorose del lungo inverno tormentato da ogni genere di difficoltà e da rastrellamenti. Tutti hanno le loro preoccupazioni e le loro croci da versare nel cuore del Sacerdote che Padre e patriota vive con loro la stessa vita. È questa una consolazione che fa dimenticare tutte le fatiche, le incomprensioni, quella apparente anormalità di vita un po’ sbarazzina e fuori lo schema e la linea di quella del Sacerdote che normalmente si accosta. Ora mi sento più che mai e più di tanti altri, un vero Sacerdote nella pienezza della sua missione apostolica, secondo il detto Paolino: «Mi sono fatto tutto per tutti, per convertirli a Cristo ».
Una felice intuizione dell’arte moderna suole appunto rappresentare Cristo, operaio fra gli operai, medico fra gli ammalati, soldato fra i soldati, ed io penso Ribelle per Amore, fra gli uomini Ribelli per Amore e con tutte le loro passioni.
Ci sono dei crucci per la casa abbandonata da consolare, ci sono le malattie fisiche da sostenere, ci sono soprattutto le crisi del cuore da comprendere, chiedono tutte queste miserie una parola, un aiuto e soprattutto un’anima sensibile che le comprenda e che ne consumi l’asprezza col suo amore.
(16-20 marzo) Ritorno a Gravago con l’instancabile parroco don Luigi, continuo il lavoro per l’organizzazione del centro assistenza religiosa. È necessario far presto, perché si avvicina la Pasqua e bisogna fare in modo che tutte le Brigate e tutti i patrioti abbiano la possibilità di avvicinare un Sacerdote. Pierino, la mia staffetta presso il Comando Generale di Milano, arriva che è già notte. Desidero sapere subito notizie da Milano e da casa e mi trattengo con lui fino alle ore piccole.
Anche al Comando Unico che si è stabilito vicino a Bré di Gravago, trovo un lavoro intenso. Il Raggruppamento Cento Croci di Richetto (5) che dalla Valle di Chiavari è passato in VaI Taro, viene ora aggregato alla Divisione Val Taro. Le Divisioni Val Ceno, Val Taro, Cisa, vengono completate nei loro quadri militari. Si stabiliscono le sedi dei Comandi centrali con un servizio giornaliero di collegamento per mezzo di corrieri, mentre il centro di intendenza organizza depositi di munizioni e salmerie e la sanità allestisce due ospedali da campo, infermerie e pronto soccorso.
Il Commandos Americano del capitano Bob, che si è stabilito presso il Comando Unico, è di grande aiuto a questo lavoro organizzativo e ci mette in collegamento diretto con la Quinta Armata e ci rende quasi truppe operanti della stessa Armata.
Infatti d’ora in poi riceveremo ordini dallo stesso Comando americano per
le azioni a grande raggio e di una certa entità.
Si attendono ormai disposizioni di azioni decisive per il nostro fronte che
forse saranno le ultime.
Nel cielo è un incessante rombare di bimotori americani che quasi ogni giorno, sui vari campi di lancio, ci riforniscono di tutto il necessario equipaggiamento di guerra. Il variopinto danzare aereo dei paracaduti dona una certa aria di festa gioiosa e le lunghe file di buoi che incrociante si sulle mulattiere montane portano il materiale ai depositi e ai distaccamenti, danno un fervore di vita mai visto su queste montagne.
I temuti lupi della montagna delle Divisioni VaI Taro e Cisa, notte e giorno non danno tregua alla nazionale, e ai vari presidi tedeschi lungo le altre strade e la ferrovia.
La VaI Ceno invece si spinge verso la pianura ed attacca la via Emilia fino al Po.
I Ribelli hanno l’iniziativa in mano e non se la lasciano più sfuggire.
Gli stessi ufficiali americani dei vari Commandos, disseminati nella zona, e soprattutto la missione del capitano Bob, si dichiarano meravigliati di tanta audacia e trasmettono ottimi rapporti al Comando della Quinta Armata.
(4) Mons. Civardi fu parroco di Borgotaro, poi divenne Vescovo di Massa, ora defunto.
(5) (<< Richetto »), Federico Salvestri, comandante della Brigata Cento Croci, ora residente a Borgotaro.
CAPITOLO XVII
PASQUA TRA I RIBELLI
(20-26 marzo) Sono in Valmozzola dove si trova la 2a Brig. Julia, sto preparando la Pasqua ai vari distaccamenti sparsi per la valle; rivivo per un po’ di giorni la vita familiare del distaccamento. La ritrovo più piena di entusiasmo tra il partire all’ultimo chiarore della giornata delle squadre di azione ed il lieto canto sul far del mattino dei reduci vittoriosi dall’imboscata. I tedeschi hanno perso la sicurezza di un tempo, non si vedono quasi più fuori dei loro presidi e sparano all’impazzata ad ogni rumore sospetto. La stessa nazionale della Cisa è tenuta libera a stento da mezzi corazzati e da pattuglioni armatissimi. Essi sempre più accigliati, chiusi come lupi feriti nelle loro tane, devono subire anche le beffe e le risa dei nostri che li esasperano. Si sentono ormai impotenti all’avanzare del temporale che li spazzerà via. Le defezioni tra loro si fanno sempre più numerose ed ai nostri assalti si arrendono sfiduciati e sfiniti.
La domenica delle Palme il Battaglione Bazan, Vampa e Pontremolese fa Pasqua quasi al completo; manca solo chi è fuori in azione. Tutti sono felici e buoni oggi, me lo dicono essi stessi con grande semplicità, quasi stupiti di tanta serenità e bontà che provano con la coscienza tranquilla ed in pace con Dio.
Il 26 a Pieve di Valmozzola il battaglione Poppj, l’ultimo della 2a Julia e che è il più birichino, fa Pasqua ed anche qui l’esito è soddisfacente con la stessa pace e serenità.
Il 27 nella stessa Pieve è la volta del Battaglione Giovanni (1) della la Brigata Julia.
Purtroppo queste sono solo brevi pause serene di una vita tutt’altro che facile e priva di passioni. La guerriglia pur piena di maggior entusiasmo e quasi sempre vittoriosa, ha ancora le sue vittime, i suoi brutti scoppi di odio e di barbarie dall’una e dall’altra parte. Riesco a stento alcune volte a contenere tali passioni, mentre altre volte arrivo troppo tardi e non mi resta che piegare la testa triste a meditare sulla debolezza dell’uomo esasperato e sulla malvagità della guerra.
Il tedesco è pavido, ma mostra ancora i suoi artigli e più ferocemente in quanto più esasperato. I pontremolesi sono partiti per la loro zona e da una settimana non danno tregua alle SS nella stessa Pontremoli. Un giorno però, forse troppo imprudenti, sono sorpresi a Bratto e cadono in mano del nemico con altri civili presi come ostaggio. Verranno liberati dopo un mese in occasione di uno scambio di prigionieri, ma porteranno vivi nelle loro carni i segni delle sevizie e delle torture subite. Mi riferiscono che casi simili sono capitati a gruppi della Divisione Cisa che si trova in una zona a diretto contatto con il nemico.
Ed è dopo queste barbarie che difficilmente si acquietano gli animi e che scoppiano quelle dolorose rappresaglie che a stento il Cappellano riesce ad eliminare e lo fanno triste e lo tengono sempre in apprensione.
(28 marzo) Ultimata la Pasqua in Valmozzola passo a Gravago, dove mi attende il corriere che deve ripartire per Milano. In fretta raccolgo il materiale che devo inviare al Comando Generale; insisto ancora presso il Comando Unico perché si arrivi ad una decisione sul progetto dell’Ufficio Assistenza Religiosa, che, come ho già detto, è osteggiato dai comunisti.
(29-30 marzo) Passando di nuovo da Mariano, mi reco a Porcigatone (2), dove ha sede il Comando della Divisione VaI Taro. Qui è accampata la la Brigata Julia ed il Gruppo VaI Taro. Mi metto in relazione con i vari Battaglioni per la S. Messa al campo e la S. Comunione pasquale. Con Umberto e Bellini la permanenza è allegra e serena. Sono giorni di vere scorribande a piedi o a cavallo per i costoni del Tagliata, del Santa Donna, ecc. Gravago, Porcigatone, Mariano mi vedono improvvisamente apparire ed altrettanto improvvisamente scomparire per le visite, per i collegamenti, le relazioni con i vari comandi. Il giorno di Pasqua dirò la S. Messa al campo, al Comando di Divisione, al grosso della la Brig. Julia e del Gruppo VaI Taro.
