
Alla memoria della mia venerata
mamma che in quel tragico
20 luglio 1944 con le sue suppliche
e con l’offerta di sè stessa valse
a salvare la mia vita e forse quella
di tanti altri da morte violenta.
Panorama di Guerra
Sugli inizi dell’anno 1944, visto che le cose sul fronte Italiano prendevano una cattiva piega e che i Patrioti, obbedienti alle disposizioni del Generale Alexander, rispondevano con le armi e con il sabotaggio ai replicati bandi di leva nazifascisti, il Comandante in capo delle forze tedesche in Italia, Kesselring, emanava un ordine chiamato comunemente «Messaggio di Kesselring», nel quale dopo aver fatto appello ai «banditi» Italiani, concludeva con una sanzione di stampo “esclusivamente nordico, concepita press’a poco in questi termini:
«Se voi ci colpirete alle spalle, noi per rappresaglia ci vendicheremo con le vostre famiglie innocenti!»
Queste pagine, che rispecchiano, secondo la più scrupolosa verità, le tristi vicende di un paese e di una zona montana, stanno a dimostrare la perfetta esecuzione di quel piano così cinicamente preannunciato dal tedesco e favorito dai suoi sudditi, forzati a impugnare le armi contro il proprio fratello..
Il sistema di rastrellamento bellico già verificatosi, con fatali conseguenze, in altre province, si accingeva ora a riprodurre gli stessi successi nella provincia di Parma e particolarmente nel Bardigiano e nel Bedoniese.
Località tranquille, incastonate come prezioso gioiello in un lucente paesaggio dai colori vivi, in cui il silenzio e la quiete inducono alla riflessione, e dove la pace è dolce compagna, diverranno ambita preda di azioni draconiane e saranno trasformate in fronti di guerra in cui i mezzi violenti daranno risultati inutili, detestati dagli stessi oppressori.
L’azione punitiva criminale, direttamente mossa contro i Partigiani, da qualche tempo padroni di Bardi, Bedonia, Borgo Val di Taro e decisi a difendere i valichi appenninici e le loro montagne, travolgerà famiglie, popolazioni pacifiche in un lutto e in una desolazione indescrivibili, non risparmiando la persona sacra ed inviolabile di Sacerdoti venerandi, colpevoli soltanto di essere rimasti – mentre tutti fuggivano – al proprio posto di Pastori a salvezza del gregge e del paese.
I Patrioti della Val Ceno e della Val Taro, al comando di Dario, di Berretta e di Bill, abbarbicati, come covi di aquile, alle nude rocce o appiattati sulle balze frondose dei monti, dovranno cedere davanti allo spiegamento di forze nemiche, occultarsi – seguendo la tattica di guerra del Partigiano – per risorgere, a burrasca finita, più numerosi e più forti di prima.
SOTTO LA TENDA DEL PARTIGIANO
Le montagne folte e scoscese della Val Ceno erano, già nel maggio 1944, luoghi di postazione delle diverse formazioni di Partigiani, in attesa di ordini del comando alleato. Vari distaccamenti della Brigata Garibaldi, ciascuno dei quali si era eretto il proprio capo, stavano appiattati sui cocuzzoli dominanti dei monti: drappelli arditi di giovani, di tutte le età e di tutti i paesi, dalla città alla campagna, volontari della libertà, con lo sten o il mitra a tracolla e la pistola ai fianchi, erano orgogliosi di rappresentare il patriottismo italiano. Sembravan guerrier del bel tempo antico, disposti all’attacco non appena fosse scoccata l’ora. La barba lunga, incolta, i capelli a zazzera, la divisa policroma, esotica, il berretto stravagante, fantastico, contribuivano a creare attorno ad essi un’aria come di esseri misteriosi. Di giorno, si notavano per la loro fugace comparsa in paese, in cerca di viveri o di notizie, tra le impressioni più svariate degli abitanti, che a’ tutta prima erano sospettosi, diffidenti, quasi presagissero l’avvenire. La Canonica era spesso la meta prefissa delle loro visite, dove sapevano che un pezzo di pane non sarebbe stato negato. Di notte, la loro presenza era contrassegnata dai falò accesi sul piano dei monti per significare a quell’uccello caritatevole, ronzante a più riprese nelle tenebre, di ricordarsi ano che di loro e favorirli di un lancio amico e benefico.
Eppure il messaggio sibillino, captato clandestinamente, parlava chiaro ed essi attendevano con Impazienza la manna del cielo. .
Ma eran frequenti le delusioni e molte più le notti vuote che quelle favorite.
Con questo però non si perdevano di coraggio e le segnalazioni pirotecniche si ripetevano infinite. volte.
Se fossero stati altri tempi, si poteva pensare a dimostrazioni folcloristiche popolari che in certe circostanze religiose dell’anno, secondo il costume, trasformavano le alture in tanti piccoli vulcani.
L’eventualità di qualche esecuzione sommaria – facilmente prevedi bile date le condizioni dei tempi – mi consigliava a tenermi in stretto rapporto con i vari distaccamenti partigiani situati nel territorio della mia parrocchia. E questa attenzione mi permetterà di assistere in extremis un giovane che risponde al nome di Carra Marino. Alla fucilazione di questi viene attribuito da molti il movente dell’azione repressiva compiuta dai tedeschi in questa zona.
Un giorno capitai in visita ad uno di questi distaccamenti, al comando di Camillo (passato poi comandante della 12.a Brigata Garibaldi in Val Parma). Tra quelle uniformi multicolori c’era posto anche per la tonaca nera del prete. La mia visita tornò anzi gradita ai presenti i quali mostrarono di interpretarla come un segno che essi, dopo tutto, non erano quei «fuori legge» di cui si voleva tacciarli.
La squadra era formata in maggioranza di giovani, accovacciati sotto la tenda formata da un meraviglioso paracadute giallo oro di seta finissima, nascosto sotto le foglie degli alberi. Il padiglione tutelava una trentina circa di uomini, un’accolta internazionale, poiché vi figuravano anche Inglesi sfuggiti alla prigionia. La loro discussione animata mi fece pensare a qualche piano di guerra imminente. Vi erano però i preparativi: ognuno infatti s’affannava in cerca di un nome di battaglia che confondesse quello di battesimo . In caso di emergenza. E nomi si componevano, pomposi , sonori e stuzzicanti l’amor proprio dei giovani cavalieri volontari.
Vi figurava pure «Bacci» che diverrà presto comandante di un distaccamento nella Val Ceno.
Fuori della tenda, un ragazzone robusto, dai capelli dorati, in veste di cuciniere improvvisato, stava intento a preparare al fuoco una coscia di vitello per la compagnia, mostrando nel suo fare una tale disinvoltura quasi fosse stato sempre quello il suo mestiere. Poco lontano, su di una balza che dà nella valle, la sentinella vigilava a difesa del piccolo campo trincerato. Di quando in quando un colpo di fucile, un’allegra risata, un richiamo, un fischio, e poi il silenzio misterioso dei monti…..
Quel piccolo drappello, che ne richiamava tanti altri disseminati ovunque, dava a pensare. La reazione della gran parte d’Italia era ormai in atto e stava per dare, pur attraverso sacrifici innumerevoli di lotte e di sangue, i suoi frutti.
Cereseto primogenita del Pelpi
Situata alle falde del Pelpi, in mezzo ad una cornice concava di boschi e radure verdeggianti, sulla pendice orientale che discende gradatamente a sbalzi verso il Ceno nella sua confluenza con il Toncino, in quel di Bardi, a 700 metri sul livello del mare, Cereseto si vanta della sua posizione privilegiata di primogenita del Monte, ne gode tutta la fecondità del suolo e la salubrità dell’aria. A 12 Km. da Compiano, da cui dipende come Comune, e altrettanti da Bedonia; a 9 Km. da Bardi, potrebbe costituire una stazione climatica di prim’ordine se una strada praticabile la collegasse ai centri suddetti.
La sua storia si perde nell’ombra dei secoli, come quella dei paesi circonvicini: Sidolo, Credarola, Scopolo, Masanti e le memorie che l’Archivio, ora completamente distrutto dall’incendio, conservava come reliquie, risalivano al secolo XVI.
Cereseto, con i suoi 700 abitanti circa attualmente residenti, ed altrettanti all’Estero, con le sue viuzze e con le sue case ben disposte e ammodernate, forma (o almeno formava prima della guerra) un piccolo centro attraente della vallata, tutto riunito attorno al Campanile, ritto come
una sentinella avanzata sul pendio ondeggiante e nello sfondo pittoresco del monte.
La sua Chiesa, ricca e bella, si eleva maestosa tra le abitazioni sottostanti, come una madre che ha cari i suoi figli e li vuol proteggere.
Un concerto melodioso di cinque campane, che il popolo gelosamente contese alle richieste esose di un partito, rallegra ancor oggi, non senza orgoglio, le feste del paese, numerose come i suoi Santi. Chi assistesse ad una di queste feste per esempio a quella della Madonna di Lourdes – l.a domenica di giugno – o a quella di S. Giacomo – 25 luglio – tra lo splendore dei doppieri inargentati e i parati preziosi di porpora e d’oro, tra l’armonia dei canti, avrebbe l’illusione di trovarsi in un ambiente cittadino.
La popolazione, intelligente e attiva, ha sempre tratto la sua maggiore risorsa dall’emigrazione e dalle sue relazioni con l’Estero, più che dai prodotti del suolo, insufficienti alle necessità delle famiglie, le quali si sentono affezionate alla propria terra e, costretti dal bisogno ad abbandonarla, tornano volentieri, dopo aver dimorato per lunghi anni in città moderne come Parigi, comode come Londra, lucrose come New York, come le rondini al proprio nido, al sorriso e alla quiete del paese natio. Alcuni ne hanno portato alto il nome nel mondo, come Mons. Francesco Sidoli Arcivescovo di Genova, e Giovanni Negri, illustre professore di belle lettere.
Al tempo di questa cronaca, Cereseto costituiva una mèta frequentata da molti prigionieri, inglesi e slavi, evasi dai campi di concentramento, dopo 1′ 8 settembre i quali trovarono nella ospitalità innata della popolazione, soccorso e comprensione, e quell’affetto di cui essi da lungo tempo eran privi.
Nel soccorrere questi fuggitivi consigliò prudenza la dolorosa vicenda occorsa a D. Antonio Cavacciuti, Arciprete di S. Giustina in VaI di Lecca, che fu catturato e condannato assieme alla sorella e alcuni parrocchiani, perché aveva prestato assistenza agli Inglesi. Chiuso in carcere a Genova subì maltrattamenti d’ogni genere e attese per lungo tempo l’esecuzione della pena capitale, alla quale sfuggì poi miracolosamente. Da allora se la carità non cessò del tutto divenne però più segreta e clandestina, sino al giorno in cui i signori d’Oltr’Alpe faranno pagar cara l’ospitalità concessa agl’Inglesi.
PRIMI SINTOMI DI BURRASCA
Giovedì 13 luglio 1944. – Mi hanno riferito che mio nipote (Macario) si trovava all’ospedaletto partigiano, sistemato provvisoriamente a Pione di Bardi, che raccoglieva i feriti nei combattimenti. La notizia, non ben precisata, faceva nascere il sospetto che anch’egli fosse degente. In giro c’era aria di «rastrellamento». Il mio pensiero correva a lui e tanti altri, costretti a condurre una vita randagia, considerati come figli di nessuno, colpiti da un bando ingiusto, braccati giorno e notte dai segugi filonazisti, costretti a camuffarsi sotto la speciosità di un nome (che generalmente rispecchiava il loro carattere naturale), incerti del proprio domani, certi invece, qualora fossero stati raggiunti e scoperti, di rimetterci la pelle, malsicuri di essere rispettati anche se feriti e sofferenti.
Di buon’ ora partii alla volta di Pione. Giorno splendido di luglio: la brezza mattutina accarezzava il volto e ampliava il respiro. Dalle pendici del Pelpi la VaI Ceno e la VaI di Lecca, anguste e serrate, s’affacciavano con i loro contorni di monti, stagliati nell’azzurro limpido, tinti di porpora e d’oro dai primi raggi del sole, fecondi di querce e di castagni. A sinistra, orgoglioso, il Penna e il Pennino, aguzzo, snello, svettante nell’infinito con la sua Madonnina. Di fronte, il Ragola, nudo e massiccio, con l’aria di voler fare da barriera all’invasore. Di quando in quando un colpo di arma non ben precisata che non turbava la quiete di quei luoghi, perché ormai l’abitudine ci aveva insegnato a non farne più caso. Quiete però foriera di tempesta e di vasto uragano che il cuore presagiva.
Scopolo era a due passi. Lì, sotto ai miei piedi, la frana un giorno si era arrestata per non travolgere il piccolo paese e i suoi abitanti. Arresterà l’uomo, ora, la sua macchina bellica distruttrice?
A Scopolo seppi, con mia grande sorpresa, che i Partigiani, subodorato il vento infido, avevano sgombrato Pione e si erano squagliati tra le gole del Monte Ragola. Appresi pure che mio nipote, incolume, aveva presa la stessa via. Anche i feriti, nell’imminenza del rastrellamento, avevano sgombrato ed erano stati affidati alla cura di famiglie private dei dintorni. Due di essi erano riusciti a farsi trasportare a Scopolo, dove la carità del Parroco aveva subito provveduto ad alloggiarli in una casa.
Trovai infatti D. Riccardo Serena affaccendato attorno a due giovani feriti, riconoscenti per l’affettuosa cura trovata ma trepidanti per la loro futura sorte. Azione caritatevole, alla quale il Sacerdote prestò tutte le sue premure, senza però nascondersi il pericolo e la minaccia che sovrastava al paese, se i tedeschi ne fossero venuti a conoscenza.
Le voci che questi erano vicini, non si davano ancora per sicure, quantunque qualcuno affermasse di averli visti coi propri occhi. Ma come credere a tutte le nuove che in tempi siffatti corrono sulla bocca del popolo?
D. Serena ed io, rassicurati i feriti, avanzammo, fin sopra il Ceno, dove, da un’altura, si poté realmente constatare coi nostri occhi quello che non avremmo voluto vedere: una colonna di soldati tedeschi che puntavano in direzione di Scopolo e di Masanti. Ritornammo sui nostri passi, per dove era più fitta la boscaglia, non tanto per sfuggire ad una probabile cattura, quanto per compiere un ultimo atto di carità: sottrarre i feriti ad una sicura vendetta. Arrivammo in paese poco prima che giungesse l’avanguardia nemica. Occorrevano braccia robuste e sforzi erculei per trafugare i feriti e riporli al sicuro fuori dell’abitato. Mancavano uomini in paese ed al gravoso ufficio di buon Samaritano pensò il Parroco, coadiuvato da alcune donne, prodigando tutte le sue forze e il suo sangue freddo, nonché la sua sveltezza essendo i tedeschi alle calcagna.
La Provvidenza volle che l’impresa caritatevole giungesse a buon porto e che non fosse minimamente avvertita dalla pattuglia sopraggiunta a perquisire le case. Fu buona ispirazione la mia di non sostare a Scopolo in quel momento, perché in quei giorni per noi Preti non era prudente, al sopraggiungere dei tedeschi, trovarci riuniti sotto i campanili.
Sarebbe stata una prova certa di complotto, come i fatti dimostreranno.
A Cereseto la notizia da me riferita, fece colpo. Ciò che da tutti si temeva era ormai una realtà. Il paese cominciava a rigurgitare di gente sbandata, di partigiani d’ogni colore, «sganciatisi» – secondo il termine divenuto comune – dalle posizioni occupate. E tutti tradivano l’impressione tragica di essere chiusi come in un cerchio di ferro dal quale era ben difficile, se non impossibile, sfuggire.
Borgo VaI di Taro, Bedonia, Pione, Fornovo, Valmozzola, erano i principali capisaldi di questo duro cerchio, stretto sempre più dai tedeschi.
Il rastrellamento era divenuto l’idea comune, ossessionante, colorita a tinte sempre più nere dal panico invadente degli uomini, senza dire delle donne.
Le notizie allarmanti, risapute e testimoniate da partigiani sbandati, di violenze, di sterminii e di stragi operate dai nazifascisti nella regione del Penna e soprattutto nell’alta VaI Taro, proiettavano un’ombra fosca sul nostro domani e non ci si nascondeva il timore che la rappresaglia nemica, per le forti perdite subite in detta località, continuasse oltre il Pelpi.
LA CACCIA ALL’UOMO
Il martedì 18 luglio, un grave allarme riversò una nuova ondata di panico tra la popolazione già tutta in subbuglio. Era giunta la notizia, non so da quale fonte, che i tedeschi, al mattino di questo giorno, avrebbero da Bardi sottoposto al fuoco dei loro obici la regione della Val Ceno e della Val Toncina, come avevano fatto altrove, per rendere più spedito il passaggio delle loro truppe attraverso il territorio invaso dai Partigiani. Il paese si era perciò letteralmente sgombrato fin dalle prime ore del mattino, come nell’attesa di un bombardamento aereo, e la gente, appiattata nei crepacci, nei burroni, tra le insenature dei torrenti o sotto qualche pianta frondosa, aspettava, ben al riparo dai colpi nemici la prova che non venne mai.
Falso allarme o mancata azione, ritenuta inutile dai tedeschi ?
Tutta la zona distesa ai piedi del Pelpi, era divenuta ormai un brulichio solo di uomini che portavano sul volto i segni evidenti di una preoccupazione e di un’ansia indescrivibile. Sospinti come da una forza irresistibile salivano in alto, verso i monti, in seno ai dirupi, ai burroni profondi, in cerca di un rifugio, di una tana, di una incavatura, per celarsi dall’ira imminente.
Cereseto, non so perché, forse data la sua posizione isolata e fuori di ogni comunicazione e quindi a dar ricetto a persone che volevano sfuggire alla cattura, sembrava diventato un porto di mare e Dante avrebbe potuto dire: «convengon qui d’ogni paese!…»
Sbucavano da tutte le direzioni, come poveri profughi, uomini di ogni età e condizione; padri di famiglia con i propri figliuoli ancor giovani, poiché si dava la caccia: tale era l’ordine – a tutti quelli compresi tra i quindici e i cinquantacinque anni. Sostavano sospettosi, meravigliati di trovare gente che non si muoveva come loro, chiedevano una via, un sentiero e poi scomparivano nel fitto dei boschi e delle foreste, con il loro bagaglio di viveri in braccio o in spalla. Ma i più giungevano sprovvisti di tutto e allora te li vedevi davanti in atto di chiedere un pezzo di pane. Non meritava tutta questa folla, attanagliata da una grande prova, il gesto di Nostro Signore: «Misereor super turbam?» Chi non avrebbe spezzato volentieri ad essa il pane della carità cristiana?
Eppure un tale atto di umanità e di fratellanza doveva essere interpretato dai tedeschi, lontani dall’ideale cristiano, come favoreggiamento verso il nemico e come un reato grave, capace di compromettere la vita stessa di un uomo o di una popolazione intera!
Bisogna ammettere però che si mescolasse tra tanti, innocenti e innocui, qualche cattivo soggetto che tramava ai danni del prossimo, e perché no?…
Come non si può negare che ci fosse, fra tanti, qualche imprudente che nei fienili o nelle case disabitate, gettava le sue armi o munizioni, in attesa di riprenderle a tempo opportuno: armi e munizioni che, scoperte dai teschi, avrebbero potuto compromettere il paese.
A render più tetra e caotica la situazione di quei giorni e di quelle notti, si aggiungeva la mancanza di luce elettrica, tolta appositamente per impedire le comunicazioni tra i Partigiani. Si aveva quindi ancor più la sensazione di brancolar nel buio, senza un raggio di luce, che pur giova tanto a tener alto il morale dell’uomo.
Solo al termine del rastrellamento, durato una ventina di giorni, ritornerà la luce; e allora quelli che la rivedranno, potranno trarre un largo respiro ed esclamare: finalmente sono passate le tenebre!
Una sera di questi giorni, sull’imbrunire, uno di quei tali feriti incontrati a Scopolo (Gaetano Gorra) disteso sul suo letto, sorretto da’ quattro robusti brancadieri, attraversava il paese. Sua madre lo seguiva. Scappavano tutti, anche i feriti dovevano trasferirsi da un capo all’altro, a seconda dell’ubicazione dell’avversario. Ma quella scena, bisogna dirlo, aveva tutto un sapore palestinese del tempo di Nostro Signore; e non so se ispirasse più compassione il figlio o la madre!
ANNUNZIO FATALE
Al tramonto del 18 luglio, un bel tramonto fiammante, – il proverbio: «rosso di sera bel tempo si spera» non tornava a proposito, stavolta – si sentì improvvisamente tuonare, oltre il Pelpi, un colpo cupo di cannone, seguito a poca distanza da altri colpi e le palle fischiarono con sibilo acuto sopra i tetti delle case.
Era il segnale della guerra vicina, alle porte di casa nostra. Bisognava quindi decidersi ad affrontarla o a schivarla, se fosse stato possibile. Un fremito di paura percorse la popolazione che cominciò ad agitarsi come un mare in tempesta.
Povera gente! Vissuta sempre tranquilla all’ombra delle, sue case vetuste; abituata a vivere indisturbata nel lavoro, tra la pace dei monti; assuefatta a guardare il suo Pelpi come baluardo di difesa e di protezione, non sapeva ora capacitarsi davanti a quell’insolito suono per aria, e disorientata e con il cuore sospeso, si dimenava tra, una casa e l’altra, proprio come un formicolaio molestato senza motivo alcuno dal piede feroce di un uomo brutale.
Vennero da me alcune mamme, con il bambino in braccio, per chiedermi dove dovevano rifugiarsi… La tragedia, era cominciata! . :
La notte trascorse come tante altre, tra fantasmi e sogni paurosi. Gli uomini, almeno una gran parte, erano nel folto dei boschi o nelle tane. Precauzione suggerita dal timore di essere colti di sorpresa. Storia tragico-comica che durava da parecchie notti e che durerà per molte altre ancora. Non per nulla il Poeta cantò: «Libertà vo cercando ch’ è si cara!.. . » .
Ma più che il bombardamento offriva uno spettacolo desolante il saccheggio, ancora in atto, nelle case e nelle botteghe, abbandonate dagli abitanti alla mercé dell’invasore.
Lasciai al più presto quel luogo, poco tempo prima così gentile e ridente, ora così tetro e glaciale… Per via mi imbattei in alcuni viandanti che discendevano da Cereseto. Riferivano che i tedeschi avevano varcato il Colla (il passo del Pelpi) e avevano raggiunto Farfanaro, frazione di Cereseto, lasciando dietro di sè stragi e rovine. Alte nuvole di fumo tingevano infatti il cielo da quella parte. Non c’era dubbio, la notizia rispondeva a realtà.
Si trattava però solo di un fienile dato alle fiamme nelle vicinanze di Farfanaro, dove una colonna tedesca si era stabilita per trascorrervi la notte.
In paese, strane sensazioni, commenti sconcertanti, previsioni catastrofiche, eccitazione di nervi, orgasmo vivissimo che nessuna buona parola e nessun ragionamento riusciva a calmare… Un tramestio insolito per nascondere CIO che di più caro si possedeva, un accorrere frettoloso.
VIGILIA D’ANGOSCIA
Il 19 luglio discendevo a Bardi spinto non tanto dalla curiosità di vedere gli effetti del bombardamento quanto per spiare, se possibile, le intenzioni dei tedeschi circa il rastrellamento in corso e poter così dare alla popolazione un consiglio in merito.
Affrontai, in compagnia di D. Dorino Ferrari, Arciprete di Credarola, il Comando germanico, installato al Belvedere.. Riferimmo favorevolmente sulla situazione della zona, contro eventuali cattive informazioni, ma circa le intenzioni del Comando, particolarmente riguardo ad un eventuale bombardamento della zona, ciò che si temeva, ci fu risposto molto evasivamente. Nulla ci si lasciava capire e tutto da dubitare. Sostai in paese. Le case mostravano nudamente i segni della furia nemica. Palazzi crivellati, Canonica traforata, e la Chiesa monumentale, pareva gemesse tuttora sotto le ferite infertitele dalla rabbia degli uomini.
«Hostium rabies diruit!»
Ma più che il bombardamento offriva uno spettacolo desolante il saccheggio, ancora in atto, nelle case e nelle botteghe, abbandonate dagli abitanti alla mercè dell’invasore.
Lasciai al più presto quel luogo, poco tempo prima così gentile e ridente, ora così tetro e glaciale… Per via mi imbattei in alcuni viandanti che discendevano da Cereseto. Riferivano che i tedeschi avevano varcato il Colla (il passo del Pelpi) e avevano raggiunto Farfanaro, frazione di Cereseto, lasciando dietro di sè stragi e rovine. Alte nuvole di fumo tingevano infatti il cielo da quella parte. Non c’era dubbio, la notizia rispondeva a realtà.
Si trattava però solo di un fienile dato alle fiamme nelle vicinanze di Farfanaro, dove una colonna tedesca si era stabilita per trascorrervi la notte.
In paese, strane sensazioni, commenti sconcertanti, previsioni catastrofiche, eccitazione di nervi, orgasmo vivissimo che nessuna buona parola e nessun ragionamento riusciva a calmare… Un tramestio insolito per nascondere ciò che di più caro si possedeva, un accorrere frettoloso ai luoghi di rifugio e di latitanza. Vigilia trepida, angosciosa. Tutti lo sentivano, ma nessuno sapeva darsene ragione. Domani, sarebbe stata una giornata triste!
Perché fuggire? Rispondo a chi cerca di convincermi alla fuga.
Mi tratteneva la coscienza sicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’usbergo del sentirsi pura!
ma anche il dovere di un Parroco, che deve assumersi la difesa del popolo quando il pericolo incombe. Così pensavo prima ancora di sperimentare personalmente la tedesca rabbia; perciò, restai in attesa.
La notte fu, presso a poco, come quella dell’innominato, insonne ed agitata.
L’ORA DELLA PROVA
20 luglio 1944! Data infausta, tinta di sangue e di fuoco, che rimarrà eterna nella mente e nel cuore dei Ceresetani.
L’alba, anche oggi radiosa e splendida, aveva portato come di consueto il risveglio in paese. Risveglio amaro per tutti, a causa delle immagini fosche che nella fantasia sconvolta avevano turbinato durante la notte. L’orecchio era teso ad ogni rumore ad ogni passo che si ripercuoteva dal selciato nelle case. Ma a quell’ora i tedeschi riposavano ancora tranquillamente sugli allori sanguinanti del giorno precedente e sognavano le nuove prossime vittorie
Fu solo più tardi, circa le sei, che si udirono le prime sparatorie, accanite, rabbiose.
IL Pelpi, come un titano furioso, parve ridestarsi dal sonno nelle sue balze superiori. Chi l’avesse osservato quella mattina nella luce candida stemperata dei primi raggi del sole, avrebbe avuta la sensazione di assistere ad un magnifico fuoco d’artificio. Razzi luminosi si susseguivano a breve distanza l’uno dall’altro e tracciavano nel cielo limpido e sullo sfondo verde del monte, le loro parabole perfette.
Sennonché bisognò ben presto abbandonare l’idea di una festa! Erano segnali di sveglia? di partenza? di preso possesso della posizione?
Tutto dava a pensare che altre truppe erano la sera prima accampate sulle alture del monte e avevano dormito al chiaro delle stelle.
L’ ora era scoccata e il tedesco protendeva i suoi artigli per ghermire la preda. Qualcuno suggerì di issare bandiera bianca sul campanile, per rendere pacifica l’occupazione del paese lo non fui del parere, anzi mi opposi. Se poi la bandiera sventolò sul campanile, non seppi mai chi l’avesse portata. I fatti dimostreranno che sarebbe stato più prudente non esporre simili segnali, malamente interpretati dai tedeschi. Essi infatti erano persuasi che i Campanili fossero posti di segnalazioni per i «ribelli o banditi» e che quindi tutti coloro che vivevano all’ombra di essi, Preti compresi, facessero lega con questi ultimi o almeno fossero simpatizzanti.
Verso le ore 8, la pattuglia che aveva pernottato a Farfanaro, discese a Cereseto, tra un fuoco nutrito di fucileria.
Giudicai utile muoverle incontro, con tutti i segni di una accoglienza amichevole.
La colonna era guidata in testa da un Maresciallo, dal portamento fiero e sdegnoso, dagli occhi sprizzanti ferocia e odio. Atteggiamento che non depose neppure quando si trovò faccia a faccia con me. Non rispose al mio saluto, ma mi indicò in perfetto italiano di seguirlo. Feci buon viso a cattiva sorte (meglio a cattivo incontro) e mi misi ai suoi ordini. Mi chiese, come prima cosa, se vi fossero banditi in paese. Risposi che se n’eran visti passare i giorni avanti, ma che attualmente non esistevano. Lo assicurai che Cereseto era un paese tranquillo e non avrebbe presentato alcuna reazione all’ occupazione germanica.
Un giorno del 1958, lo rivedrò all’ospedale di Piacenza, in condizioni pietose e condannato all’impotenza, divenuto lo zimbello di tutti. Fu lui a riconoscermi… Non ci voleva molto a riscontrare in lui i segni di una giustizia che presto o tardi arriva.
Parve credere alle mie parole, tanto che io, turbato dalla prima cattiva impressione avuta, mi tranquillizzai alquanto. Ma ecco che ad un ordine di lui, lanciato freddamente, i soldati si divisero e circondarono in un attimo il paese, piazzando le mitragliatrici all’imbocco delle strade.
Assistei dal di fuori alla perquisizione della prima casa, fatta dal maresciallo e dai suoi subalterni. Notai subito che la gentilezza e la cortesia non avevano a che fare.
Il calcio del fucile sostituiva la chiave e il padrone, cacciato fuori come un cane, doveva rinunciare per quel momento ai suoi diritti. Vi era nei modi, negli atti e nelle parole di quella soldataglia un non so che di inumano che faceva prevedere poco di bello. Tutto il paese e la vallata rintronavano di colpi improvvisi e assordanti.
Invitai il maresciallo, che intanto aveva compiuto la perquisizione della prima casa, in Canonica, ed egli accettò l’invito. Speravo di poterlo rabbonire. Altiero e tracotante com’era, mi dava l’idea di uno di quegli antichi conquistatori che prendessero possesso di una città. In Canonica chiese del vino e del vino buono. Gli offersi anche da mangiare. Iniziammo quindi un colloquio che mi rivelò chiaramente il suo animo. Incominciò col chiedermi alcune informazioni sul conto mio e della popolazione. Risposi prudentemente, schivando ogni parola che potesse compromettere. Quindi passò a descrivermi, con fare sprezzante le gesta dei banditi di questi monti. Particolarmente si dileguò sui fatti di Pelosa, località sopra Bedonia, dove erano rimasti vittime, pochi giorni prima, una settantina di tedeschi, «barbaramente fatti a pezzi dai vostri banditi», com’egli si espresse. Compresi che in quel cuore ci covava un odio implacabile e lessi nel suoi occhi lampeggianti una sete diabolica di vendetta. La conversazione si faceva sempre più animata, potrei dire cordiale, e un certo senso di fiducia stava per subentrare in me. Fiducia ben presto stroncata da una domanda che non avrei voluta.
«Quanti sono gli uomini nel paese e dove sono?»
A rispondere, temevo di compromettermi. Dov’erano gli uomini? Le gole profonde dei monti, le tane umide delle volpi, le caverne melmose dei torrenti, i ripostigli più reonditi delle case, dov’essi trepidanti latitavano nel timore di essere scoperti e deportati, se non fucilati, ne potevano dire qualcosa, ma io?
Risposi evasivamente, nel senso più, di ignorare che di conoscere. Non soddisfatto della mia risposta, li volle vedere. Anzi mi incaricò di trasmettere l’ordine a tutti i presenti di radunarsi al più presto sulla piazza, pena la fucilazione per chi non si fosse presentato.
L’ordine era perentorio, ed io lo trasmisi con il presentimento di qualche sciagura.
La Canonica nel frattempo era divenuta come la sede del quartier generale. Ufficiali e soldati entravano e uscivano non tanto per riferire al loro comandante, quanto, e soprattutto, per saziare la propria ingordigia. E bisognava accontentare il loro gusto raffinato!
Fino a questo momento la mia libertà era intatta e potevo liberamente circolare in paese. Ed io ne approfittavo per portare, ovunque fosse il bisogno, una parola di incoraggiamento e di fiducia. Le donne erano terrorizzate dal modo di procedere dei soldati, poiché questi sembra non trascurassero nessun mezzo violento per intimorirle, pare anzi si divertissero a farlo. Spadroneggiavano nelle case, depredando: lanciavano a casaccio bombe a mano; facevano saltare porte e finestre, frantumavano vetri e bottiglie… Qualche donna era stata così fortemente impressionata da perdere i sensi, e fui chiamato presso di esse, come al letto di una moribonda.
Ora poi cominciavano a circolare in paese le voci che qualche casa sarebbe stata incendiata perché trovata in possesso di polvere e munizioni. Infatti referenze del genere fioccavano in Canonica da parte dei perquisitori (non so però se rispondenti a verità) e il maresciallo ci diede peso. Intervenni presso di lui, scongiurandolo in favore delle famiglie imputate, ed egli mi assicurò che nulla si sarebbe fatto senza suo ordine. Volle anzi accertarsi di persona e mi invitò ad accompagnarlo presso una casa dove i soldati dicevano di avere scoperta polvere inglese. Polvere veramente c’era, in un tale recipiente sigillato di provenienza estera, ma era di quella destinata a spegnere eventuali incendi delle trebbiatrici. Ma i visitatori o perché ignoravano la lingua o perché tutto ciò che sapeva d’ inglese costituiva reato, n’avevano fatto un caso incriminabile. Il maresciallo si dette per inteso e ordinò di rispettare la casa.
In questo frattempo un certo numero di uomini si era radunato presso il campanile. Vecchi la più parte, o che si ritenevano sicuri di essere rispettati. Non erano questi che voleva il maresciallo, assetato come una belva di sangue giovanile. Me ne accorsi dal tono minaccioso con cui pronunciò quelle parole:
«E i giovani dove sono?». Osservò attentamente i documenti dei presenti, ma non nascose il suo disappunto. L’orologio della torre segnava le 8,25 precise. Mi meravigliai di quell’ora, perché vedevo il sole già alto all’ orizzonte.