(1 aprile) È una bellissima giornata questa Pasqua al campo tra i soldati.
Per tempo sono nella Chiesa parrocchiale ad aiutare il Parroco del luogo e mi fermo per tre ore a confessare alpigiani e patrioti del Gruppo VaI Taro. Alle ore 10,30 celebro la S. Messa al campo a due Battaglioni della Iª Brig. Julia ed al Comando di Divisione. Rivolgendomi al Vangelo per gli auguri cristiani, parlo loro della nostalgia della pace che deve essere in ogni cuore cristiano, della serena tranquillità della propria casa per cui soffriamo e li invito ad avere fede nel Dio dei forti e delle vittorie. Cristo risorto sa vincere anche quando, dopo i dolori e le prove più gravi e barbare come quelle del Calvario e della Crocifissione, qualcuno pensa sfiduciato di essere stato illuso e di essersi sbagliato.
C’è una pace, una tranquillità sui volti che mi fa dimenticare e credo che tutti dimentichiamo insieme, le sventure della guerra che ci circondano e che ancora ci attendono.
Dopo un allegro rancio, tutti insieme, comandanti e soldati, perché oggi siamo tutti uguali nella festa della gioia, parto a cavallo per Gravago. Mi accompagna il comandante unico «Arta ». Siamo di idee opposte, essendo lui un comunista materialista convinto; la strada ci sfugge, assorti in una pacata discussione ed in una delicata contemplazione della natura che si ammanta delle sue più vaghe bellezze primaverili. È un uomo gentile che sembra tremare di delicatezza, ma che mi fa paura in balìa di un partito che sfrutta questi ingenui idealisti e ne fa gli uomini più pericolosi in favore della sua propaganda. Lo lascio a Gravago ed io continuo per Mariano, dove arrivo alle 19 in tempo per chiudere la Pasqua tra gli Alpini della 2a Brig. Julia.
Regna stassera una vera intimità di casa che culmina nei banchetti che oggi hanno tovaglia, posate, tavoli, sedie, proprio come se si fosse tra la propria famiglia. Alla stessa mensa in grande allegria, soldati ed ufficiali, consumano il pranzo pasquale; ci sono anche i prigionieri, fascisti, tedeschi, russi.
Oggi, con Cristo risorto, che vince ogni odio e divisione, con la pace di Dio, Padre di tutti, nel cuore, ci sentiamo uguali e fratelli, ed i miei buoni e bravi
alpini hanno saputo dimenticare tutte le avversioni e i baratri scavati da questa guerra inumana. A sera nello sfumar del tramonto e sorgere di una luna piena argentea, che sembra trasformare ogni cosa con la sua candida luce, passo nei vari distaccamenti a portare il mio augurio e mi accompagna l’eco dolce dei canti degli alpini, che dalle varie baracche si diffonde giù per la valle e su per le creste e le cime dei monti, a fondersi in un unico grande coro a Dio Padre che ascolta e benedice gli uomini uniti nell’amore e nella comprensione che li fa fratelli.
Questi canti mi sembrano un alleluia di vittoria sull’odio della guerra, un alleluia che dolcemente chiude questa serena Pasqua tra i Ribelli della montagna.
(1) «< Giovanni »), Giovanni Fantoni, comandante il l° Battaglione della 1″ Brig. Julia.
(2) Porcigatone a 9 chilometri da Borgo VaI di Taro.
CAPITOLO XVIII
LE REPUBBLICHE LIBERE DELL’APPENNINO
(2 aprile) Dopo aver celebrato parto a cavallo per Porcigatone e di qui nel pomeriggio, con alcuni del Comando di Divisione, per Compiano. Dormiamo a Isola presso il vecchio Parroco, che prima di coricarci stura vecchie bottiglie di quel vino buono e generoso che la sua cantina sa offrire agli amici.
(3 aprile) Con Umberto, Severino (1) e Bellini parto alla volta del Passo delle Cento Croci, ove si trovano le Brigate di Richetto che ormai fanno parte della Divisione Val Taro.
Ci arriviamo su di una camionetta, verso mezzogiorno. Pranziamo al Comando, visitiamo alcuni distaccamenti e poi ci portiamo sul passo. Qui alcuni gruppi di mortaisti e mitraglieri stanno eseguendo manovre e tiri di esercitazione. Vi trovo una seria organizzazione militare, una ferma disciplina ed un’ottima assistenza religiosa, tenuta da tre Cappellani liguri saliti dalle parrocchie della Valle di Chiavari. Trascorro un felice pomeriggio con loro, non so perdonare ad essi di non aver voluto passare, nonostante le mie insistenze, per almeno uno di essi, in altre formazioni sprovviste di sacerdoti. Li comprendo, sono troppo uniti ai loro giovani coi quali hanno vissuto lunghi mesi di sofferenze tra le montagne tormentate dal gelo e dalla neve e dai rastrellamenti.
A sera siamo di ritorno a Isola.
(4 aprile) Il generoso e sempre vivace Parroco ha organizzato per oggi nella sua accogliente Canonica il primo Convegno Democristiano della VaI Taro.
Tutti i paesi della Valle, alcuni ormai liberi, hanno inviato i loro rappresentanti. La discussione presieduta e diretta da Poe è seguita con grande interesse; vengono trattati i problemi organizzativi del nascente partito democristiano e le riforme economiche da attuare nell’amministrazione di questa zona montana.
La fine è coronata da un simpatico gruppo fotografico che rimanga a ricordo dei figli e da un buon pranzo con numerose buone bottiglie che il Parroco offre per un lieto e prospero avvenire politico.
(5 aprile) In mattinata siamo di nuovo a Porcigatone. Il lavoro presso il Comando è intenso perché ci aspettano imminenti ordini di trasferimento di truppe. Da Berceto arriva il dotto Prussia (2), come medico divisionale sta organizzando l’ospedale da campo ed i luoghi di pronto soccorso.
(6 aprile) Celebro la S. Messa al campo al Gruppo «Piscina» e « Gomel» della la Julia per la S. Comunione pasquale. È arrivato frattanto l’ordine di trasferimento per la zona di operazione; s’avvicina l’ora dell’attacco definitivo.
A sera parto col dott. Prussia per preparare gli alloggiamenti ed il pronto soccorso nella zona tra il Taro e Berceto, dove più tardi le truppe ci raggiungeranno.
Cadono fitte le tenebre quando siamo ancora a metà strada. La notte è così buia che non si vede ad un paio di passi e sbagliamo direzione parecchie volte. Grondanti sudore sotto il peso di pesanti bagagli, arriviamo a notte fonda nelle vicinanze del Taro. Procediamo cauti perché il tedesco veglia insospettito e subodorando qualche cosa di grosso ha rafforzato i presidi e si è rifornito di maggiori armi. I razzi che indicano l’erta delle pattuglie nemiche e le loro comunicazioni di allarme, lacerano fischianti l’oscurità e ci rendono più prudenti. In fondo valle, bussiamo al solito posto di blocco partigiano per una sosta e le informazioni. Sono le due, tutti dormono, ma al richiamo d’ordine siamo tosto ricevuti in casa. È una festa per la mamma e le sorelle Marioni (3), che non mi vedono passare dal giorno in cui mi presero i Mongoli a Belforte. Mentre mangiamo qualche cosa, ci riferiscono che il nemico sospettoso è in allarme e vigila, forse già informato da spie. Siamo in dubbio se avventurarci sulla passerella di legno tra le tenebre o guadare il fiume all’alba. La stanchezza per il peso dei numerosi bagagli ed il pericolo di cadere in un’imboscata nell’oscurità così fitta, ci consigliano di attendere la prima luce del giorno. Frattanto ci si riposa un poco sulle panche e sulle sedie.
(7 aprile) Al primo chiarore di una lingua di luna, che si affaccia appena sull’orizzonte e ci dà luce sufficiente per orientarci, si riparte cauti come ombre fuggenti; varchiamo la passerella, sostiamo tra i canneti del fiume in una casa contadina, forziamo con indicazioni sicure la strada e poi saliamo più spediti a Baselica.
Qui invitiamo il medico condotto a portarsi a Tiedoli, perché vi organizzi un pronto soccorso. Saliamo a Belforte che da oggi ridiventa la rocca dei Ribelli della Valle. In Canonica ci sarà la sede tattica del Comando divisionale con una infermeria di pronto soccorso, mentre sparsi su per le balze dobbiamo trovare gli accantonamenti e gli approvvigionamenti per 400 uomini che arriveranno nella notte. Il dottore rimane in Canonica; io per tutta la giornata percorro tutte le rampe, batto a tutte le porte, a tutti i casolari per trovare da mangiare ed un ricovero ai 400 Ribelli. Povere famiglie montanare! È la prima volta che riesco a visitare ed osservare l’interno di tutte le case di Belforte e sono quasi spaventato della miseria che vi trovo, ma sono ammirato dalla gentilezza con cui mi si accoglie. Quasi non comprendo la generosità con cui rispondono, perché so che arriva fino all’estremo limite del possibile. Spesso uscendo da quelle stamberghe povere, ma ricche di così grandi cuori, una lacrima è caduta furtiva sulla soglia, mentre mi abbassavo per non farmi vedere. Nel pomeriggio arriva per primo un battaglione dei Gruppi Val Taro. A sera il tempo cambia, una nuvolaglia nera che promette poco bene, avvolge ed oscura presto il mite tramonto. Le ombre sono impenetrabili ed è un tempo infernale, quando alle dieci arriva il Comando. È mezzanotte, ma le Brigate Cento Croci non sono ancora arrivate. Le cosa dà da pensare perché l’attacco deve essere iniziato alle prime luci e le posizioni di partenza devono essere raggiunte nella piena oscurità. Alla una una scarica ci mette in allarme; usciamo all’aperto e scrutiamo attraverso le tenebre. Luci incerte di lampadine tascabili appaiono e scompaiono sui costoni; si lancia la parola d’ordine; dal basso rispondono. Sono gli amici delle Cento Croci, a cui l’oscurità non permette di vedere le mulattiere e che spersi hanno lanciato il richiamo. Alcune guide partono e alle due e trenta tutti sono nel loro accantonamento.
Poveri ragazzi! Li vedo stanchi, affamati, bagnati fino al midollo delle ossa, caricati come muli. Dopo un rancio consumato tra il riposo e il sonno sulle armi e munizioni incominciano le partenze a scaglioni per le posizioni di assalto. Sui posti di partenza vedo partire i miei alpini, li accompagno con una preghiera, li saluto e qualcuno mi dà il bacio come alla sua mamma. Tutto è sereno e calmo; mi sembra di assistere ad una funzione sacra e sono davvero sacri i momenti prima dell’assalto. Ci si sente presi come da qualche cosa che ci supera, ci distacca da tutto; è forse l’inizio del colloquio con la morte, forse è la malìa di una nuova vita che si avvicina mentre in fondo all’anima brucia il pensiero della casa lontana, della mamma e degli altri amori che hanno legato la nostra vita.
Mi sembra di leggere tutte queste cose nel fondo dei loro occhi dilatati dalla stanchezza e dall’emozione, prima di uscire e sparire nel buio verso la guerra.
Tutta la popolazione è mobilitata. I pochi giovani rimasti a casa ora fanno da staffetta di collegamento, gli anziani ancora in gamba fanno da guida ai patrioti incamminati verso i posti avanzati: tutte le case sono a disposizione.
Questo è il piano di assalto delle Brigate Parmensi. La2a Brig. Julia, le Brig. Cento Croci ed il Gruppo Val Taro sono schierati per l’assalto alla Val Taro da Ostia a Berceto; la la Julia si incarica di attaccare Borgovalditaro, mentre la Divisione Cisa guarderà il Passo della Cisa e punterà verso Pontremoli.
Altrove la Divisione Val Ceno si spingerà verso la via Emilia ed attaccherà i presidi della bassa Val Taro tra Ghiare di Berceto e Solignano. Le Brigate dell’est Cisa della Divisione Monte Orsaro, in azioni combinate devono attaccare la strada nazionale e molestare Berceto.
È l’attacco che dovrebbe liberare le vallate del parmense e dell’est piacentino e costituire le Repubbliche Libere dell’Appennino.
Dalla Canonica, sede del Comando, è un via vai di corrieri che si immergono come ombre veloci nel buio per la zona di operazione, verso le truppe che s’avanzano silenziose a tenaglia sui presidi nemici. Se ci fosse una radio, un telefono, quanti rischi, quante preoccupazioni di meno! Ma la nostra è una guerra di volontà, di rischio fino alla temerarietà, è la guerra dei sabotatori e degli arditi.
Torna il primo ferito, l’oscurità l’ha fatto precipitare carico di armi da un dirupo. Povero ragazzo! È mal pesto, ha una spalla slogata ed è avvilito. Appena fasciato vorrebbe ripartire e raggiungere i suoi compagni, si acquieta quando gli si promette che lo porteranno giù al mattino.
(8 aprile) L’alba tarda a sorgere per il cattivo tempo; anche l’attacco viene ritardato. Con il Comandante esco per osservare il tempo che sta rischiarandosi, quando alle sette si odono in basso le prime raffiche di avvisaglia. Dopo pochi istanti di un silenzio di tomba, tutta la valle diventa un solo fuoco tambureggiante su tutte e due le rive del Taro.
È la voce della riscossa: tutta la popolazione è fuori di casa e saluta con evviva l’inizio dell’ultimo atto della guerra di liberazione: i vecchi, quelli dell’ultima guerra, piangono di gioia sognando i loro assalti alla baionetta sul Carso, sul Pasubio e sul Piave. Sento queste grida di gioia, leggo sui volti i sorrisi della speranza, mentre scendo con un gruppo arrivato in ritardo.
Il nemico colto di sorpresa, tace per circa un quarto d’ora, poi risponde rabbiosamente con colpi di mitraglia e di tapum. Ormai la discesa è a percorso di guerra, a piccole corse e taffi tra lo sventagliare della mitraglia ed il sibilare secco del colpo del tapum. In prima linea trovo già un confratello delle Cento Croci; dietro un muretto ci scambiamo alcune parole ed osserviamo l’avanzare a tenaglia dei gruppi curvi dietro i ripari o strisciando per terra sotto il fuoco con i comandanti di Battaglione in testa che dirigono la manovra.
Verso le nove risalgo a Belforte per portare le notizie e celebrare la Santa Messa. Nella Chiesetta parlo a Cristo che nelle mie mani rinnova il Sacrificio della Croce, di coloro che giù nella valle, nel tormento della guerra scatenata, sono a tu per tu con la morte e che nella tensione dell’attacco hanno il dolce viso della mamma negli occhi.
Esco con Umberto, ma lo lascio sulla costa per raggiungere il Gruppo VaI Taro e la 2a Brig. Julia che attacca Roccamurata e Lozzola: Pinin (4), il mulattiere, mi fa da guida.
Siamo vicini al luogo del combattimento quando scorgo incendiarsi il primo casello e Lampo con i suoi uomini, scovare il nemico pavido che si arrende a mani alzate. È la prima vittoria e scendiamo sul tratto di strada conquistato.
Alcuni patrioti si fermano a fare da sentinella ai prigionieri e al materiale, gli altri via, presi dall’entusiasmo travolgente della vittoria, verso il secondo casello. Compongo le salme di un maresciallo e di un soldato tedesco sul limite della strada e bado a far trasportare i prigionieri oltre il Taro. Intanto la mitraglia dei patrioti dall’altra riva del fiume investe già il secondo caposaldo e protegge l’avanzata dei nostri. Mi porto anch’io in alto con gli attaccanti, che riparati stanno già intimando la resa. Il nemico non risponde e bisogna sfondare la porta e le finestre a bombe a mano prima che taccia con le armi e gridi la resa. Escono i tedeschi, pallidi, con le mani alzate, come trasognati davanti a tanto improvviso ardire. Dò l’assoluzione dei moribondi al sergente e ad un soldato che trovo rantolanti nella casa. Qualcuno vuole dare uno schiaffo ai cocciuti tedeschi fatti prigionieri, ma io lo trattengo a bada e quello si trattiene per la mia presenza, limitandosi a borbottare tra i denti qualcosa, forse un’invettiva. Gli animi sono tesi e vigilo perché non succeda qualche fatto increscioso. Si perlustra la galleria vicina e poi è la volta del terzo casello; preso anche questo ci si accinge ad assaltare il presidio trincerato di Roccamurata. Qui la reazione nemica è forte e nutrita, bisogna avanzare con prudenza per non saltare sui campi minati e per smantellare le difese ed i reticolati. Dopo un’ora di assedio, sempre più stretto, in cui si abbattono ad una ad una le difese con sortite e a bombe a mano dei nostri arditi, protetti da un nutrito fuoco di sbarramento, tutti i tedeschi si arrendono; sono una quarantina.