Seppi più tardi che al momento dell’ occupazione tedesca del paese, un soldato era salito sul campanile e con il calcio del fucile aveva spostato il bilanciere e piegata una ruota principale dell’orologio. Per molti giorni l’orologio della torre, testimone, anche se muto ed incosciente, di una scena storica di terrore, segnerà le 8,25: l’ora della prova!
Sotto la sferza delle S.S.
Penso che tutto il male sarebbe finito qui, se non fossero calate giù a questo punto, dalla parte settentrionale Pelpi, altre orde ben più selvagge, che sembravano aver in corpo la sete di strage e di vendetta degli Unni di Attila: le SS. germaniche. La violenza ed il terrorismo più brutale la licenziosità sfrenata, l’ingordigia insaziabile si rivelarono ben presto loro caratteristica spiccata. La sola loro comparsa destò brividi di spavento. Fecero quanto non avevano fatto i primi: saccheggio e distruzione furono per essi la cosa più naturale. Il paese finì per tramutarsi in un bivacco solo, dove i soldati gozzovigliando e dividendosi la preda lasciavano agli abitanti ammutoliti l’ossa spolpate e
l’inutile rimpianto dei propri beni. .
In Canonica si dava ritrovo lo Stato maggiore di queste truppe, capeggiato da un giovane tenente, aspro e disdegnoso, che sapeva parlare discretamente l’italiano e sufficientemente l’intendeva. Azzardai un saluto di convenienza al nuovo ospite. Rispose freddamente e subito sedette a mensa, chiedendo generi di suo miglior gusto.
Cercai di sottrarmi subito all’occhio torvo di questo nuovo signorotto, anche perché mi premeva rendermi conto di quanto succedesse in Chiesa, dove avevo visto poco prima scorazzare dei soldati con aria di poco rispetto.
Qui mi attendeva una scena quanto mai disgustosa ed emozionante. In fondo alla Chiesa, seduti nelle panche destinate alla preghiera, erano stati ammassati tutti i prigionieri, giovani e anziani, che i tedeschi avevano fatto nel rastrellamento sui monti. Erano una trentina o più, eppure regnava in quel luogo sacro un silenzio sepolcrale. Vidi quei volti contraffatti, inebetiti, fissarsi su di me, in attesa di qualche cosa di nuovo. Ma io non avevo da comunicare a loro che la mia meraviglia e la mia compassione.
Scorsi anche qualcuno dei miei, e per essi e per tutti promisi una buona parola presso il comandante.
Ero troppo lontano dal pensare alla mia prossima vicenda.
Rientrato in Canonica, trovai il tenente fisso su di una carta topografica. Mi fu richiesta dov’era situata la località detta «Poggio», che non risultava sulla carta, che pure segnava tutte le località anche minime della zona. Indicai, senza riflettere, il Poggio di Credarola, poco distante, dimenticando quello di Cereseto, com’egli intendeva. Ma questi stette, senza sospetti, alla mia parola., Evidente l’intenzione di vendicare sul posto un favoreggiatore dei tedeschi, giustiziato poco tempo prima dai partigiani, perché sorpreso come «spia».
Ciò che di fatto avverrà.
Si compiva nel frattempo la perquisizione in casa mia.
Ancora lo stesso maresciallo, che ne era l’incaricato, m’invitò a seguirlo. Perquisizione molto superficiale. Egli dimostrava di non annettervi troppa importanza. Visitati i piani superiori, senza trovare nulla di compromettente, si passò alla cantina: poche bottiglie ancora di vino da messa, scampate all’ingordigia delle squadre d’assalto che ad ogni momento piombavano in Canonica, e che minacciavano anch’esse di seguire la stessa sorte delle altre. Ma il maresciallo ebbe un moto di buon cuore e, forse ricordandosi di essere cristiano, ordinò di rispettarle. Alla fine osservò se il pavimento era tutto in legno. Che avesse intenzione di salvare la Canonica dall’incendio?
Ero convinto, non appena finita la perquisizione della Canonica, d’essere assolto per mancanza di prova. Invece mi si parò dinnanzi un sottufficiale tedesco che, col calcio del fucile più che con le parole, m’intimò bruscamente di seguirlo. L’udii solo articolare un freddo «Raus!» che mi parve volesse dire anche se poco sapevo di tedesco «fuori!». Poco cortesemente mi condusse in chiesa e mi assegnò il posto tra i prigionieri.
Prigioniero anch’io! E perché?
Passato il primo momento di stupore e di sbigottimento, cominciai a struggermi dal desiderio di parlare col capo e chiedere spiegazioni. Ma mi era imposto il silenzio e le guardie alla porta me lo avrebbero impedito. Mi rassegnai alla mia sorte, quantunque mi sembrasse misterioso quell’improvviso cambiamento di scena. Chinai la testa fra le mani
mani e scavai nel fondo della coscienza per scoprire se
qualche colpa avessi commesso da meritarmi quel trattamento villano.
Era questa la ricompensa dell’accoglienza cortese e gentile fatta agli ospiti? Perché tanta slealtà e per quali ragioni ?
Non mi sentivo colpevole! Davanti al nero presentimento, che ormai diveniva cruda realtà, la fantasia rimuginava ogni via possibile di fuga e una reazione intrattenibile si dibatteva nell’intimo dell’animo… Ma poi, volgendomi attorno, rividi tanti altri prigionieri, innocenti al pari di me, anch’essi strappati via senza saperne il motivo, unicamente per la colpa di essersi lasciati prendere, e mi calmai.
Nel Tabernacolo, quel giorno, il Signore non era presente, perché avevo pensato prima a toglierlo alle possibili profanazioni della gente iniqua. Ma al suo posto di prigioniero voleva forse noi in quell’ora?
Dall’altare, come da un trono, vegliava, a conforto e a salvezza, la bella Madonnina di Lourdes, e pareva volesse
sollevare nelle sue mani il carico di quella prova. Un segreto convincimento s’impossessava del cuore nella certezza ch’Essa avrebbe fatto cadere ben presto le pesanti catene.
Nel mio intenso raccoglimento, e nel tumulto di tanti cupi pensieri, non m’ero accorto dell’impressione suscitata dalla mia presenza nell’animo dei prigionieri. Ma quando qualcuno poté liberamente avvicinarmi e dirmi, con un fil di voce: «Reverendo, è venuto a confessarci?», compresi che quei poveri disgraziati avevano la convinzione che io fossi stato mandato per disporli al passo estremo. Ci volle del tutto per persuaderli che anch’io ero prigioniero al par di loro. Tale era lo spettro della morte che li ossessionava, da interpretare la mia presenza come un segno della fine! Non so quanti minuti rimanemmo nel luogo sacro, minuti che parvero ore. Soldati con poco rispetto passavano e ripassavano in perquisizione nella Chiesa, gettando sossopra ogni cosa. Ne vidi qualcuno che fissò lo sguardo nella Madonnina dell’altare e lo abbassò immediatamente, forse preso da un senso di riverenza.
Chi disse a mia mamma che io mi trovavo prigioniero in Chiesa?
Fatto si è che me la vidi comparire davanti e comprese, senza tante parole, quanto volevo dirle. S’iniziava anche per lei la via dolorosa! Credo che si portasse subito dal capo per perorare la mia causa. Ma io ero ben certo che non ci fosse più nulla da fare e che bisognasse salire serenamente il Calvario…
AL MURO
DAVANTI AL PLOTONE D’ESECUZIONE
Venne l’ordine di uscire. I prigionieri furono divisi in tanti gruppi, custodito da due guardie ben armate. Con me erano altri quattro ostaggi bedoniesi, fra i quali Biondin.
Al mio gruppo fu riservata la parte più tragica. Allineati al muro, prospiciente la facciata della Chiesa, si piazzarono di fronte a noi due fucili mitragliatori con il plotone di esecuzione, che rimase cinicamente in attesa di ordini.
Era da aspettarsi un epilogo cruento del dramma, e le vittime si dimenavano angosciosamente, già presentendo in se gli spasimi dell’agonia e l’amarezza dell’ultimo addio!
Il quadro era reso ancor più emozionante dalla presenza di una madre, il cui volto contraffatto e sbiancato, tradiva lo schianto del cuore. La si vide più volte gettarsi ai piedi dei capi nazisti, in atto supplichevole, senz’altro ottenere che il disprezzo, il sarcasmo e la minaccia. Ma forse le sue suppliche e le sue insistenze non furono inutili. Altre prove però non saranno risparmiate al paese, tra cui quella del fuoco.
La nostra attenzione infatti è subito distolta da improvvise fiammate guizzanti sinistramente e da grossi nuvoloni di fumo che involgevano le case, l’aria risuonava tutt’attorno delle grida disperate della gente, mista al clamore dei soldati e al fragore delle bombe incendiarie. Lo scopiettio intensificato dei tapùm rendeva ancor più lugubre e spaventevole la scena.
Tengo a sottolineare che Biondin, mio grande amico di sventura è sempre al mio fianco; lo ricordo indomito anche nella tragica vicenda, quando stava per decidersi la vita o la morte, allorché con coraggio sovrumano rincuorava il Sacerdote che in quella situazione così disperata cedeva ad un trauma naturale fin troppo spiegabile…
Come ricorderò sempre lo sprezzo del pericolo che «Biondin» ha dimostrato quando – di fronte a certi misfatti - sbottava in parole di condanna nei riguardi degli oppressori, parole che io cercavo di trattenere onde impedire l’irreparabile. Conserverò sempre e in eterno, la mia riconoscenza per il coraggio che in me personalmente ha saputo trasfondere e in altri prigionieri, in un momento in cui di coraggio e di speranza ce n’era tanto bisogno.
Penso che la provvidenza in certi frangenti, come quelli che abbiamo narrati, pone degli uomini siffatti che sono di salvezza nello smarrimento e nella depressione generale.
In brevi istanti il paese divenne un immenso braciere incandescente che crepitava paurosamente e saliva in dense volute verso il cielo. A tutta prima parve che il paese intero, Chiesa e Canonica comprese, dovesse rimanere sepolto sotto le ceneri.
Uomini e donne, liberi e ostaggi, osservavano con gli occhi sbarrati, esterrefatti, e subivano la feroce vendetta trattenendo a forza ogni atto di ribellione che avrebbe voluto esplodere.
Altro colpo di scena. Tre uomini, ben noti a Cereseto, per sfuggire al fuoco appiccato alla casa dove si trovavano rifugiati, si presentavano ai capi convenuti sotto il campanile, nella speranza di essere graziati. La loro provenienza dichiarata, fu la loro condanna. Il nome di Compiano, fece scattare come una belva il maresciallo, che decretò per essi la fucilazione, considerandoli, arbitrariamente, come disertori e banditi. Parve però solo una minaccia, perché fu dato immediatamente l’ordine di partenza.
Per noi che al muro attendevamo da un minuto all’altro la fine portò quell’ordine un largo respiro. L’ala della morte per allora ci aveva sfiorati, ma non ghermiti.
La colonna dei condannati, scortata dalle guardie, si mosse lentamente, attraverso i roghi fiammeggianti, mentre i pochi abitanti presenti gettavano, attoniti, occhiate di commiserazione su quel corteo funebre, in cui figurava anche il proprio Pastore, il quale portava in cuore lo strazio della sua mamma abbandonata, l’incendio della propria casa e la prospettiva funesta di una morte violenta per sé e per i suoi compagni di sventura.
Da una finestra della casa ove nacque l’Arcivescovo Mons. Francesco Sidoli, due ghigne beffarde, acconciate con le insegne episcopali, scimmiottavano grottescamente persone sacre e insozzavano, prima che le fiamme le involassero, le cose più venerande…
VITTIME INNOCENTI
Presso una piccola cappella, fuori del paese, sulla strada che conduce a Bardi, ricevemmo l’ordine di fermarci. Sembrava che ci avessero spostati colà per farci meglio assaporare il martirio della popolazione rimasta.
Era davvero raccapricciante lo spettacolo che si presentava allo sguardo come una cupa visione d’inferno. In quel meriggio soffocante di piena. estate, pareva di assistere ad un vulcano in eruzione. Fumo, fuoco e faville si sprigionavano e si comunicavano da un tetto all’altro con una velocità vertiginosa e tutto era avvolto, uomini e cose, in una nuvolaglia densa e rossastra. Da quella nuvolaglia si scorgevano, di tanto in tanto, uscire donne e bambini e qualche vecchio cadente, che faticosamente asportavano via dalle case diroccanti e gettavano nei campi vicini quanto era possibile strappare dalle fiamme: letti e vestiti, mobili e utensili… Ad alcuni non era nemmeno permesso questo diritto, che anzi con modi brutali strappavano loro di mano quello che volevano salvare e lo buttavano nel fuoco.
Ad alimentare l’incendio tutto doveva servire: i covoni di frumento, il fieno dei campi e, dove questi non bastavano, le bombe incendiarie. Bisogna aggiungere che il paese si prestava al gioco di una fiammata vendicatrice, tutto riunito com’è e aggrappato sotto il campanile.
Più di uno spettatore, davanti a quella scena apocalittica, di edifici che crollavano e si incenerivano, di gente che correva all’impazzata, gridando e urlando, versava lacrime di commozione, trattenendo a stento una reazione che si covava nell’anima. Tanto più che gli autori del misfatto, anziché dimostrare un qualche sentimento di umanità, davano segni evidenti di baldanza e di gioia, fino a rallegrare lo spettacolo d’un paese in fiamme con le note festose di un valzer di fisarmonica!
Contegno provocante, in contrasto stridente con l’immenso strazio di tanti cuori e di tante famiglie!
ERSO L’IGNOTO
La valanga immane, precipitata dal monte, aveva travolto case e schiantate vite umane e non dava ancora segno di arrestarsi.
Ora trascinava con sè il Parroco, parecchi uomini del paese (tra i quali uno che oltrepassava la sessantina arrestato all’ultimo momento mentre sottraeva alle fiamme; di casa sua quel po’ di roba che le forze gli permettevano), senza parlare di altri numerosi ostaggi provenienti dalle località circostanti.
Bisogna partire e per dove? Tremenda incognita che rendeva ancor più preoccupante la nostra sorte.
«Pastore, strada Bardi?» vociferò il comandante. Io ero alla testa della colonna, a far da guida. Fui forzato a caricarmi di uno zaino (la borsa di pelle dell’ufficiale postale di Cereseto derubata dai soldati) e di un cesto ripieno di uova (le uova strappate di bocca alla povera gente tra cui non mancavano forse quelle di casa mia).
La figura non poteva essere più brillante, nè più originale l’umiliazione! Il Calvario non lo si poteva salire leggeri… Vi erano del resto gli altri prigionieri più carichi di me: come Biondin che era carico di mitraglia, armi, munizioni, viveri e bottiglie in quantità – il vettovagliamento della truppa – costituivano il bagaglio poco simpatico dei miei compagni.
Così ben equipaggiati si partì. L’esercito nazifascista, spingendosi avanti il suo pingue bottino e il suo glorioso trofeo di guerra, proseguiva nel rastrellamento alla volta di Credarola per continuare rapine, devastazioni, massacri.
Mi chiamavano «Pastore» i tedeschi, e come tale facevo da guida al gregge più svariato a lato del comandante, che si volgeva verso di me di quando in quando per le indicazioni di luogo (confesso che a malincuore mi prestavo a quest’ufficio delicato). Penso però che avessero scelto me, non tanto come guida (non credo ve ne fosse bisogno) quanto come scudo di difesa contro eventuali attacchi dei partigiani, temuti dai tedeschi.
Man mano che m’allontanavo da Cereseto, riprendevo quel controllo della ragione che se non era del tutto scomparsa, si era oscurata sotto la scossa delle forti impressioni ricevute. Fu allora che la mia coscienza, sentendosi innocente, insorse chiedendo al comandante spiegazione di quel trattamento inaspettato. Mi rispose, poco rispettosamente, che sulla mia persona gravava l’accusa di aver nascosto in Chiesa certe divise inglesi, scoperte dai soldati, e di avere favorito i prigionieri inglesi. Quanto alla prima accusa, ero troppo sicuro di me stesso per non credere ch’egli andasse accampando pretèsti futili di condanna, e negai recisamente. Quanto al secondo capo di accusa, ammisi di aver dato sempre un pezzo di pane, a richiesta, adducendo che la carità cristiana lo impone a tutti e specialmente ai Sacerdoti.
«Carità! Carità!» scattò li tenente, «noi volere giustizia!
Avere sempre carità preti… Noi dare lezione!…».
Non credetti opportuno continuare il discorso e ritenni più prudente chiudermi in un dignitoso silenzio. Ma quella lezione preannunziata nei riguardi dei Preti, non favoriva certo la fiducia e la speranza che, pur sotto l’oppressione ignobile, sopravvivevano in fondo al cuore.
Arrivammo a Caprile, frazione di Credarola, riarsi dal sole e madidi di sudore. Il carico che gravava sulle mie braccia, per il peso delle uova che crescevano ad ogni requisizione di casa, prostrava a terra. Per buona fortuna Si fece sosta. La truppa si fermò per la perquisizione del luogo e per una ennesima colazione ristoratrice. Ma per noi nulla, anzi cacciati alla rinfusa, come pecore da macello, in una stanza di pochi metri quadrati, di proprietà del Cav. Domenico Sidoli, ci vedemmo rinchiusi e piantonati dalle sentinelle. Ventisette uomini dovevano trarre il loro respiro affannoso da un’inferriata che un sole soffocante sferzava in quel pomeriggio di luglio.
Il pessimismo e la preoccupazione dei prigionieri, fino allora trattenuti a viva forza, proruppero, spinti al parossismo, e le lacrime non ebbero più freno…
Risuonavano ancora nelle orecchie le cupe denotazioni delle armi tedesche e le grida e gli urli di tanta gente… Stava ancora davanti agli occhi vivida la visione terrificante delle fiamme che vorticosamente si ergevano verso il cielo… l’immaginazione poi non si limitava alla realtà veduta, andava più oltre e moltiplicava le rovine e le vittime. Quale era la sorte degli uomini e dei giovani che a migliaia popolavano le montagne, per le quali il tedesco andava scorazzando con una sete così feroce e sadica di vendetta? Si presentavano così alla mente numerose le vittime, con i loro corpi stesi sulla nuda terra, crivellati di pallottole, in una pozza di sangue, privi di una degna sepoltura. La visione macabra dei tre Compianesi, abbandonati sul luogo, ne costituiva un esempio!…
Dall’inferriata della prigione volta a mezzogiorno, si poteva contemplare, in lontananza, la Chiesetta di Sidolo elevarsi come asilo di pace e conforto in quello sfondo montano, così percorso quel giorno dalla bufera delle passioni umane. Che sarà avvenuto del mio confratello di Ministero? Subirà anch’egli la stessa sorte?
Anche di là si scorgevano colonne di fumo denso e pensai che qualcosa di grave si aggirasse pure da quelle parti. Non avrei mai sospettato però che proprio in quell’ora, su quel posto, accanto a quella Chiesetta, verso cui era orientato il mio occhio e il mio cuore, venisse versato così abbondantemente sangue di martiri!
Un temporale improvviso ed un abbondante acquazzone giungevano a rinfrescare l’aria così greve e opprimente di quel pomeriggio. Fatto provvidenziale che oltre a contribuire a limitare alquanto l’estensione degli incendi, impose un po’ di tregua alla caccia ingaggiata contro i latitanti, permettendo a molti di questi di sistemarsi più al sicuro dietro le linee nemiche.
Per noi le ore scorrevano con tutto il carattere dell’agonia stentata, proprio del prigioniero. A volte un raggio sottile di speranza e di fiducia filtrava a rischiarare la fitta oscurità che ci avvolgeva, ma veniva subito soffocato dal pessimismo spinto di coloro che vedendo tutto nero facevano la nostra situazione più tragica di quella che non era.
A sera inoltrata fu permesso alle buone Caprilesi di portarci un po’ di ristoro. Si poté così finalmente risollevare il fisico, oppresso e sfinito, con il pane della carità umana e cristiana. In quella prima sera di prigionia, piena di indefinibile nostalgia, in mezzo a tanti sventurati strappati dal seno della propria famiglia, in viaggio verso l’ignoto, gustai tutta l’amarezza del pane mescolato alle lacrime. Un conforto però non mancava: quello dell’anima, gemente sotto i colpi della prova, ma fiera della propria innocenza.
PRIMA NOTIE DI PRIGIONIA
La notte si doveva trascorrere sul luogo e per di più in quella stanzetta convertita in prigione. Venne il comandante e ci avvertì che saremmo ripartiti l’indomani per tempo. Poi passando in rivista gli ostaggi, fissò i suoi occhi di vampiro su due di essi, ingiungendo loro di presentarsi da lui prima della partenza. Quell’ordine aveva una aria sospetta: forse altre due vittime! Ma non tutti intesero e molto meno intesero i due interessati i quali anzi si ritennero come privilegiati e fecero i più lieti pronostici. Già sognavano la libertà e il ritorno alle proprie famiglie. Erano Negro Gildo, di Cavignaga e Serventi Giulio, di Pelosa, ambedue padri di famiglia.
Costretti a dormire in quel luogo angusto, stendemmo un po’ di fieno per terra su cui riposare. Ci volle del tempo per risolvere il problema della posizione da prendere, dato il numero di uomini superiore allo spazio. Risolto alla meglio il problema, ci coricammo stretti l’uno all’altro e immobilizzati in uno stato che sarebbe durato, senza possibilità di variazione, tutta la notte.
Non era questa del resto la cosa più dura. Non un letto soffice si desiderava al calar di quella notte buia, ma un segno di speranza di essere, presto o tardi, liberati. Era ciò che mancava e che rendeva cupe le tenebre sopraggiunte a sommergere i .detenuti. Per alcuni doveva essere quella l’ultima notte di vita. Tutti parvero quietare, nel silenzio pieno di mistero, rotto di tratto in tratto dalla voce lacerante della sentinella di guardia.
Ma quel silenzio non fece che richiamare una folla di tristi pensieri che impedivano al sonno di agire minimamente. La fantasia era tutta popolata di immagini dolorose: famiglie intere nel lutto e nella desolazione, senza un tetto,
costrette a passare la notte all’aperto, davanti alle proprie case in fiamme, impotenti a impedirne il crollo fatale.
Padri e madri nello strazio per i figli strappati al proprio, seno o di cui ignoravano la sorte… Cuori martirizzati per i propri cari uccisi… Anime tormentate per la perdita fulmine a di tutti i loro beni… E la mia casa? Nessuno sapeva dirmene qualcosa. E della mia vita che ne sarebbe stato? Al di sopra di tutto c’era poi sempre il pensiero della mamma, il cui cuore temevo dovesse spezzarsi sotto il peso delle prove subite.
La notte era già avanzata di molto. Il fisico spossato sembrò finalmente soggiacere alle morse del sonno, ma la mente rimase avvolta tra le spire di cupi fantasmi,. di scene macabre e di sogni paurosi!…
ANCORA VITTIME INNOCENTI !
Il nuovo giorno – 21 luglio – ci trovava nell’identica posizione della sera avanti, per di più con le membra ammortite e peste dal duro giaciglio. Non c’è da parlare di colazione o di toèlette prima della partenza. Digiuni,
con gli stessi bagagli del giorno precedente (io con il solito cesto d’uova) fummo di nuovo incolonnati con la scorta di numerose guardie.
Puntualmente i due designati della sera prima si presentarono al comandante. Ma non ebbero quello che si aspettavano, anzi caricati di fucili mitragliatori furono posti in coda a tutti gli altri, soli tra due sentinelle.
C’erano indizi tutt’altro che di liberazione!
A me, in qualità di guida, fu chiesta la strada per il Poggio, dopo di che venne l’ordine di partenza. La colonna si mosse: nessuno dei prigionieri fiatava. Io ero di nuovo alla testa, tra il comandante e quel sottufficiale che così affabilmente mi mise fuori di Canonica e che rimase impresso nella mia mente come il genio malefico che di continuo mi pedinava. Più e più volte mi nacque il sospetto ch’egli avesse l’ordine di sperimentare su me l’arma pesante che impugnava arrogantemente. Ma se non l’ebbe, certo lo desiderò!
Nei pressi del Poggio, ad un ordine glaciale, tutti si fermarono. Il comandante tedesco guardò in faccia il Biondin ed io: «Tu non paura della morte, kaput!», poi ai due accodati a noi gridò: «Tu fuori, tu fuori!». I due uscirono, tremando dal terrore. Il cuore batteva forte come nell’imminenza di qualche brutta sorpresa. Passò infatti qualche minuto di silenzio misterioso, quindi un urlo straziante, subito soffocato da una raffica d’arma che rintuonò cupamente nella valle…
Altre due vittime cadevano sotto il piombo micidiale (le due designate la sera avanti) e nemmeno ora il mio ministero sacro veniva permesso a conforto e a sollievo delle loro anime. Data la distanza che vi era tra me e le due vittime, tracciai dubbiosamente un’assoluzione, mentre nell’animo mio si risvegliava l’amarezza e il disgusto del giorno prima…
La nuova fulminea esecuzione capitale destò in tutti un’impressione indescrivibile e moralmente deleteria: ognuno pensava che sarebbe venuta anche la propria volta!
Mi dissero testimoni oculari del fatto che i due disgraziati, posti davanti all’arma fatale, s’inginocchiarono e chiesero pietà in nome dei propri bambini, ma inutilmente. Per terra, accanto ad un rustico cascinale, giacevano insepolte le loro salme su cui la furia teutonica aveva sfogata nuovamente la propria vendetta.
Presentai le loro anime al Signore in un’effusione di lacrime segrete. La sera avanti mi avevano dato prova particolare di affetto e di venerazione, sentivo quindi più forte il dispiacere della loro fine, come di due buoni amici, e più doverosa l’offerta della mia preghiera.
Quali i motivi di questa esecuzione? Si sapeva che il Serventi era di Pelosa. Tale nome suonava male ai tedeschi che avevano lasciato colà numerosi morti nello scontro con i Partigiani. Il Negro, perché suo parente doveva condividerne la triste sorte, come comportavano i sistemi di guerra nazista.
Ma perché era stata prescelta per il delitto questa località?… Forse perché il sangue richiama sangue?.. Ma che colpa avevano essi del presunto reato perpetrato da altri?..
HOMO HOMINI LUPUS!
La colonna si era di nuovo mossa e poi divisa in tre. Il comandante ed io, con una parte di ostaggi, seguimmo la strada maestra, che abbandonammo nel punto in cui questa discende alla Chiesa di Credarola. Entrammo nel folto della boscaglia, in direzione rettilinea di Vischeto, che doveva essere la meta del nostro infelice viaggio.
Fu durante questo tragitto che potei constatare, in tutta la sua barbara realtà, la sistematica caccia all’uomo: metodo di guerra ingiustificabile che bolla di un marchio di infamia la civiltà tanto decantata dei dominatori dell’universo!
I soldati, sguinzagliati come cani rabbiosi per i campi, per i boschi, tra i rivi, i dirupi ,e le, rocce, aprivano fuoco spietatamente, in cerca di preda, su ogni cespuglio, in ogni antro e su ogni cascinale sparso sul monte ovunque saccheggiando, incendiando, terrorizzando… «Homo homini lupus!». Non errava Carlo Dickens quando, diceva che nel petto umano v’è profondamente radicata la passione della caccia a qualche cosa! .
Di quando in quando il tenente, ora col fischietto, ora con la voce, lanciava i suoi richiami alto sonanti «Fridse! Milland! Fridse! Milland!» raccolti prontamente e ritrasmessi sull’ali dell’armi da fuoco. Avrebbe data a chiunque l’idea di un padrone temuto che dalle alture chiamasse i suoi mastini per paura che si allontanassero di troppo. Quanti cuori di padri e di madri sussultavano a quei colpi assordanti! Quanti esseri nascosti in seno alle caverne o nelle fitte boscaglie trattenevano il respiro nell’aspettativa trepida e angosciosa di una fine inumana!…
Ero però convinto che la provvidenza vegliava su tante creature, in nome di Colui che disse: << non potranno torcervi un capello del capo se il Padre vostro non lo permette >>
Il terreno erboso, impregnato dalla rugiada di luglio,rendeva l’andare malagevole e pericolante, specialmente nei pendii del monte. Più di un prigioniero scivolò per terra con il suo carico pesante, tra le sghignazzate dei soldati.
Per me la questione era più delicata per via di quelle uova che portavo al braccio. Poiché per me esisteva, fin dall’inizio del viaggio, il verdetto: «Pastore, rompere uova, kapùt!» e tutti sanno che cosa significa questo vocabolo sulla bocca di un tedesco!
Non era certo il timore di rimetterci la vita per qualche uovo rotto, ma per non dare alle guardie che mi pedinavano la soddisfazione di vedermi a terra, dimostra! tutta la mia valentia di equilibrista e non caddi mai.
Attraversammo a guado il Ceno (notai le risa dei soldati che avrebbero applaudito ad un mio capitombolo nell’acqua) e Biondin che, svelto come uno scoiattolo, attraversò il fiume su delle pietre come un ponte, e poi rise, gridando: «L’avete in un piede», e risalimmo per la sponda opposta verso Vischeto.
AL CAMPO DI CONCENTRAMENTO
Giungemmo a Vischeto di Grezzo, sulla strada che conduce a Bardi, verso le ore dieci del mattino e fummo raccolti in un cortile della vecchia fabbrica. Era quello il nostro campo di concentramento. Ho fatto la mia consegna al capo, il quale con un sorriso malizioso mi domandò:
«Rompere uova?». .
«Rompere nessuno!» risposi, contraccambiando il sorriso.
Scorsi sul suo volto il disappunto per non poter trovare in me nemmeno quel capo d’accusa.
In quel vasto cortile, tutto chiuso all’intorno, eravamo noi i primi ad arrivare. Gli altri erano attesi. Da ventisette eravamo ridotti in una diecina appena: qualcuno notando il loro ritardo ad arrivare, osò avanzare il sospetto che essi fossero stati finiti e che la stessa sorte fosse riservata anche a noi. Era la preoccupazione ossessionante che si riaffacciava più forte nei momenti di sosta e si propagava all’animo dei presenti, rendendo amaro quel tozzo di pan duro che ognuno sentiva il bisogno di sbocconcellare per sostenersi.
Verzo mezzogiorno il portone si apriva per lasciare entrare i nostri compagni di sventura: nessuno mancava. Tanti cattivi presentimenti cadevano e il cuore si risollevava.
Essi avevano seguito altre squadre di razziatori e giungevano ora aumentati di numero perché a Credarola si erano raggruppati ai numerosi ostaggi prelevati nel rastrellamento di Strela, Porcigatone e Sidolo, tutti carichi di some, trafelati e stanchi per il lungo cammino attraverso monti e valli, con il proprio involto di pan duro in spalla e con un cumulo di notizie sensazionali.
STRAGE DI PRETI
Non appena. i nuovi arrivati si furono convinti che io non ero là per accogliere una loro deposizione «in extremis» cominciarono a riversare al di fuori una fiumana di notizie impressionanti, poiché erano stati testimoni e spettatori di scene che il loro animo si vergognava di riferire e il nostro cuore si rifiutava di credere: a Strela il Parroco D. Alessandro e il Missionario P. Bracchi fucilati e abbandonati per terra davanti al Cimitero; a Sidolo l’Arciprete D. Giuseppe, D. Francesco di Porcigatone e il Chierico Italo Subacchi trucidati sulla pubblica strada ed esposti al ludibrio dei passanti; a Compiano e a Bedonia numerosi Sacerdoti catturati e deportati…
Queste ed altre simili scene di sterminio e di stragi operate dalle truppe naziste, non potevano mancare di produrre in noi una depressione d’animo e uno sconcerto morale tanto più vasto in quanto che il fisico si trovava così prostrato e sfinito.
Nel silenzio sepolcrale, succeduto alle varie versioni dei fatti sacrileghi, alla mia mente abbattuta si affacciarono, in una visione macabra, le figure dei Confratelli spenti nel sangue: cinque Sacerdoti trucidati!… E che colpa poteva gravare sulla loro coscienza?.. Mi rappresentavo il loro martirio crudele… lo schianto acerbo delle loro famiglie… Mentre si faceva sempre più strada in me il presentimento che un’onda di persecuzione anticlericale imperversasse in quell’ora, nella quale potevo anch’io essere travolto da un momento all’altro. Il pensiero poi che tali novità tragiche sarebbero giunte anche all’ orecchio della mia mamma, mi dava tutto a temere che il suo cuore ne rimanesse soffocato per sempre…
NELL’ATTESA…
Passò il mezzodì e nessun ordine ancora giungeva a rischiarare l’incertezza della nostra situazione. Dalle stanze vicine discendeva fino a noi il profumo stuzzicante delle vivande prelibate, frammisto al tintinnio sonoro dei bicchieri e delle bottiglie spumanti, mentre suoni di danze e canti di orgia rallegravano i lauti banchetti dei conquistatori. E per i prigionieri? Nemmeno le briciole di quelle mense. Pareva che il Signore, quel giorno, ci avesse chiamati colà per farci gustare la durezza di quelle parole evangeliche: «Mundus gaudebit, vos autem contristabimini!»
Verso sera il portone si apriva per dar adito a nuovi prigionieri, provenienti da Scopolo e zone circostanti. Scorgevo tra essi, con sorpresa, un Prete: D. Angelo Chiappa.
L’incontro fu quello di due amici che si ritrovano nella sventura: la mia sorte non mi parve più così triste. Ci scambiammo impressioni e previsioni sul nostro domani e ci confortammo a vicenda. D. Angelo era stato prelevato fin dal mattino nella sua casa dov’ egli si trovava per ragioni di salute, dopo tutte le assicurazioni di essere rispettato, fu deportato con altri sei civili a Vischeto, in un cortile però separato dal nostro e qui soli, avevano atteso che un ordine li ammettesse in nostra compagnia.
Più tardi i fatti spiegheranno questa circostanza. Al comando germanico era pervenuta la nuova che un soldato tedesco fosse rimasto vittima del suo dovere. I sette ostaggi, tra cui D. Angelo, avrebbero fatto da capro espiatorio. Le indagini svolte rivelarono la falsità della notizia e così essi la passarono liscia! .
L’essere accomunati a tutti gli altri prigionieri, senza distinzione nè riguardo alcuno alla nostra dignità, costituiva per noi Sacerdoti un’umiliazione non indifferente. Ma lo spirito sopportava serenamente quell’umiliazione senza ombra di avvilimento.
Le ore del pomeriggio scorrevano stentatamente e la giornata volgeva al tramonto senza recarci altra novità che la liberazione di due uomini, perché anziani di età, ambedue di Cereseto: Delucchi Celeste e Sidoli Amedeo. Un colpo di gioia intrattenibile raggiò dal loro volto, mentre un senso di invidia malcelato s’impossessò degli altri che rimanevano…
Bisognava ormai rassegnarsi a trascorrere un’altra notte (e chi sa quante ancora!) in prigione. Si pensò alla cena, perché l’appetito, a forza di digiunare, ritornava all’assalto. I più attivi improvvisarono una cucina all’aperto: alcune ossa spolpate concesse ai prigionieri che avevan prestato servizio ai tedeschi nella giornata, somministrarono un po’ di brodo allungato per tutti. Il numero dei presenti era salito a sessantasei. Si mangiò fraternamente, scambiandoci i piatti e le scodelle, di molto inferiori al numero delle bocche. S’ intende che bisognava lasciar da parte ogni scrupolo d’igiene o pulizia, accontentarsi di quello che la Provvidenza ci somministrava, chiudere gli occhi e trangugiare anche il rimasuglio indigesto del compagno. Storia che si ripeterà a tutti i pasti, poiché gente come noi non meritava, secondo il parere dei tedeschi, trattamento migliore.
Tra tutti i convenuti in quel campo di concentramento si erano stabiliti ormai quei tratti di amicizia che, appunto perché nata nel dolore comune, non si scioglierà mai più. Vi erano rappresentanti un po’ di tutti i paesi: Bedonia, Strela, Masanti, Scopolo, Credarola e Borgotaro. Anche Cereseto portava il suo contributo con tre di Farfanaro e tre di Trario: pochi relativamente agli altri, ma c’era il Parroco che rappresentava tutto il paese. Giovani e vecchi, in massima parte umili lavoratori dei campi e padri di famiglia (qualcuno aveva con sè il proprio figliolo) tutti ci consideravamo come fratelli e come una famiglia sola nella quale ognuno raccontava la propria avventura, talvolta con particolari così esileranti da far dimenticare per un istante la gravità dell’ora. Chi era stato raggiunto in un cespuglio e tratto fuori all’aperto; chi sul soffitto di una casa e chi nel buio impenetrabile di una cantina. Frattanto la conversazione rivelava apertamente il carattere di ciascuno: dal pessimista che vedeva continuamente la spada di Damocle sospesa sul suo capo e le cui parole eran sempre demoralizzanti, all’ottimista, che si sforzava di portare un po’ di chiaro tra le tenebre e di tener alto il morale; dallo scontroso, che non sapeva dominarsi e usciva in facili imprecazioni e bestemmie sulla sua ingiusta sorte, al cortese, che imponeva la calma e il: silenzio, fors’ anche per il: rispetto dovuto ai due Sacerdoti che pazientemente condividevano la prova di tutti.
Non mancavano di quelli che, chiusi in un mutismo opprimente, maledivano forse in cuor loro quella condizione di vita e invidiavano i morti.
Sicché il quadro generale che presentava quel gruppo di prigionieri, affratellati dalla stessa sorte, accasciati sotto il peso della sventura e l’incubo della morte, era tutt’altro che lieto. Dal loro volto smorto e macilento, reso ancor più tale dai capelli e dalla barba da lungo tempo trascurati, traspariva un senso indefinibile di tristezza che rasentava la disperazione. Gli occhi infossati, fissi nostalgicamente in qualche cosa di lontano, che non poteva essere se non la sposa, un tenero bimbo, la mamma adorata, o il proprio casolare deserto…
Più di uno si apprestava, trepidante, al Sacerdote, gli confidava la sua pena, il suo tormento, il suo, dubbio, in attesa di una risposta rassicurante. E questi, richiesto a far da profeta in un’ ora così buia per sè e per gli altri, doveva sforzarsi. di infondere la speranza e la fiducia!
Le tenebre della notte si approssimavano. Il solito maresciallo, evidentemente ben pasciuto da una straripante cena, passò in rivista i prigionieri. Nessuno mancava. A soddisfare la nostra aspettativa ci assicurò che il mattino dopo il Comandante avrebbe constatati i documenti personali e chi era trovato in regola sarebbe stato licenziato. A noi che conoscevamo già bene i tedeschi per quello che erano, l’assicurazione fatta non tornava molto sincera. Tuttavia si sperò in attesa della luce del nuovo giorno.
Rinchiusi a chiave in un locale attiguo, che dovette essere anticamente una stalla, ci rassegnammo a trascorrervi la notte. Esisteva l’ordine perentorio che chi avesse tentato di fuggire, sarebbe incappato nel piombo della sentinella di guardia. Ma nessuno, credo, pensava di farlo, anche per non compromettere i propri compagni rimasti, poiché sotto i tedeschi c’era aria di decimazione nel caso che qualcuno fosse mancato.
Era accatastata in quel locale una gran quantità di covoni di grano, ancora intatti, e adattammo alla meglio il nostro duro giaciglio.
Mentre il corpo si adagiava, in cerca di una posizione meno scomoda possibile, sui covoni di frumento tuttora fragranti, mi sovvenni di quella sentenza di S. Ignazio Martire, pronunziata poco prima di essere dato in pasto ai leoni:
«Frumentum Christi sumus!».
SENZA TETTO!…
Sorgeva il 22 luglio, gravido di incognite. Già dall’alba le truppe tedesche, di stanza a Vischeto, davano l’impressione di essere in gran movimento. Numerosi autocarri si avvicendavano per trasportare il materiale ed il bestiame requisito durante il rastrellamento. Di noi che attendevamo la visita del Comandante, nella speranza di essere rimessi in libertà, nessuno s’interessava. Pareva anzi che la truppa avesse bisogno dell’opera nostra per la propria mensa, perché ben presto una parte dei prigionieri fu adibita a macellar carne bovina di prima qualità, l’altra a prelevar patate nei campi circostanti con licenza presunta dei padroni.
Poco dopo si vide ammassata nel cortile una gran quantità di patate (di cui son ghiottissimi i tedeschi) in attesa di essere sbucciate. A questo ufficio potevano servire anche le mani delicate dei Preti. Di fatto fu posto nelle nostre mani, con maniere che non ammettevano repliche, un arnese che doveva servire all’uopo.
Era una lezione anche questa! Ma bastò l’atto, perché un ufficiale, dal cuore forse meno duro degli altri, intervenne: «Pastori, no!».
Le ore passavano, ma di documenti, che tutti avevano alla mano, non si trattava, e molto meno di liberazione. Anche Biondin, pur sempre di buon umore, che faceva da intermediario tra il Comandante e noi prigionieri, stava perdendo le staffe.
Biondin ( chi non lo ricorda?) aveva subito con me la prova al muro e nemmeno allora aveva perduto la calma, solo gli rincresceva morire perché lasciava tre amori di bimbe ancor tenere. Era il carattere più ottimista della compagnia e non si smentiva mai, neppur quando molti rintuzzavano le sue liete previsioni. Ora un senso di sfiducia velava anche il suo viso, perché ai documenti non si voleva prestar fede e c’era anzi aria di partenza.
Infatti a mezzodì risuonò nel cortile l’ordine di prepararsi a partire per Bardi.
Sorpresa e mille supposizioni da parte dei prigionieri, ma per compenso fu concessa la grazia, tanto sospirata, di poter rivedere i propri familiari e amici, accorsi sul luogo non appena seppero della nostra presenza. Fu una fiumana di carità di cui tutti beneficiarono e per cui tutti si ristorarono. Molti anzi si fecero la scorta per il viaggio imminente.
Fu in questa occasione che venni a conoscenza dell’incendio della Canonica, poiché fino ad ora mi ero illuso che fosse stata preservata. Provai un amaro contraccolpo come se una gran parte cadesse di me stesso, e un grosso nodo mi serrò la gola… Oltre che prigioniero, senza tetto, senza casa! E perché?… Realtà esasperante, misteriosa…
Ma consapevole di dover dividere la sorte di tanti altri, superati i primi istanti di depressione, l’animo si ridestò dal suo avvilimento, come se una forza nuova, segreta, lo investisse. E’ la rivincita dello spirito che vede sopravvivere i valori morali quando quelli materiali sfumano per la malvagità umana!
La situazione in paese, come i testimoni la descrivevano, non era dissimile da quella che i miei occhi, di lontano, specialmente nelle ore di insonnia notturna, s’eran già raffigurata, e che del resto era facile prospettarsi. Numerose
famiglie, all’aperto o nei boschi, sui pochi panni strappati alle fiamme, trascorrevano le notti, costrette a contemplare, impotenti a muovere un dito, le proprie case tuttora fumanti. Gruppo patetico, emozionante, che nessuna mano d’artista avrebbe saputo mai dipingere al vero.
In qualche casa l’incendio, mi dicevano, era stato domato e qualche altra ne era stata risparmiata. Avevo quindi, speranza che i fortunati avrebbero aperto caritatevolmente le porte di casa loro ai sinistrati, fra i quali anche ai miei familiari.
Un desiderio ardentissimo mi avrebbe sospinto in mezzo al gregge martoriato per svolgere una missione confortatrice nell’afflizione che è propria del Pastore, ma dure catene mi trattenevano, ed era forse questa impotenza laspina che più mi angustiava…
Il segnale del distacco era stato dato. Su di un foglio di carta apposi chiaramente la mia firma, accompagnata da un caldo e affettuoso bacio alla mamma perché si convincesse che io non ero stato ucciso, come essa credeva e come del resto correva voce, e la consegnai ad una di Cereseto che gliel’avrebbe presentato.
Mi confortavo al pensiero che in Parrocchia si pregava, nervosamente per me. La scena di S. Pietro in carcere e dei fedeli che pregano per la sua liberazione, modestamente si rinnovava. Anche i più piccoli, con la corona in mano, supplicavano la Madonna…
Perciò partivo verso la nuova destinazione con una grande fiducia in cuore!
Fummo incolonnati, tre per tre. Il tenente, impettito, osservò soddisfatto, per l’ultima volta, la sua preda e poi diede il «Via!». Scortati da parecchie guardie percorremmo a piedi la strada polverosa di Bardi, sotto un sole bruciante di mezzogiorno.
Io non avevo più quel fastidioso cesto di uova, ma in compenso portavo con me un grosso involto, pieno di ogni ben di Dio che la carità dei visitatori mi aveva donato. Anche gli altri erano sovraccarichi di viveri. Ma era tutta scorta personale che si portava volentieri.
Lo sguardo spaziava languido in un panorama che mutava aspetto a seconda degli andirivieni del cammino. Ma l’occhio correva per forza in quel lembo di terra su cui spiccava una piccola guglia rotonda, dardeggiata dai raggi del sole e avvolta, di quando in quando, in una colonna di fumo biancastra…
Ritornerò?.. Era la domanda che in fondo al cuore si ripercuoteva dubbiosa.
Al nostro arrivo in quel pomeriggio, Bardi offriva l’impressione di essere stato tramutato in un vasto mercato umano. Sulle vie e sulle piazze, a gruppi sparsi qua e là, erano raccolti prigionieri di tutte le zone rastrellate nei dintorni. In ogni gruppo si scorgeva, di lontano, spiccare qualche sottana nera: evidentemente qualche amico Sacerdote frammischiato, senza distinzione, in quell’ammasso di pecore umane.
Notai in un gruppo anche Monsignore di Bardi, fatto prigioniero mentre tornava da Sidolo dove si era recato per celebrare una S. Messa in suffragio del defunto Arciprete.
Poco dopo eravamo ammucchiati in un salone prospicente la Chiesa parrocchiale.
Il luogo di concentramento era cambiato, ma la situazione rimaneva identica. Anche qui di documenti e di liberazione non si parlava. Solo ci vedemmo accresciuti di numero.
Qui il comandante tedesco volle conoscere il temerario superstite della feroce strage che infierì sulle Montagne Parmensi. Un soldato tedesco delle SS, nella prigione chiamò a voce alta «Biondin» e lo invitò ad uscire, giunse sulla Piazza di Bardi, ove molti ufficiale nazisti avevano formato il quadrato, e giunto al cospetto del comandante delle SS, questi, che aveva già notato il suo ardito comportamento, gli porse la mano e gliela strinse, con questa frase: «Tu coraggioso». Biondin rispose: «Morire una volta sola» .
Le ore di trepidazione, di incertezza, di speranza, si prolungavano.
Non mancò però in quelle ore di attesa snervante, il conforto generoso di tante buone persone di Bardi alle quali, essendo permessa la visita, favorirono largamente i prigionieri della loro carità materiale e spirituale.
Potei quella sera rivedere una persona di Cereseto, la Sig.na Rolleri Maria Luisa, sorella di D. Nino, Cappellano parlamentare, dalla quale ebbi più particolareggiate notizie sulla situazione del paese. Seppi così che le famiglie sinistrate erano oggetto del soccorso degli altri e che parecchie, tra cui anche la mia famiglia, avevano trovato sistemazione presso persone caritatevoli.
Approfittai della nuova occasione per scrivere due righe alla mamma addolorata e rassicurarla. Buttai giù quanto il cuore mi dettava in tale circostanza, bagnando di lacrime ogni sillaba. Confuso in quella folla eterogenea, che la stanchezza aveva stesa al suolo, non pensavo che il mio gesto fosse stato preso di mira dalle guardie addette alla nostra sorveglianza. Me lo fecero notare i compagni vicini.
Non era nemmeno permesso di scrivere alla mamma?.. Ad evitare possibili conseguenze fatali, ingiunsi alla giovane alla quale avevo consegnato il foglio minutissimo di nasconderlo. Ed essa, con un gesto inavvertito, se lo portò alla bocca e lo trangugiò. Ma il sospetto non cadde dalla mente dei tedeschi e la giovane, quando uscì da quel luogo, venne fermata e tradotta al Comando germanico, dove fu perquisita da capo a piedi, senza però trovar traccia della carta compromettente.
In quel reclusorio facevano la loro comparsa anche altri Sacerdoti: Monsignore di Bardi, D. Riccardo Serena di Scopolo e D. Oreste Bionda, curato di Bardi, ai quali però, dietro richiesta, fu permesso di trascorrere la notte in Canonica. Ciò che fu negato a D. Angelo e a me, che dovemmo quindi adattare il nostro giaciglio sullo strato morbido del pavimento, ricoperto di quella poca paglia che conservava le tracce di tanti altri prigionieri qui sostati.
Tra quella massa di ostaggi, che superava il centinaio, la vita era divenuta ancor più penosa. Il pessimismo e il malumore, dipinti sul volto specialmente degli anziani e dei padri di famiglia, per quell’ingiusto trattamento, erano i segni evidenti di una reazione violenta, a stento trattenuta in fondo all’anima e che si riversava anche troppo al di fuori in parole, bestemmie e imprecazioni che nemmeno la nostra presenza riusciva a impedire.
«Siamo tutti innocenti! Perché trattarci così».
Un soldato di guardia credette d’imporsi con la sua parola ammonitrice:
«Anche Nostro Signore era innocente, eppure fu messo in Croce!». L’espressione, uscita così inaspettatamente, ebbe l’effetto di un raggio di sole su di un mare in tempesta.
Bisogna ammettere che tra i soldati, addetti alla nostra custodia, ve n’era qualcuno che condivideva in cuor suo la nostra angustia. Ne ricordo uno che mi chiese rispettosamente una medaglia della Madonna da appendersi al collo. Credo che fosse un cattolico bavarese che non aveva nessuna colpa in tutto quello che a noi s’imponeva.
Certo, solo l’esempio del Divino Paziente poteva rendere meno amara quell’ora triste e burrascosa!…
VIAGGIO DRAMMATICO
23 luglio, domenica. Il nuovo sole avrebbe portato fortuna o disgrazia? Oggi si doveva decidere della nostra sorte. Nemmeno nel giorno del Signore era concesso a noi due Sacerdoti il conforto di celebrare. A me poi, strappato di casa senza alcun preavviso, mancava pure quel compagno indivisibile del Sacerdote che è il Breviario (ridotto in cenere in quell’ora). Di tutti i miei libri, mi rimaneva la Corona e questa suppliva a tutte le altre pratiche.
Nei locali attigui si notava un movimento insolito di soldati, un tramestio confuso di armi non del tutto rassicurante. Dopo una lunga impaziente attesa, giunse l’ordine di uscire: erano le l0 circa del mattino. Ciascuno teneva tra mano, ben visibili, i documenti per il controllo promesso. Tutti i prigionieri furono inquadrati sulla pubblica piazza. D. Serena e D. Bionda erano trattenuti con noi, mentre Monsignor Longinotti veniva posto in libertà. Ci fu comunicato l’ordine di partenza. Per dove? Per una località lontana, ignota alla maggior parte, che suonava sotto il nome di «Robbiano».
Sorpresa e delusione generale… Ultimi abbracci tra parenti e amici, ultime effusioni di affettuosità, ultimi saluti e auguri… e poi il «Via!» freddo, indiscutibile del Comandante. Infilammo la strada di Varsi, ignari di quale destino Iddio ne segnasse… .
In testa alla colonna, scortata da guardie. e fatta oggetto della compassione di tutti gli osservatori, figuravano i quattro Sacerdoti. Non era pessimismo ad oltranza l’avanzare pronostici poco lieti e non si sa se la presenza di noi Preti apportasse più calma che agitazione tra i prigionieri
Il viaggio, oltre che preannunciarsi lungo e faticoso, non si apriva sotto promettenti auspici. Appena fuori di Bardi infatti, venne ordine di fermarsi, mentre la nostra attenzione era subito richiamata dal passo celere e cadenzato di una squadra di soldati armati di tutto punto, che dava tutta l’impressione di un plotone di esecuzione, spedito ai nostri danni. La squadra passò oltre, senza rallentare il passo e senza mancare un gesto di derisione cinica a nostro riguardo. Dopo di che anche per noi giunse l’ordine di riprendere il cammino. La tensione d’animo era visibile tra i prigionieri e pareva giunta al suo massimo parossismo, provocato dal presentimento esagerato di trovare ad ogni svolta della strada qualche brutta sorpresa.
Eccoci al ponte, sulla Corsina di sopra. Lì presso, i tronchi di quercia rosseggiavano tuttora del sangue dei cinque trucidati per vendetta dai nazifascisti nel maggio scorso. Le loro ombre, vaganti sinistramente nell’aria, ci si paravano dinnanzi, quasi volessero impedire il rinnovarsi di una scena atroce di cui essi erano stati le vittime… li mormorio sommesso dell’acque sotto il ponte, pareva il lamento eterno del loro sangue innocentemente versato!… (*)
In quell’ora in Parrocchia, i fedeli attendevano inutilmente un suono ed una voce abituali. Domenica senza Messa e senza Pastore!… Realtà sconcertante e quanto mai dolorosa per un Pastore d’anime!…
Eravamo giunti ormai nelle vicinanze di Varsi. La squadra veloce armata, precedendoci e distaccandoci, finiva per dileguarsi, senza lasciar traccia di sè…
Fu quella una scena di parata o di minaccia, come tante altre del genere usate dai tedeschi, per terrorizzare i prigionieri ?
Ora che il pericolo di morte era scomparso, si sentiva di più il bisogno di riposare il corpo e lo spirito. I più anziani, su cui gravava maggiormente la fatica del viaggio, brontolavano e si ribellavano, tanto da imporsi alle guardie.
Sostammo sulla riva del Ceno, all’ombra ristoratrice dei faggi e delle querce.
Tutta la regione chiusa fra due catene ininterrotte e degradanti di monti che accompagnano il torrente verso il piano, giaceva in un silenzio di morte, come abbattuta dalla furia spietata di una tempesta improvvisa.
(*)
(*) Ecco il nome delle vittime: Pellinghelli Raimondo, di Corniglio, di anni 21; Venusti Erasmo, di Calestano, di 22 anni; Cavestro Giordano di Parma, di anni 19; Venturini Nello, di Felino, di anni 20; Salmi Vito, di Milano, di anni 20. Tutti fucilati per rappresaglia, dai tedeschi in questo luogo, dove poco tempo prima erano stati prelevati e giustiziati quattro militi fascisti di Bardi. Questi ultimi furono assistiti da D. Nino Rolleri.
Su in alto, lontano, la nostra terra, i nostri altari, le nostre Chiese vuote in quell’ora vespertina!… Di sotto ai nostri piedi le acque serpeggiavano limpide e scintillanti al sole e parevano discendendo da lontano, nascondere nel loro seno tanti ricordi e mescolare tante lacrime. Un amico Sacerdote si rammentò, e non fu di sproposito, del versetto del Salmo: .
«SUPER FLUMINA BABILONIS, ILLIC SEDlMUS ET FLEVIMUS, DUM RECORDAREMUR!»…
A Varsi i nostri occhi si barrarono davanti ad un’altra scena riluttante. I nervi si tesero di nuovo e il cuore raddoppiò i battiti: dalle inferriate del vecchio castello, legati al collo da una corda, pendevano macabri e ondeggianti al vento due corpi esanimi. Il sangue raggrumato sulla loro faccia, li rendeva irriconoscibili!
Più tardi si seppe che trattavasi di due giovani Partigiani, Piazza Cesare e Reggiani Renzo, sorpresi con le armi in mano dai tedeschi nelle vicinanze del paese e lasciati là esposti al ludibrio dei passanti per cinque giorni interi, secondo il costume spietato germanico.
Al comparire del nostro corteo, lungo e disordinato (le guardie non riuscivano a mantenere l’inquadramento) i pochi presenti nelle case disseminate lungo la strada osservavano con occhi di commiserazione quello strano spettacolo, che però non era nuovo per loro, ma di tutti i giorni, perché tant’altri ne eran passati per la stessa via prima di noi. E non solo borghesi, anche Preti. Dicevano infatti che il giorno antecedente un Parroco era passato conducendo una mandria rastrellata dai tedeschi, e un altro guidando un branco d’ un centinaio e più pecore, e dovevano rincorrerle se sbandavano… Scena di un sapore simbolico, pensavamo noi: non è il Sacerdote «Pastore di anime?».
A Ponteceno, guadammo il torrente a piedi, perché il ponte era stato fatto saltare dai Partigiani, e giungemmo al tramonto in vista di Vianino.
«Era già l’ora che volge il desio…»
In quella cornice suggestiva di monti, imporporati dagli ultimi raggi del sole, mentre il cannone tuonava forte ai confini del fronte, era bello segnare la Corona. Le campane non suonavan più l’Ave Maria (anche le campane per paura dei tedeschi tacevano!) ma c’era pur sempre diffuso per l’aria quel suono invitante alla preghiera.
I prigionieri, dietro di noi sommessamente rispondevano.
Vianino s’affacciava ora ai nostri occhi con i segni ancor recenti del passaggio dei Vandali. Anche qui gli incendi e le stragi e le avevano sommerso un paese intiero nel lutto e nella desolazione. Case scoperchiate, muri affumicati e più ci si avvicinava, più eran visibili ovunque le orme esecrande della spedizione punitiva tedesca.
Quel luogo così colpito veniva a tingere di colori reali il quadro di una tragedia non dissimile che io portavo nel cuore. Perciò sentivo che non sarei apparso come uno straniero in quel paese e chi vi avrei trovata più larga comprensione che altrove perché di solito chi ha provata la sventura è più disposto a comprendere quella degli altri. Trovammo una cordialità e una ospitalità nella popolazione che ci sollevò fisicamente moralmente. Perfino i tedeschi qui furono cortesi e permisero a noi Sacerdoti di passare la notte sul morbido letto di una casa privata. Si ritornava finalmente agli antichi usi e alle antiche abitudini e quella notte il sonno non tardò a portarci via. Il mattino dopo,
24 luglio –lunedì – nessuno mancava all’appello prima della partenza. Se l’avessimo voluto, avremmo potuto, noi sacerdoti, sottrarci facilmente, da quelle condizioni e fuggire lontano. Ma la parola data al comandante e la nostra coscienza ce lo vietavano. Perciò tutti e quattro eravamo nuovamente in testa alla colonna che riprendeva la marcia forzata verso Fornovo.
Anche a Varano il buon cuore di quella popolazione si apriva ad una generosità inaspettata e fummo fatti segno ad un’abbondante provvista di pane, di pane, di quello uscito di fresco di forno. Si ebbe l’impressione che si rinnovasse il miracolo del Vangelo! Fu qui che approfittando del momento di confusione quattro prigionieri, di comune accordo, se la svignarono, preferendo essere uccel di bosco che uccel di gabbia. Allarme tra i soldati di scorta, che appena se ne accorsero, si diedero all’inseguimento, ma allarme anche tra i prigionieri perché si temeva qualche rappresaglia o decimazione.
Invece andò liscia: le guardie, dopo aver sparato dietro i fuggitivi non so quanti colpi di mitra, se ne tornarono con le pive nel sacco, ci inquadrarono e, per tutta pena, ci proibirono di scomporre le file nel restante del viaggio.
Sorpassammo Varano Melegari, Viazzano, e sempre seguendo il declivio della strada sotto un sole scottante e afoso che spremeva acqua da tutti i pori e prostrava il corpo già cosi abbattuto, giungemmo in vista di Fornovo che s’affacciava in una corona smagliante di verdi colline, con le sue ville sparse e biancheggianti sul pendio, come un miraggio di fate accoglienti.
Rubbiano era qui appresso.
LBERTA’ CHE E’ SI CARA…
Erano le tre pomeridiane di quel giorno 24 luglio, vigilia di S. Giacomo, Patrono della mia Parrocchia, ma a Cereseto vi doveva essere animazione e preparativi tutt’altro che di festa! I
Rubbiano, sede dell’alto Comando germanico, sembrava un porto di mare, dove confluivano continuamente uomini e mandrie provenienti da tutte le zone rastrellate. Passati in rivista dai capi nazisti, fummo introdotti, senza un ordine preciso, nel campo di concentramento situato li accanto, chiuso da filo spinato.
Lo sfinimento, la fame, la sete, ci accasciarono a terra, su quella nuda terra bruciata dal sole. Un improvviso acquazzone, sopraggiunto poco dopo, costrinse il comando a ritirarci per rinchiuderci in locali angusti e privi di aria. Il soffoco di quei nuovi reclusori aumentò in modo insopportabile l’arsura interna, calmata alquanto da un certo liquido amaro e nauseante che avrebbe voluto essere caffè, generosamente somministrato dai nuovi padroni.
La sera si approssimava con il suo apporto consueto di nostalgie, di rimpianti, di ombre. Ogni speranza di liberazione svaniva per sempre dall’animo affranto dei prigionieri che già vedevano fatalmente delinearsi davanti ai propri occhi lo spettro terribile, se non della morte violenta, della deportazione in Germania, dove i lavori forzati, la fame e i bombardamenti, avrebbero posto fine ad una vita misera e triste.
Tali erano i pensieri che si avvicendavano nella testa, allorché noi Sacerdoti fummo chiamati espressamente dal Comandante. Un interprete ci trasmetteva, chiaro e preciso, l’ordine di liberazione arrivato in quel momento, con l’ingiunzione però di presentarci al più presto dal Vescovo di Parma per avere il debito rilascio e le necessarie istruzioni.
Fu come se una cappa di piombo si levasse istantaneamente dal nostro capo. Dimenticammo fame, sete, ore torturanti di insonnia, di attesa, d’angoscia… Prendemmo la via di Fornovo. Non senza aver prima salutato i compagni di sventura e lasciato ad essi le nostre provviste. Poveri prigionieri! L’invidia, troppo giustificata, che traspariva dai loro occhi infossati, l’impossibilità di partecipare ad essi un po’ della nostra gioia, e quindi la delusione che li accasciò, resero quanto mai amaro quel distacco e quell’addio!
Il senso di libertà riacquistata così inaspettatamente, dava ali ai piedi, che non si sentivano più stretti ai ceppi e alle catene, mentre l’occhio si volgeva attorno, perché nel cuore continuava a persistere il sospetto che qualche tedesco ci inseguisse e ci fermasse, tanto la realtà ci faceva trasognare.
Sul ponte di Fornovo, un autocarro germanico a gran velocità si fece largo tra noi. Trasportava i nostri compagni di prigionia. Più e più mani si levarono in atto di saluto e di addio. Nessuno però ebbe la forza di lanciare una parola: scena muta, fuggevole, più eloquente di qualunque espressione. Provai una forte stretta al cuore e risposi istintivamente con la mano.
Dov’erano diretti? In Germania?…..
Siccome Fornovo costituiva un facile obbiettivo di attacchi aerei, si stabili di pernottare a Ozzano, a qualche km. di distanza, dove trovammo ristoro e alloggio in casa del Parroco. Ma anche qui la sorte sembrava ci perseguitasse e non ci volesse concedere tregua, poiché non appena il sonno ci prese, una denotazione formidabile e un moto sussultorio ci sobbalzò dal letto dirigendo ci precipitosamente e confusamente in cerca d’un rifugio. Un bombardiere aveva sganciato il suo carico poco distante e continuava nel cielo le sue innumerevoli volte, lugubri ed allarmanti.
Una galleria umida é fredda, che aveva tutta l’aria di una catacomba, ci raccolse insieme al Parroco e i suoi familiari. Non ci trovavamo a nostro agio in quella prigione e uscimmo ben presto a riveder le stelle. Il respiro era più ampio all’aperto, sotto il firmamento tempestato di brillanti, e la vita più dolce nell’atmosfera di libertà riacquistata a sì duro prezzo. Fin tanto che l’allarme cessò e fu permessa un po’ di quiete all’animo travagliato
A PARMA
Quella mattina del 25 luglio, risvegliandoci, stentavamo a credere ai nostri occhi. Non ci pareva vero di essere tornati padroni di noi stessi e di poter riprendere la vita normale.
La nostra preoccupazione era quella di arrivare dal Vescovo di Parma.
Alla porta della città c’imbattemmo in tanti altri Confratelli della nostra Diocesi anch’essi sbalestrati colà dalla stessa vicenda: Preti giovani e vecchi, con impressi sul volto e sull’abito i segni visibili di un trattamento inumano e umiliante. Ci sarebbe voluto del tempo a raccontare ognuno la propria storia, ma ci accontentammo di leggerla negli occhi smorti e infiacchiti. Le gente sostava meravigliata davanti a quel gruppo singolare di Preti, tutt’altro che in tenuta di città.
Non ero io solo vestito cosi poco decentemente, senza cappello e con le scarpe inzaccherate. Un compagno mancava persino del collare, in veste succinta e sdrucita, quella che gli era capitata tra le mani quel mattino presto allorchè i tedeschi lo colsero a letto e lo costrinsero a guidare le mandrie rubate.
Celebrammo i divini misteri nel Duomo. La nostra Messa in quel tempio e su quegli altari, che rievocano nei dipinti preziosi e nelle sculture monumentali, i fasti della Chiesa Cattolica e le sue vittorie sugli uomini e sulle cose, assumeva un valore e un significato eloquente e suggestivo. I trofei di vittoria, consunti dal tempo e appesi alle colonne, sembravan riprendere l’antica espressione…
L’Epistola del giorno – festa di S. Giacomo Maggiore – pareva la descrizione sommaria della nostra storia e di quella dì tanti Sacerdoti travolti nella tormenta della guerra e delle persecuzione nazista.
«Fratelli, penso che Dio abbia designato noialtri Apostoli ad essere come gli ultimi degli uomini, come dei condannati a morte, dandoci, come ha fatto uno spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini… Noi siamo gli stolti per amore di Cristo… Noi siamo i deboli… disprezzati… – Anche in questo momento soffriamo la fame, la sete, siamo nudi, siam presi a schiaffi, meniamo una vita errante, ci affanniamo a lavorare con le nostre mani… Ci insultano e noi benediciamo; ci perseguitano e noi soffriamo…» (Corinti I. IV).
Se fossi stato in Parrocchia, questo passo avrebbe potuto suggerirmi lo spunto per la mia predica al popolo. Ma nessuno certamente in paese pensava che quel giorno fosse la festa del Patrono.
Tutti i Sacerdoti Piacentini liberati si raccoglievano quella mattina in Vescovado per avere dal Vescovo Mons. Colli le istruzioni necessarie, ma nello stesso tempo per manifestare a lui la propria gratitudine. Era noto infatti che la nostra liberazione era dovuta al suo pronto intervento presso le autorità tedesche. Il suo ascendente su quest’ultime era tale da ottenere che fossero messi sotto la sua diretta tutela i Sacerdoti catturati, tanto della sua che di altre Diocesi. Il Seminario maggiore di Parma e la Certosa ne sapevano qualcosa!
Il Vescovo ci accolse paternamente e si diffuse in commoventi espressioni che rivelavano tutta la sua angoscia per l’ora presente e tutta la sua trepidazione per l’avvenire.
Per noi aveva ottenuto dal Comando Germanico che fossimo rimandati in Diocesi. Veniva perciò rilasciata a ciascuno di noi una lettera del seguente tenore:
CURIA DI PARMA
Si dichiara che il M. R. D. Riccardo Molinari, fermato e poi rilasciato in libertà dalle truppe germaniche, è inviato – per autorizzazione data dal Comando delle truppe Germaniche di Parma – a mezzo del Vescovo di Parma – a Piacenza a disposizione del suo Vescovo, con divieto di ritornare in zona di rastrellamento fino a nuova autorizzazione del Comando Germanico.
A PIACENZA
A bordo di un autocarro, più d’una volta preso di mira, sulla via Emilia, dai caccia bombardieri alleati, arrivammo sani e salvi a Piacenza. .