Nella galleria vicina si cattura un treno di munizioni con tre repubblichini di guardia. Tre patrioti saltano in aria su una mina davanti ai miei occhi, tutto per fortuna si risolve in una grande esplosione con un gran salto nel vuoto e con ferite non gravi. Ormai la strada, la ferrovia e tutta la valle da Ostia a Lozzola è libera. Risalgo con Pinin a Belforte mentre ottanta prigionieri incolonnati varcano il Taro per il campo di concentramento. Le truppe libere da Roccamurata si rivolgono, dopo aver lasciato un corpo di guardia, ad aiutare gli assedianti il presidio di Ostia che resiste ancora, asserragliato fra le case.
Porto queste notizie al Comando, dove prendo qualcosa e tento di riposare un poco. Alle 14,30 sono chiamato d’urgenza col dottore per un ferito grave che si trova a Lozzola. Dopo una corsa di un’ora trovo Mantova (5) colpito da un colpo di tapum che gli ha perforato un polmone, vicino gli sono altri feriti meno gravi.
È stato ferito da un gruppo di prigionieri tedeschi, che incustoditi per un momento si sono rivoltati e sono riusciti a fuggire sparando con armi trovate sotto mano. Mi fermo da lui tutto il pomeriggio fino al calar della sera. Il caro Mantova, tormentato da un affannoso respiro e le acute fitte al cuore, non mi vuole lasciar partire; mi stringe le mani tra le sue, mi bisbiglia all’orecchio tanti ricordi ed in un ultimo sforzo, mentre proprio crede di morire, mi sussurra gli ultimi saluti alla mamma, bagnati da tante lacrime. Adagio, adagio, gli ritorna la calma, si assopisce ed allora lo lascio alle cure del buon Sanità (6).
Mentre calano le ombre della sera sono di ritorno a Belforte. Al Comando si è soprappensiero. Ostia è stretta in assedio, ma resiste ancora; Borgotaro non ha ceduto e di là la la Julia non ha ancora inviato notizie. Finalmente verso le nove si sentono su per la costa spari a salve ed un corriere, quasi privo di respiro per la corsa, ci annuncia che Ostia si è arresa e che ormai si stanno rastrellando le case ed incolonnando i prigionieri.
Però in questa domenica bianca di dopo Pasqua anche i miei partigiani hanno dovuto pagare il loro contributo alla morte e alla guerra: Romano di Ostia di Roma è caduto ad Ostia Parmense.
(9 aprile) È notte di lavoro e di veglia. Da Lozzola verso le tre arrivano notizie allarmanti proprio mentre ci si sta per assopire in un momento di calma. Laconicamente un biglietto di Bazan annuncia che la 12a Brig. Garibaldi non è riuscita a spuntarla sul basso Taro tra Ghiare e Solignano e si è ritirata; che l’Est Cisa non ha attaccato la Nazionale e Berceto, che il passo non è stato bloccato e che una imprecisata colonna tedesca di rinforzo sta risalendo il Taro.
Si inizia una seduta burrascosa; alle quattro e mezza, dopo tanti progetti fatti e scartati, si decide, per misura di sicurezza, di ritirare le truppe al di là del Taro. Alle cinque parto col dottore e i bagagli sanitari per Tiedoli mentre le truppe iniziano il ripiegamento, protetto da pattuglie di retroguardia.
Alle sette di mattino sono di ritorno. Sto passando il ponte per entrare in Ostia, quando mi ferma un’improvvisa sparatoria. Mi getto in posizione di difesa lungo la strada con un gruppo che sta passando il Taro. Dopo dieci minuti, a gran galoppo, ci passa davanti uno squadrone di cavalli in direzione di Borgotaro, poi silenzio ancora. Entriamo con prudenza in Ostia, qui ci narrano l’accaduto. Una colonna nemica partita da Berceto nell’oscurità della notte è riuscita a risalire tra il Taro e la ferrovia e sul far del mattino, dopo aver raccolto altri tedeschi fuggitivi, ha attaccato Ostia. La reazione dei patrioti seppur presi alla sprovvista è stata pronta e vivace, per cui sono stati dispersi e messi in fuga. Ma nell’imboscata è caduto un altro valoroso partigiano: Lampo, il comandante di un distaccamento della 2a Brig. Julia, trovato si allo scoperto a tu per tu con il nemico in agguato, è caduto colpito in fronte da una pallottola esplosiva. Povero Lampo! Era sfuggito alla morte in Grecia e nella disastrosa ritirata in Russia, senza paura, fin dai primi tempi, aveva partecipato a tutte le più pericolose azioni partigiane e proprio ora, mentre forse già pensava di deporre definitivamente le armi, dopo aver liberato il suo paese, una inesorabile sorte gli ha troncato la vita.
Lo vedo composto sotto una coperta, sul ciglio della strada; piango e prego sulla sua bella figura mite e calma, che solo all’attacco sapeva tendersi tenace; guardo i suoi grandi occhioni espressivi, fissi ormai nel vuoto, ma che sembra mi guardino meravigliati del mio sconforto.
Il nemico paga cara la sua audacia; deve lasciare sul terreno parecchi morti, mentre trenta soldati col loro capitano Muller vengono catturati e fatti prigionieri.
La tranquillità è ritornata in Ostia; sale a Belforte, verso la casa paterna, la salma di Lampo, portata a spalla dai suoi amici del Battaglione Vampa; seguono i desolati familiari e la popolazione in un triste corteo che stanco si trascina su per le ripide mulattiere.
A Borgotaro con il giorno si è riaccesa la battaglia e verso mezzogiorno il presidio cade smantellato a colpi di bazuka (7) e a bombe a mano.
Lo schieramento sul Taro è ormai completo e le pattuglie frugano tutta la valle e battono tutte le strade; alle sei il Comando comunica che la valle è libera e saldamente presidiata.
Mentre mi affretto a visitare le truppe dei presidii, i feriti e a raccogliere i morti, rivedo il fedele Tom che ritorna felice da Borgo, dove con la Iª Julia ha voluto conquistare l’ultimo casello che ancora resisteva.
(10-13 aprile) Sono giorni in cui le ore di cammino per tutta la valle non si possono contare. Ci sono i feriti da visitare, i prigionieri da osservare; i patrioti poi in continuo spostamento vogliono che vada a trovarli; ma nonostante tutta la mia buona volontà posso solo salutarli di sfuggita con una battuta di mano sulla spalla, qualche parola o tiratina di orecchi.
L’undici mattina, nella chiesetta di Belforte celebro e faccio il funerale di Lampo. Il piccolo Cimitero lo accoglie come un eroe tra tutta la popolazione commossa. Nel pomeriggio scendo a valle per la raccolta delle salme dei tedeschi morti. Quei di Roccamurata li trovo sepolti dalla pietà degli alpigiani nel cimitero di Gorro. Ad Ostia, uno fatto a pezzi da un bazuka, è sepolto davanti ad una casa. Nessuno lo vuole dissotterrare essendo già in putrefazione, eppure non lo si può lasciare in quel posto. Allora io con un vecchio settantenne ci mettiamo al lavoro con piccone e badile. Con la maschera antigas al viso lo estraggo a pezzi dal terreno e lo compongo in una cassa che faccio trasportare nel cimitero di Baselica. Brutto mestiere! Ma sono contento di aver fatto questa opera di carità sotto lo sguardo dei montanari che stupiti mi hanno osservato da lontano un po’ inorriditi.
A sera ritorno a Lozzola per ritrovare Mantova. Lo vedo migliorato, anzi insperatamente avviato alla guarigione. Ricordiamo come cose ormai lontane i colloqui tristi dell’agonia passata; è felice ora ed il suo occhio rifatto limpido rinasce alla vita. L’hanno salvato le cure della famiglia che l’ha ospitato come un figlio, l’abnegazione di Sanità che si è mostrato più che un fratello, soprattutto l’assistenza quasi continua di una improvvisata crocerossina che gli trovo al fianco.
Chissà! Intuisco che forse nel dolore è nato un idillio, sono contento perché sono proprio due bravi figlioli. Strano questo idillio di carità, di sacrificio, di donazione, nato da un incontro mentre colui che l’ha colpita nel cuore conversava già con la morte. È davvero un mistero il cuore delle creature con il suo amore.
Pernotto presso il Comando della 2a Brig. Julia in Lozzola; di buon mattino, a cavallo, inizio la visita ai vari distaccamenti che sono sparsi a guardia della valle liberata. Oggi ho tempo e mi fermo tra i patrioti a conversare, soprattutto ad ascoltare la storia degli assalti ai caselli della ferrovia, smantellati a bombe a mano dagli arditi di Bandiera (8) e di Giorgio (9), della fine del Maresciallo di Ostia, vero spirito maligno, sorpreso con i suoi sulla strada di Lozzola, delle lunghe ore estenuanti di sentinella lungo i costoni che dominano il Manubiola e la Cisa.
Mentre raccontano c’è in tutti il sorriso e la soddisfazione della vittoria ottenuta. Ma si legge una grande stanchezza su quei volti che da sei giorni non riposano, mangiano quel che si può tra il pattugliare per lunghe ore sempre carichi di armi ed il passare e ripassare il Taro. Capisco che l’arco è teso e non ne posso più. Qualcuno arrivato or ora al distaccamento, esasperato dalla stanchezza, all’ordine di ripassare il Taro, mormora fra i denti qualche imprecazione. Lo calmo con un po’ di buon umore, ma vedo che qualche cosa non va. Nel pomeriggio scendo con Poppj a valle per visitare la strada ed alcuni luoghi di combattimento non ancora visti; intendo controllare le ultime notizie sui morti e feriti. A sera ritorno a Belforte.
(14 aprile) Le brigate Cento Croci, terminati i rastrellamenti, ripartono per le loro sedi e ci salutano con grande cordialità. I canti alpini solenni e gravi sono il loro ultimo addio alla valle che ne moltiplica l’eco e ne risuona tutta come se si fosse unita a loro.
Nel pomeriggio a Tiedoli, presso il Comando divisionale, stendo la relazione dei giorni di combattimento. Qui ho la conferma che qualcosa non va e che ci sono malumori. Prima di sera un po’ preoccupato parto per Gravago dove c’è il Comando Unico perché voglio sapere di preciso cosa brontola e bolle in pentola.
(15-23 aprile) Sono giornate inquiete alla Divisione Val Taro; qualcuno soffia sul fuoco e vuol rompere l’unità di questa Divisione che è l’orgoglio dei Cattolici e dei Democristiani. Capisco che è soprattutto il Partito Comunista, il quale in questa azione disgregatrice fa perno sul turbolento Gruppo VaI Taro di Dragotte (10), dominato dai suoi aderenti e su altri elementi delle altre brigate che hanno questioni personali di orgoglio e di ripicca. Nelle ultime operazioni infatti le formazioni di marca comunista sono apparse inferiori e poco efficienti; il partito teme perciò di perdere la fama di liberatore ed il monopolio dell’antifascismo, così tanto sbandierato, in tutta questa zona dell’Emilia, di fronte al valore, all’efficienza ed alle conquiste delle formazioni di colore ben diverso e spiccatamente anticomuniste.
Per questo ora tenta di penetrarvi e di sfaldarle usando tutti i mezzi leciti ed illeciti, anche i più nauseanti come la calunnia. Qui non hanno usato mezzi peggiori, come hanno fatto altrove, solo per paura.
Nello stesso Comando Unico ci sono dei sostenitori di queste critiche, che sono facilmente individuabili negli elementi comunisti. Costoro sono così invadenti e turbolenti che costringono lo stesso Comando a proporre «pro bono pacis» (vedi gli agnelli) la sostituzione del Comando della Divisione Val Taro. Insieme ad altri, anch’essi nauseati dalla faccia tosta ed invadenza di questi elementi poco desiderabili e poco raccomandabili sotto ogni aspetto, a cui « Arta », l’idealista, dà e presta la faccia della legalità e della onestà, reagisco; non intendiamo per nulla affatto soccombere.
Frattanto avvicino gli uomini delle Brigate e parlo loro chiaro smascherando gli intrighi e le piccole ambizioni personali.
Sono giorni di corse tra Mariano, Tiedoli, S. Martino (11), Gravago, ecc…
La crisi si protrae per una settimana e culmina il 22 a Gravago.
Oggi sono chiamato come imputato con altri al Comando Unico per rendere ragione della nostra condotta. È l’ultima carta che i comunisti giocano perché si sentono sfuggire la loro influenza tra le truppe; sarà anche il loro smascheramento e la loro definitiva perdita nella zona.
Mi presento a tutto il Comando riunito e sono così esasperato e nauseato che si inizia subito una seduta burrascosa di accuse e di risposte rudi e crude.
La prima accusa, ed è la solita dei comunisti, è di intromettermi in cose che non mi riguardano; la seconda è di mancanza di senso patriottico ed unitario per la libertà della patria; infine mi si minaccia di espellermi dalle formazioni.
Le mie risposte sono violente e taglienti; spesso passo alle contro accuse mettendo in imbarazzo gli stessi comandanti. Mostro l’inconsistenza della prima, li svergogno sulla seconda e me ne rido della terza minaccia, anzi! li sfido ad attuare la cosa venendo tra le truppe che amano chi vive con loro e si sacrifica per loro, non chi li sfrutta per una propria ambizione personale. Anche gli altri si difendono aspramente. Al Comando non si aspettavano una così irruenta reazione alla loro leggera decisione e cercano ora di minimizzare l’accaduto per evitare il peggio, e vogliono ritornare sui propri passi. Il Comando della Divisione Val Taro, dimissionario, si sente offeso dell’atteggiamento del Comando Unico e non accetta l’offerta di rimanere in carica; però Bazan, che si era prestato al gioco, viene dimesso dal comando della 2a Brig. Julia, ove ritorna Umberto, il Gruppo Val Taro viene tenuto sotto rigido controllo e le altre Brigate messe sull’avviso; eliminano gli elementi turbolenti e poco sicuri. Così ritorna un po’ di tranquillità.
È un ricordo questo che mi sarà sempre ragione di tristezza. Non mi pento di avere usato tanta asprezza, perché l’esperienza già troppe volte, mi aveva insegnato a Milano e sulla montagna, con quali mezzi ed in che modo bisogna difendersi dai capi comunisti, la cui coscienza per nulla affatto patriottica, il cui eroismo molto spesso dubbio, li fa indegni di chiamarsi combattenti della libertà.
Parto subito per non inasprirmi maggiormente. Dopo una visita a Borgotaro con il capitano Bob, salgo a Porcigatone.
Qui incontro con piacere i Cappellani delle Cento Croci che stanno organizzando la Pasqua per i prigionieri del campo di concentramento (12).
(3) Le sorelle Marioni abitavano vicino al ponte di Magrano e più volte fecero da staffetta.
(4) (<< Pinin »), Giorgio Della Pina.
(5) «< Mantova »), Glicerio Boldrini di Casalmaggiore.
(6) «< Sanità »), Mario Marinelli della Garbatella (Roma).
(7) Bazuka o bazurke, leggi bazooka, famoso lanciarazzi americano.
CAPITOLO XIX
LA VITTORIA E LA LIBERTÀ DIETRO IL NEMICO IN FUGA
(24 aprile) Sono a S. Martino (1) presso la 2a Brig. Julia che si è tenuta sulle posizioni avanzate della Valle liberata e che non dà tregua a Berceto e alla Nazionale insieme con altri gruppi di assalto di altre formazioni.