Al Pio Ritiro Cerati si davan convegno quel giorno una trentina e più di Preti catturati dai tedeschi, accolti compassionevolmente dai Superiori. Parecchi giorni dovemmo trascorrere nell’attesa impaziente del rilascio di libertà da parte del Comando superiore germanico. Giorni in cui ogni Sacerdote ebbe agio di narrare, tra un allarme e l’altro, di rifugio in rifugio, la propria avventura più o meno drammatica. Accanto al mio c’era il racconto di tanti altri, intimiditi, vessati,. Maltrattati perseguitati con un metodo di persecuzione che si distingueva da quello d’altri tempi per il suo stile… novecento, data la sua originalità. Chi infatti si gloriava di aver sperimentato il piccone e il badile per scavar fosse o sistemato strade ( e di fronte al mitra non ammetteva repliche!); chi rimpiangeva la sua avventura di mandriano (e guai se una testa balzana di quadrupede si sbandava! Bisognava rintracciarla immantinente, pena di sentirsi fischiare all’orecchio qualche pallottola improvvisa, se le SS erano ancora tanto benevoli da risparmiare la pelle!). Di un altro Prete, piuttosto anziano, si risapeva ch’egli aveva avuto il nobile incarico di portare in braccio, durante il viaggio per non straccarla troppo, la vergine cuccia di un distinto Ufficiale tedesco, e doveva badare bene che non strillasse perché avrebbe suscitato le ire indiavolate del suo giovin Signore.
Ebbene, anche dopo aver subito siffatte angherie, era pericoloso per qualcuno gironzolare per le vie della città in certa tenuta sospetta (che colpa ne aveva lui, povero prete, se i malcapitati tedeschi lo avevano prélevato, vestito come era?) e c’era il caso di finire in mano alla questura. Come di fatto successe ad un Prete settantenne, che poi l’intervento della autorità ecclesiastica riuscì a far rilasciare.
Ma al di sopra di queste piccole miserie di Parroci deportati, di Canoniche distrutte (tre in Diocesi: Cereseto, Strela, Strepeto) vi era la tragedia, rossa di sangue, misteriosa, inconcepibile, di coloro. che non potevano più parlare: Sacerdoti venerandi per virtù e per zelo, apostoli della carità di Cristo, aureolati della stima generale, ora spenti per sempre e accomunati ai delinquenti.
L’animo si rivoltava davanti a siffatti crimini di guerra, epiche gesta di una soldataglia senza coscienza e briaca di sangue, e scorgeva in essi le premesse di una catastrofe che non poteva tardare. «NOLITE TANGERE CHRISTOS MEOS…».
La Scrittura parla chiaro!
* * *
Come si spiega la cattura e il massacro dei Preti? Si addussero pretesti che nella maggioranza dei casi, se non nella totalità, apparvero troppo chiaramente infondati, come quello di aver scoperto armi in casa, protetto inglesi e ribelli, ecc Fatto si è che quasi tutti i Sacerdoti erano stati catturati o uccisi, senza una parola di accusa, senza un processo che avesse almeno l’ombra di legalità. Evidentemente perché accuse non si potevan trovare.
Ciò dimostra che si obbediva a un ordine perentorio, che veniva dall’alto, applicato più o meno blandamente a seconda del capriccio degli esecutori. Quell’ordine avrà avuto poi, come si disse, lo scopo satanico di «spretare l’Italia?».
Giudici superficiali hanno veduto in questi fatti l’intento politico nazifascista di strappare dai paesi situati in zona di rastrellamento tutti coloro che avevano una responsabilità, e quindi anche i Preti; o tutt’al più apparvero e come lo sfogo di una vendetta feroce, davanti al fallimento di una impresa bellica, giunta ormai al suo epilogo fatale. Altri però scorsero in essi l’indice e la rivelazione di un odio settario e anticattolico che avrebbe dovuto avere conseguenze fatali se il Vescovo di Parma non si fosse prontamente interposto.
AI NOSTRI MONTI
Venne finalmente il lasciapassare germanico:
Parma, 31.7.1944 Comando Militare Dopo l’esame della situazione del Parroco D. Riccardo Molinari questi è autorizzato di tornare nella sua Parrocchia di Cereseto (Compiano) per esercitare la sua professione (sic.). Si è impegnato ad astenersi da ogni attività politica.
firmato: IL COMANDANTE GERMANICO DI PARMA
(illeggibile)
L’8 agosto rividi mia madre, ritornata in famiglia per riprendersi dal duro contraccolpo di quel tragico 20 luglio che aveva fiaccata la sua robusta fibra. Era raggiante di gioia, anche se le fiamme avevan distrutte tante cose care… . Non è la vita ciò che più vale?…
9 agosto: una forza irresistibile mi sospingeva in Parrocchia: il cuore ansioso di consolare, gli occhi smaniosi di vedere…
L’ampia vallata, solcata dal Ceno, precinta di monti, quella che era stata il teatro dell’epiche gesta dei novelli
guerrieri del Nord, si era risvegliata, come da un lungo sonno di morte, e riprendeva vita, lieta di aver scosso finalmente il giogo straniero. Nel mezzo, Bardi scintillava gioiosa ai riflessi del nuovo sole, e l’antico castello sfavillava, fiero come un gigante vittorioso!
Rivedevo i luoghi insanguinati, le strade percorse dall’orme fatali dei nuovi invasori. Lo stormir delle fronde sul capo, rendeva ancor più vivo il ricordo dei fatti trascorsi…
Ombre spettrali, disseminate sul cammino, sembravano voler arrestare il passo celere verso la meta…
E come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago alla riva si volge all’acqua perigliosa e guata…
Il paese, sul quale così furiosamente si era abbattuta la tormenta bellica, s’affacciava in tutta la sua cruda esasperante realtà! Il suono animato delle campane, che dopo lungo silenzio, si scioglieranno festose all’arrivo del Pastore, non valse ad attutire il colpo prodotto sull’animo dallo spettacolo che allora si presentava allo sguardo: case scoperchiate e mutilate, muri affumicati, finestre riarse, porte sconquassate… Ovunque ammassi di macerie, scheletri deformi, spettri di monconi, contrastanti con l’azzurro del cielo, rimasto solo a far da sfondo e da tetto. L’aria tutta intorno era ancora pregna di bruciato. La Chiesa, rimasta miracolosamente intatta, pareva gemesse su tante rovine sottostanti.
Il cuore ebbe una forte stretta e trattenni il respiro… Ahimè, quanti ricordi si affollarono alla mente!
Addio dimora, ricca di libri e di memorie, dove il pastore visse i suoi giorni di gioia e di tristezza e trascorse le ore libere dal ministero sacro o strappate al sonno, operando e pregando…
Addio stanza accogliente e graziosa, dolce asilo di bimbi innocenti, dove essi udirono le tante volte la voce, come di una mamma, che dolcemente li educava divertendoli; dove essi sentirono le tante volte la tenerezza di una mano che soavemente li accarezzava. Le tue mura affumicate non risuoneranno più dei loro canti ingenui nè delle loro strida gioiose… Qui più non verranno le anime assetate di verità, di luce, di gioia!…
Addio focolare, presso il quale si prospettava un soggiorno tranquillo e fruttuoso…
Tutto era stato distrutto dalla cieca forza delle fiamme. Volumi e scritti, documenti personali e parrocchiali, registri d’Archivio, erano scomparsi assieme alle suppellettili della casa, agli oggetti preziosi e ai parati d’oro.
Ora solo le ceneri, fredde e smorte, stavano a testimoniare tanti anni e secoli di storia, di lavoro, di sacrificio!
DIO VEDE
Ero già stato assicurato che al mio ritorno in paese non avrei tardato a ritrovare una, casa. E prima a offrirmela fu la gentilissima famiglia Solari, che mi fu prodiga di cure e cortesie in tutto il tempo che sostai presso di loro.
Fu presto istituita una Commissione in seno all’ Azione Cattolica, per provvedere ai più bisognosi sinistrati: iniziativa caritatevole che raccolse denaro e indumenti per i senza tetto.
La Provvidenza intanto pensava a sistemare le famiglie colpite chi un modo chi nell’altro.
Ai primi di ottobre anche il Parroco trovava sistemazione nella casa della Signora Conti Negri Maria, residente ad Alessandria.
Anche dal di fuori si pensava a venir incontro alla compassionevole situazione degli abitanti di Cereseto. Ai primi di dicembre fui chiamato d’urgenza dall’Onorevole Pellizzari (Poe) presso il Comando Unico di Bardi, per dare informazioni. Giunse un primo soccorso, che l’on. Pellizzari si incaricò lui stesso di distribuire nella Canonica improvvisata di Cereseto e che comprendeva i soli senza tetto, e tra questi i più bisognosi. La somma, che variava dallecinque alle dieci mila lire, voleva essere un atto di incoraggiamento e un segno dì simpatia verso la popolazione che aveva subito una sì dura prova. Al Parroco fu assegnata la somma di L. 8.000.
L’inverno si prospettava severo, avvenimenti, e veniva a stroncare l’opera di ricostruzione già in parte iniziata.
AL CAMPO DI CONCENTRAMENTO
Giungemmo a Vischeto di Grezzo, sulla strada che conduce a Bardi, verso le ore dieci del mattino e fummo raccolti in un cortile della vecchia fabbrica. Era quello il nostro campo di concentramento. Ho fatto la mia consegna al capo, il quale con un sorriso malizioso mi domandò:
«Rompere uova?». .
«Rompere nessuno!» risposi, contraccambiando il sorriso.
Scorsi sul suo volto il disappunto per non poter trovare in me nemmeno quel capo d’accusa.
In quel vasto cortile, tutto chiuso all’intorno, eravamo noi i primi ad arrivare. Gli altri erano attesi. Da ventisette eravamo ridotti in una diecina appena: qualcuno notando il loro ritardo ad arrivare, osò avanzare il sospetto che essi fossero stati finiti e che la stessa sorte fosse riservata anche a noi. Era la preoccupazione ossessionante che si riaffacciava più forte nei momenti di sosta e si propagava all’animo dei presenti, rendendo amaro quel tozzo di pan duro che ognuno sentiva il bisogno di sbocconcellare per sostenersi.
Verzo mezzogiorno il portone si apriva per lasciare entrare i nostri compagni di sventura: nessuno mancava. Tanti cattivi presentimenti cadevano e il cuore si risollevava.
Essi avevano seguito altre squadre di razziatori e giungevano ora aumentati di numero perché a Credarola si erano raggruppati ai numerosi ostaggi prelevati nel rastrellamento di Strela, Porcigatone e Sidolo, tutti carichi di some, trafelati e stanchi per il lungo cammino attraverso monti e valli, con il proprio involto di pan duro in spalla e con un cumulo di notizie sensazionali.
AL MURO
DAVANTI AL PLOTONE D’ESECUZIONE
Venne l’ordine di uscire. I prigionieri furono divisi in tanti gruppi, custodito da due guardie ben armate. Con me erano altri quattro ostaggi bedoniesi, fra i quali Biondin.
Al mio gruppo fu riservata la parte più tragica. Allineati al muro, prospiciente la facciata della Chiesa, si piazzarono di fronte a noi due fucili mitragliatori con il plotone di esecuzione, che rimase cinicamente in attesa di ordini.
Era da aspettarsi un epilogo cruento del dramma, e le vittime si dimenavano angosciosamente, già presentendo in se gli spasimi dell’agonia e l’amarezza dell’ultimo addio! Il quadro era reso ancor più emozionante dalla presenza di una madre, il cui volto contraffatto e sbiancato, tradiva lo schianto del cuore. La si vide più volte gettarsi ai piedi dei capi nazisti, in atto supplichevole, senz’altro ottenere che il disprezzo, il sarcasmo e la minaccia. Ma forse le sue suppliche e le sue insistenze non furono inutili. Altre prove però non saranno risparmiate al paese, tra cui quella del fuoco.
CERESETO – L’incendio ritratto da Joe Conti
La nostra attenzione infatti è subito distolta da improvvise fiammate guizzanti sinistramente e da grossi nuvoloni di fumo che involgevano le case, l’aria risuonava tutt’attorno delle grida disperate della gente, mista al clamore dei soldati e al fragore delle bombe incendiarie. Lo scopiettio intensificato dei ta-pùm rendeva ancor più lugubre e spaventevole la scena.
Tengo a sottolineare che Biondin, mio grande amico di sventura è sempre al mio fianco; lo ricordo indomito anche nella tragica vicenda, quando stava per decidersi la vita o la morte, allorché con coraggio sovrumano rincuorava il Sacerdote che in quella situazione così disperata cedeva ad un trauma naturale fin troppo spiegabile…
Come ricorderò sempre lo sprezzo del pericolo che «Biondin» ha dimostrato quando – di fronte a certi misfatti - sbottava in parole di condanna nei riguardi degli oppressori, parole che io cercavo di trattenere onde impedire l’irreparabile. Conserverò sempre e in eterno, la mia riconoscenza per il coraggio che in me personalmente ha saputo trasfondere e in altri prigionieri, in un momento in cui di coraggio e di speranza ce n’era tanto bisogno. Penso che la provvidenza in certi frangenti, come quelli che abbiamo narrati, pone degli uomini siffatti che sono di salvezza nello smarrimento e nella depressione generale. In brevi istanti il paese divenne un immenso braciere incandescente che crepitava paurosamente e saliva in dense volute verso il cielo. A tutta prima parve che il paese intero, Chiesa e Canonica comprese, dovesse rimanere sepolto sotto le ceneri.
Uomini e donne, liberi e ostaggi, osservavano con gli occhi sbarrati, esterrefatti, e subivano la feroce vendetta trattenendo a forza ogni atto di ribellione che avrebbe voluto esplodere.
Altro colpo di scena. Tre uomini, ben noti a Cereseto, per sfuggire al fuoco appiccato alla casa dove si trovavano rifugiati, si presentavano ai capi convenuti sotto il campanile, nella speranza di essere graziati. La loro provenienza dichiarata, fu la loro condanna. Il nome di Compiano, fece scattare come una belva il maresciallo, che decretò per essi la fucilazione, considerandoli, arbitrariamente, come disertori e banditi. Parve però solo una minaccia, perché fu dato immediatamente l’ordine di partenza.
Per noi che al muro attendevamo da un minuto all’altro la fine portò quell’ordine un largo respiro. L’ala della morte per allora ci aveva sfiorati, ma non ghermiti. La colonna dei condannati, scortata dalle guardie, si mosse lentamente, attraverso i roghi fiammeggianti, mentre i pochi abitanti presenti gettavano, attoniti, occhiate di commiserazione su quel corteo funebre, in cui figurava anche il proprio Pastore, il quale portava in cuore lo strazio della sua mamma abbandonata, l’incendio della propria casa e la prospettiva funesta di una morte violenta per sé e per i suoi compagni di sventura.
ALL’OMBRA DEL PIZZO D’OCA
Triste odissea di un prete.
A Pietrarada, piccolo paese nel Bardigiano, disseminato lungo il declivio accidentato e franoso del Barigazzo, all’ombra del Pizzo D’Oca, suo prolungamento naturale, il sistema di rappresaglia nazista se parve cambiar rotta, in quanto non si imbrattò di sangue, come altrove, non fu esente da quell’impronta incivile e inumana, non priva d’altronde di originalità, che caratterizza ovunque il passaggio di tal gente.
D. Giovanni Ceriati, che da parecchi anni profonde il suo zelo in quella località, ne sa qualcosa. Egli non vorrebbe richiamarsi le scene subite. Sono io a costringerlo e a rimetterlo sulla strada dei ricordi. Ed egli racconta: «I tedeschi arrivarono a Pietrarada il 21 luglio 1944, provenienti da Sidolo. lo mi trovavo in Chiesa a recitare l’Ufficio. Non appena il Maggiore che li comandava mi scorse, intimò: «Nix pregare!» e accompagnò le parole con un gesto che voleva dire: «Togliti di qui!». Occupata la Canonica dai soldati, vengo sottoposto ad un incalzante interrogatorio, rimpinzato di domande insidiose:
«Dove sono i partigiani,… Dove sono le armi?…».
Capisco che l’intento dei giudici è di cogliermi in fallo.
Rispondo franco, ben sicuro del fatto mio. Il Maggiore mi annuncia fra l’altro che a Sidolo ha già ucciso tre Preti e due altri a Strela e che pure a me sarebbe toccata la medesima sorte.
Terminato l’interrogatorio senza che io ne potessi afferrare la conclusione, tutti si misero a gozzovigliare, facendo scempio di tutto quello che si trovava in Canonica, compreso, ben s’intende, il pollaio. A sera, ubriachi fradici, mi invitano a mensa con loro. M’accorgo di essere divenuto il loro trastullo. Il Maggiore infatti mi tiene al suo fianco divertendosi, di quando in quando, a serrare la mia testa tra le sue braccia poderose, costretta così a subirsi tutti i colpi sonori della sua mano nocchieruta. Un altro ufficiale tien desta l’allegra brigata balzando in piedi sulla tavola, con aria da ciarlatano e buffone provetto, dà di piglio alla candela che illumina la stanza e con essa traccia per l’aria segni indefinibili e pronuncia frasi in un gergo, che io non riesco a comprendere, tra gli applausi e le risate omeriche della sua degna comitiva. Tutto questo sarebbe stato nulla per me. Sennonché ad un dato momento mi si volle costringere – pistola puntata alla tempia - a bere, uno dietro l’altro, ben dodici bicchieri di vino (e pensare che sono astemio!). Grazia volle che il vino non provocasse quell’effetto che temevo, e alla fine di una simile operazione, per me così ripugnante, trovai ancora la bussola a posto.
Pernottarono parte in Canonica e parte in Chiesa, e notai profanazioni tali che la bocca non osa rivelare. Anche i sacri paramenti servirono da letto; anche il Tabernacolo fu scassato e buttato all’aria…
Speravo il mattino seguente – come mi era stato promesso – di poter celebrare.
Invece mi fu posto tra le mani un bastone e mi consegnarono una quantità di armenti, pecore e bovini, più di un centinaio, razziati in paese e nei dintorni, ordinandomi di guidarli a quella destinazione che essi mi avrebbero indicata.
Fui costretto a fare di necessità virtù! Ma c’era un guaio: il Ceno da attraversare.
I tedeschi trovarono il mezzo, per il povero Pastore invece non c’era differenza dalle bestie, e bisognò accingersi ad una manovra tutt’altro che facile per sospingere verso l’opposta sponda gli indocili animali… dopo di che, anche per me fu libero il passaggio attraverso l’acqua che mi dava alla cintola.
Guadato il torrente, si sostò sulla strada, presso la casa del Mutilato. Ne approfitto per chiedere un interrogatorio al Comando superiore. Mi viene concesso. Ma con mia sorpresa mi trovo di nuovo alla presenza del Maggiore incontrato in Canonica, il quale, non appena mi vede, incomincia a inveire e a sghignazzare, m’ingiunge di scostarmi alquanto, e poi mettendomi sull’attenti, vocia come un ossesso: «Paura della morte?.. Ora kapùt!» e riversa a bruciapelo una scarica di pistola automatica che mi sfiorò la testa. Non so quel che passò in me in quel momento: brividi, spavento, gli orrori della morte!… Mi sentii venir meno e piegai a terra. Non del tutto destituito dei sensi, potei ancora percepire un’altra raffica assordante che mi ferì leggermente in una coscia. Si vede che l’intenzione di uccidermi proprio non l’aveva, ma solo voleva mettere alla prova il mio coraggio. Non appena mi riebbi da quel naturale tramortimento, m’intima di rialzarmi e di non zoppicare, sotto minaccia di quel solito «kapùt! ». Mi venne nuovamente assegnato il mio posto in mezzo alla mandria, con obbligo di tenerla d’occhio tutto il giorno e tutta la notte. C’è un sole bruciante? Piove a dirotto? Non importa: è giocoforza fare il pastore e curare le bestie, che per i tedeschi contan più che l’uomo… li giorno seguente si riparte, sempre digiuni (chi si preoccupa di un povero prigioniero?). La gamba mi duole per la ferita riportata e il sangue scorre giù per le vesti. Taccio della fatica durata nel rincorrere il gregge singolare (beato lui che non si rendeva conto del trattamento cui era sottoposto!) il quale, sentendosi fuori del proprio ovile e lontano dal proprio ambiente, stentava a tirar diritto e dimenticava frequentemente i margini della strada per sbandarsi a destra e a sinistra, ovunque scorgeva un fascio d’erba. E bisognava ricondurle in squadra, altrimenti c’erano le armi spianate delle guardie tedesche!
Estenuato dalla fatica, dal digiuno e dal bruciore del solleone, costretto a digerirmi gli insulti, i motteggi villani, degli aguzzini di scorta, giunsi dopo tre giorni a Vianino, dove dovetti pernottare in una stalla. Proprio qui si presentava l’occasione di svolgere il mio ministero sacerdotale poiché vi si trovava degente una donna gravemente inferma. Furono due ufficiali tedeschi, cattolici, che richiesero la mia assistenza religiosa verso quella povera donna, che in quel luogo, fra due mucche, mi richiamava lo squallore della grotta di Betlem. Ma nemmeno questa soddisfazione fu permessa a me e alla donna, perché un altro ufficiale sopraggiunto, s’interpose bruscamente a impedire un atto di umana e cristiana carità.
Il mattino dopo si riprese il viaggio. La mia situazione di guardiano di buoi e di pecore commosse alle lacrime la popolazione di Varano Melegari, e di essa si rese interprete il buon parroco del luogo, il quale, non appena mi intravide dalla finestra della sua stanza, dov’era costretto dai tedeschi a domicilio coatto, m’inviò prontamente, a mezzo della sua mamma, una berretta per difendermi dalla calura, una coperta per ripararmi nella notte, viveri e bevande, nonché un buon numero di sigarette che condivisi subito con i civili prigionieri che assieme a me dovevano attendere al poco simpatico mestiere. Un’altra notte a Varano, al chiaro di luna…
Il giorno 23 luglio si giunse a Rubbiano, meta del nostro pellegrinaggio. La missione era finita e mi vidi finalmente liberato da quella mandria innumerevole che aveva messo così a dura prova la mia pazienza. Ma quale altra sorte mi attendeva? Fui condotto nel campo di concentramento, ivi situato. Trovai dei miei colleghi che attendevano l’esito della loro cattura, tra i quali D. Giovanni Maggi e il venerando D. Remigio Conti, settantenne, prelevati in Val d’Arda.
La sera dello stesso giorno, mentre inquadrati si attendeva qualche nuovo ordine di partenza per ignota destinazione, un ufficiale che fungeva da interprete presso il Comando tedesco della zona, ci trasmise la notizia di liberazione, rimandandoci però al Vescovo di Parma. Qui fummo ospitati cordialmente dai Superiori del Seminario, ma ben presto passammo sotto la responsabilità del nostro Vescovo a Piacenza.
Dopo venti giorni potemmo finalmente ritornare in sede».
ANCORA VITTIME INNOCENTI !
Il nuovo giorno – 21 luglio – ci trovava nell’identica posizione della sera avanti, per di più con le membra ammortite e peste dal duro giaciglio. Non c’è da parlare di colazione o di toèlette prima della partenza. Digiuni,
Biondin davanti al plotone
di esecuzione il 20 aprile 1944 a Cereseto
lancia parole di condanna contro l’oppressore
con gli stessi bagagli del giorno precedente (io con il solito cesto d’uova) fummo di nuovo incolonnati con la scorta di numerose guardie.
Puntualmente i due designati della sera prima si presentarono al comandante. Ma non ebbero quello che si aspettavano, anzi caricati di fucili mitragliatori furono posti in coda a tutti gli altri, soli tra due sentinelle.
C’erano indizi tutt’altro che di liberazione!
A me, in qualità di guida, fu chiesta la strada per il Poggio, dopo di che venne l’ordine di partenza. La colonna si mosse: nessuno de i prigionieri fiatava. Io ero di nuovo alla testa, tra il comandante e quel sottufficiale che così affabilmente mi mise fuori di Canonica e che rimase impresso nella mia mente come il genio malefico che di continuo mi pedinava. Più e più volte mi nacque il sospetto ch’egli avesse l’ordine di sperimentare su me l’arma pesante che impugnava arrogantemente. Ma se non l’ebbe, certo lo desiderò!
Nei pressi del Poggio, ad un ordine glaciale, tutti si fermarono. Il comandante tedesco guardò in faccia il Biondin ed io: «Tu non paura della morte, kaput!», poi ai due accodati a noi gridò: «Tu fuori, tu fuori!». I due uscirono, tremando dal terrore. Il cuore batteva forte come nell’imminenza di qualche brutta sorpresa. Passò infatti qualche minuto di silenzio misterioso, quindi un urlo straziante, subito soffocato da una raffica d’arma che rintuonò cupamente nella valle…
Altre due vittime cadevano sotto il piombo micidiale (le due designate la sera avanti) e nemmeno ora il mio ministero sacro veniva permesso a conforto e a sollievo delle loro anime. Data la distanza che vi era tra me e le due vittime, tracciai dubbiosamente un’assoluzione, mentre nell’animo mio si risvegliava l’amarezza e il disgusto del giorno prima…
La nuova fulminea esecuzione capitale destò in tutti un’impressione indescrivibile e moralmente deleteria: ognuno pensava che sarebbe venuta anche la propria volta!
Mi dissero testimoni oculari del fatto che i due disgraziati, posti davanti all’arma fatale, s’inginocchiarono e chiesero pietà in nome dei propri bambini, ma inutilmente. Per terra, accanto ad un rustico cascinale, giacevano insepolte le loro salme su cui la furia teutonica aveva sfogata nuovamente la propria vendetta.
Presentai le loro anime al Signore in un’effusione di lacrime segrete. La sera avanti mi avevano dato prova particolare di affetto e di venerazione, sentivo quindi più forte il dispiacere della loro fine, come di due buoni amici, e più doverosa l’offerta della mia preghiera.
Quali i motivi di questa esecuzione? Si sapeva che il Serventi era di Pelosa. Tale nome suonava male ai tedeschi che avevano lasciato colà numerosi morti nello scontro con i Partigiani. Il Negro, perché suo parente doveva condividerne la triste sorte, come comportavano i sistemi di guerra nazista.
Ma perché era stata prescelta per il delitto questa località?… Forse perché il sangue richiama sangue?.. Ma che colpa avevano essi del presunto reato perpetrato da altri?..
ANNUNZIO FATALE
Al tramonto del 18 luglio, un bel tramonto fiammante, – il proverbio: «rosso di sera bel tempo si spera» non tornava a proposito, stavolta – si sentì improvvisamente tuonare, oltre il Pelpi, un colpo cupo di cannone, seguito a poca distanza da altri colpi e le palle fischiarono con sibilo acuto sopra i tetti delle case.
Era il segnale della guerra vicina, alle porte di casa nostra. Bisognava quindi decidersi ad affrontarla o a schivarla, se fosse stato possibile. Un fremito di paura percorse la popolazione che cominciò ad agitarsi come un mare in tempesta.
Povera gente! Vissuta sempre tranquilla all’ombra delle, sue case vetuste; abituata a vivere indisturbata nel lavoro, tra la pace dei monti; assuefatta a guardare il suo Pelpi come baluardo di difesa e di protezione, non sapeva ora capacitarsi davanti a quell’insolito suono per aria, e disorientata e con il cuore sospeso, si dimenava tra, una casa e l’altra, proprio come un formicolaio molestato senza motivo alcuno dal piede feroce di un uomo brutale.
Vennero da me alcune mamme, con il bambino in braccio, per chiedermi dove dovevano rifugiarsi… La tragedia, era cominciata! . :
La notte trascorse come tante altre, tra fantasmi e sogni paurosi. Gli uomini, almeno una gran parte, erano nel folto dei boschi o nelle tane. Precauzione suggerita dal timore di essere colti di sorpresa. Storia tragico-comica che durava da parecchie notti e che durerà per molte altre ancora. Non per nulla il Poeta cantò: «Libertà vo cercando ch’ è si cara!.. . » .
Ma più che il bombardamento offriva uno spettacolo desolante il saccheggio, ancora in atto, nelle case e nelle botteghe, abbandonate dagli abitanti alla mercé dell’invasore.
Lasciai al più presto quel luogo, poco tempo prima così gentile e ridente, ora così tetro e glaciale… Per via mi imbattei in alcuni viandanti che discendevano da Cereseto. Riferivano che i tedeschi avevano varcato il Colla (il passo del Pelpi) e avevano raggiunto Farfanaro, frazione di Cereseto, lasciando dietro di sè stragi e rovine. Alte nuvole di fumo tingevano infatti il cielo da quella parte. Non c’era dubbio, la notizia rispondeva a realtà.
Si trattava però solo di un fienile dato alle fiamme nelle vicinanze di Farfanaro, dove una colonna tedesca si era stabilita per trascorrervi la notte.
In paese, strane sensazioni, commenti sconcertanti, previsioni catastrofiche, eccitazione di nervi, orgasmo vivissimo che nessuna buona parola e nessun ragionamento riusciva a calmare… Un tramestio insolito per nascondere CIO che di più caro si possedeva, un accorrere frettoloso
ARALDO DI PACE E VITTIMA DI CARITA’
5 giugno 1944. Numerosi caccia bombardieri alleati, di buon mattino, hanno sganciato il proprio carico poderoso su Borgotaro, patria di P. Umberto. Tutti i dintorni, e anche Cereseto, dove Egli si trovava a predicare, sussultarono alle forti denotazioni degli esplosivi. Il suo cuore ardente, pur soffrendo di dover troncare a metà una missione del popolo, non può resistere: un dovere più alto e più urgente richiama la sua presenza nel paese natio duramente colpito. Parte a piedi, bruciando le tappe, in soccorso delle vittime. Da allora il suo zelo non cessa di prodigarsi in ogni modo. I giorni si fanno sempre più cruciali, gli eventi precipitano, le minacce delle indiavolate SS. tedesche premono da ogni parte, ma egli non pensa a nascondersi, e rimane sulla breccia a perorare, riconciliare, salvare.
Il 15 luglio forze armate tedesche giungono nella borgata, costringendo alla fuga i Partigiani e quanti avevano cara la vita, e bloccano tutte le strade. La popolazione allarmata, si rintana nelle case per sfuggire alle efferatezze dell’invasore, ben note al pubblico. Correvano per aria ordini perentori di vendetta ad oltranza, per impedire i quali l’Arciprete Monsignor Boiardi, ora Vescovo di Apuania, si offrì a far da paciere e mosse incontro al nemico, sventolando bandiera bianca. Il suo coraggio riuscì a concludere un compromesso che avrebbe dovuto significare la rinuncia da parte dei tedeschi ad ogni atto di rappresaglia nei confronti sia dei civili che dei partigiani ritiratisi sulle montagne vicine.
Ma la pace durò poche ore. Il mattino dopo infatti, festa della Madonna del Carmine, Patrona della parrocchia, i tedeschi coglievano di sorpresa i fedeli che si recavano a messa e arrestavano 54 uomini, fra cui lo stesso Arciprete e il suo coadiutore D. Sacchi. Rinchiusi come ostaggi nell’Albergo Roma, vigilato da ogni parte dalle sentinelle, essi dovevano servire allo scambio con altrettanti soldati germanici fatti prigionieri dai partigiani. Sui poveri ostaggi pendeva la minaccia di fucilazione entro 48 ore.
Numerose famiglie gemevano sotto l’incubo dell’ultimatum dato ai Partigiani, scaduto il quale l’esecuzione sarebbe stata eseguita.
Il pronto intervento di P. Umberto salvò la situazione. Egli si trovava in questo frattempo in campagna, ospite del Dott. Marchini, assieme al quale profondeva la sua opera di assistenza in favore degli sfollati. Venuto a conoscenza del grave pericolo che incombeva sui suoi concittadini, mise in moto tutte le proprie energie di corpo e di volontà, e a passi veloci raggiunse il Comando dei Partigiani, con i quali riuscì a concludere un accordo di restituzione dei prigionieri.
Il 18, P. Bracchi, da Strela trasmetteva al Comando tedesco la notizia, in seguito alla quale i prigionieri erano liberati. Ma proprio qui a Strela, dove egli aveva sostato, forse per incoraggiare l’amico D. Alessandro, doveva rimanere vittima della sua carità!
Dai suoi scritti si rileva: «Dobbiamo essere fermamente persuasi che nulla, proprio nulla, ci unisce maggiormente a Dio di ciò che più ci distacca da noi medesimi».
«La perfezione è il premio delle lotte segrete e silenziose che ci sostengono nel profondo dell’anima, sotto il solo sguardo di Dio, e nessuno va dietro a Nostro Signore se non è deciso a farsi violenza con generosità».
«Ah! l’energia, la volontà, la generosità, la costanza, ecco il segreto che dobbiamo continuamente tenere in attività» .
«Qualunque cosa mi costi, o Gesù mio, sarò oggi sempre Ostia con Te e come Te rinnegandomi per compiere ciò che manca a quella divina passione da cui solo dipende la nostra e la salute di tanti nostri cari».
«Gesù ti chiedo tre cose:
L’umiltà per piacerti.
La purezza per amarti.
Il sacrificio per immolarmi nel compimento diuturno del mio dovere».
BEDONIA SCAMPATA ALL’ECCIDIO
«I primi di luglio (1944) aveva inizio con puntate di assaggio il grande rastrellamento concentrico dell’estate. Venerdì 7 luglio formazioni nemiche si spingevano fino al Passo del Bocco e trovavano quivi resistenza per opera della squadra comandata da Fortunin (Serventi Fortunato da
Chiesola, Bedonia, caduto) del distaccamento Bill e di una. squadra di Beretta subendo alcune perdite. Sabato 8 luglio verso le l0 veniva segnalato che una colonna tedesca partita da Pontremoli puntava attraverso i monti su Borgotaro. Il distaccamento Bill dietro richiesta del comandante Dragotte si spostava nei pressi di S. Vincenzo dove prendeva contatto con una squadra di Beretta e di Dragotte destinate all’operazione.
Verso le 16 e l0 era avvistata una colonna appiedata di un centinaio di uomini che scendeva in direzione della stazione ferroviaria di Borgotaro. Alle 17 detta colonna assalita da più parti dai patrioti delle tre formazioni si ritirava nell’abitato di Grifola. Quivi i tedeschi si difendevano con accanimento finché, presi alle spalle da una squadra composta in prevalenza da uomini del distaccamento di Bill, e morto il capitano che li comandava, si sbandavano. Verso le 22 e 30 poteva dirsi terminato. Perdite nostre un ferito, mentre una ventina di tedeschi rimanevano sul terreno e una trentina di prigionieri…
Il presidio nostro di Santa Maria del Taro impossibilitato, data la notevole inferiorità di uomini e di mezzi, a resistere si era ritirato fin verso l’abitato di Pelosa. Quivi giungevano pure il distaccamento Bill e l’ottava squadra Berretta comandata da Nino.