Si aspetta di ora in ora l’ordine dell’attacco definitivo e ci si prepara con tenacia. La radio ci comunica che la linea Gotica è stata sfondata e che anche nel nostro settore il nemico è in ritirata. Infatti la Nazionale, tenuta a mala pena libera con mezzi corazzati, è percorsa da lunghe colonne nemiche che ripiegano dal fronte. Sotto l’incalzare degli assalti e colpi di mano dei gruppi ribelli, le defezioni tedesche non si contano più. S’annuncia la fine e la si vuole affrettare.
(25 aprile) La l a Julia e le Brigate Cento Croci partono per la pianura di rinforzo alla Val Ceno; rimangono in zona la Divisione Cisa, la 2a Brig. Julia ed il Gruppo Val Taro. Siamo tutti schierati ai fianchi della Nazionale da Cassio a Pontremoli, pronti per l’ultimo e decisivo attacco.
Sulla strada le truppe in ritirata sono battute continuamente dalla RAF. Bisogna stare attenti anche sulle strade delle Repubbliche Libere perché i bombardieri vi scendono ad ogni movimento di automezzi, nonostante i continui avvisi al Comando Alleato ed i contrassegni americani sui nostri mezzi di trasporto.
Siamo in zona caotica di ritirata ed è impossibile distinguere i nemici da noi. Parecchi nostri automezzi vengono mitragliati ed incendiati con feriti e morti. In uno di questi disgraziati casi, mentre proprio mi trovo vicino, viene colpita una camionetta della 2a Brig. Julia. Accorro e trovo Poppj e tre medici feriti leggermente, mentre il padre dei Gatto (2), gravemente ferito, muore poco dopo all’ospedale di Albareto tra le braccia dei figli anch’essi partigiani.
I Mongoli di Berceto si arrendono; anche il Comando tedesco vuole un abboccamento promettendo la resa, ma poi ci accorgiamo che vuole solamente prender tempo. A sera la radio annuncia che Milano è libera, che la Liguria si è arresa, che le truppe inglesi sono quasi a Reggio. Ma qui il nemico, forse perché siamo sull’unica strada libera per la ritirata delle ultime Divisioni, è duro e non vuole arrendersi ai Ribelli.
Tra Aulla e Fornovo si trovano ancora ventimila armati, con una Divisione corazzata Hermann Goering, in piena efficienza, che mostrano ancora i denti e ripiegano seminando distruzioni nonostante siano tempestati continuamente da terra e dal cielo.
(26 aprile) La VaI Ceno con la Ia Julia ha raggiunto il Po, la Cento Croci con altre è sul fronte di Fornovo; noi ci accingiamo a smantellare la Nazionale con i suoi presidi. Il comando generale tedesco delle forze in ritirata è in Berceto e vuole un nuovo abboccamento con il Comando della 2a Brig. Julia. Per tutta la notte è un continuo collegamento telefonico con proposte e condizioni di resa, ma ancora una volta per il tedesco è un prender tempo; non vogliono arrendersi ai Ribelli come se fosse una cosa indegna per l’onore dell’Ufficiale tedesco.
(27 aprile) È deciso l’attacco. Notte di veglia; alle tre i battaglioni si incamminano, carichi di armi, mitraglie, bazuka, mortai, ecc., verso Berceto. All’alba siamo tutti riuniti nella zona di Rocca Prebalza. Nel paesetto si improvvisa il posto di comando ed un pronto soccorso, mentre i gruppi si portano su posizioni di attacco. Chissà se il grosso delle truppe nemiche si è ritirato! Alle otto su di un’altura che guarda su Berceto si inizia la sparatoria. Una staffetta ci comunica che si è alle prese con un pattuglione di 80 tedeschi annidati in un avamposto dove non era prevista la loro presenza. Parto per quel punto, a metà strada mi annunciano che Tigre (3) e Pio (4) sono morti e che Barbagianni (5) è ferito. Lo incontro infatti trasportato su di una barella. Salgo di corsa tra gli attaccanti. I vigliacchi tedeschi poco prima avevano taciuto come per arrendersi, ma quando i nostri si avvicinarono per entrare in casa (6), dove si erano asserragliati, aprirono il fuoco e freddarono appunto Tigre e Pio. Vedo i loro cadaveri davanti alla porta, ma ora è impossibile avvicinarsi e recuperare le loro salme. La sparatoria è intensa; i nostri arditi con incursioni improvvise e bombe a mano cercano di smantellare le entrare e si è quasi alla fine. Ma un improvviso avvicinarsi di rinforzi ci costringe a ritirarci su posizioni meno pericolose e meno esposte. A nord di Berceto, frattanto, Camoscio si avvicina alla periferia ed attacca le prime case.
Ieri sera i corrieri avevano portato la notizia della presenza in Berceto di 400 uomini; ora nuove notizie appena arrivate informano che ce ne sono parecchie migliaia e che sta transitando la divisione corazzata, che ancora in piena efficienza ripiega dal fronte.
Ma ormai non si vuol retrocedere; si dà ordine alle pattuglie avanzate di portarsi su posizioni più sicure e meno esposte e di appostare i nidi di mitragliatrici e i gruppi di mortai da 41.
Sono le dieci quando i tedeschi della Divisione corazzata contrattaccano puntando su di noi i cannoni e le mitragliatrici da 21 mm. e le seghe (7) di Hitler a fuoco tambureggiante. Alle undici le nostre posizioni diventano insostenibili davanti a tanta superiorità di uomini e volume di fuoco. Ad uno ad uno vengono ritirati i posti avanzati, mentre un distaccamento con mitraglie e mortai copre il ripiegamento.
Fermo sulla strada, incurante del fuoco nemico, sotto l’acqua che incomincia a cadere, rianimo gli alpini che tristi e muti ripiegano su Lozzola al di là del Manubiola. Siamo stati troppo temerari e sfortunati; ci siamo trovati a cozzare con parecchie migliaia di soldati di una Divisione corazzata.
Sulla piccola piazza di Roccaprebalza sono rimasto con il distaccamento di copertura di Bandiera. Il cuore mi si spezza e attraverso l’acquerugiola che penetra nelle ossa ed appanna la vista e che mi fa più triste, mi pare di rivedere i corpi insanguinati dei morti davanti alla porta del presidio tedesco. Mi pare di avere davanti di nuovo Tigre come quando stamattina prima dell’assalto mi ha consegnato i suoi documenti, la sua macchina fotografica e mi sorride e mi saluta; ora la manderò alla sua mamma che lo attende invano. Nel pomeriggio ancora digiuno perché non mi va giù neppure un boccone raggiungo il grosso a Lozzola.
Si cerca di rialzare il morale e gli animi un po’ sfiduciati. A sera siamo tutti decisi a ritentare la prova e a far pagare cara la cocciutaggine tedesca. La notte scende più tranquilla; i battaglioni si danno un po’ di riposo dopo aver preparato il necessario per l’attacco di domani. Nel frattempo il Comando cerca notizie precise da Pontremoli, dalla Cisa ed è in continuo collegamento con Berceto.
(28 aprile) Verso le quattro del mattino arriva la notizia che la Divisione corazzata e le truppe che ieri si trovavano in Berceto, approfittando dell’oscurità della notte e della calma subentrata sono partite per la pianura; il paese è quasi sgombro e non si prevede l’arrivo di altri forti contingenti di truppe.
I Battaglioni si mettono in assetto di partenza e mentre già si incolonnano sulla strada, parto veloce in bicicletta con un corriere.
Dopo un’ora di corsa siamo in vista di Berceto, ora avanziamo cauti a piedi. Nelle vicinanze constatiamo che la notizia corrisponde a verità perché vediamo i tetti delle case coperti di drappi bianchi, segno della resa, e sulla torre sventolare già il tricolore e sentiamo le campane suonare a festa. In Berceto ci accoglie una folla festante tra applausi e scrosci di battimani.
Mi presento al Comitato di Liberazione a cui dò la notizia dell’avvicinarsi degli alpini della 2a Brig. Julia; rimando il corriere con la notizia della resa e l’ordine di accelerare la marcia.
Consiglio frattanto di mobilitare tutti i giovani del paese per costituire un provvisorio posto di blocco e di guardia contro ogni spiacevole eventualità. Tutte le truppe dell’Ospedale, facenti parte della Divisione Italia e che già da tempo collaboravano con i partigiani, escono a pattuglie armate per battere ed esplorare i dintorni. Sono misure prudenziali ed opportune perché non si sa ancora se i dintorni siano completamente sgombri da truppe nemiche, se dalla Cisa arriveranno soldati in ritirata o se infine quelli già partiti non ritorneranno indietro respinti dall’ accerchiamento.