Si dispose per l’imboscata. Al mattino del giorno successivo, le vedette segnalavano che la colonna procedeva sullo stradale in direzione di Pelosa. Il nemico cadde nell’imboscata. Dopo un combattimento di tre ore, l’attacco a bombe a mano condotto con decisione, sgominava interamente l’avversario. Sul campo rimanevano un’ottantina di morti nemici, 75 erano i prigionieri più i feriti i quali furono ricoverati e assistiti in alcuni locali del Seminario di Bedonia adibiti all’uopo. Il bottino era ingente: sei mitragliatori Mauser, mitra, pistole mitragliatrici, un’ottantina di fucili, munizioni, bombe a mano, ecc… Il distaccamento subì tre morti e un ferito…
Il giorno successivo nuove unità raggiungevano Pelosa. Il distaccamento schierato sulla costa dell’osservatorio di Alpe, manteneva per tre giorni la posizione insostenibile.
Con ordine si attuava l’operazione di sganciamento verso l’alta Val Ceno.
Le truppe nazi-fasciste forzate le entrate della Val Taro, ne occuparono in forza i punti strategici predisponendosi per il rastrellamento duro e serrato. Le rappresaglie contro i civili furono assai gravi e questo fu uno dei rastrellamenti più sanguinosi e distruttori che siano stati fatti in Italia. Parecchie diecine di civili inermi di ogni età furono fucilati. Parecchi paesi andarono completamente distrutti dal fuoco (Strepeto, Setterone, Bruschi, ecc…), altri furono ripetutamente cannoneggiati (tra cui Alpe, già antecedentemente incendiato). Circa 500 capi di bestiame furono asportati.
Le rappresaglie sarebbero state certamente molto più gravi, specie contro il centro di Bedonia, senza il paterno, coraggioso e intelligente intervento di Mons. Paolo Checchi, Arciprete di Bedonia, cui spetta il merito di avere, in più riprese, salvate le sorti della popolazione e delle cose».
(Dal libro «QUELLI DEL PENNA» di Carlo Squeri – Bedonia)
Cereseto primogenita del Pelpi
Situata alle falde del Pelpi, in mezzo ad una cornice concava di boschi e radure verdeggianti, sulla pendice orientale che discende gradatamente a sbalzi verso il Ceno nella sua confluenza con il Toncino, in quel di Bardi, a 700 metri sul livello del mare, Cereseto si vanta della sua posizione privilegiata di primogenita del Monte, ne gode tutta la fecondità del suolo e la salubrità dell’aria. A 12 Km. da Compiano, da cui dipende come Comune, e altrettanti da Bedonia; a 9 Km. da Bardi, potrebbe costituire una stazione climatica di prim’ordine se una strada praticabile la collegasse ai centri suddetti.
La sua storia si perde nell’ombra dei secoli, come quella dei paesi circonvicini: Sidolo, Credarola, Scopolo, Masanti e le memorie che l’Archivio, ora completamente distrutto dall’incendio, conservava come reliquie, risalivano al secolo XVI.
Cereseto, con i suoi 700 abitanti circa attualmente residenti, ed altrettanti all’Estero, con le sue viuzze e con le sue case ben disposte e ammodernate, forma (o almeno formava prima della guerra) un piccolo centro attraente della vallata, tutto riunito attorno al Campanile, ritto come
una sentinella avanzata sul pendio ondeggiante e nello sfondo pittoresco del monte.
La sua Chiesa, ricca e bella, si eleva maestosa tra le abitazioni sottostanti, come una madre che ha cari i suoi figli e li vuoI proteggere.
Un concerto melodioso di cinque campane, che il popolo gelosamente contese alle richieste esose di un partito, rallegra ancor oggi, non senza orgoglio, le feste del paese, numerose come i suoi Santi. Chi assistesse ad una di queste feste per esempio a quella della Madonna di Lourdes – l.a domenica di giugno – o a quella di S. Giacomo – 25 luglio – tra lo splendore dei doppieri inargentati e i parati preziosi di porpora e d’oro, tra l’armonia dei canti, avrebbe l’illusione di trovarsi in un ambiente cittadino.
La popolazione, intelligente e attiva, ha sempre tratto la sua maggiore risorsa dall’emigrazione e dalle sue relazioni con l’Estero, più che dai prodotti del suolo, insufficienti alle necessità delle famiglie, le quali si sentono affezionate alla propria terra e, costretti dal bisogno ad abbandonarla, tornano volentieri, dopo aver dimorato per lunghi anni in città moderne come Parigi, comode come Londra, lucrose come New York, come le rondini al proprio nido, al sorriso e alla quiete del paese natio. Alcuni ne hanno portato alto il nome nel mondo, come Mons. Francesco Sidoli Arcivescovo di Genova, e Giovanni Negri, illustre professore di belle lettere. Al tempo di questa cronaca, Cereseto costituiva una mèta frequentata da molti prigionieri, inglesi e slavi, evasi dai campi di concentramento, dopo 1′ 8 settembre i quali trovarono nella ospitalità innata della popolazione, soccorso e comprensione, e quell’affetto di cui essi da lungo tempo eran privi. Nel soccorrere questi fuggitivi consigliò prudenza la dolorosa vicenda occorsa a D. Antonio Cavacciuti, Arciprete di S. Giustina in VaI di Lecca, che fu catturato e condannato assieme alla sorella e alcuni parrocchiani, perché aveva prestato assistenza agli Inglesi. Chiuso in carcere a Genova subì maltrattamenti d’ogni genere e attese per lungo tempo l’esecuzione della pena capitale, alla quale sfuggì poi miracolosamente. Da allora se la carità non cessò del tutto divenne però più segreta e clandestina, sino al giorno in cui i signori d’Oltr’Alpe faranno pagar cara l’ospitalità concessa agl’Inglesi.
CERESETO, PRIMOGENITA DEL PELPI
Situata alle falde del Pelpi, in mezzo ad una cornice concava di boschi e radure verdeggianti, sulla pendice orientale che discende gradatamente a sbalzi verso il Ceno
| nella sua confluenza con il Toncino, in quel di Bardi, a 700 metri sul livello del mare, Cereseto si vanta della sua posizione privilegiata di primogenita del Monte, ne gode |
Chierico ITALO SUBACCHI
Alunno del Seminario di Parma
(nato a Bardi il 30-11-1921 morto a Sidolo il 20-7-1944)
ALUNNO DEL II CORSO TEOLOGICO
NEL SEMINARIO VESCOVILE DI PARMA
GIOVANE DI APERTA INTELLIGENZA
E DI GRANDE SENSO PRATICO
E SOPRATTUTTO DI SQUISITA
BONTA’ DI CUORE
NELLA SUA ASCESA GIOIOSA
VERSO L’ ALTARE FU STRONCATO DAL CIECO FURORE NEMICO
MORI’
PERDONANDO E SORRIDENDO
E VOLO’ AL CIELO
VITTIMA INNOCENTE
A CELEBRARE CON L’ AGNELLO IMMACOLATO
LA PRIMA ETERNA MESSA
20 LUGLIO 1944
* * *
Viva il ricordo della sua dolce figura in questa terra che lo vide fanciullo e ne raccolse il sangue generoso.
Resti l’esempio della sua vita come luce ai compagni di
studio e a tutta la gioventù cristiana.
Valga il suo sacrificio a ottenere al~’amato paese e a tutta la nazione una rinnovellata era di virtù cristiane e civiche.
Prevosto di Strela
(nato a Bedonia nel 1886 – morto a Strela il 19-6-1944)
Sozzi D. Alessandro, cinquantottenne. Ordinato Sacerdote nel 1909 fu dapprima Curato a Gusaliggio Valmozzola per due anni, quindi Parroco a Casaleto di Bedonia. Dal 1916 era Prevosto di Strela, dove lascia a ricordo opere di zelo a cui sempre attese con spirito veramente sacerdotale, ammirato da quanti lo conobbero».
D. FRANCESCO DELNEVO
Prevosto di Porcigatone
Delnevo D. Francesco era in età di 56 anni e da un ventennio reggeva la Parrocchia di Porcigatone, dopo essere stato sette anni Curato a Pontenure. Avveduto ed esperto avèva assai migliorato lo stato della sua Parrocchia, procurandole anche recentemente vantaggi di privilegio. Per caso si trovava a Sidolo, dove lo sorprese la tragica fine».
(Dal «Bollettino Ufficiale» della Curia
Vescovile di Piacenza – Marzo 1945)
(D:ll «Bollettino Ufficiale» della Curia
Vescovile di Piacenza – Marzo 1945)
Il 23 aprile 1945, nella Chiesa provvisoria. eretta dall’Estinto, si celebrò solennemente. l’Ufficio funebre, presente tutto il Clero del Vicariato, con larga rappresentanza del Seminario di Bedonia, e tutto il popolo di Strela.
Mons. Giulio Biggi, Rettore del Seminario, pronuncio’ tra la piu’ viva commozione degli astanti, l’elogio del defunto.
«Il Divin Maestro un giorno che si era visto osteggiato con diabolica malizia e con feroce ostinazione, sapendo che lo volevano uccidere, poté sfidare a fronte alta i suoi altezzosi avversari e redaguirli con queste parole:« Propter quod opus bonum vultis me lapidare?»- lo non ho compiuto un mezzo a voi altro che opere di, bene. Qual’è quell’opera buona per la quale mi cercate a morte?,
E’ un’ episodio assai saliente del S. Vangelo. Mi venne alla mente con insistenza quando in questi giorni io riandava la vita del caro D. Alessandro, a cui abbiamo testè tributato un doveroso suffragio. E mi sono domandato più volte, e mi domando ancora: – Qual’é l’opera buona per cui fu così tragicamente involato al nostro affetto, all’affetto dei suoi Parrocchiani e dei suoi familiari, il buon D. Alessandro, Prevosto di Strela? – Sarei quasi tentato di applicare alla sua memoria intemerata, le parole che N.S. pronunciò all’indirizzo dell’apostolo S. Bartolomeo: Ecce vir bonus in quo dolus non est!… Egli era l’uomo e il sacerdote veramente buono, tanto che invano si sarebbe cercato di trovare in Lui ombra di dolo.
L’Oratore scende quindi a tracciare il quadro di D. Alessandro giovinetto, che risponde volenterosamente alla divina chiamata nel Seminario di Bedonia, all’ombra della Madonna di S. Marco: le carte dell’Istituto testimoniano i suoi profitti negli studi, la sua pietà profonda e la sua lodevole condotta. Accennato poi all’apostolato fecondo di Lui a Valmozzola come Curato e a Casaleto come Parroco, delinea la vasta attività dello zelo di D. Alessandro a Strela di cui fu eletto: Pastore nel 1916, rimanendovi fino alla sua tragica morte: Ventotto anni di Ministero Sacerdotale durante i quali D. Alessandro profuse largamente i suoi doni del proprio cuore e della propria intelligenza, aperta come ai bisogni spirituali così anche a quelli materiali del suo gregge.
Nel piano spirituale: In omnibus laboravit ut ministerium suum diligenter impleret… vigilavit die ac nocte super gregem suum!… Si. adoperò in tutti i modi all’adempimento dei doveri sacerdotali: dalla predicazione e istruzione religiosa con frequenti Missioni al popolo, alla confessione e direzione delle anime. E vegliò giorno e notte, come il Buon Pastore preoccupato della salvezza del suo gregge…
E’ a tutti noto quanto egli si sia adoperato per provvedere Strela di una nuova Chiesa di cui sentiva l’urgente necessità. .
Nel campo materiale, che Egli intese come un dovere integrativo del primo e che svolse sempre con l’unico intento di fare del bene ai suoi Parrocchiani tutti sanno dei suoi viaggi per illuminare le autorità sulla situazione del paese. Non sempre, è vero, ebbero felice esito i suoi sforzi, ma «Ut desint vires, bonus est laudari voluntas! Importanti opere però rimarranno in Strela a testimoniare l’attività e la tenacia di Lui, come la strada Compiano Strela, l’impianto delle fontane in paese, l’Ufficio Postale la succursale del Consorzio Agrario: Chi non conosce poi la sua indefessa opera, riconosciuta anche pubblicamente per l’incremento dell’ Agricoltura in parrocchia, tanto da divenire un apostolo anche in questo campo?
«Cor suum dedit in consummationem operum! passo facendo del bene con mirabile generosità, con edificante disinteresse. Per quale di queste opere buone é stato soppresso? La furia cieca é passata su Strela e mentre il nostro pensiero si porta al nostro carissimo amico, non vogliamo dimenticare quel santo Sacerdote che cadde vittima al fianco di D. Alessandro, e insieme con i due Sacerdoti vogliamo unire il ricordo di altre buone persone tutte travolte dalla medesima bufera nella medesima sorte…
Se il granello di frumento non scende nella terra e non si consuma, resta solo: ma se il granello vien sacrificato non manca di dare la spiga!
Che il buon Gesu’ si degni di valorizzare il sacrificio dell’indimenticabile D. Alessandro e in virtù di questo sacrificio benedire la Parrocchia…
Egli sarebbe molto felice se avesse potuto erigere la Chiesa, come la desiderava Lui nel suo ardente zelo. Ma se il Signore ha accettato la sua immolazione, non mancherà di fecondare con la sua grazia cio’ che il suo ministro ha seminato. E allora vedremo presto cadere le difficoltà e spianarsi la via alla realizzazione del grande urgente progetto» .
L’oratore concludeva invitando il popolo al ricordo riconoscente del proprio Pastore e a raccogliere devotamente l’eredità spirituale, formulata nel proposito di fedeltà indiscussa alle gloriose tradizioni cristiane e cattoliche e di unione compatta, da Lui sospirata e invocata, nell’unico ideale: quello religioso.
D. GIUSEPPE BEOTTI
L’Apostolo de1la VaI Toncina
(n. a Gragnano Treb. il 26-8-1912 – m. a Sidolo di Bardi il 20-7-1944)
| D. GIUSEPPE BEOTTI |
«Beotti D. Giuseppe, Arciprete di Sidolo, aveva 32 anni. Era stato prima Curato a Borgonovo Val Tidone. Dal 1940 era passato all’ Arcipretura di Sidolo, dove esercitava con particolare zelo la cura delle anime, dedicandosi anche con lode alla predicazione sacra in altre Parrocchie. La domenica precedente alla sua morte aveva pubblicamente fatta offerta a Dio della sua vita per la salvezza del suo popolo. A lui si può applicare con verità la sentenza di Gesù: << Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis >>.
<< Ed è questo il miglior elogio che si possa scrivere sulla sua tomba>>.
(Dal «Bollettino Ufficiale» della Curia di Piacenza – marzo 1945)
«Frange esurienti panem tuum et aegenum
vogusque induc in domun tuam!»
“Ha amato la carità così come il Vangelo l’insegna e ne ha vissuti tutti i santi ardori e gli ardimenti. Ha spezzato il pane materiale a chiunque gli stendeva la mano, così come ha spezzato il pane della parola di Dio a tutti indistintamente e senza false paure.
Pastore innocente, per la salvezza del suo popolo, affidatogli il 21-1-1940, offriva più e più volte incondizionatamente la vita, e Dio, perché pura e santa, l’accoglieva, stroncata dal cieco furore di questa guerra fratricida”.
(Dall’immagine ricordo in occasione delle onoranze funebri tributate gli dal suo paese natale)
Alla memoria della mia venerata
mamma che in quel tragico
20 luglio 1944 con le sue suppliche
e con l’offerta di sè stessa valse
a salvare la mia vita e forse quella
di tanti altri da morte violenta.
DIO VEDE
Ero già stato assicurato che al mio ritorno in paese non avrei tardato a ritrovare una, casa. E prima a offrirmela fu la gentilissima famiglia Solari, che mi fu prodiga di cure e cortesie in tutto il tempo che sostai presso di loro.
Fu presto istituita una Commissione in seno all’ Azione Cattolica, per provvedere ai più bisognosi sinistrati: iniziativa caritatevole che raccolse denaro e indumenti per i senza tetto.
La Provvidenza intanto pensava a sistemare le famiglie colpite chi un modo chi nell’altro.
Ai primi di ottobre anche il Parroco trovava sistemazione nella casa della Signora Conti Negri Maria, residente ad Alessandria.
Anche dal di fuori si pensava a venir incontro alla compassionevole situazione degli abitanti di Cereseto. Ai primi di dicembre fui chiamato d’urgenza dall’Onorevole Pellizzari (Poe) presso il Comando Unico di Bardi, per dare informazioni. Giunse un primo soccorso, che l’on. Pellizzari si incaricò lui stesso di distribuire nella Canonica improvvisata di Cereseto e che comprendeva i soli senza tetto, e tra questi i più bisognosi. La somma, che variava dallecinque alle dieci mila lire, voleva essere un atto di incoraggiamento e un segno dì simpatia verso la popolazione che aveva subito una sì dura prova. Al Parroco fu assegnata la somma di L. 8.000.
L’inverno si prospettava severo, avvenimenti, e veniva a stroncare l’opera di ricostruzione già in parte iniziata.
HOSTIUM RABIES DIRUIT!
Famiglie di Cereseto senza tetto
1. Bassi Agostino fu Domenico
2. Bassi Benedetto fu Domenico
3. Bertani Aronne
4. Moruzzi Roberto fu Giovanni
5. Negri Catarina fu Giovanni
6. Negri Maria fu Giovanni
7. Negri Teodolinda vedo Rolleri
8. Negri Guglielmoni Celesta
9. Negri Maria ved. Conti
10. Negri Giuseppe fu Giovanni
11. Rapetti Eugenio fu Giovanni
12. Regazzi Giovanni fu Antonio
13. Sidoli Cavacciuti Maria
14. Sidoli Francesco fu Giovanni
15. Sidoli Francesco fu Marco
16. Sidoli Maddalena
17. Sidoli Elena e Geltrude
18. Solari Giovanni fu Paolo
Famiglie sinistrate nella cascina o in altri beni
12. Negri Granelli Maria
13. Parenti Antonio fu Giovanni
14. Sidoli Ermelinda fu Francesco
15. Sidoli Angelo fu Ferdinando
16. Si doli Celeste fu Domenico
17. Sidoli Domenico fu Francesco
18. Sidoli Giuseppe fu Marco
19. Sidoli Domenico fu Bartolomeo
20. Sidoli Aldo fu Giovanni
21. Sidoli Caterina fu Angelo
22. Strinati Giovanni fu Giuseppe
23. Botti Giovanni fu Vittorio
RISPOSTA A TANTI PERCHE’
Perché Cereseto fu incendiato?
Perché covo di banditi? Il motivo, se anche sufficiente in sè a spiegare la distruzione di un paese, riferendoci al sistema nazista, non lo era per Cereseto, data la minoranza trascurabile dei Partigiani del luogo. Del resto, se questa ragione valesse, perché altri centri assai più importanti e popolati da Partigiani, non furono minimamente danneggiati…
Cattive informazioni per mezzo di spie? Assistenza prestata ai Partigiani o agli ex prigionieri inglesi? Possono aver contribuito anch’esse, e non poco.
Armi e munizioni rinvenute in paese? Le prove non parlano.
Ciò che si sa di positivo, è il fatto, attestato da molti, che sulla carta topografica della zona, confrontata dal Comandante in ogni sosta delle truppe, Cereseto, unitamente a Strela, era sottolineato in rosso. Tutto sta ad indicare che i destini dei due paesi fossero stati fissati fin dall’inizio del rastrellamento. Come non pare errata l’opinione che ambedue i paesi siano stati vittime di una vendetta personale atroce!
Ma la storia forse farà luce sul movente di quest’azione punitiva contro due paesi inermi e pacifici.
«SUCCENSA VIRESCIT»
I terroristi nordici, pervasi da cieco furore, travolsero in una immane rovina materiale case civili e beni di valore incalcolabile, seminando vittime. .
Ma lasciarono intatti i valori spirituali.
La distruzione del focolare non pregiudicò la compagine della famiglia, nè molto meno la fede, che rimane radicata . Profondamente nel cuore delle popolazioni, che soggiacquero alla tormenta di piombo e di fuoco.
E questo dà speranza, anzi la morale certezza che Cereseto, come tutti gli altri luoghi sinistrati risorgerà, e di fatto è risorta, dalle sue rovine.
«SUCCENSA VIRESCIT!»
TEMPI INDIMENTICABILI
La tragedia del 20 luglio 1944, oltre che nella memoria degli abitanti di Cereseto, vive nelle pagine scritte. Trascrivo, senza variazione alcuna, dal «Diario intimo» di una giovane, testimone e vittima, che tradisce, tra riga e riga, un singulto e una lacrima malcelata.
«Rimani con noi, o Signore, perché si fa sera!…
Mentre il buio dello sconforto e della ventura stava per calare sull’infelice paese incendiato, unanime usciva dal petto degli abitanti questa preghiera: RIMANI!… Ed Egli rimase per mitigare ad ogni cuore le prove che doveva subire prima dello scendere della sera naturale…
Le strade che conducono a Bardi erano gremite di tedeschi in partenza, che dopo aver saccheggiato, incendiato, ucciso, se ne allontanavano portando seco i prigionieri, rassegnati e tremanti, lasciando in tutti, il loro ricordo terrorizzante. ,
Il fuoco intanto faceva. sua legge. Già le fiamme, dopo aver divorato internamente, spaventose e decise, cominciavano a sprigionarsi uscendo dalle finestre. Una nuvolata di fumo nero copriva le fiamme, quasi a voler nascondere al cielo così bello, le mostruosità che si compivano sulla terra.
Nessuno, più nessuno s’aggirava nel paese morente: tutti avevano dovuto abbandonarlo, soffocando nel dolore il costo di certi addii.
Cereseto! Non valsero a preservarti dalla sventura i pianti, gli strazi, gli addii. Inevitabilmente ti dovesti chinare a baciare la crudele tua sorte!…
I campi accolsero le genti smarrite… Rannicchiate accanto alle siepi, presso i ruscelli, si vedevano le persone a gruppi, piene di spavento. Ma soprattutto ognuno teneva stretto nel suo cuore un nome caro da cui non poteva sviare: il padre, il figlio, lo sposo, il fratello… Che ne era di loro in quel giorno tremendo?.. Chi li assicurava salvi?… Oppure forse?.. Com’ eran tristi certe congetture!…
I colpi di mitraglia si spandevano per l’aria. Si sentiva il crepiti o delle fiamme, il disastroso crollar dei tetti ed insieme il tuono che annunciava il prossimo temporale. E l’ acqua cadde bagnando la povera gente che non aveva più tetto per ripararsi. Ritornò il sereno e ognuno uscì dal suo nascondiglio e andò a vedere per credere…
La prima notizia che si propagò fu quella delle tre vittime di Compiano che i tedeschi crudeli avevano lasciato alla cappellina della Costa. Tutti andarono a vedere. I cuori anche più induriti, non rimasero tali davanti allo spettacolo delle tre salme, distese al suolo in un lago di sangue. Tutti sentirono l’immenso dolore, tutti sparsero copio se lacrime. Poi compresa la irreparabilità della cosa, se ne allontanarono portando seco per tutta la vita il ricordo della triste scena.
Irriconoscibile si trovò il paese. Le case sembravano tanti cadaveri dalle orecchie vuote, dalle ossa spolpate. Il loro contenuto era ridotto ad un cumulo di ‘macerie fumanti sotto le quali giacevano sepolte tutte le poesie, le dolcezze, i ricordi delle famiglie… Che pianti nel povero cuore rimasto!
Nonostante ciò alcune coraggiose persone accorsero in alcuni luoghi a spegnere il fuoco e così poterono salvare ancora alcune case. La Chiesa e la Scuola furono miracolosamente salve. Non così la Canonica. Quarantadue furono le case distrutte… Gli abitanti si aggiravano nel paese guardinghi e silenziosi: bastava uno sguardo, un cenno del capo per comprendere le situazioni… s’intuivano subito!
La poca roba che la popolazione aveva potuto salvare dal fuoco era distribuita nei prati circostanti il paese. Si vedevan quà e là mucchi di biancheria (fortunato chi li possedeva ancora) di mobili e di quanto può esservi nell’interno di una casa. Sembrava un mondo di leggende, pieno di mistero. Il sole cadente lasciava scendere anche per quel giorno orrendo le ombre della notte. Invano il bambino chiedeva alla mamma di tornare a casa; invano il vecchio cercava il suo nido per riposarsi del lungo pellegrinare; invano la sera invitava le famiglie a riunirsi sotto il proprio tetto!… Tutti dovevano star lontani, tutti dovevano star fuori… Dopo aver mangiato un tozzo di pan duro, gli abitanti pensarono, come al solito, di dare un po’ di riposo al loro corpo. Si distesero sulla nuda terra in attesa del sonno ristoratore… Ma il sonno se ne stava lontano dal paese, quasi temesse, entrandovi, di essere bruciato. Non si dormiva: tutti si illudevano di sentire grida e schiamazzi… In realtà non c’era altro per aria che qualche ululato di cane spaventato, qualche fruscio di uccelli cercanti il nido e il canto tranquillo dei grilli ignari. Indifferente il firmamento seguiva il suo corso. Le stelle lucenti vegliavano sui miseri mortali, uniche luci in quelle notti oscure! Quanto dureranno queste tenebre paurose? Quando tornerà l’aurora sul nostro paese?… Questi, erano i sentimenti che invadevano le persone veglianti in attesa dell’ alba che doveva sorgere triste.
E triste sorse. Tornò il sole a svelare nuovamente la cruda realtà… Passarono le prime due ore; passarono i primi giorni angosciosi, silenziosi, interrotti solo da qualche gemito e sospiro. La gente s’aggirava sempre nei prati, divenuti la loro abitazione. Muto era l’orologio sul campanile, mutissime le campane.
Rifulsero però in quei giorni mirabili eroismi di carità!… ,
Ricorreva in quei giorni la festa di S. Giacomo, Patrono della Parrocchia. Ma la scampata Chiesa era vuota, triste, squallida. Il Parroco era personalmente tanto lontano, condottovi prigioniero, insieme a parecchi altri del paese. Invano quindi si desidera donare all’ alme stanche balsamo e conforto.
Bisognava attendere e nell’attesa Ci si recava nella Chiesa per pregare: era l’unico conforto in quei giorni penosi.
Pian piano le persone tutte salve ritornarono in paese, : s’aggiustarono alla meglio nelle case rimaste illese e s’incamminarono verso il nuovo avvenire…
Ritornarono finalmente in paese anche i giovani e gli uomini fino allora nascosti nei burroni dei boschi. Avevano il volto pallido, gli occhi interrogativi!… Ma si rassegnarono, contenti nel sapersi tutti salvi…
Giunsero poi le notizie che i tedeschi si allontanavano e che i prigionieri sarebbero lasciati liberi. Si risvegliarono allora le speranze e s’incominciò a riprendere il lavoro e a raccogliere il grano maturato da tempo, al quale più nessuno aveva pensato. Nel paese provato, col passare dei giorni, si ridestava poco a poco la vita. Quando un mattino improvvisamente le campane sciolsero il loro linguaggio festoso, troppo a lungo trattenuto. Annunciavano il ritorno del Pastore, che pietoso era ritornato a curare il suo gregge dolorante.
Quel suono scese nei cuori, li risvegliò, aprì le menti alla speranza nel domani.
E ora che la tempesta s’allontanava dal paese, esultanti, tutti uniti, ripeterono al Signore: «NON CI LASCIAR SOLI, ora che il promettente mattino s’avanza!…».
(Maria Sidoli)
LA TRAGEDIA DI SIDOLO
Contemporaneamente alle vicende di Cereseto, lo stesso giorno 20 luglio, si svolgevano quelle di Sidolo, frazione del comune di Bardi, di 200 abitanti circa, situata al fianco destro del Toncino, sul costone che dal Pelpi si allontana verso il Noveglia tra un folto continuo castagneto.
La narrazione è fatta sulla scorta di testimonianze veritiere di persone che assistettero alle scene svoltesi.
Una colonna nazifascista, dopo aver stampate orme sanguigne su Strela e dintorni, piombava sul paesetto alle ore 8 del mattino di quello stesso giorno.
Anche qui gli uomini si erano dati alla macchia per paura dei tedeschi. Rimanevano in paese alcuni vecchi, le donne e i bambini, e in Canonica due Sacerdoti e un chierico: l’Arciprete D. Giuseppe Beotti, il Prevosto di Porcigatone D. Francesco Delnevo, sfuggito al rastrellamento della propria
Parrocchia e qui rifugiatosi la sera avanti, e Italo Subacchi, bardigiano, alunno del Seminario di Parma e amico di D. Giuseppe presso il quale si era ritirato per un periodo di vacanze.
La sera prima questi si erano accordati di affrontare il pericolo imminente.
D. Giuseppe aveva appena terminata la Messa, quando fu sorpreso, in Chiesa, dal Comandante tedesco che gli chiese se vi erano banditi. Alla risposta negativa, i tre Preti furono fermati, condotti fuori di Canonica e sorvegliati da due mitragliatrici. Nel frattempo il comandante e alcuni soldati compivano la perlustrazione della casa, finita la quale, senza aver trovato ombra di sospetti, vennero perquisite le persone sacre.
D. Giuseppe, con il suo naturale buon umore, levando di tasca un temperino, rivolto ai visitatori molesti, rispose: «Ecco tutte le mie armi!». .
I tre furono rilasciati completamente liberi e i tedeschi, fattisi servire una buona colazione, salirono in paese.
L’ufficiale aveva espresso la sua soddisfazione al Parroco e l’aveva assicurato di non temere… Sarebbe stato il momento buono quello di trafugarsi, onde evitare ulteriori seccature. Ma oltre il fatto di non prevedere il futuro, vi era il proposito di D. Giuseppe di rimanere al suo posto di pastore, come aveva predicato al suo popolo la domenica precedente.
«Finché ci sarà una persona in paese, io rimarrò!» Intanto i soldati, dispersi per il paese, mettevan sossopra le case e incendiavano l’abitazione del Sig. Luigi Berni, per motivi non ancor precisati (forse perché arieggiante l’inglese). .
Proprio in quell’ora Cereseto presentava anche agli spettatori lontani la sua cupa visione di fiamme. D. Giuseppe ne provò vivissimo rammarico e nel suo cuore caritatevole espresse alla sorella la sua volontà che la Canonica fosse aperta a tutti per ricevere le famiglie senza tetto.
Trascorsero le ore antimeridiane senza che nient’altro succedesse di notevole. I tre Sacerdoti conversavano familiarmente e D. Giuseppe confidava alla sorella il suo voto fatto di dare tutto ai poveri in riconoscenza al Signore per lo scampato pericolo. Invece all’una e mezza circa, un soldato armato fino ai denti, si presentava con aria sospetta alla Canonica per prelevare il Parroco e i due compagni.
D. Giuseppe parve allora intuire la gravità della situazione perché diede alla sorella uno sguardo così compassionevole, che essa se ne meravigliò. Poi come un agnello mansueto condotto al macello, seguì il soldato, tra i due confratelli, sulla strada che conduce a Dilàdelrio.
Poco dopo un gruppo di facinorosi si buttava al saccheggio della Chiesa e della Canonica, sotto gli occhi della sorella dell’Arciprete che davanti a quell’improvviso cambiamento di scena si sentì mancare le forze. In quel momento era sola in casa e dovette difendersi dalle minacce e dalle vessazioni dei soldati. Abiti, biancheria scomparvero. Anche le bussole della Chiesa furono scassate e i pochi soldi intascati o dispersi.
I tre Preti avevano consegnato il denaro che tenevano in tasca, perché fosse più al sicuro, alla sorella di D. Giuseppe e alla Sig.na Giacomina Cassani, di Bardi, presente a quei fatti. Ma anch’esse furono perquisite e derubate di ogni loro avere.
D. Giuseppe, dal luogo del suo supplizio, dovette assistere impotente all’indegna razzia cui era sottoposta la sua casa e la sua Chiesa. Si lagnò amaramente con quelle poche persone che erano di passaggio sulla strada. Avrebbe desiderato di vedere, almeno da lontano, sua sorella. Il che era impossibile, perché questa non si era ancora ristabilita dal suo malore. Un soldato le aveva offerto un po’ di cognac che invece di rianimarla l’aveva maggiormente indisposta.
I tre sacerdoti erano stati allineati lungo il muricciolo che protegge un piccolo appezzamento, di proprietà della Chiesa. Di fronte a loro, poco discosto stava appostato sulla strada un fucile mitragliatore maneggiato da un brutto ceffo che con voluttà sadica sogghignava e scherniva.
Un soldato, al momento della cattura, rivolto ai tre Pastori, si era espresso in questi termini: « Voi…in cielo… pregare per noi!…».
E quella frase, pronunciata in tale circostanza, dovette essere per i tre sacri prigionieri, la rivelazione di un misfatto atroce di cui essi erano le vittime designate.
Su quel Calvario; tra un succedersi continuo di soldati che passavano beffardamente davanti a loro, essi, vissero l’ultima ora tragica di vita, in un’angoscia spasmodica attendendo e assaporando la morte goccia a goccia…
Chi poté osservare, di lontano,la scena pietosa, afferma di aver visti i tre Sacerdoti, affratellati nella comune drammatica sorte, rasciugarsi il sudore che grondava dai loro volti contraffatti e sferzati dal calore del solleone ma ancor più dall’ala gelida della morte vicina. Il meno preoccupato appariva D. Giuseppe, che non dimostrava di temere gli orrori di una fine violenta e conservava la sua consueta serenità, quasi fosse contento di quel sacrificio che il Signore gli chiedeva.
Quali parole si saranno rivolti in quegli ultimi istanti i Ministri di Dio?
Nessuno poté raccoglierle, perché era stato vietato al chiunque di avvicinarsi. Qualcuno poté però notare, di lontano, che, ad un dato momento, essi si scambiarono pietosamente l’assoluzione e si diedero l’abbraccio fraterno…
Ma perché quell’attesa angosciosa, in quel posto, davanti all’arma fatale e agli sgherri, che si divertivano ad incutere loro terrore?
Perché quell’agonia prolungata per più di un’ora?
Tutto sarebbe spiegato dal fatto che si attendevano ordini precisi dal Comando di Bardi, dietro informazioni trasmesse. Quando gli ordini, impazientemente attesi arrivarono, l’arma scattò e spense freddamente le tre persone, sacre.
Tutto ciò senza un giudizio che avesse almeno l’ombra di un processo, senza un’accusa manifestata e senza che i tre imputati potessero avanzare il diritto di una parola in difesa della propria innocenza.
Erano le tre pomeridiane di quel triste giovedì 20 luglio. I colpi di quella raffica assordante si ripercossero duramente nel cuore della sorella che subito intuì. Ma già i tre Sacerdoti giacevano a terra in una pozza di sangue! D. Giuseppe e D. Delnevo, colpiti in parti vitali, erano immediatamente deceduti. Il Chierico Italo Subacchi invece prolungò per parecchio tempo, tra laceranti contrazioni, la sua fine prematura.
La carneficina umana non era però ancora terminata. Subito dopo questo truce misfatto, un gruppo di sei uomini del Borgotarese, assistiti quella mattina dalla carità di p. Giuseppe, e che avevano. pensato bene di arrendersi ai tedeschi perché stremati dalla fatica del viaggio, venivano ora condotti al macello da due soldati. Passarono di sotto alla Canonica, giunsero poco discosti dal Cimitero, e qui schierati, si videro spianata davanti l’arma micidiale.
Uno di essi, prevista la cattiva sorte, si diede in tempo ad una precipitosa fuga, attraverso i campi circostanti. Ripetute raffiche delle belve tedesche inferocite, lo sfiorarono, ma fortunatamente non lo raggiunsero, ed egli poté, in grazie delle sue buone gambe, trarsi in salvo. Sicché rimasero cinque le vittime su quel luogo. (*)
Nessuno poteva avvicinarsi alle salme. Anche la sorella di D. Giuseppe venne fermata, mentre la soldataglia ingorda spogliava e derubava gli uccisi di tutto quel poco valore che portavano indosso: orologi, oggetti personali.
Solo dopo qualche ora, quando i tedeschi sgombrarono il paese, alcune donne intrepide si avvicinarono e poterono chinarsi pietosamente sulle innocenti vittime, che un gesto sacrilego aveva spento per sempre. D. Giuseppe giaceva nel mezzo, con la destra portata alla fronte, nella perpetuazione del sacro segno. Un Crocifisso gli pendeva dal petto, che la sorella conserva come una reliquia assieme alla corona del Rosario. .
Le spoglie venerate, recate a braccia in Canonica, furono stese sopra un catafalco improvvisato e qui vegliate tutto il giorno e tutta la notte dalle persone buone che superando il timore di altre truppe in arrivo accorrevano a offrire il proprio tributo di venerazione e di rimpianto.
Il mattino dopo infatti altre squadre aggiungevano allo scempio già perpetrato nuovi crimini in paese e in Canonica, sottoponendo la sorella di D. Giuseppe a nuove intimidazioni, vessazioni e minacce, dalle quali essa riuscì a sottrarsi miracolosamente riparando presso la famiglia dei Signori Carpanini sfollati da Bardi a Sidolo: dalla sua casa così scompariva anche tutto quel poco di viveri che v’era rimasto.
(*) Il nome degli uccisi: Brugnoli Antonio, di anni 35; Benci Bruno di anni 43; Brugnoli Gerolamo di anni 50; Brugnoli Giovanni di anni 40; Robbio Francesco di anni 44.
Tra gli episodi incresciosi di queste bande terroristiche che compirono senza pietà e senza ritegno le loro scorribande e le loro razzie in tutta la zona, uno ve n’è che merita particolare menzione. Gli stessi che a Sidolo si erano macchiati del sangue dei Preti, poco mancò che a Casa Grassa non mietessero un numero grande di vittime. Era stato rinvenuto in un cascinale una certa quantità di munizioni di appartenenza alle formazioni partigiane. Il signor Moruzzi Giuseppe che aveva la consegna del locale, ma nulla sapeva della presenza del materiale bellico, fu posto in arresto con i suoi familiari e con tutti i presenti, uomini e donne della frazione.
Egli già vedeva inutili le sue giuste difese e ormai la prospettiva di una triste fine premeva sul cuore angosciato di quegli innocenti, quando un ufficiale s’interpose risolutamente per difendere a spada tratta gli imputati.
Le armi s’abbassarono e l’incidente fu così risolto impunemente.
Un’ultima colonna transitò nella mattinata di sabato 28 luglio, ma senza commettere delitti (forse non restava più nulla da fare!) anzi, a quanto affermano i testimoni, detestarono gli orrori dei propri compagni di armi, e si allontanarono ben presto.
Quella stessa mattina Mons. Longinotti, Vicario Foraneo di Bardi, si era portato sul posto, col consenso delle autorità germaniche di Bardi, per celebrare una Messa di suffragio ai caduti. Ma al ritorno, per tutta riconoscenza, veniva tratto in arresto e rilasciato solo al mattino seguente.
Nel giorno seguente la salma martoriata di D. Francesco Delnevo era piamente prelevata e trasportata a Porcigatone, dove la sua vecchia mamma desolata lo attendeva.
STRELA, MARTIRE DELLA VAL DITARO
(Cronaca del Sac. Don Egidio Squeri)
L’uragano di ferro e di fuoco piombò su Strela il 19 luglio 1944. Diciassette vittime innocenti caddero, fra le quali il prevosto Don Alessandro Sozzi e il Missionario Padre Umberto Bracchi. Trentacinque fra case e cascinali distrutti.
Un velo di profondo mistero copre la causa di questa terribile aggressione: «spie? vendette personali? Prigionieri di guerra tedeschi?» .
Nulla di preciso si sa, solo vaghe supposizioni o deduzioni. Le truppe, il 15 luglio 1944 iniziarono l’ assalto alla roccaforte della VaI Taro. Da Bardi; da Borgotaro, da Chiavari, si segnalavano vasti movimenti di truppe verso Bedonia. I patrioti, dopo vari giorni di vittoriosi attacchi furono costretti a ripiegare. La popolazione in preda al terrore si sforzava di mettere in salvo tutto quanto poteva. Gli uomini cercavano scampo nella campagna, sui monti, nei luoghi più nascosti assoggettandosi ai sacrifici più gravi, pur di avere salva la vita. Le notizie più allarmanti si diffondevano con rapidità sorprendente. Scene raccapriccianti, uniche nella nostra storia, inimmaginabili ad un estraneo.
Nel pomeriggio del 18 luglio un contingente di truppe, proveniente da Borgotaro, accampa presso Barbigarezza. La notizia si diffonde in un baleno. Strela è in allarme.
Gli uomini fuggono, pochi rimangono. Il Prevosto e Padre Umberto (giunto il giorno precedente dai Ghirardi di Porcigatone per perorare la causa di alcuni ostaggi di 4 Borgotaro presso Mons. Checchi) cercano di calmare e rincuorare la popolazione.
Alle ore 18 circa due soldati tedeschi raggiungono il paese. Don Alessandro li accoglie in canonica con deferenza. I due militari, un tenente e un maresciallo, osservano ogni cosa e si mostrano impassibili. Nell’accomiatarli Don Alessandro esprime loro il desiderio di raggiungere il comando: «No, no, padre, se venire uccidere subito!» dice il tenente. Padre Umberto mostra i documenti personali, redatti dai vari comandanti tedeschi: «Boni, boni, nulla fare, essere a posto!» soggiunge il tenente. Scende la notte, gli animi rimangono tesi; la calma regna foriera di burrasca.
Alle ore 6 il paese è nuovamente in allarme. Le truppe tedesche, da più direzioni, in numerose pattuglie, danno l’assalto a Strela. Dense colonne di fumo si ergono al loro passaggio, colpi di mitraglia, grida disperate si odono lontano. Don Alessandro e padre Bracchi, dopo la celebrazione della S. Messa si rendono conto della grave situazione e, in preda al terrore, non sanno quale partito prendere. «Costalta è in fiamme! uccidono!» dice Un passante di corsa: Don Alessandro si porta in canonica e, aperta la finestra della sala prospiciente Costalta, alza le mani benedicenti scoppiando in un dirotto pianto. Passano pochi istanti. Gli avvenimenti incalzano. I rumori si fanno più distinti. Si odono dei passi cadenzati, delle parole incomprensibili. Sono loro. I due sacerdoti in canonica stanno pregando. Alcuni colpi alla porta e molti militari entrano. Non fu possibile sapere il breve colloquio fra i sacerdoti e i sopraggiunti. Immediatamente i soldati iniziano la perquisizione nella casa, ne asportano gli oggetti di valore e vi appiccano il fuoco. I sacerdoti sono costretti ad uscire dalla canonica e, accompagnati da due soldati armati di fucile mitragliatore, à proseguire verso lo stradale passando davanti al cimitero. Don Umberto avanti e Don Alessandro dietro, muti, trasecolati, con le lacrime agli occhi, presaghi della fine, ubbidiscono ai loro carnefici. Fatto un centinaio di metri, oltrepassata la cinta del cimitero, un urlo bestiale li investe, si voltano e seguono le indicazioni dei due soldati di portarsi verso il muro del cimitero.
I due morituri, muti, si guardano come per darsi l’ultimo addio, danno l’ultimo sguardo alla terra pregna di odio e di sangue in una triste visione di terrore e di rovina. Si impartiscono vicendevolmente l’ultima assoluzione: gli assassini puntano l’arma micidiale. Una nutrita raffica di mitra parte immediatamente. I martiri cadono. Il loro sacrificio é consumato.
Don Alessandro, colpito alla testa, cade bocconi. Padre Umberto, colpito al petto, cade supino. L’uno e l’altro con il santo breviario in mano. I carnefici non contenti si accostano alle vittime a colpi di pistola, le finiscono, le depredano e si allontanano a consumare altri delitti: (occorre notificare che gli assassini tolsero il portafogli, l’orologio e le scarpe ai cadaveri: quest’ultime se le misero ai piedi lasciando sul posto le loro rotte); incendiano case, cascinali, stalle, danno la caccia all’uomo, rubano tutto quanto possono, deportano il bestiame. Urla, grida, pianti, colpi di fucile, si odono da ogni parte. Sei uomini (sig. Bracchi Pietro, Tamiri Giovanni, Adetti Luigi, Vineastri Luigi, Mezzetta Mauro, Dellafiora Giuseppe) trovati in casa, sono legati e trucidati in un crocicchio a duecento metri dalla chiesa. I sigg. Gazzoli Antonio e Capitelli Sergio (il primo padre di quattro bambine, il secondo ammalato rachitico dalla nascita) sono violentemente strappati dalle braccia dei loro cari e trucidati.. I sigg. Franchi Luigi e Franchi Paolo, fratelli, padri di famiglia, sono legati e orribilmente massacrati alla presenza dei loro cari. Il sig. Feci Giuseppe, padre di sei figli, dei quali uno prigioniero in Algeria, viene con forza strappato di casa e colpito alla nuca con un colpo di pistola. Il sig. Gonzaga Luigi, scoperto presso il capezzale del nonno ammalato, viene in un primo tempo lasciato libero poi catturato e ucciso con una raffica di mitra. Il sig. Dallara Rodolfo, uomo onesto e laborioso, viene chiamato da alcuni tedeschi; egli, ignaro della loro ferocia: si avvicina con un colpo alla testa lo atterrano. Il ragazzo Delgrosso Enrico di 15 anni, si trovava in un prato intento il custodire le mucche che pascolavano; un soldato tedesco lo scorge! e con una raffica di mitra gli tronca le gambe, il ragazzo si mette ad urlare, un altro tedesco si avvicina e lo finisce. Il sig. Camisa Pio viene catturato a Costalta e, a mani legate, viene costretto a seguire i suoi carnefici che gli fanno vedere tutti i cadaveri, poi viene massacrato.
Nessuno può toccare i morti senza il permesso del comando tedesco. Per tre giorni rimangono esposti al sole cocente. Nel pomeriggio del 22, elementi del battaglione S. Marco giungono in paese con il proposito di bruciare i cadaveri; le preghiere, le lacrime dei congiunti e della popolazione riescono a distoglierli dal sacrilego atto. Donne e vecchi costruiscono con rozze tavole delle casse e danno sepoltura ai martiri.
Il piccolo cimitero di Strela custodisce ora le sacre spoglie di questi martiri innocenti. Il loro sacrificio supremo esige da noi superstiti l’amore, il perdono, la concordia cristiana.
Il giorno 2 Novembre 1945 è stata collocata sul muro del cimitero una lapide marmorea a ricordo del barbaro eccidio con il nome delle vittime e la seguente dicitura:
IL 19 LUGLIO 1944
LA BARBARIE NAZI-FASCISTA
SI SFOGO’ SU STRELÀ INERME
VITTIME INNOCENTI
CADDERO
MARTIRI DELLA NUOVA ITALIA
LA POPOLAZIONE MEMORE
POSE
RIEVOCAZIONI E RICORDI
“Il Signore accolga queste vittime
preziose nel suo cospetto mentre
noi umilmente chiniamo il capo
mormorando: facti sumus sicut
oves occisionis!
Germoglino dal sangue dei nuovi
martiri fiori di pace e di vita cristiana.
Fiat! Fiat!”.
Dal Bollettino Ufficiale della Curia di Piacenza
D. GIUSEPPE BEOTTI
L’Apostolo de1la VaI Toncina
(n. a Gragnano Treb. il 26-8-1912 – m. a Sidolo di Bardi il 20-7-1944)
«Beotti D. Giuseppe, Arciprete di Sidolo, aveva 32 anni. Era stato prima Curato a Borgonovo Val Tidone. Dal 1940 era passato all’ Arcipretura di Sidolo, dove esercitava con particolare zelo la cura delle anime, dedicandosi anche con lode alla predicazione sacra in altre Parrocchie. La domenica precedente alla sua morte aveva pubblicamente fatta offerta a Dio della sua vita per la salvezza del suo popolo. A lui si può applicare con verità la sentenza di Gesù: << Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis >>.
<< Ed è questo il miglior elogio che si possa scrivere sulla sua tomba>>.
(Dal «Bollettino Ufficiale» della Curia di Piacenza – marzo 1945)
«Frange esurienti panem tuum et aegenum
vogusque induc in domun tuam!»
“Ha amato la carità così come il Vangelo l’insegna e ne ha vissuti tutti i santi ardori e gli ardimenti. Ha spezzato il pane materiale a chiunque gli stendeva la mano, così come ha spezzato il pane della parola di Dio a tutti indistintamente e senza false paure.
Pastore innocente, per la salvezza del suo popolo, affidatogli il 21-1-1940, offriva più e più volte incondizionatamente la vita, e Dio, perché pura e santa, l’accoglieva, stroncata dal cieco furore di questa guerra fratricida”.
«SPEZZA ALL’ AFFAMATO IL PANE»
II passo «Frange esurienti panem… «Spezza all’affamato il tuo pane e ai bisognosi, ai viandanti apri la tua casa», è desunto – coincidenza degna di nota – dall’Epistola della Messa di quel giorno 20 luglio, festa di S. Girolamo Emiliani, e rispecchia fedelmente la condotta ed il programma di D. Giuseppe, non solo nei suoi ultimi tratti ma anche in tutta la sua vita. Il mattino di quello stesso giorno D. Giuseppe aveva celebrata la S. Messa all’altare di S. Lucia Vergine e Martire, patrona di Sidolo e aveva certamente meditate queste parole, e offrendosi poco dopo l’occasione, le metteva in pratica letteralmente, distribuendo abbondante porzione di pane e companatico a tutti coloro che venivano a bussare alla sua porta.
La sorella aveva sottoposto agli occhi del fratello motivi di prudenza, essendo i tedeschi poco distanti, alla quale egli nella sua carità illimitata aveva risposto:
«Non hai letto l’Epistola della Messa di stamane: «Spezza il pane…» .
La madia era vuota e la sorella glielo fece notare, ma egli subito: «Vuoi che il Signore non ne tenga conto?…».
Vi erano ancora sei persone da accontentare e che si presentavano alla porta della Canonica. col viso stravolto e con i segni di una grande stanchezza. Venivano dal Borgotarese e avevano ormai deciso di arrendersi perché le gambe non reggevano più al peso di una vita randagia. Furono anch’essi ben accolti e rifocillati sulla porta esterna della Canonica, ove essi sostarono alquanto. Non erano banditi, nè disertori, ma poveri padri di famiglia, preoccupati di sfuggire alla cattura. E furono questi i sei che all’atto della presentazione vennero dai tedeschi condannati a morte assieme ai Preti.
C’è chi afferma che i tedeschi, proprio quello stesso mattino, dai monti sovrastanti il paese di Sidolo, perlustrando coi propri dispositivi la zona, notarono l’afflusso di gente alla Canonica e non dovette certamente sfuggire la sosta di questi sei sulla porta.
Si potranno fare innumerevoli supposizioni circa i motivi, tuttora ignoti, della sua morte, come questi: il battesimo degli undici Ebrei, che si erano stabiliti a Sidolo qualche mese prima, da lui pazientemente preparati; la presenza di due altri Sacerdoti in Canonica, interpretata dai tedeschi, forse, come indizio di complotto; false delazioni di qualche malintenzionato che aveva tutto l’interesse di metterlo in cattiva vista, onde salvare sè stesso, ecc…
Io ritengo però che le manifestazioni inesauribili della carità, aperta a tutti indistintamente, italiani e stranieri che si presentavano alla sua casa, siano state l’apporto più compromettente nel giudizio degli accusatori tedeschi.
Certo sì è che egli desiderava il martirio ed era pronto a dare la vita per la salvezza del suo popolo, come aveva espressamente dichiarato in predica la domenica precedente.
“Nella mia casa vi sia sempre
[‘amore fraterno”
FRATERNITATIS CHARITAS
IN DOMO MEA SEMPER
L’inverno persiste nella sua irremissibile rigidità. La neve turbina, i monti gemono sotto il peso di quel manto uniforme che li ricopre, condannando i numerosi prigionieri inglesi e russi, a menare una vita dura, esasperante, randagia. Sanno che accanto a quella Chiesetta vigila, sempre pronto ad accoglierli, un Prete – il loro «amico» – povero, ma ricco di cuore. Si accostano guardinghi, bussano leggermente alla sua porta, è che non tarda ad aprirsi, mentre tante altre rimangono serrate. Qui non manca mai un sorriso, una buona parola, e quello che più. importa, un ristoro del corpo estenuato dalla fatica e dalla prova prolungata. Sostano alquanto. L’amico rivela il suo cuore ardente, stringe la mano ai fratelli, che lo lasciano soddisfatti e si sperdono nel buio della notte…
Ma ci sono tanti. altri che non hanno il coraggio di appressarsi, forse hanno paura di essere scoperti e traditi, o forse non possono più reggersi in piedi, intirizziti dal freddo, stremati dalla fame nella capanna squallida e misera, sperduta tra i monti, lontano… Il Prete pensa e ne soffre!
La sorella, nella sua camera, è immersa nel sonno. Egli ha già preparato in un involto viveri e bevande, strappati alla propria bocca. La notte è buia, buia per chi vuol compiere un atto di carità, non per la spia che vede dovunque. Travestirsi è meglio! E parte in veste borghese… Il freddo intenso, la neve ghiacciata, le pietre sporgenti, il sentiero scabroso tentano di sbarrare il cammino all’Apostolo.
Inutilmente!… E in quel tugurio gelido e oscuro sono cuori che si rialzano e amici che si ritrovano.
D. Giuseppe ritorna raggiante, anche se la spalla duole,e il piede sanguina… E ripeterà la scena.
«E’ questo il momento di fare un po’ di carità!» soleva dire alla gente, e conversando con persone di cui poteva fidarsi gli sfuggiva di bocca il gesto di quelle notti.
Parecchi attestano di aver udito i prigionieri inglesi chiamare il Prete ‘di Sidolo « nostro amico». E mostravano nel vestito i segni di quest’amicizia!
TRIBUTO CORDIALE DI CLERO E DI POPOLO
Il 27 settembre si celebrava a Sidolo, in un clima ancora turbato, l’ufficio solenne in suffragio del defunto Arciprete, con l’intervento di tutti i Sacerdoti del Vicariato e di tutto il popolo, accorso a tributare un commovente omaggio di venerazione e di rimpianto all’indimenticabile Pastore.
La presenza del Professor Giovanni, (John Balledany) come rappresentante “degli ex prigionieri inglesi assistiti da D. Giuseppe, signifIcava la riconoscenza di questi verso l’ «Amico» scomparso.
Sulla tomba che racchiudeva la salma venerata, Mons. Longinotti, Vicario di Bardi, pronunciò l’elogio funebre dell’ estinto, sintetizzandone la vita in quelle parole- scritturali: « Simplex et rectus ac timens Deum…». «Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus ‘suis!.».
* * *
Il suo corpo ora riposa in pace nell’avello cosparso di lacrime, di fiori e di preci…
Egli sopravvive nella mente di tutti come una figura di primo piano nel quadro dell’immane tragedia che difficilmente si scorderà.
Il popolo per il quale offerse la vita, ha intenzione di erigergli un monumento nel luogo del suo olocausto. Ma un monumento egli si è già eretto in ogni cuore che non bussò mai invano alla sua porta.
Chierico ITALO SUBACCHI
Alunno del Seminario di Parma
(nato a Bardi il 30-11-1921 morto a Sidolo il 20-7-1944)
ALUNNO DEL II CORSO TEOLOGICO
NEL SEMINARIO VESCOVILE DI PARMA
GIOVANE DI APERTA INTELLIGENZA
E DI GRANDE SENSO PRATICO
E SOPRATTUTTO DI SQUISITA
BONTA’ DI CUORE
NELLA SUA ASCESA GIOIOSA
VERSO L’ ALTARE FU STRONCATO DAL CIECO FURORE NEMICO
MORI’
PERDONANDO E SORRIDENDO
E VOLO’ AL CIELO
VITTIMA INNOCENTE
A CELEBRARE CON L’ AGNELLO IMMACOLATO
LA PRIMA ETERNA MESSA
20 LUGLIO 1944
* * *
Viva il ricordo della sua dolce figura in questa terra che lo vide fanciullo e ne raccolse il sangue generoso.
Resti l’esempio della sua vita come luce ai compagni di
studio e a tutta la gioventù cristiana.
Valga il suo sacrificio a ottenere all’amato paese e a tutta la nazione una rinnovellata era di virtù cristiane e civiche.
Parte Seconda
D. FRANCESCO DELNEVO
Prevosto di Porcigatone
Delnevo D. Francesco era in età di 56 anni e da un ventennio reggeva la Parrocchia di Porcigatone, dopo essere stato sette anni Curato a Pontenure. Avveduto ed esperto avèva assai migliorato lo stato della sua Parrocchia, procurandole anche recentemente vantaggi di privilegio. Per caso si trovava a Sidolo, dove lo sorprese la tragica fine».
(Dal «Bollettino Ufficiale» della Curia
Vescovile di Piacenza – Marzo 1945)
D. ALESSANDRO SOZZI
Prevosto di Strela
(nato a Bedonia nel 1886 – morto a Strela il 19-6-1944)
Sozzi D. Alessandro, cinquantottenne. Ordinato Sacerdote nel 1909 fu dapprima Curato a Gusaliggio Valmozzola per due anni, quindi Parroco a Casaleto di Bedonia. Dal 1916 era Prevosto di Strela, dove lascia a ricordo opere di zelo a cui sempre attese con spirito veramente sacerdotale, ammirato da quanti lo conobbero».
(D:ll «Bollettino Ufficiale» della Curia
Vescovile di Piacenza – Marzo 1945)
Il 23 aprile 1945, nella Chiesa provvisoria. eretta dall’Estinto, si celebrò solennemente. l’Ufficio funebre, presente tutto il Clero del Vicariato, con larga rappresentanza del Seminario di Bedonia, e tutto il popolo di Strela.
Mons. Giulio Biggi, Rettore del Seminario, pronuncio’ tra la piu’ viva commozione degli astanti, l’elogio del defunto.
«Il Divin Maestro un giorno che si era visto osteggiato con diabolica malizia e con feroce ostinazione, sapendo che lo volevano uccidere, poté sfidare a fronte alta i suoi altezzosi avversari e redaguirli con queste parole:« Propter quod opus bonum vultis me lapidare?»- lo non ho compiuto un mezzo a voi altro che opere di, bene. Qual’è quell’opera buona per la quale mi cercate a morte?,
E’ un’ episodio assai saliente del S. Vangelo. Mi venne alla mente con insistenza quando in questi giorni io riandava la vita del caro D. Alessandro, a cui abbiamo testè tributato un doveroso suffragio. E mi sono domandato più volte, e mi domando ancora: – Qual’é l’opera buona per cui fu così tragicamente involato al nostro affetto, all’affetto dei suoi Parrocchiani e dei suoi familiari, il buon D. Alessandro, Prevosto di Strela? – Sarei quasi tentato di applicare alla sua memoria intemerata, le parole che N.S. pronunciò all’indirizzo dell’apostolo S. Bartolomeo: Ecce vir bonus in quo dolus non est!… Egli era l’uomo e il sacerdote veramente buono, tanto che invano si sarebbe cercato di trovare in Lui ombra di dolo.
L’Oratore scende quindi a tracciare il quadro di D. Alessandro giovinetto, che risponde volenterosamente alla divina chiamata nel Seminario di Bedonia, all’ombra della Madonna di S. Marco: le carte dell’Istituto testimoniano i suoi profitti negli studi, la sua pietà profonda e la sua lodevole condotta. Accennato poi all’apostolato fecondo di Lui a Valmozzola come Curato e a Casaleto come Parroco, delinea la vasta attività dello zelo di D. Alessandro a Strela di cui fu eletto: Pastore nel 1916, rimanendovi fino alla sua tragica morte: Ventotto anni di Ministero Sacerdotale durante i quali D. Alessandro profuse largamente i suoi doni del proprio cuore e della propria intelligenza, aperta come ai bisogni spirituali così anche a quelli materiali del suo gregge.
Nel piano spirituale: In omnibus laboravit ut ministerium suum diligenter impleret… vigilavit die ac nocte super gregem suum!… Si. adoperò in tutti i modi all’adempimento dei doveri sacerdotali: dalla predicazione e istruzione religiosa con frequenti Missioni al popolo, alla confessione e direzione delle anime. E vegliò giorno e notte, come il Buon Pastore preoccupato della salvezza del suo gregge…
E’ a tutti noto quanto egli si sia adoperato per provvedere Strela di una nuova Chiesa di cui sentiva l’urgente necessità. .
Nel campo materiale, che Egli intese come un dovere integrativo del primo e che svolse sempre con l’unico intento di fare del bene ai suoi Parrocchiani tutti sanno dei suoi viaggi per illuminare le autorità sulla situazione del paese. Non sempre, è vero, ebbero felice esito i suoi sforzi, ma «Ut desint vires, bonus est laudari voluntas! Importanti opere però rimarranno in Strela a testimoniare l’attività e la tenacia di Lui, come la strada Compiano Strela, l’impianto delle fontane in paese, l’Ufficio Postale la succursale del Consorzio Agrario: Chi non conosce poi la sua indefessa opera, riconosciuta anche pubblicamente per l’incremento dell’ Agricoltura in parrocchia, tanto da divenire un apostolo anche in questo campo?
«Cor suum dedit in consummationem operum! passo facendo del bene con mirabile generosità, con edificante disinteresse. Per quale di queste opere buone é stato soppresso? La furia cieca é passata su Strela e mentre il nostro pensiero si porta al nostro carissimo amico, non vogliamo dimenticare quel santo Sacerdote che cadde vittima al fianco di D. Alessandro, e insieme con i due Sacerdoti vogliamo unire il ricordo di altre buone persone tutte travolte dalla medesima bufera nella medesima sorte…
Se il granello di frumento non scende nella terra e non si consuma, resta solo: ma se il granello vien sacrificato non manca di dare la spiga!
Che il buon Gesu’ si degni di valorizzare il sacrificio dell’indimenticabile D. Alessandro e in virtù di questo sacrificio benedire la Parrocchia…
Egli sarebbe molto felice se avesse potuto erigere la Chiesa, come la desiderava Lui nel suo ardente zelo. Ma se il Signore ha accettato la sua immolazione, non mancherà di fecondare con la sua grazia cio’ che il suo ministro ha seminato. E allora vedremo presto cadere le difficoltà e spianarsi la via alla realizzazione del grande urgente progetto» .
L’oratore concludeva invitando il popolo al ricordo riconoscente del proprio Pastore e a raccogliere devotamente l’eredità spirituale, formulata nel proposito di fedeltà indiscussa alle gloriose tradizioni cristiane e cattoliche e di unione compatta, da Lui sospirata e invocata, nell’unico ideale: quello religioso.
Padre UMBERTO BRACCHI
Prete della Missione
(nato a Borgotaro il 16-6-1897 – morto a Strela il 19-7-1944)
Bracchi D. Umberto di anni 47, nativo di Borgo Vai di Taro, entrò da giovane nella Congregazione dei Preti, della Missione e come tale passò in varie Diocesi esercitandovi specialmente il ministero della predicazione. Per più anni fu di residenza a Piacenza e sono numerose le nostre Parrocchie che ne udirono la parola apostolica, sempre dotta e insieme popolare, fluida ed efficace. Le missioni da lui predicate lasciavano lungo ricordo e riforma di costumi.
Egli si trovava occasionalmente a Strela e ivi lo colse
l’incidente fatale».
(Dal «Bollettino Ufficiale» della Curia Vescovile di Piacenza – 5 Marzo 1947)
DI SE’ IL SERVO L’APOSTOLO L’IMITATORE DI CRISTO
SCOMPARENDO AL MONDO DEGLI EGOISMI DELLE VANITA’
PER SALIRE L’ERTA VIA
DELLA RINUNCIA DELLA MORTIFICAZIONE DEL SACRIFICIO
OSSIA DELLA CROCE
FU ELEZIONE NORMA PRATICA DI VITA
DEL
PADRE UMBERTO
L’INCESSANTE INFATICABILE PRODIGIOSA ATTIVITA’
NELLA PREDIGAZIONE NELLE OPERE MISSIONARIE TUTTE
PRODIGATE PER OLTRE VENTI ANNI
DA UN CAPO ALL’ALTRO D’ITALIA
COLLA BONTA’ E LA DOLCEZZA DEL SANTO
CORONO’ COL MARTIRIO
SPESSO DA LUI INVOCATO
PER PROPIZIARE ALLA MISERA UMANITA’ ERRANTE
IL DIVINO PERDONO
PER CONSACRARE COLLA EFFUSIONE DEL PROPRIO SANGUE
L’ETERNA SUA FEDELTA’
ALL’IDEALE E ALLA MISSIONE
DELLA SUA VITA IMMOLARSI OGNI GIORNO E INTERAMENTE
SENZA SEGNI DI STANCHEZZA
MA COL SORRISO SULLE LABBRA
PER L’AMORE PER IL BENE PER LA SALVEZZA
DELLE ANIME
ARALDO DI PACE E VITTIMA DI CARITA’
5 giugno 1944. Numerosi caccia bombardieri alleati, di buon mattino, hanno sganciato il proprio carico poderoso su Borgotaro, patria di P. Umberto. Tutti i dintorni, e anche Cereseto, dove Egli si trovava a predicare, sussultarono alle forti denotazioni degli esplosivi. Il suo cuore ardente, pur soffrendo di dover troncare a metà una missione del popolo, non può resistere: un dovere più alto e più urgente richiama la sua presenza nel paese natio duramente colpito. Parte a piedi, bruciando le tappe, in soccorso delle vittime. Da allora il suo zelo non cessa di prodigarsi in ogni modo. I giorni si fanno sempre più cruciali, gli eventi precipitano, le minacce delle indiavolate SS. tedesche premono da ogni parte, ma egli non pensa a nascondersi, e rimane sulla breccia a perorare, riconciliare, salvare.
Il 15 luglio forze armate tedesche giungono nella borgata, costringendo alla fuga i Partigiani e quanti avevano cara la vita, e bloccano tutte le strade. La popolazione allarmata, si rintana nelle case per sfuggire alle efferatezze dell’invasore, ben note al pubblico. Correvano per aria ordini perentori di vendetta ad oltranza, per impedire i quali l’Arciprete Monsignor Boiardi, ora Vescovo di Apuania, si offrì a far da paciere e mosse incontro al nemico, sventolando bandiera bianca. Il suo coraggio riuscì a concludere un compromesso che avrebbe dovuto significare la rinuncia da parte dei tedeschi ad ogni atto di rappresaglia nei confronti sia dei civili che dei partigiani ritiratisi sulle montagne vicine.
Ma la pace durò poche ore. Il mattino dopo infatti, festa della Madonna del Carmine, Patrona della parrocchia, i tedeschi coglievano di sorpresa i fedeli che si recavano a messa e arrestavano 54 uomini, fra cui lo stesso Arciprete e il suo coadiutore D. Sacchi. Rinchiusi come ostaggi nell’Albergo Roma, vigilato da ogni parte dalle sentinelle, essi dovevano servire allo scambio con altrettanti soldati germanici fatti prigionieri dai partigiani. Sui poveri ostaggi pendeva la minaccia di fucilazione entro 48 ore.
Numerose famiglie gemevano sotto l’incubo dell’ultimatum dato ai Partigiani, scaduto il quale l’esecuzione sarebbe stata eseguita.
Il pronto intervento di P. Umberto salvò la situazione. Egli si trovava in questo frattempo in campagna, ospite del Dott. Marchini, assieme al quale profondeva la sua opera di assistenza in favore degli sfollati. Venuto a conoscenza del grave pericolo che incombeva sui suoi concittadini, mise in moto tutte le proprie energie di corpo e di volontà, e a passi veloci raggiunse il Comando dei Partigiani, con i quali riuscì a concludere un accordo di restituzione dei prigionieri.
Il 18, P. Bracchi, da Strela trasmetteva al Comando tedesco la notizia, in seguito alla quale i prigionieri erano liberati. Ma proprio qui a Strela, dove egli aveva sostato, forse per incoraggiare l’amico D. Alessandro, doveva rimanere vittima della sua carità!
Dai suoi scritti si rileva: «Dobbiamo essere fermamente persuasi che nulla, proprio nulla, ci unisce maggiormente a Dio di ciò che più ci distacca da noi medesimi».
«La perfezione è il premio delle lotte segrete e silenziose che ci sostengono nel profondo dell’anima, sotto il solo sguardo di Dio, e nessuno va dietro a Nostro Signore se non è deciso a farsi violenza con generosità».