Verso le otto arrivano i primi patrioti della Val Taro, dopo una marcia alla bersagliera ed alle nove tutta la Brigata.
La sfilata per le vie di Berceto liberata è un vero trionfo tra tutto un popolo riversato sulla strada tra canti, fiori ed evviva.
L’aria sembra diventata come per incanto più leggera e la stanchezza è scomparsa. In piazza la manifestazione ha il punto culminante, quando rotte le file si dà luogo al primo incontro a tu per tu con la popolazione che non sa più contenere la sua commozione e la sua gioia. Passato il primo giusto sfogo di entusiasmo, si pensa ai pericoli che incombono perché la guerra non è ancora finita su questa strada che è l’unica che proviene dal fronte in rotta.
La Nazionale viene saldamente presidiata da alcuni distaccamenti con nidi di mitragliatrici e solo ai rimasti liberi si concede di recarsi presso le famiglie di conoscenti per il mezzogiorno. Frattanto una compagnia armata fa la ronda per il paese e persuade col massimo ordine di ritirarsi nelle case. Infatti verso le tredici suona l’allarme di pericolo imminente e tutta la Brigata in un quarto d’ora è sulle posizioni di difesa e la popolazione si tappa nelle case. L’allarme cessa dopo un’ora.
Nel pomeriggio scendo a Roccaprebalza per vedere le salme di Tigre e di Pio che sono state composte nella chiesetta. È una triste discesa a fianco dei genitori e dei fratelli dei morti che cerco di preparare alla tragica notizia e che è difficile persuadere. È come salire su un Calvario, mentre ogni parola muore sulle labbra come inutile e sbiadita e l’anima si inaridisce sentendosi incapace di calmare il dolore disperato di una mamma. A sera faccio trasportare le salme al loro paese: Tigre a Fugazzolo e Pio a Pieve di Valmozzola.
Di ritorno sono ospite nella Canonica del buon Prevosto, ma non so ritornare allegro; come inchiodato, quasi istupidito, ad occhi aperti per lunghe ore rivedo la disperazione della mamma sul cadavere del proprio figlio e mi feriscono l’anima i suoi singulti ed il suo pianto convulso e disperato.
(29 aprile) Con tutto il Battaglione Bazan, lascio di buon mattino Berceto per Fugazzolo. Il funerale di Tigre è un vero trionfo. Nel pomeriggio prendo una bicicletta e parto veloce per Parma a prendere notizie della pianura e a darne della montagna. Arrivo alle 17 e mi porto in Duomo, dove le autorità civili e militari ed una gran folla che riempie anche la piazza sono raccolti per il «Te Deum» di ringraziamento ufficiato da S. E. il Vescovo. Prima di sera sono ricevuto da Mons. Colli che mi trattiene in un lungo colloquio paterno. Rivedo poi tutti gli amici e nonostante la stanchezza devono passare molte ore della notte prima di decidermi a coricarmi.
(30 aprile) Mi godo una giornata di felicità per Parma libera ed in festa. Parma, la rossa, a stento piegata dal fascismo, è calma e serena, quasi tranquilla. Il cambio della guardia è avvenuto senza scene incresciose degne di rilievo. Le truppe partigiane degli alpini delle Brigate Julia, organizzate a polizia civile da Paolo (8) con l’approvazione del Comando Alleato, non scherzano; pattugliano la città, non permettono agli estremisti delle Brigate Garibaldine, dei Sapisti e dei Gapisti e dei partiti di fare manifestazioni scomposte e di fare giustizia sommaria.
A sera il coprifuoco è rigido e le carceri sono pronte a ricevere insieme ai fascisti ed ai tedeschi chiunque osi disubbidire.
Ed è stata una vera provvidenza che ha permesso a Parma di godere con serenità e pace i primi giorni di libertà; cosa che altre città e paesi non hanno saputo fare.
Si deve ringraziare di ciò soprattutto Paolo, il sacerdote ufficiale, che in quei giorni col rappresentante americano è stato il comandante di piazza della città. Si devono ringraziare le truppe cattoliche degli alpini della montagna che con spirito di sacrificio hanno saputo arginare ogni velleità rivoluzionaria. I comunisti conoscevano il coraggio e la decisione di queste truppe partigiane cattoliche che non scherzavano; e le temevano e per questo non osarono colpi di testa.
(1 maggio) È la risorta festa del lavoro. La rossa Parma, nella tradizionale festa dei rossi, ha saputo riunire tutto il suo popolo ed i suoi partigiani in piazza Garibaldi in una calma e simpatica manifestazione. Sul palco tra i rappresentanti politici di tutti i partiti, c’è anche Mons. Vescovo tra i suoi Cappellani Partigiani, mentre Poe sa, con un vibrante discorso, entusiasmare tutti. La giornata passa tranquilla e felice, anche nel rosso Oltre Torrente, tra i lupi di Padre Lino (9) da Parma.
(2 maggio) Parto per Milano in motocicletta; mi prende il pensiero della mia città, del mio paese, di casa mia.
A sera sono a Milano e dopo una brevissima sosta in Collegio ecco mi a casa felice, tra i miei cari.
(6 maggio) A Milano oggi c’è la sfilata di tutte le formazioni partigiane lombarde. La popolazione le accoglie in un subisso di applausi e di fiori. Mi trovo tra gli amici inquadrati nelle Brigate del Popolo; l’incontro con loro dopo tanta lontananza e privi di notizie è commovente; è un assalto a vicenda di domande alle quali non si risponde che a monosillabi.
A dire la verità fra tante divise, bandiere, decorazioni, mi trovo come sperso; mi pare di trovarmi trascinato in una carnevalata organizzata in tutta fretta a gara di velocità dai vari partiti che si contendono la gloria dell’eroismo e della libertà conquistata. .
Tra tanto esibizionismo resto quasi stomacato; tra tutta quella gente che all’ultimo momento ha saputo cambiare casacca non mi trovo affatto. Tutte le volte che braccato, con la polizia alle calcagna, sono sceso a Milano, non ho avuto la sensazione di avere tanti amici e collaboratori nella guerra; al contrario, si era troppo pochi ed isolati fra tante spie, fra tanti paurosi e tra gente abile solo nel doppio gioco.
In testa a tutti in questa corsa è il Partito Comunista, sono le gonfiate formazioni garibaldine e i fazzoletti rossi degli operai che sono stati inquadrati alla militare, in testa a tutti tra il sedicente comandante Moscatelli, Gemisto e compagni che dovrebbero fare un po’ di esame di coscienza sulla loro ambigua condotta di guerra.
(8 maggio) Ieri sono tornato a Parma; oggi appunto c’è la sfilata per la città delle truppe partigiane della Provincia che sono diecimila.
Non si vuol ripetere qui la carnevalata di Milano; devono sfilare solo le formazioni della montagna che hanno veramente combattuto, sono proibite le manifestazioni di partito.
La sfilata riesce veramente superba tra ali di popolo che scroscia applausi e lancia fiori. Termina in piazza Garibaldi gremita di partigiani e di popolazione che sta sui fianchi. Apre la serie dei discorsi il Governatore Alleato che esprime tutto il suo ringraziamento e la sua ammirazione al sacrificio ed al valore dei volontari della libertà durante i lunghi mesi della guerriglia.
Sta parlando «Arta» quando non si sa come e da dove di preciso, una scarica secca di mitra rompe sinistramente il silenzio.
Quasi senza accorgersi tutti imbracciano l’arma ed è un momento tragico. Partono altre scariche che in un crescendo pauroso diventano sempre più frequenti e numerose; tutti i Partigiani si buttano a terra, la popolazione che è ai lati fugge senza avere il tempo di riflettere su che cosa succede; è un tambureggiar di fuoco per aria da decine e decine di mitraglia tori e di armi automatiche. Il fuoco continua per un quarto d’ora senza sapere il perché, nonostante che i comandanti gridino di stare calmi. Scendo con essi tra le file e finalmente dopo tanto gridare si ottiene la calma. Nella piazza trasformata quasi in una trincea di guerra sono rimasti solo i Partigiani. Sul palco delle autorità, mentre sta tornando la calma, prende la parola nel momento più indovinato Padre Paolino. Il glorioso Cappellano e popolare predicatore di Parma, con la sua infuocata oratoria trascina gli animi verso il più puro patriottismo e verso i sentimenti più cari dell’amore alla propria famiglia e alla propria casa. Come trasformati da una magica forza, riuniti da una forte calamita, partigiani e popolo chiudono il discorso con un lungo, irrefrenabile applauso che cancella ogni paura e sospetto.