«Ah! l’energia, la volontà, la generosità, la costanza, ecco il segreto che dobbiamo continuamente tenere in attività» .
«Qualunque cosa mi costi, o Gesù mio, sarò oggi sempre Ostia con Te e come Te rinnegandomi per compiere ciò che manca a quella divina passione da cui solo dipende la nostra e la salute di tanti nostri cari».
«Gesù ti chiedo tre cose:
L’umiltà per piacerti.
La purezza per amarti.
Il sacrificio per immolarmi nel compimento diuturno del mio dovere».
«EVANGELIZZARE PAUPERIBUS MlSIT ME…»
«Viene Padre Bracchi?».
E se la risposta era affermativa, un’attesa impaziente, un desiderio vivissimo di ascoltarlo s’impossessava del popolo che poteva avere il privilegio di una sua Missione.
L’incontro era elettrizzante, l’effetto vasto, immediato. Vibrava la sua voce e la sua anima e fremevano i cuori anche dei più restii. E l’eco della sua parola, solenne, travolgente come le acque di un fiume d’alta montagna, non si sperdeva facilmente. Come non si sperde l’eco armonioso delle sue Canzoni, risonanti nei templi come le onde maestose del mare: «Regina della Pace, Regina dell’Amor!…»
Chi la scorderà?
Sui pergami famosi d’Italia, come sui pulpiti modesti di Montagna, la sua parola dotta e chiara s’incideva negli animi come gli sbalzi geniali sul marmo di un artista provetto. Soleva dire che sul suo groppone gravava il carico di oltre duecento Missioni.
Perciò il popolo rimpiange in lui un Missionario esperto, un Padre amato, e la Chiesa un valido banditore del suo Messaggio divino.
Poco tempo prima della sua morte, era stato a Cereseto in occasione della Festa della Madonna di Lourdes (la Domenica di giugno) e in una predica dal titolo suggestivo: «La bancarotta degli increduli» aveva affermato in questi termini le sue convinzioni: «I nemici di Dio e della Chiesa, i negatori dei valori dello spirito, potranno spiccare dal tronco la mia testa, ma non potranno toccare l’anima!».
Il suo capo non spiccato, ma crivellato di ferite, si erge tuttora, fiero della sua fede e del suo martirio!
Morì – così si dice – con le braccia distese, come quando predicava. Se ciò è vero, il quadro, sotto quel .cielo plumbeo cosparso di odio e di furore, non poteva essere che quello di una croce innalzata sul Calvario.
Era il 19 luglio, festa di S. Vincenzo, suo padre e fondatore. Credo che egli sia stato orgoglioso di questa felice coincidenza!
LA VICENDA DI COMPIANO
Di tutta la Vallata del Taro, il Comune di Compiano è stato certamente quello più duramente provato nel rastrellamento del luglio 1944.
Perché sopra il piccolo Comune ebbe a scatenarsi la più terribile bufera di questo tempo?
Il popolino incolpa le spie. Noi non possiamo credere a tanta malvagità.
Ci sembra piuttosto necessario rilevare che a Compiano si era stabilito il Comando dei Patrioti fin dal giugno antecedente. Attacchi tra partigiani e tedeschi si susseguirono alla Manubiola prima, al Passo del Bratello e al Passo del Bocco poi. Da questi combattimenti giunse a Compiano un considerevole numero di prigionieri tedeschi, tra cui un Capitano, prigionieri che assieme ai feriti furono rinchiusi nel Ricovero di Compiano.
Sta di fatto che alcuni Patrioti, allo scopo di avere informazioni dal Capitano tedesco lo sottoposero ad uno stringente interrogatorio. Di qui poi i prigionieri, compreso il Capitano, furono portati a Cavignaga e rimasero a Compiano soltanto i feriti.
Il Comando dei Patrioti abbandonò Compiano il giorno 15 luglio sera, e si trasferì nella località Begarelli sopra.
E’ troppo naturale che quest’ultimo, non appena raggiunse a Borgotaro le truppe germaniche addette al rastrellamento della zona, abbia reso noto che Compiano era la sede del Comando dei Patrioti, oltre che ad altre maligne informazioni.
Questo sembra il motivo per cui l’eccidio di Compiano sorpassò in barbarie e ferocia tutti quelli della Vallata.
Tale apprezzamento ora è generalmente diffuso tra coloro che vogliono risalire alle cause delle vicende tragiche che travagliarono la zona.
Nel frattempo i feriti tedeschi degenti nel Ricovero, venuti a mancare dei viveri necessari, erano fatti segno ad una carità e assistenza generosa da parte della popolazione rimasta presente. Di fronte a tale manifestazione umanitaria, un soldato austriaco assicurava che egli si sarebbe subito interessato presso il Comandante delle truppe in arrivo perché prendesse in suo favore il paese.
La pattuglia germanica invece, al suo apparire il mattino del 18 luglio, non dimostrò di prender atto di quella manifestazione poiché rivelò subito i suoi intenti malvagi con saccheggi, devastazioni, gesti terroristici e razzie di uomini e di cose. .
La sera dello stesso giorno 18 luglio, giungeva il grosso delle truppe, che si scaglionarono lungo la strada Borgotaro-Bedonia. Il rastrellamento s’iniziava all’alba del 19 luglio.
Uomini, Preti, e anche donne, vennero tradotti come ostaggi in Seminario a Bedonia, ove rimasero custoditi per molti giorni. Di essi, alcuni furono poi rilasciati, e altri deportati in Germania.
Primo a cadere vittima in questo rastrellamento fu Ponzini Andrea, di anni 36, abitante nella parrocchia di Barbigarezza. Dopo avergli incendiato casa e cascina, i tedeschi lo trascinarono in un canale vicino e qui lo trucidarono a bruciapelo. Lascia la moglie Belli Elena con tre figli in tenera età.
Seguirono poi altre vittime.
Camisa Pio, abitante a Ponte Isola di Compiano, di anni 45. Si era trasferito provvisoriamente a Strela con tutta la famiglia, e là trovava la morte. Gli sopravvive la moglie Rapizzati Maria con due figli.
Giovanazzi Lino, d’anni 19, il fratello Mario, di 15 anni, e lo zio Giovannazzi Giuseppe, insieme col giovane Mezzetta Silvio, di anni 27, che si erano rifugiati nel fitto di una boscaglia che trovasi nel Rio dei Bertoli, ad un chilometro circa da Compiano, sorpresi da soldati, furono spietatamente freddati nei propri nascondigli.
Tamiri Giovanni, di anni 39, con il cognato Adetti Luigi di anni 28, e Mezetta Mauro di Giuseppe, di anni 17, si erano rifugiati presso una famiglia a Costalta di Strela. Tratti fuori di casa dai tedeschi sopraggiunti, vennero fucilati a trecento metri di distanza. Il Tamiri ha la moglie Mezzetta Vilma e un figlio, e l’Addetti pure la moglie Mezzeta Romilda con un figlio.
Gonzaga Luigi di Enrico, di anni 39, aveva riparato a Strela presso lo suocero. Trascinato fuori di casa, fu anche egli sottoposto alla fucilazione. Lascia la moglie Rossi Ida con due piccole bimbe.
I due fratelli Rapetti Giovanni, di anni 52, e Rapetti Pio, di anni 41, unitamente al cugino Gonzaga Eliseo, di anni 37, si erano portati a Cereseto, presso la sorella. Catturati dai tedeschi la mattina del 20 luglio, trovarono la morte improvvisa sul luogo.
Rapetti Giovanni abbandona con due figli; Rapetti Pio, la moglie Rivalta Metilde moglie Previ Adele e due figli; Gonzaga Eliseo, la moglie colo bimbo.
Impossibile descrivere lo stato d’animo della popolazione di Compiano in quei giorni, tra il terrore opprimente dei tedeschi in casa e l’incubo soffocante delle notizie che trapelavano dal di fuori. Al disopra di tutto ciò, il pianto strozzato e mal represso delle madri e delle spose, per le quali la notizia ferale era certa, fu inasprito maggiormente dall’atteggiamento inumano dei soldati, che invece di condividere il loro strazio irridevano e schernivano, gozzovigliando e tripudiando sulle spoglie degli uccisi.
Compiano ebbe in questo solo rastrellamento 12 caduti: tutte vittime innocenti.
Alcune famiglie rimasero gravate da più di un lutto!
Il contributo di sangue che esso apportò alla causa di liberazione, è stato abbondante.
Un Compianese
BEDONIA SCAMPATA ALL’ECCIDIO
«I primi di luglio (1944) aveva inizio con puntate di assaggio il grande rastrellamento concentrico dell’estate. Venerdì 7 luglio formazioni nemiche si spingevano fino al Passo del Bocco e trovavano quivi resistenza per opera della squadra comandata da Fortunin (Serventi Fortunato da Chiesola, Bedonia, caduto) del distaccamento Bill e di una squadra di Beretta subendo alcune perdite. Sabato 8 luglio verso le l0 veniva segnalato che una colonna tedesca partita da Pontremoli puntava attraverso i monti su Borgotaro. Il distaccamento Bill dietro richiesta del comandante Dragotte si spostava nei pressi di S. Vincenzo dove prendeva contatto con una squadra di Beretta e di Dragotte destinate all’operazione.
Verso le 16 e l0 era avvistata una colonna appiedata di un centinaio di uomini che scendeva in direzione della stazione ferroviaria di Borgotaro. Alle 17 detta colonna assalita da più parti dai patrioti delle tre formazioni si ritirava nell’abitato di Grifola. Quivi i tedeschi si difendevano con accanimento finché, presi alle spalle da una squadra composta in prevalenza da uomini del distaccamento di Bill, e morto il capitano che li comandava, si sbandavano. Verso le 22 e 30 poteva dirsi terminato. Perdite nostre un ferito, mentre una ventina di tedeschi rimanevano sul terreno e una trentina di prigionieri…
Il lunedì successivo reparti partiti da Chiavari raggiungevano il Passo del Bocco ed una avanguardia appiedata di oltre 200 uomini, raggiunta S. Maria del Taro si apprestava a proseguire per Bedonia.
Il presidio nostro di Santa Maria del Taro impossibilitato, data la notevole inferiorità di uomini e di mezzi, a resistere si era ritirato fin verso l’abitato di Pelosa. Quivi giungevano pure il distaccamento Bill e l’ottava squadra Berretta comandata da Nino.
Si dispose per l’imboscata. Al mattino del giorno successivo, le vedette segnalavano che la colonna procedeva sullo stradale in direzione di Pelosa. Il nemico cadde nell’imboscata. Dopo un combattimento di tre ore, l’attacco a bombe a mano condotto con decisione, sgominava interamente l’avversario. Sul campo rimanevano un’ottantina di morti nemici, 75 erano i prigionieri più i feriti i quali furono ricoverati e assistiti in alcuni locali del Seminario di Bedonia adibiti all’uopo. Il bottino era ingente: sei mitragliatori Mauser, mitra, pistole mitragliatrici, un’ottantina di fucili, munizioni, bombe a mano, ecc… Il distaccamento subì tre morti e un ferito…
Il giorno successivo nuove unità raggiungevano Pelosa. Il distaccamento schierato sulla costa dell’osservatorio di Alpe, manteneva per tre giorni la posizione insostenibile.
Con ordine si attuava l’operazione di sganciamento verso l’alta Val Ceno.
Le truppe nazi-fasciste forzate le entrate della Val Taro, ne occuparono in forza i punti strategici predisponendosi per il rastrellamento duro e serrato. Le rappresaglie contro i civili furono assai gravi e questo fu uno dei rastrellamenti più sanguinosi e distruttori che siano stati fatti in Italia. Parecchie diecine di civili inermi di ogni età furono fucilati. Parecchi paesi andarono completamente distrutti dal fuoco (Strepeto, Setterone, Bruschi, ecc…), altri furono ripetutamente cannoneggiati (tra cui Alpe, già antecedentemente incendiato). Circa 500 capi di bestiame furono asportati.
Le rappresaglie sarebbero state certamente molto più gravi, specie contro il centro di Bedonia, senza il paterno, coraggioso e intelligente intervento di Mons. Paolo Checchi, Arciprete di Bedonia, cui spetta il merito di avere, in più riprese, salvate le sorti della popolazione e delle cose».
(Dal libro «QUELLI DEL PENNA» di Carlo Squeri – Bedonia
ALL’OMBRA DEL PIZZO D’OCA
Triste odissea di un prete.
A Pietrarada, piccolo paese nel Bardigiano, disseminato lungo il declivio accidentato e franoso del Barigazzo, all’ombra del Pizzo D’Oca, suo prolungamento naturale, il sistema di rappresaglia nazista se parve cambiar rotta, in quanto non si imbrattò di sangue, come altrove, non fu esente da quell’impronta incivile e inumana, non priva d’altronde di originalità, che caratterizza ovunque il passaggio di tal gente.
D. Giovanni Ceriati, che da parecchi anni profonde il suo zelo in quella località, ne sa qualcosa. Egli non vorrebbe richiamarsi le scene subite. Sono io a costringerlo e a rimetterlo sulla strada dei ricordi. Ed egli racconta: «I tedeschi arrivarono a Pietrarada il 21 luglio 1944, provenienti da Sidolo. lo mi trovavo in Chiesa a recitare l’Ufficio. Non appena il Maggiore che li comandava mi scorse, intimò: «Nix pregare!» e accompagnò le parole con un gesto che voleva dire: «Togliti di qui!». Occupata la Canonica dai soldati, vengo sottoposto ad un incalzante interrogatorio, rimpinzato di domande insidiose:
«Dove sono i partigiani,… Dove sono le armi?…».
Capisco che l’intento dei giudici è di cogliermi in fallo.
Rispondo franco, ben sicuro del fatto mio. Il Maggiore mi annuncia fra l’altro che a Sidolo ha già ucciso tre Preti e due altri a Strela e che pure a me sarebbe toccata la medesima sorte.
Terminato l’interrogatorio senza che io ne potessi afferrare la conclusione, tutti si misero a gozzovigliare, facendo scempio di tutto quello che si trovava in Canonica, compreso, ben s’intende, il pollaio. A sera, ubriachi fradici, mi invitano a mensa con loro. M’accorgo di essere divenuto il loro trastullo. Il Maggiore infatti mi tiene al suo fianco divertendosi, di quando in quando, a serrare la mia testa tra le sue braccia poderose, costretta così a subirsi tutti i colpi sonori della sua mano nocchieruta. Un altro ufficiale tien desta l’allegra brigata balzando in piedi sulla tavola, con aria da ciarlatano e buffone provetto, dà di piglio alla candela che illumina la stanza e con essa traccia per l’aria segni indefinibili e pronuncia frasi in un gergo, che io non riesco a comprendere, tra gli applausi e le risate omeriche della sua degna comitiva. Tutto questo sarebbe stato nulla per me. Sennonché ad un dato momento mi si volle costringere – pistola puntata alla tempia – a bere, uno dietro l’altro, ben dodici bicchieri di vino (e pensare che sono astemio!). Grazia volle che il vino non provocasse quell’effetto che temevo, e alla fine di una simile operazione, per me così ripugnante, trovai ancora la bussola a posto.
Pernottarono parte in Canonica e parte in Chiesa, e notai profanazioni tali che la bocca non osa rivelare. Anche i sacri paramenti servirono da letto; anche il Tabernacolo fu scassato e buttato all’aria…
Speravo il mattino seguente – come mi era stato promesso – di poter celebrare.
Invece mi fu posto tra le mani un bastone e mi consegnarono una quantità di armenti, pecore e bovini, più di un centinaio, razziati in paese e nei dintorni, ordinandomi di guidarli a quella destinazione che essi mi avrebbero indicata.
Fui costretto a fare di necessità virtù! Ma c’era un guaio: il Ceno da attraversare.
I tedeschi trovarono il mezzo, per il povero Pastore invece non c’era differenza dalle bestie, e bisognò accingersi ad una manovra tutt’altro che facile per sospingere verso l’opposta sponda gli indocili animali… dopo di che, anche per me fu libero il passaggio attraverso l’acqua che mi dava alla cintola.
Guadato il torrente, si sostò sulla strada, presso la casa del Mutilato. Ne approfitto per chiedere un interrogatorio al Comando superiore. Mi viene concesso. Ma con mia sorpresa mi trovo di nuovo alla presenza del Maggiore incontrato in Canonica, il quale, non appena mi vede, incomincia a inveire e a sghignazzare, m’ingiunge di scostarmi alquanto, e poi mettendomi sull’attenti, vocia come un ossesso: «Paura della morte?.. Ora kapùt!» e riversa a bruciapelo una scarica di pistola automatica che mi sfiorò la testa. Non so quel che passò in me in quel momento: brividi, spavento, gli orrori della morte!… Mi sentii venir meno e piegai a terra. Non del tutto destituito dei sensi, potei ancora percepire un’altra raffica assordante che mi ferì leggermente in una coscia. Si vede che l’intenzione di uccidermi proprio non l’aveva, ma solo voleva mettere alla prova il mio coraggio. Non appena mi riebbi da quel naturale tramortimento, m’intima di rialzarmi e di non zoppicare, sotto minaccia di quel solito «kapùt! ». Mi venne nuovamente assegnato il mio posto in mezzo alla mandria, con obbligo di tenerla d’occhio tutto il giorno e tutta la notte. C’è un sole bruciante? Piove a dirotto? Non importa: è giocoforza fare il pastore e curare le bestie, che per i tedeschi contan più che l’uomo… li giorno seguente si riparte, sempre digiuni (chi si preoccupa di un povero prigioniero?). La gamba mi duole per la ferita riportata e il sangue scorre giù per le vesti. Taccio della fatica durata nel rincorrere il gregge singolare (beato lui che non si rendeva conto del trattamento cui era sottoposto!) il quale, sentendosi fuori del proprio ovile e lontano dal proprio ambiente, stentava a tirar diritto e dimenticava frequentemente i margini della strada per sbandarsi a destra e a sinistra, ovunque scorgeva un fascio d’erba. E bisognava ricondurle in squadra, altrimenti c’erano le armi spianate delle guardie tedesche!
Estenuato dalla fatica, dal digiuno e dal bruciore del solleone, costretto a digerirmi gli insulti, i motteggi villani, degli aguzzini di scorta, giunsi dopo tre giorni a Vianino, dove dovetti pernottare in una stalla. Proprio qui si presentava l’occasione di svolgere il mio ministero sacerdotale poiché vi si trovava degente una donna gravemente inferma. Furono due ufficiali tedeschi, cattolici, che richiesero la mia assistenza religiosa verso quella povera donna, che in quel luogo, fra due mucche, mi richiamava lo squallore della grotta di Betlem. Ma nemmeno questa soddisfazione fu permessa a me e alla donna, perché un altro ufficiale sopraggiunto, s’interpose bruscamente a impedire un atto di umana e cristiana carità.
Il mattino dopo si riprese il viaggio. La mia situazione di guardiano di buoi e di pecore commosse alle lacrime la popolazione di Varano Melegari, e di essa si rese interprete il buon parroco del luogo, il quale, non appena mi intravide dalla finestra della sua stanza, dov’era costretto dai tedeschi a domicilio coatto, m’inviò prontamente, a mezzo della sua mamma, una berretta per difendermi dalla calura, una coperta per ripararmi nella notte, viveri e bevande, nonché un buon numero di sigarette che condivisi subito con i civili prigionieri che assieme a me dovevano attendere al poco simpatico mestiere. Un’altra notte a Varano, al chiaro di luna…
Il giorno 23 luglio si giunse a Rubbiano, meta del nostro pellegrinaggio. La missione era finita e mi vidi finalmente liberato da quella mandria innumerevole che aveva messo così a dura prova la mia pazienza. Ma quale altra sorte mi attendeva? Fui condotto nel campo di concentramento, ivi situato. Trovai dei miei colleghi che attendevano l’esito della loro cattura, tra i quali D. Giovanni Maggi e il venerando D. Remigio Conti, settantenne, prelevati in Val d’Arda.
La sera dello stesso giorno, mentre inquadrati si attendeva qualche nuovo ordine di partenza per ignota destinazione, un ufficiale che fungeva da interprete presso il Comando tedesco della zona, ci trasmise la notizia di liberazione, rimandandoci però al Vescovo di Parma. Qui fummo ospitati cordialmente dai Superiori del Seminario, ma ben presto passammo sotto la responsabilità del nostro Vescovo a Piacenza.
Dopo venti giorni potemmo finalmente ritornare in sede».
Parte Terza
TRAGEDIA CHE SI RINNOVA
Il rastrellamento del luglio aveva ottenuto tutto l’effetto contrario da quello concepito dai nazifascisti.
Le nostre montagne si ripopolarono maggiormente di giovani, disposti a rischiare la pelle piuttosto che rispondere al bando di leva. Lo spirito battagliero, misto al sentimento di vendetta per tante vittime fatte dal nemico, rinserrò di nuovo e più accanitamente le file dei Patrioti, decisi a sventare con le armi e con il sabotaggio le insidie tedesche.
Non c’era balza o bosco che non celasse qualche squadra o distaccamento di Partigiani. Le raffiche frequenti di mitra o di sten, e il fragoroso scoppio delle bombe a mano, erano il loro grido e il loro segnale.
Il nome dei principali Capi patrioti ritornava a risuonare nelle valli silenziose e deserte, e le staffette, celeri come folgori, continuavano a compiere il proprio ufficio di riferenza e collegamento tra le varie Brigate.
Nella Val Ceno si era ricostituita la Brigata Garibaldi, la quale, dopo il primo rastrellamento, si distinse nella 12a Brigata, al comando di Dario, e nella 31 a Brigata al comando di Pablo (Conte Giacomo Dicollalanza). Quest’ultimo rimasto – come tutti sanno – vittima di una feroce imboscata al C. U; Parmense a Bosco di Corniglio il 17 ottobre 1944.
Assieme ai Patrioti, alla cui assistenza spirituale erano addetti, sbucavano dai loro nascondigli i Diversi Cappellani del C.U. e di Zona, sfuggiti alle persistenti ricerche tedesche e scampati alle taglie che su di essi gravavano.
I Nazifascisti non lo ignoravano e perciò si acCingevano a mostrare nuovamente le proprie zanne ingorde e feroci in cerca di preda.
(Non per nulla il maresciallo di mia infelice conoscenza mi aveva confidato: «I ribelli, dopo questo rastrellamento, si riorganizzeranno, ma noi ritorneremo!).
Più e più voci erano già corsi di nuovi rastrellamenti:perciò si viveva, uomini e donne, in un orgasmo continuo: che toglieva la pace diurna e notturna, e ormai ci si prospettava una seconda tragedia, più dura ancora, nelle previsioni, della prima. Cosa molto naturale per chi era già stato scottato!
Il panico giunse al colmo ai primi di dicembre, alla notizia dello sganciamento della squadra di Prati a Morfasso e di «Giovanni» sul Pelizzone (in seguito a quello di Fausto, che aveva resistito fino ai limiti del possibile nel Piacentino) quando si credette che lo stesso rastrellamento venisse a sconfinare nelle nostre zone.
Fondata o no la notizia, a quei giorni il rastrellamento acquistava un carattere di maggior terrore per la presenza dei «mongoli», razza – come veniva riferito -, selvaggia e spregiudicata, al servizio, quale cane da caccia, dell’odiato tedesco. Il passaggio in questo frattempo di una colonna di prigionieri tedeschi e fascisti, provenienti da un campo di concentramento della divisione Valceno,
Una formazione partigiana della Brigata Costiera al ritorno da un’azione di guerriglia. Si fanno fotografare da un fotografo ambulante e bruciano le negative. Essi resero la vita dura sul Bracco e nella zona delle 5 Terre ai nazifascisti.
Tra di loro un Maresciallo Polacco, un Caporalmaggiore Austriaco e un Caporale Jugoslavo, tutti e tre Cattolici, ribellandosi agli ordini passarono alle file partigiane salvando cittadini inermi.
In mezzo a loro, il Ten. Marcellini. il Ten. Monali, il Ten. Moggia (Orso), il S. Ten. Croxatto e la Prof. Fabbri cooperatrice partigiana.
e tradotti davanti all’incalzare dei mongoli, oltre il Pelpi, accrebbe nel popolo la persuasione della gravità del momento. Passarono muti e dimessi, con abiti a brandelli, intirizziti dal freddo, gli occhi bendati, i piedi scalzi e sanguinanti… Forse tra essi qualcuno nel luglio scorso era passato baldanzoso e fiero per queste stesse contrade. Ma anche questi, come tutti gli altri, la carità cristiana li faceva oggetto della più profonda pietà e commiserazione. Quale destino li attendeva?..
Il rastrellamento nel Piacentino non oltrepassò il Pelizzone, e per stavolta un grave pericolo era stato scongiurato. L’esodo delle popolazioni, sfuggite all’accerchiamento tedesco cessò per qualche tempo, tanto da poter passare in relativa quiete le feste natalizie. Quiete foriera di nuovi allarmi e di nuove prove che di fatto non mancarono.
UOMINI ALLE TANE!
La sera dell’Epifania la notizia di un imminente rastrellamento nella zona del Pelpi, riportava uomini e donne alla ribalta.
Colonne tedesche sbucavano da tutte le parti, superando ostacoli di intemperie e di neve e piombando inaspettatamente, di giorno e di notte, sui piccoli paesi e sulle borgate, dove si piazzavano. Borgotaro, Bedonia, Pione, Bardi, erano in mano agli invasori. La luce elettrica era stata tolta e si doveva brancolare nelle tenebre, come nel primo rastrellamento. Anche le campane da qualche tempo erano diventate mute: brutto segno questo per la gente (perché indizio di pericolo prossimo), e che rendeva più triste la vita di ogni giorno.
Si rivissero le ore angosciose del luglio antecedente e ci si preparò alla seconda prova.
L’esperienza aveva insegnato. Nascondersi era necessario.
Ma quale la via di scampo?
La fuga sui monti non era possibile perché la neve alta un metro e più, lo impediva. Situazione questa di sfavore per quanti dovevano sfuggire alla cattura e di vantaggio ai cacciatori germanici, ai quali avrebbero servito di guida le orme stampate sulla neve.
Perciò le tane naturali e artificiali furono la soluzione migliore.
Piccole gallerie profonde, o trincee scavate a prezzo di sudori, cloache putride e malsane; stanze sotterranee, dall’adito irreperibile, antri e spelonche nelle rocce, che si prestavano ad un sicuro nascondiglio: veri covi reconditi in cui le volpi avrebbero potuto trovare la loro migliore dimora; baite abbandonate di carbonai, sperdute tra i monti, in mezzo al ghiaccio: questi i rifugi che tante ore di insonnia e di trepidazione dovevano contare, che tanti battiti sospesi di cuore dovevano attutire; ognuno dei quali potrebbe prestarsi alla narrazione con i tratti di un’autentica storia romanzesca, Di quanti sospiri e lacrime di padri e di figli, furono essi testimoni, in un’alternativa di timori e di speranze, mentre fuori le madri, le spose, le sorelle, trepidavano e pregavano nell’attesa spossante che l’ora passasse !. ..
Essi si spalancarono precipitosamente per accogliere alla rinfusa centinaia di uomini, al calare improvviso delle orde tedesche, quel pomeriggio Il gennaio, giovedì (lo stesso giorno del primo rastrellamento). Nessuno li attendeva da quella parte. Anche le vedette del paese, vigili ai vari posti d’avvistamento, erano state colte alla sprovvista. I tedeschi discendevano dal lato settentrionale del Pelpi, provenienti da Masanti, e dopo una traversata lunga e faticosa squarciando la neve alta, si gettavano su di un popolo inerme con il terrore delle belve che vogliono far preda.
Disorientamento generale e quindi una fuga frettolosa ai rifugi. In un attimo il paese fu sgombro di uomini e soprattutto di giovani…
L’esperienza del luglio scorso, mi aveva reso perplesso, fino all’ultimo momento, sulla. sorte che mi sarebbe toccata se mi fossi dato in mano al tedesco. L’ondata di terrorismo che incolse tutti al suo sopraggiungere inaspettato, decise anche per me la via più sicura e riparai nella prima spelonca offertami…
Mi sottoposi a tutte le acrobazie che l’accesso del rifugio, studiatamente stretto, imponeva, come quella di strisciare a somiglianza dei rettili, e mi ritrovai in una cappa di piombo, parecchi metri sotto terra, dove già otto esseri umani giacevano pigiati, in un silenzio sepolcrale, rotto solo di quando in quando dal respiro ansimante dei polmoni, che dopo una corsa forzata, resa più aspra dallo slittare del piede sulla neve, avanzavano anche là entro i loro diritti. Una grossa pietra rinchiuse l’entrata e poco dopo si sentì il tonfo sordo della neve che le donne coraggiose buttavano sul sentiero per cancellare ogni traccia di piede umano.
Trascorsero parecchie ore di immobilità e di silenzio… Nulla si udiva: nemmeno un colpo di fucile che denotasse la presenza di esseri tanto temuti. Eppure erano discesi… Solo ad un dato momento si notò, al di sopra di noi, il passo pesante e ben distinto di un soldato. L’orecchio era teso… il respiro trattenuto… il cuore pulsava… Qualcuno articolò a fior di labbra, appena percettibile, un «ci siamo»che si ripercosse come il colpo di uno spillo in fondo all’anima e poi di nuovo silenzio.
La perquisizione della casa sotto la quale si trepidava, era avvenuta senza inconvenienti. S’incominciò a riprendere il consueto respiro: l’oscurità della tomba, che fino allora rendeva più tetra e paurosa la presenza in quel luogo, veniva rotta ora dal fioco chiarore di una lampada a olio.
Notizie però non ne arrivavano dal di fuori e l’ombra del mistero avvolgeva i latitanti e appesantiva maggiormente le ore della reclusione. Che avverrà in paese?… Saran tutti salvi e liberi? Chi saranno questi nuovi invasori?.. Saremo svelati?.. Prenderanno le donne come ostaggi?.. Quando andranno via?… Cercheranno del Parroco?… Queste, o simili, erano le domande che si ripetevano all’ennesima volta, senza ricevere mai soddisfacente risposta.
Finalmente una voce amica, la voce della buona Pia che vegliava a difesa della nostra trincea, ci ridestò da quel letargo forzato e ognuno tese orecchio e cuore in alto. Le notizie erano buone. Si trattava di una squadra di circa duecento; soldati italiani, frammischiati con qualche tedesco, appartenenti alla Divisione Alpina «Monterosa», in giro di perlustrazione, ma senza alcuna intenzione di nuocere, come essi assicuravano, (e perché allora quella calata furiosa senza preavvisare la povera gente?). Si meravigliavano che gli uomini, compreso il Parroco, avessero preso paura di loro… Anche il Comandante, mite e buono, pareva uno di quei soldati che non desse troppa importanza alla propria missione. Giunto anzi con una gamba fiacchita (sfido io! dopo quella traversata in mezzo alla neve!) si era fatto apprestare in una casa un letto ben riscaldato, e di lì dichiarava di non volersi più muovere.
Qualcuno fu tentato di rovesciare le barricate e uscire all’aria libera. Se non che altri, più sperimentati, si fecero valere con uno di quei proverbi che sono la sapienza dei popoli: «Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio!» E ci rassegnammo ad attendere la loro partenza.
Un’ulteriore comunicazione ci fece sapere che gli Alpini avrebbero dovuto piombare la notte antecedente su Cereseto, provenienti da Nociveglia, ma smarritisi in cima al monte – a motivo della tormenta di neve – lasciarono colà i propri bagagli e discesero, bagnati come pulcini, a Masanti, donde ripartivano il giorno dopo.
I soldati si eran divise tra loro, per il vitto e per l’alloggio, le poche case rimaste illese. Anche la mia casa ne alloggiava dieci di essi, tra cui un tedesco. Mia mamma stava trafugando quel po’ di roba rimasta dopo il primo rastrellamento, quando se li vide arrivare; ma si quietò alquanto allorché i soldati la rassicurarono delle loro pacifiche intenzioni e che quell’armi che portavano ‘indosso erano un puro ornamento! .
Fatto si è che non fecero del male a nessuno. Sul campanile una sentinella vigilava a tutte le ore, credo che essi avessero la sola preoccupazione di salvare la propria pelle da temibili attacchi partigiani…
Soltanto che per noi, confinati sottoterra, (e per tanti altri nelle stesse condizioni di vita), le ore divenivano lunghe. Le membra cominciavano risentirsi. La notte inavvertita, penetrava con le sue tenebre anche là sotto a conciliare il sonno: cosa nemmeno da pensarci perché la ristrettezza del luogo costringeva le membra a ripiegarsi su sé stesse e ad assumere posizioni così irregolari, per non dir buffe, che anche la povera persona umana ne risultava goffamente sformata e contraffatta.
Notte insonne, snervante, senza requie. Rivivevo le dure notti di prigionia del luglio scorso. Quel lembo di galleria sotterranea mi richiamava talvolta l’ombra oscura delle Catacombe (ove però lo spirito e i sentimenti di coloro che vi si raccoglievano erano ben diversi, quantunque la realtà apparisse identica!).
Attendemmo la giornata del venerdì nella speranza che il tedesco sgombrasse. Ma, causa il Comandante che non sapeva decidersi di lasciare il suo comodo letto, la partenza veniva rimandata al sabato. Le ore si protraevano, eterne, logoranti. Per buona fortuna non mancava il necessario ristoro del corpo, perchè vi erano le buone persone che, di notte tempo, eludendo la vigilanza delle sentinelle, vi provvedevano. Come non mancava il tipo allegro che, con motti e frizzi, commenti sulla situazione e ricordi esilaranti, faceva dimenticare momentaneamente la fiacchezza delle membra e la prolissità del tempo. A volte l’irritazione d’animo esplodeva inconsultamente in espressioni audaci e improprie all’indirizzo dell’oppressore, frammiste a qualche moccolo ingiurioso, smozzicato però a tempo per rispetto di chi vi era colà rappresentato.
Quando Dio volle, gli Alpini si accinsero alla partenza. Il fisico era ormai giunto ai limiti estremi della sua resistenza, le membra intorpidite si ribellavano energicamente. L’aria, resa più grave dall’odore nauseante del lumicino ad olio, non entrava più pura dal piccolo tubo che la richiamava segretamente dal di fuori, e s’era fatta insopportabile. Sicché non appena arrivò la nuova – dopo 49 ore di inedia e di immobilità – che anche gli Alpini se n’erano andati, ci sentimmo rinascere, buttammo all’aria gli ostacoli e uscimmo prestamente in più spirabil aree! Ma dovettero perdere qualche tempo, i muscoli, prima di sgranchirsi e di riprendere le funzioni normali. In paese non si lamentavano danni considerevoli, se si eccettuano quelli recati alle cantine e ai pollai. Anche il fatto a Farfanaro di un malaugurato scontro con un gruppo di Partigiani, che poco mancò non compromettesse tutta la frazione, non ebbe alcuna conseguenza molesta.
Dalla Chiesa era stato solo asportato un servizio intiero di candele alte, ad uso dei soldati durante la notte.
I MONGOLI
Un secondo rastrellamento, in tono molto minore del precedente, nonostante le previsioni pessimiste, era passato senza sommergerci, ed ora si rialzava il capo a respirare di nuovo, almeno momentaneamente, un po’ d’aria libera. Il tedesco, è vero, non aveva rinunciato nemmeno stavolta ai soliti sistemi di scorribande terroristiche, razzie, di rappresaglie. Le montagne rosseggiavano tuttora di sangue sparso, tanto più visibile sul candore immacolato della neve che abbondantemente le rivestiva. Giovani nel fior degli anni rimasti sul campo in qualche scontro, o colti dal piombo fatale mentre tentavano la fuga, erano senza un soccorso, senza un conforto, sul manto glaciale che li accoglieva… Anche lo strazio delle famiglie, private repentinamente dei loro membri più cari, deportati verso destinazione ignota, si rinnovava…
Ma eran tutti casi isolati, parecchi dei quali non rispondenti a verità o, almeno, che non raggiungevano la gravità e, il numero del primo grande rastrellamento: a confronto del quale si potrebbero chiamare scaramucce!
L’orizzonte però accennava tutt’altro che a rischiararsi. La quiete non sarebbe stata perfetta fino a che nella zona circostante c’era odore di tedeschi. Questi invece si ostinavano a rimanere nelle posizioni occupate, continuando a far da padroni e a disturbare la pace del prossimo. Giorno e notte passavano e ripassavano attraverso i valichi praticabili Bedonia-Pione, Borgotaro-Osacca per finire a Bardi, quando non venivano da Ferriere attraverso le Moline, lanciando pattuglie in tutte le direzioni, senza mai riuscire a sapere che scopi avessero. Ogni giorno si sentivano nomi e itinerari diversi. Di certo si sapeva che rastrellavano e pettinavano la montagna. E intanto noi si viveva tra la casa e la tana, tra la pausa e il respiro di una notizia buona e la delusione di un’altra che subito li stroncava. Di notte, fino a tarda ora, accanto ad un ceppo, a far commenti interminabili e previsioni funeste, col cuore sospeso, trepidante ad ogni passo che si ripercuoteva dal selciato. Di giorno, a far vedetta sui punti strategici esposti alle intemperie, o a contemplare, nell’attesa guardinga, la neve che sfondava i tetti. In certi momenti – a stare alle voci ‘e alle staffette partigiane pareva che i tedeschi fossero lì a due passi. Invece erano dei nostri che scappavano. Casi di tal genere si ripetevano infinite volte.
La Domenica la Chiesa rimaneva vuota e non c’era soddisfazione a compiere una qualsiasi funzione per rincuorare il popolo, (non sarebbe stato del resto il primo caso di profanazione del tempio mentre i fedeli pregavano).
Un giorno poi si seppe per certo che i tedeschi intendevano iniziare un altro rastrellamento da Bardi, e che portavan davvero con sé degli ottimi cani da caccia, dal fiuto così fine da scoprire la preda anche in fondo alle caverne: i Mongoli o Turkestani! La fantasia popolare li ingrandiva, li faceva giganti, fino a prender forma di esseri favolosi, terribilmente rozzi e selvaggi, che incutevano paura solo a vederli. Correva voce persino che i loro padroni li ubriacavano perché potessero più facilmente servire ai propri scopi malvagi e seminare il terrore.
Invernata sempre pessima. Nevicate copiosissime: avessero almeno arrestato il terribile nemico! Invece i mongoli avanzavano… In paese la solita teoria di fuggiaschi interminabile ossessionata, comitive chiassose di partigiani sbandati, demoralizzati, poveri ragazzi senza pastrano e senza coperte, qualcuno senza scarpe addirittura. Alla gente si stringeva il cuore a vederli e a sentire la solita storia di tragedie: compagni scovati nel proprio nascondiglio e massacrati o rimasti assiderati sui monti o morti di fame, di stenti. E la lezione inflitta ai compagni aveva insegnato anche a loro. Perciò avevano imparato a: desistere da ogni vana resistenza, perché c’era più probabilità di lasciarci le penne che di vincere, e deponevano le armi sotto le dune di neve, divenute depositi di munizioni. .
Ansiose domande passavano di bocca in bocca: dove sono arrivati i mongoli? Quando capiteranno qui tra noi? Verranno di giorno o di notte? La scamperemo stavolta?…
La notizia a forza di contraddirsi, divenne realtà. Il mattino del 18 gennaio i Mongoli provenienti da Bardi facevano la loro comparsa a Cereseto, prevista in tempo dagli uomini che perciò eran corsi prontamente ai ripari: chi alle solite tane delle volpi, chi all’aria dei monti. E questi ultimi eran la maggior parte, poiché correvano notizie che altrove i sotterranei non avevan dato saggio di molta sicurezza davanti al fiuto penetrante dei nuovi mastini e s’eran prestati in alcuni luoghi a scene orripilanti di massacri in massa. Si sapeva poi dell’esistenza di una fitta rete poliziesca, nota comunemente sotto il nome di «spie», che contribuiva a facilitare la scoperta e che giustificava il timore generale. E questo va detto ad onor del
vero anche se torna ad onta di quei connazionali o conterranei che si prestarono venalmente a quel losco ufficio.
Per tutto questo e per altre ragioni, i monti lastricati di neve, divennero ancora l’unica via di salvezza. Salire, salire, per sfuggire all’insidia avversaria… Le alture apparvero ben presto solcate da colonne di fuggiaschi che faticosamente si arrampicavano, in cerca di una posizione impossibile ad essere avvistata dal tedesco.
Mi aggiunsi anch’io, sotto mentite spoglie, ad una di queste colonne ardimentose, forzata a far da macchina rompighiaccio, e salii ansimando e rabbrividendo dal freddo, fin sopra le più alti pendici del monte, e attesi pazientemente che l’ora della prova, forse l’ultima, passasse. Meglio al freddo, all’intemperie, ma liberi, che schiavi tra le grinfie dei tedeschi!
Passarono anche i mongoli, in fila indiana, dopo aver fatta breve sosta in paese ma senza chieder conto di niente, e ripartirono in ordine, oltre il Pelpi. La lunga colonna di razza gialla, lasciava sullo strato candido di neve, ancora recente, la sua impronta pesante. I mongoli avevano chiesto soltanto un po’ di pane per sfamarsi. Forse un po’ di pudore e di vergogna li trattenne di fronte all’indegno operato dei loro malvisti padroni, e preferirono proseguire…
Anche le donne, ossessionate dalla paura di un affronto morale (i mongoli passavano ovunque con la poco onorevole qualifica di oltraggiatori della virtù femminile) si erano in parte rifugiate e in parte eran rimaste, dopo essersi ben camuffate per distogliere l’attenzione del soldato brutale, nelle proprie case, ansiose, come se attendessero la visita dell’ orco descritto nelle fiabe. Ma quando essi se ne furono andati, senza nuocere in alcun modo e senza molestare, dimostrarono la loro meraviglia e’ si convinsero, assieme agli uomini, che il diavolo non è poi sempre così brutto come lo si dipinge!
LIETI ANNUNZI
Ai primi di febbraio 1945 le truppe tedesche abbandonavano finalmente le posizioni montane della zona, rinunciando ad ogni ulteriore, idea di rastrellamento e di rappresaglia, visto ormai che questi tornavan loro più di danno che di vantaggio (o forse perché un senso di ravvedimento davanti all’incalzare degli eventi stava per subentrare in essi).
Le cose infatti già volgevano a nostro favore.
Il 23 marzo, Rodrigo, nome di battaglia del figlio dell’onorevole Pellizzari (Poe) eleggeva, in seguito a votazione pubblica, il rappresentante di Cereseto in seno al Comitato di liberazione Nazionale, costituito a Compiano.
La primavera annunciatesi coi suoi tepori, ridestava nuovi fremiti di vita e nuove speranze in tutti i cuori. I successi delle forze Alleate sui nostri fronti schiudeva gli animi alla fiducia in una prossima liberazione.
Il cielo delle varie regioni montagnose, compresa la nostra, era solcato di giorno e di notte da stormi frequenti
di aerei di lancio, dal rombo potente, scortati da caccia, che rifornivano settimanalmente le diverse Brigate di Partigiani di viveri e munizioni. Centinaia e centinaia di paracadute, simili ad enormi palloni frenati venduti ad una fiera – sgargianti nelle loro fogge multicolori e che richiamavano una folla di curiosi – discendevano, cullati dal vento, fino a terra, dove venivano prontamente raccolti e accanitamente contesi.
Per mezzo di questi moderni congegni calarono anche Ufficiali del Comando Alleato, allo scopo di dirigere le imminenti azioni di guerra, al di qua del fronte.
Infatti al sopraggiungere dell’Aprile le forze partigiane della VaI Taro e della Val Ceno, ricevettero ordine di attaccare le posizioni fortificate tedesche, disseminate sulla linea Fornovo-Spezia. Il successo fu immediato. Le notizie delle vittorie alleate e partigiane volavano da un capo all’altro della regione. Il campo di concentramento di Caprile, poco discosto da Cereseto, rigurgitò di nazifascisti in parte arresisi e in parte fatti prigionieri. .
Sulla fine di Aprile la notizia che le forze germaniche in Italia avevano deposte le armi, o stavano per deporle, e si erano arrese agli Alleati vittoriosi, attraversò come folgore città e villaggi e pose termine ad un cumulo schiacciante di ansie, di incubi e di paure.
NEMESI STORICA
Il 15 maggio ero invitato dal Cappellano del Comando Unico, D. Francesco Chiesa, al Campo di Concentramento di Caprile onde prestare l’opera mia per le Confessioni dei prigionieri che dovevano ancora soddisfare al precetto pasquale.
Fu improvvisato, all’aperto, un altare per la S. Messa, alla quale intervennero al completo i prigionieri tedeschi e italiani, molti dei quali si accostarono alla Comunione. Quasi tutti diedero segni, esternamente, di grande pietà e devozione: qualche tedesco stringeva tra le sue mani la Corona del Rosario.
A distanza di meno di un anno, il dramma della storia aveva mutati i suoi personaggi e ora per le stesse sofferenze e miserie degli oppressi, se non peggiorate, passavano gli oppressori. Con la differenza che ora su quelle sofferenze e miserie umane si elevava la mano benedicente del Sacerdote che superando ostacoli di partito, di nazionalità, di religione e di razza, dimenticando odi e rancori, tutti affratellava, amici e nemici, tutti stringeva in un vincolo solo, sublimato dal Sacrificio del Golgota!
Nel campo di concentramento fui testimone di scene e oggetto di confidenze indimenticabili ( quando manca la mamma si fanno volentieri anche al Sacerdote) tanto da parte dei prigionieri che da parte di giovani che attendevano impazientemente di ritornare in seno alle proprie famiglie: episodi innumerevoli colti sulle loro labbra; descrizioni realisti che, a volte inverosimili, di tragedie personali; peripezie e vicende disgustose; rivelazioni di tradimenti e di spionaggi di cui essi erano stati vittime; memorie inaudite di sacrifici, di stenti!
Conobbi la storia di molti, che riversavano nel mio la piena del proprio cuore gonfio di nostalgia: giovani e anziani dal volto emaciato contratto dal dolore e dallo spavento, il fisico stremato dalla fatica e dalla fame, gli occhi semispenti e sofferenti, in cui si leggeva chiaramente la presenza di una madre desolata, di una sposa vedovata, di figli orfani lontani… Parecchi di essi avevano sfidata la fucilazione, messi faccia a faccia con la morte, o avevano visti e vissuti gli orrori della deportazione in. Germania.
Vicende drammatiche di fronte alle quali m’accorgevo che la mia andava sempre più perdendo delle sue tinte oscure.
Tanto per citarne qua1cuna, ecco quella di un giovane studente, di Pratovecchio (Arezzo), di sangue romagnolo per via di madre, ardimentoso, vivace, ma buono. Non era un prigioniero ma un reduce glorioso da una lotta lunga, esasperata e portava fortemente scolpito nella memoria il ricordo delle angherie subite in Italia e in Germania per il suo nobile ideale, non mai smentito, l’amor di Patria. Sfuggito miracolosamente dalle morse tedesche, stava ora attendendo il lascia-passare del Comando dei Patrioti per volare in seno alla propria famiglia. .
Caro Ferruccio, non scorderò mai il tuo nome, come non scorderò quelle grosse lacrime che imperlarono il tuo volto di bambino fatto grande allorché mi leggesti la lettera (conservata gelosamente, ricordi? nel taccuino delle tue memorie) scritta con mano tremante in faccia alla morte e indirizzata alla mammina adorata!
Immagino la gioia della tua mamma cara che ti credeva morto, quando ,ti poté riabbracciare!. La tua storia: è un pochino la mia, anche se per certi aspetti diversa .Perciò trascrivo l’Ode, che rispecchia in sintesi il tuo dramma, spuntata dal tuo cuore gentile di poeta, a Berlino, in un momento in cui, attenagliato ai lavori forzati, anelavi alla libertà.
GRIDO DI DOLORE (1)
1. Donate all’ alma stanca,2
gente brutal teutonica,
la speme che le manca:
calcar la terra patria!
duro sperar, l’esilio
Rendete, o gente, alla sua terra,
[il figlio.
2. Ahi; venti agosto sera,3
chè volgi cammin rapido?4
l’Ultrice Erinni, pera,
disse ai divini Superi,
chi,5 di sangue intrise,
le carni lacere volea e derise.
Donna crudel,7 sospesi
i cuor pietà chiedeano;
utti a te eran protesi.
Si! gentil grazia 8 ai miseri9
degnasti: fosse lento
il focolare fin da l’imo spento.
4. O trista man rapace,l0
terribile il tuo artiglio ghermì l’avita pace;
il bacio tuo giudaico,l1
cosparsa di veleno,
scoccò la freccia della madre al
[ seno.
Nella culla silente,
ove posano i Martiri,
rimasero pur spente
nella vita le ceneri:
vide schiuse e i le porte
ai freddi sudori
in un, della morte.
I Padri veglieran
dall’Elmo Sacro, e, vigili,
i mali lenirann
del tradimento ignobile
dove nacque il dolor,
risorgerà, mamma, il tuo nido.
Oh la sua man stanca,
e in numeri
posar nella tua bianca
e l’ amare lacrime
lenir. Perché tal pene?
Si, mamma, addio, ritornerà il tuo bene.
Vola memoria vola
la nelle terre a e squallida. Sforzesca
Rocca sola
Gli Spiriti aricor vi alleggiano:
Ave, sussurra” inbelle non si partì
Quel Giovin Ri-belle”
1) Piccola Ode composta da Mìlan il 20 ottobre 1944, a Berlino, in ricordò di tutti gli stenti subiti dal ,24 luglio 1944 (Romena di Pratovecchio, Arezzo) e successivamente dal 20 agosto 1944 sino al 15 settembre 1944 (Civitella di Romagna, Forlì) giorno in cui fu deportato in Germania.
2) A Milan, dopo aver sofferto i più inumani dolori.
3) Giorno dell’arresto di Mìlan nel S. Eremo di Camaldoli, effettuato da cinque tedeschi, venuti appositamente con una autoblinda, armati di fucili mitragliatori e di pistole mitragliatrici.
4) Perché volgi bruscamente il destino?
5) La signora Cerritelli Antonietta (si suppone che sia un nome falso) agente investigativa al soldo dei tedeschi, avvicinata da Mì1an dopo la prima fuga dalle morse tedesche (26 luglio 1944 Romena di Pratovecchio) credendola egli un agente inglese e quindi in comunicazione con essi, si confidò in parte e all’uopo le fece una corte spietata di quindici giorni, spendendo profusamente per essa, nonché con inviti a pranzo, a tal punto da essere accolta in famiglia. Ma le sue ricerche furono inutili… La Cerritelli lo fece arrestare nel Convento del S. Eremo di Camaldoli per Libero di Romagna (nome di battaglia) Comandante della Brigata Garibaldi nella zona omonima. Mì1an non era Libero, bensì un semplice Capo Squadra del gruppo << Eroe Tino >> di Stia (Arezzo), sempre della Brigata Garibaldi, dislocata nella zona fra il monte Falterona e la catena del Pratomagno. Era il suo sòsia, come si verificò durante i ventotto giorni di continue ricerche per la vera -identità.
6) Voleva far scorrere e saziarsi del suo sangue dopo atroci tormenti. I ventotto giorni di dura agonia, nel Castello di Caterina Sforza, furono più terribili della morte. Quante e quante volte Mì1an aveva invocato che lo fucilassero, senza aspettare più oltre, ma invano! questo non fu concesso. Ormai era rassegnato a detta morte ed aveva scritto l’estremo saluto alla mamma, babbo e sorelline, Concetta e Ginevra, consegnandolo alla sig.ra Mambelli Fernanda di Civitella di Romagna, in una lettera chiusa con preghiera di darla alla famiglia dopo la morte.
7) La Signora Cerritelli Antonietta.
8) Frase sarcastica, ironica e in contrapposizione alla macchinazione infernale che segue.
9) Alla famiglia di Mìlan.
1 O) Vedi nota 7).
11) Relazione amorosa di Milan con la Cerritelli, a scopo di rivelazione.
12) Sacro Eremo di Camaldoli, culla dei Camaldolesi, dove si erano rifugiati
la famiglia e temporaneamente Mì1an, dopo la fuga del 26 luglio 1944.
13) Allusione al dolore e allo strazio dei suoi, per la cattura del 24 luglio 1944 a Romena di Pratovecchio; ferita ancora recente al cuore della madre, dove Mìlan sfuggì miracolosamente alla fucilazione con Alcamo Gaetano, facente parte della sua squadra. Allusione pure alla perplessità e solitudine dei Frati, al corrente della vita di Mìlan e a loro molto caro.
14) Mìlan.
15) La dura prigionia nel menzionato Castello dal 20 agosto 1944 al 15 settembre 1944 più atroce della stessa morte, ove tanti languirono e tanti furono uccisi.
16) Il tradimento della Cerritelli.
17) S. Eremo di Camaldoli.
18) La mano di Mì1an in sogno alla mAmma.
19) Il figlio.
20) Castello di Caterina Sforza di Civitella di Romagna.
21) Gli spiriti di sei compagni di prigione, fucilati in Civitella di Romagna, e i due amici Michelino e Natalino, a lungo in prigione con Mì1an, impiccati sulla pubblica piazza a Forlì 1′ 8 od il 9 settembre 1944, gli sono sempre davanti agli occhi. Povero Natalino! Quanta pena per Mìlan vederlo con quel braccio infelice! E tu, Michelino, tanto buono, lasciasti il figlio e la moglie che ti erano carissimi, con tanto coraggio gridando: <<Viva l’Italia!,>>. Mì1an ti avrà sempre presente, la Patria non si dimenticherà mai di te! (Michelino, prima di morire gridò: <<Viva l’Italia!,>>. Questo fu riferito a Mì1an durante il viaggio per la Germania, da coloro i quali, prima di essere deportati, furono costretti ad assistere all’impiccagione dei nominati). .
22) Mì1an si onorava di essere chiamato «ribelle». Si, perché si era ribellato con tutto l’entusiasmo della sua giovinezza, a quella tirannia dèl regime fascista che il 25 luglio 1943 fu clamorosamente distrutta dall’intero popolo italiano, tirannia che ancora quattro scalmanati volevano ricostruire.
(Mìlan è il nome di battaglia di Milanesi Ferruccio, di Bernardo e di Agnoletti Oliva, nato a Bibbiena (Arezzo) il 5 gennaio 1922).
L’Ode è dedicata a D. Gregorio Cocchi, abate del S. Eremo di Camaldoli, zio materno di Ferruccio:
A D. GREGORIO COCCHI
MAESTRO E DOCENTE NEL S. EREMO DI CAMALDOLI
CHE NEI TEMPI SPIETATI DELL’ASSENZA DEL FIGLIO
NON MANCO’ MAI DI AIUTO
ALLA MAMMINA
IN RICORDO DELL’INFAUSTO 20 AGOSTO 1944
DEDICA
Ferruccio Milanesi
VOCE AMICA CHE RITORNA!…
A rialzare i cuori ed a riannodare i vincoli disciolti dal turbine della guerra, tornava a riecheggiare, come peana di vittoria e proclama di pace, da un capo all’altro delle vallate, sormontate dal Pelpi, la voce appassionata dell’ Araldo della Madonna di S. Marco:
«Carissimi, .
finalmente ci ritroviamo! Oh quanto fu lungo il nostro dolore, nel silenzio e nella separazione!…
Sui tetti delle case di Cereseto durante l’opera di ricostruzione.
Anch’io, sapete ero in esilio così lontano, dai miei amici, obbligato all’inazione.
E il vostro buon cuore, non ha sofferto quando pensava al suo bell’Araldo, che non giungeva più! La mia parola semplice ma sincera che negli scorsi anni attendevate con ansia, ascoltavate con affètto, per tradurla nella pratica di una vita più buona, perché vi dicéva l’amoroso desiderio della cara Madonna di S.Marco, non ha cantato più per molti, per troppi mesi, l’inno della fede e dell’amore alla Bella Regina dei Monti!
Ma era troppo in voi tutti il desiderio di riudire l’eco del canto soave, e mentre taceva il fedele «Messaggero» vi palpitava in cuore la fiaccola santa, accesa in giorni migliori, e in quella placida luce c’era la Consolatrice, che
vi difendeva, vi proteggeva, vi salvava.
Quante volte è ri tornata al labbro, nell’acerbo dolore nell’imminenza di una possibile catastrofe per voi, per i figli, per il paese vostro, la dolce invocazione:
«Cara Madonna di S. Marco, aiutateci?» Era lo spirito mio che vi aleggiava intorno, a ravvivare la nella visione della Madonna divina.
Si, si , voi mi credete, carissiri1i: l’ Araldo di Maria non vi dimenticava; condivideva i vostri immensi sacrifici, viveva nei vostri pericoli.
Ero con voi, babbo e mamma, trepidanti per i figli lontani e spersi, spasimanti per averli vicini, pressati nell’incubo di una sanguinante separazione o di una morte atroce, voluta da quell’odio brutale che offusca l’intelligenza e spegne ogni fiamma di carità.
Ero con voi, giovani e uomini, nelle fughe e nei nascondigli, tra le nevi e sotto la sferza del sole e tra i cespugli nella notte piovosa, e a tacitare l’ansia nel murmure del vento e dell’acqua, negli anfratti dei canali.
Ero con voi, babbo e mamma, trepidanti per i figli lonbardamenti, con voi, or trepidanti, or coraggiosi, ovunque fidenti nella protezione celeste, e vi sentivo invocare Maria, vi sentivo rivolgere a Lei, una preghiera, un voto… una promessa.
Ho visto voi, giovinetti e bambine, prodigarvi a cercare un aiuto, un rifornimento, una notizia, incuranti del pericolo…
Ho vissuto le vostre ore di angoscia e di terrore, giovani spose, pudiche fanciulle, incerte sulla sorte dei vostri
cari, e più ancora timorose e tremanti per la vostra virtù, ” di fronte alle orde ubriache di odio e di passione…
E potevo dimenticare voi, Seminaristi dilettissimi, lontani dall’Asilo di pace, in pena per le vostre famiglie, incerti del vostro Seminario, del Vostro Santuario… della vostra «Mamma»… fuggitivi, imprigionati, offesi in odio alla fede e alla virtù… E Voi, o Sacerdoti, Voi rimasti in difesa del Tabernacolo, della Chiesa, del gregge che amate, voi presi in ostaggio, deportati, sottoposti alle più umilianti rappresaglie… Voi, che avete visto i fedeli dispersi, le pecore uccise, le Chiese profanate, case incendiate, gli amanti Confratelli spenti nel sangue… E poi obbligati alla fuga e alla tana per eludere la barbara persecuzione scatenata da Satana sui ministri del Santuario, sui validi pionieri della unica vera civiltà, che condanna l’odio e canta il trionfo dell’amore!
Voi in mille guise, in faticose peregrinazioni, Angeli di pace, tra le accese vendette dei contendenti, esposti a disagi e umiliazioni, incuranti della morte, pur di conservare la vita di tanti figli e di allontanare dalle povere case deserte la distruzione e dai paesi più minacciati l’estrema rovina.
Oh! Voi si, o Sacerdoti, voi più di tutti nell’ora del pianto sulle anime dolenti, avete implorato, con gemiti Colei che è vita, dolcezza e speranza nostra… «Vergine di Consolazione, Madonna di S. Marco, salva la mia parrocchia, i miei figli cari… sono tuoi, o Maria, dalla Croce te li ha dati Gesù!…».
E il rantolo dei poveri morenti, e il lamento dei feriti, e l’ultima preghiera delle vittime di Compiano, di Strela, di Sidolo e di Cereseto, e degli altri poveri paesini delle nostre tribolate vallate, oh, si! le ha raccolte sull’ali della fede, della speranza cristiana al Tuo «Araldo», o Maria.
E per tutti, per i vivi e per i morti, tante preghiere sono salite al trono della Mamma celéste, nel caro Santuario, dove non è cessata mai la lode perenne, e l’implorazione di grazia e di pietà…
Per ora basta, o carissimi, ringraziamo la Madonna tutti noi che ne abbiamo sperimentata la materna assistenza e fin da questo giorno, in attesa di tributarIe un solenne omaggio di riconoscenza, raccogliamo le passate tribolazioni, le tante lacrime i molti dolori e offriamoli, col sacrificio di chi non è più, offriamoli in espiazione dei tanti delitti che il mondo ha commesso.
Ritorneremo presto a parlarci come per il passato.
Ricorderemo i morti, riaffermando i voti, rivedremo le scene trascorse, non per rinfocolare odi e vendette, ma per meditare chi è l’uomo, se perde la carità di Cristo, per comprendere l’amore di Maria, per cantare le sue grazie, e le sue glorie.
E la mia sarà parola di pace, parola di bene, perché sono per ciascuno di voi.
L’ARALDO DELLA MADONNA DI S. :MARCO
Dal Santuario di Bedonia, 31 maggio 1945
STORIA CHE PAR LEGGENDA
Sono passati i soldati di Hitler, i razziatori del Reich, gli agenti della Ghestapo. Il mito di Rosemberg è tramontato e la tirannide nazista è stata rovesciata.
Il piano di dominazione mondiale che si reggeva, come di appuntellati, sulla violenza e sul terrore, è fallito: «Omne violentum non durat!» e si è risolto in una catastrofe senza precedenti nella storia.
Non senza però lasciare tracce indelebili. Non esiste angolo esposto o remoto, non c’è casolare sperduto che non elevi una croce e non conservi il marchio del soldato tedesco.
La tormenta si è dispersa, ma nella quiete ritornata ogni viandante può contemplare a suo agio «di che lacrime gronda e di che sangue» ogni zolla del nostro patrio suolo.
* * *
Ho creduto bene di scrivere o di riportare queste cose, anche se qualcuno, che non le ha vissute, potrà accusarmi di averlo trasportato in un mondo di leggende e di sogni.
E’ ben questa l’impressione che produce sui contemporanei e sui posteri ogni racconto di invasione barbarica.
Le ho scritte sapendo di narrare non solo la storia mia, ma anche di molti altri, di cui qui non si dice il nome, e convinto che essa non si discosterà molto da quella che nelle lunghe serate invernali le mamme raccontano – come fossero cose di tempi remoti – ai loro piccoli, raccolti sotto la cappa del camino, attenti, con gli occhi sgranati, come davanti ai fatti di antiche fiabe. E nel racconto prolisso e sconnesso passano e ripassano le vicende di un paese o di un altro, di una casa, di un uomo, di una donna… l’esposizione vien colorita talvolta dal genio inventivo della fantasia popolare, ma i fatti sostanzialmente corrispondono a verità.
E’ stata, non c’è che dire, una brutta storia quella che si è vissuta, anche se talora chi la rievoca si atteggia a protagonista di essa, mentre non è stato, in realtà, che uno. spettatore più o meno lontano.
Le mamme poi quando un loro bimbo ha voglia di scapricciarsi, non hanno da risalire molto addietro nel tempo per rintracciare l’orco che li fa rinsavire. Basta che si appellino ai tedeschi, o ai mongoli, o a qualcuno delle bande nere!
Chiavenna Rocchetta 30/6/1965
Carissimo Sig. Ettore Cattani (<<Biondin>>)
La sua inaspettata visita di domenica scorsa in casa mia, dopo venti anni e più da quel tragico 20 luglio 1944, che ci vide al centro di una delle più fosche tragedie della guerra, mi ha procurato tanto piacere: piacere di rivederla personalmente e piacere di rievocare insieme fatti realmente vissuti e mai dimenticati, anche se amari e dolorosi… (e inspiegabili per chi non è stato testimone).
E’ stato un bellissimo ritrovo, in cui ambedue, sospinti dall’onda dei ricordi, ci siamo abbandonati al racconto agghiacciante e dettagliato di avventure che balzano con impeto dal fondo dell’animo, come fossero di ieri, e che a riprese formano materia di sogni terrificanti durante la notte. Ci voleva questo sfogo reciproco, proprio nel ventennale della «Resistenza»: il che ha fatto bene a me e certamente anche a lei!
Per questo mi sento in dovere di esprimerle anche per iscritto la mia più cordiale riconoscenza, felice di aver riscontrato in lei lo stesso carattere fiero e dignitoso conosciuto in quel terribile frangente di venti anni fa e grato al suo buon cuore che non ha temuto di affrontare un viaggio disastroso attraverso valichi montagnosi pur di riallacciare con me quel dialogo di autentica resistenza, che iniziatosi in quel tragico mattino, non dovrà più spegnersi, anzi è destinato a continuare come ricordo e monito per noi e per gli altri, specialmente in un clima come questo di esaltante rievocazione di numerosi episodi di valore dell’ultima guerra.
Mi ha stupito la sua lucidità di mente a tanta distanza di tempo, e nonostante le dure prove familiari da lei subite, ho constatato la sua meravigliosa memoria nella rievocazione dei fatti e degli avvenimenti perfino nei minimi particolari, di cui noi siamo stati protagonisti, involontari ma fieri!
Già la sua lettera precedentemente inviatami, rispecchiava così realisticamente la situazione di allora, da meritare gli onori della cronaca. E di fatto venne resa nota al pubblico nella recente celebrazione del Ventennale della Resistenza a Lugagnano Vai d’Arda (20 giugno u.s.). Ed era giusto questo riconoscimento pubblico, anche se da noi non richiesto, perché si sappia quanti sacrifici e quante lacrime è costata la libertà di cui oggi tutti godono. E’ anche un omaggio doveroso reso a tanti innocenti – padri, madri, spose, giovani e Sacerdoti – che hanno pagato di persona il prezzo sì caro della liberazione della Patria dal giogo straniero e che noi, scampati per miracolo, ma provati in tutto come i caduti, abbiamo il mandato di richiamare a tutti.
E questo non per riconoscimenti al valore, cui pure avremmo diritto, ma per il vanto e l’onore di aver recatoli nostro non indifferente contributo alla resistenza. Anche se non ci daremo mai delle arie di eroi nazionali ..
Dalla rievocazione spontanea e naturalmente concitata, che ci ha intrattenuti per qualche ora, ne è risultata – e questo mi ha reso molto soddisfatto – una perfetta rispondenza alla verità dei fatti esposti nel mio libro «MONTAGNE INSANGUINATE», che a vent’anni di distanza non può essere smentita, anche se a volte si presentano sotto la specie dell’incredibile per chi questa storia non ha vissuto.
Tengo anzi ad aggiungere che oggi il libro potrebbe accrescersi di particolari interessanti che darebbero maggior peso al volume e che meriterebbero di essere rivelati e stampati.
Ma questo particolare intendo sottolineare, che riguarda lei, signor Ettore Cattani, detto il «Biondin», mio amico e socio di sventura e sempre al mio fianco nella tragica vicenda. La ricordo, indomito anche nella più barbara sorte, quando stava per decidersi la vita o la morte, allorché con coraggio sovrumano rincuorava il Sacerdote che in quella situazione così disperata e soprattutto di fronte allo spettacolo della mamma spietatamente trattata, cedeva ad un trauma naturale fin troppo spiegabile…
Come ricorderò sempre, anche se non è scritto, lo sprezzo del pericolo da lei dimostrato quando, di fronte a certi misfatti, sbottava in parole di condanna nei riguardi degli oppressori, parole che io cercavo di trattenere onde impedire l’irreparabile.
E il suo atteggiamento dignitoso davanti agli ufficiali nazisti sulla Piazza di Bardi? Noi prigionieri, che osservavamo di lontano la scena, ; vedemmo il nostro «interprete» ricevere, ritto come una statua, la stretta di mano del Comandante delle SS.
Caro Signor Cattani, penso che la Provvidenza, in certi frangenti come quelli che abbiamo narrati, pone degli uomini siffatti che sono di salvezza nello smarrimento e nella depressione generale. Perciò le conservo le mia riconoscenza per il coraggio che in me personalmente ha saputo trasfondere e in tanti altri prigionieri, in un momento in cui I di coraggio e di speranza ce n’era tanto bisogno!
E il Signore la ricompensi, augurandole che la sua cara figliuola, così presente al suo cuore in quella triste ora assieme alle altre figlie, e che porta tutt’oggi in sè i segni visibili di una guerra spietata, che abbiamo visto e sperimentata, concedendole il meritato riconoscimento.
In attesa di rivederci e di scambiarci ulteriori particolari circa la nostra dolorosa storia, con affetto più che fraterno la saluto”
Dev.mo
D. Riccardo Molinari
Arciprete di Chiavenna Rocchetta (Lugagnano – Piacenza)