Un coro solenne e maschio si alza dalla piazza, il coro dei lupi della montagna dell’Appennino Tosco-Emiliano:
Sugli aspri monti ci siam fatti lupi,
il nostro grido è libertà o morte,
al piano scenderem per la battaglia
per la vittoria.
Noi rivivrem in un fulgor di gloria,
sorriderem nel riveder la vita,
sul campo sorgerà la nuova Italia
con la guerriglia.
Per vendicar un mondo di ingiustizie,
per risanar un mondo di vergogne,
rimbomba col suo rombo redento re,
la dinamite.
Per tutte quelle vittime invendicate,
per tutte quelle facce scheletrite,
compenseremo sulle barricate
piombo con piombo.
Col sangue, con la morte e con la vita
dai monti scenderemo fino al piano,
la forca porteremo ai traditori
morte ai fascisti!
Fin dove possa giungere lo sguardo,
lontano fino all’ultimo orizzonte,
farem che giunga a vendicar l’oltraggio
la nostra guerra.
Tra monti, boschi e valli ci battiamo
perché si possa ancora con orgoglio
gridare come il tuono e ancor più forte
Viva l’Italia!
(1) Vedi nota 11 a pago 112.
(2) «< Gatto »), Michele Carlucci e con lui il figlio Emilio.
3) (<< Tigre »), Domenico Consigli di Fugazzolo, vice Comandante di Distaccamento. (4) (<< Pio»), Ettore Tortoroli.
(5) «< Barbagianni ») ferito a morte durante la liberazione di Berceto, morì pochi
giorni dopo.
(6) Al Castellaro, frazione poco distante da Berceto.
(7) Mitragliatrici che sparavano ad altissima velocità falciando ogni cosa.
(8) «< Paolo il danese »), vedi nota n. 4 a pago 62.
9) È sempre Padre Paolino Beltrame.
(10 maggio) Oggi tutti i veri Partigiani consegnano le armi e ritornano alle
proprie case.
La guerra di Liberazione è finita.
CAPITOLO XX
LIBERTÀ VADO ANCORA CERCANDO…
Epilogo
È il decimo 25 Aprile che ritorna. Ho tenuto finora chiuso nel cuore il mio tormento e la mia passione; ora non ne posso più a dieci anni di distanza. Vorrei parlare sinceramente a chi ha vissuto e vive il mio tormento perché si senta ancora una vigile sentinella a difesa della libertà. .
Una volta, per un momento solo, il 25 Aprile mi ha preso in una sincera ed esuberante esplosione di gioia. Gli ultimi giorni di aprile ed i primi di maggio del 1945; stracciato e sfinito con numerosi amici sono sceso nelle piazze di Milano e di Parma ed ho cantato a squarciagola, perché mi pareva di vivere in un nuovo mondo e di essere un altro uomo, dopo lunghi diciotto mesi di passione; di una vita tormentata da una feroce lotta di caccia all’uomo da far impazzire, di gioco d’azzardo con la morte, di visioni macabre, di barbarie e di sevizie.
Ma furono brevi le ore di serena ed orgogliosa esaltazione. La sera, mentre sotto le coperte non riuscivo a dormire, perché la schiena, non più abituata al soffice, dolorava quasi reclamando il duro delle rocce e della nuda terra, ripensavo a quanto avevo visto durante il giorno e terribile un dubbio mi veniva a tormentare.
« Ma è proprio questa la liberazione che ho sognato, per la quale ho tanto sofferto, di cui ho tanto parlato durante i lunghi mesi, nelle interminabili notti insonni all’erta, quando urgeva il pericolo e non se ne poteva più? Ho sognato per tanto tempo una vera liberazione da tutti gli odi fraterni, una liberazione dallo straniero, che portasse tranquillità, serenità, una Patria libera da ogni ombra di dittatura, ed ecco che invece mi trovo con una liberazione che continua e spesso esaspera gli odi tra i fratelli, tra cortei di gente, che pazza, è scatenata alla caccia dell’uomo, tra scene di selvaggia vendetta e di sangue fraterno versato da partigiani mutati si in rivoltosi ».
Ed allora mi si velavano gli occhi di lacrime e per allontanare una così triste delusione, mi lasciavo cullare dal mio sogno di libertà; continuavo il mio colloquio con gli amici Ribelli come un tempo, nelle catacombe delle città in guardinghi appuntamenti, oppure sui monti ventosi, durante le affannose corse lungo le balze o gli ansiosi agguati tra gli anfratti delle rocce.
Dopo quei giorni non sono più tornato sulle piazze con quei cortei che mi erano diventati insopportabili. Da allora il mio 25 Aprile l’ho passato con i miei sogni. Sul primo mattino con cari amici celebravo la S. Messa sulle tombe di partigiani scomparsi e su quelle tombe, come su di un calvario, iniziavo i miei colloqui; poi mi ritiravo in fretta per paura di vedere nuovamente rotto il mio sogno di liberazione.
Oggi decimo anniversario della Liberazione continuo il sogno ed il mio colloquio.
Mi porto col pensiero su tutte le tombe dei cari fratelli partigiani morti e sulle loro tombe mi pare di essere come su di un calvario con la morte nel cuore. Su quei tumuli come su tanti calvari c’è confitta una croce, ed è la croce simbolo del dolore della loro morte: morte in combattimento, morte per fucilazione, morte per sevizie, morte nei campi di concentramento; tante morti con corpi straziati come quello del Crocefisso.
La loro tomba è come un calvario con la croce del dolore di tutti quelli che li hanno amati, che ora sono tormentati dal ricordo dello strazio dei loro corpi piagati come quello del Crocifisso e che portano nell’anima la ferita del vuoto che vi hanno lasciato.
Queste sono le ferite che io sento ancora aperte nel mio cuore e nella mia anima: ing. Bianchi, Rovida, Vercesi, fucilati a Fossoli, Olivelli morto a Hersbrueck; numerosi altri morti su tutti i dossi e le balze dell’Appennino ToscoEmiliano, i cui nomi si coprono ormai quasi di nebbia nella memoria, ma la cui fisionomia il tempo non cancella, ma sembra ravvivare. Non posso soprattutto
dimenticare quei cari visi che ho composto e baciato nell’agonia ed ormai assorti nel sonno della morte, intendendo di compiere come un sacro rito, sostituendomi alla mamma lontana.
Sul calvario tutto tace: solo Cristo ha voluto parlare ai suoi amici. Qui sul calvario delle tombe dei miei cari Ribelli per Amore è meglio tacere per noi uomini e lasciar parlare il Signore: «dona o Signore la parola della pace, che calma ogni dolore del cuore e che apre ai morti la luce della eterna felicità ».
E mi domando ancora con la tristezza nel cuore: «la libertà, per cui si sono innalzati tanti calvari su tante tombe, tanti dolori si sono scavati in tanti cuori, è proprio un fantasma od una luce irraggiungibile? ».
I morti per la libertà sono stati troppo traditi. Mi sembra di essere stato tradito anch’io da questi rivoltosi, tormentati e sconvolti dall’odio, anche se un giorno sono stati partigiani con me nella lotta per la libertà contro il fascismo.
Essi hanno tradito tante promesse, tante fatiche fatte assieme, tanto sangue offerto con martirio. Capisco ora che ci tradivano anche quando eravamo sulle montagne a fianco a fianco; ci
Milano – Don Aurelio Giussani, «Padre Carlo» a qualche anno dalla morte
hanno tradito con le parole dell’unione della libertà e della pace.
La guerra della liberazione purtroppo continua; la guerra per la libertà non è finita per il Ribelle d’Amore.
« Signore, che fra gli uomini drizzasti la croce, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo crudele e numeroso che in noi e prima di noi ha calpestato Te, fonte di libere vite, dà la forza della ribellione ».
Milano, 25 Aprile 1955
